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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

PINOCCHIO

di Pier Mario Fasanotti

Leggere a scuola: un “esperto esterno” racconta…

NON ABITA PIÙ QUI

i ha come l’impressione che siano appesi a fili di seta. Oppure al niente. il teatro e i cortometraggi) fa un lavoro strano e a volte frustrante: va in giro, soL’ignoranza sempre più diffusa - o addirittura venduta come moprattutto nel Sud, a incontrare alunni e a insegnare loro come si legge e Dalle Alpi dello seducente -, il brusio volgare della televisione, l’imbarazcome si scrive. Il titolo del libro ce lo spiega lei stessa: «“Asino chi legzo o l’assenza effettiva dei genitori o la loro lontananza ge” si scriveva una volta sui muri delle scuole. Per mettere alla al Meridione emotiva, assieme a mille altri fattori, li hanno resi così. Fatberlina un compagno ingenuo, gli adulti noiosi. E si indosd’Italia, gli alunni delle ta salva, ovviamente, una tenace e fortunata minoransavano in aula per punizione cappelli di carta con orecmedie, dei licei o degli istituti za. Parlo dei giovani che vanno a scuola: alle mechie d’asino, come Pinocchio e Lucignolo nel Paese dei Balocchi. Oggi, il Paese dei Balocchi di die, al liceo, negli istituti professionali. Ma professionali sono vittime dell’indifferenza non sono statue di gesso, mute e inarticolate. Collodi è l’Italia tutta, dalle Alpi alla Sicilia e verso la cultura. Ma spesso basta Basta a volte un piccolo stimolo e si spalanca la cachi legge, specie chi legge tanto, è considerato un un piccolo stimolo e si apre verna delle possibilità. Quindi di un futuro che si vuole asino». Riflessione sconfortante, eppure verissima. Pocostruire con i mezzi che si hanno o che si sogna di possedetremmo aggiungere: la tematica è attuale. Ahi!: quando prola caverna delle nunciamo questo aggettivo vuol dire che i problemi, o le tragedie, re un giorno. O soltanto di un presente meno afasico. Questa è l’impossibilità pressione che ci offre il bel libro di Antonella Cilento, Asino chi legge sono tanti. Sono infiniti. E riguardano proprio loro, la nuova generazione cui sarà affidata l’Italia, quale è difficile dirlo. (Guanda, 184 pagine, 16,00 euro). L’autrice oltre a essere scrittrice (anche per

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Parola chiave Paesaggio di Maurizio Ciampa The Sand Band un esordio di qualità di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Betteloni, la voce dimessa della nuova Italia di Francesco Napoli

Le parole delle pietre Vasari 500 anni dopo di Claudia Conforti L'anima di Richler nella “Versione” di Lewis di Anselma Dell'Olio

Quanta vacuità tra Hirst e Bronzino di Marco Vallora


pinocchio non abita più

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qui

I meriti degli insegnanti e le colpe del sistema i fa presto a dire che gli insegnanti sono fannulloni. La frase gira, da calunnia diventa pseudo-verità. E magari fondamento di nuove normative. La battagliera Mila Spicola, che insegna arte a Palermo, ha scritto per Einaudi un pamphlet a forma epistolare (La scuola si è rotta, 194 pagine, 18,00 euro). Un atto rivendicativo, uno scatto d’orgoglio con una documentazione precisa. L’autrice si rivolge ad alcune persone, in forma diretta e assai appassionata. Alla sua amica avvocato, che lei immagina sempre gravida di luoghi comuni e di sbrigative falsità, spiattella la sua condizione di insegnante di ruolo. Insomma, descrive la sua vita di «fannullona»: una parola promossa dal ministro Brunetta e poi rilanciata dal collega Tremonti. Primo dato che le sbatte in faccia: il 65 per cento dei genitori intervistati per un sondaggio è sostanzialmente soddisfatto dei docenti dei propri figli, il 20 per cento addirittura entusiasta. E la litania tipo «beata te che hai due mesi di vacanze»? Mettiamo, suggerisce Mila Spicola, gli occhi sulle cifre. Quanto lavorano i tanti lodati colleghi tedeschi? Hanno una media di 22 ore di lezione la settimana contro le 18 degli italiani. Attenzione a un particolare: in Germania l’ora di lezione è solo di 45 minuti. In Italia di 60 minuti. Ma non ci sono soltanto le lezioni in aula: «Io ho nove classi, circa 200 alunni. Svolgo tre compiti in classe scritti ogni quadrimestre, significano seicento compiti al primo quadrimestre e seicento al secondo. Considerato un tempo di correzione di cinque minuti a compito vengono fuori cinquanta ore non pagate». Poi le vacanze. Undici settimane sia in Germania sia in Italia. Altro capitolo: lo stipendio. Quello medio di un professore di scuola secondaria superiore in Italia dopo 15 anni di insegnamento è di 27.500 euro lordi annui. Un insegnante tedesco, allo stesso livello di carriera, guadagna 45 mila euro l’anno. Da noi a inizio carriera un insegnante delle medie ha nelle tasche ogni anno 18.500 euro netti, tredicesima inclusa. Ci sono poi considerazioni generali. Chi

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Il Meridione, lo dicono tutti i reportages o chi lì ci abita, è disastrato. Ma non facciamoci troppe illusioni, magari con finto smalto leghista sulle unghie della nostra spicciola sociologia: al Nord, nell’«ordinatissimo» e «civilissimo» Nord gli atteggiamenti dei ragazzi non sono poi tanto diversi. Ci saranno certamente giardini e aiuole meglio curate, ma l’indifferenza cialtrona verso ogni cosa che fa venire in mente la cultura è più o meno la stessa. La Cilento, in qualità di «esperto esterno», va nel rione Luzzatti, a ridosso dei resti-fantasma di un’industria. Anche se a poca distanza dalla stazione ferroviaria, non si è più a Napoli ma nemmeno in periferia. I ragazzini sono pochi, ma bisogna farli pur venire altrimenti l’aula vuota rischia di far saltare il PON, ovvero il progetto europeo che finanzia il Sud d’Italia fino al 2013, ossia i laboratori didattici che spesso diventano architrave per gli interessi e gli stimoli tutti da coltivare, se le cose vanno (miracolosamente) bene. La Cilento propone di leggere qualcosa.Vi piace leggere?, chiede. «Prufissuré, ma qua’ leggere, che palle». E i film? Nessuno è mai entrato in un cinema. Se scrivono, ignorano punteggiatura, grammatica, sintassi. Cinque minuti e via, senza rileggere. Il labor limae è cosa aliena. Contenti e strafottenti: «Prufissuré e quanno maje ce pensammo a ‘sti cose?».

In classe c’è Teresa. È una «speciale» perché figlia di un capoclan.Vive con la nonna, padre e madre sono in carcere. Attenzione però: non si nomina mai la camorra. Occorre insistere, qualcosa vien fuori. I ragazzini cominciano a scrivere, e tanto, inventano storie, qualcuno confessa di avere un romanzo nel cassetto, di undici pagine. Tutto normale in Italia: i più scrivono, anche se non hanno mai letto un libro, oppure uno solo e credono che basti. Dicevamo del PON. Sulla lavagna inconsapevolmente inventano un acrostico: «o potent o nient». Gli insegnanti fanno quello che possono, e a volte nemanno IV - numero 2 - pagina II

si disinteressa del sistema-scuola, o chi non è bene informato sulla realtà e si affida al coro propagandistico che inneggia al fannullismo, dà dei colpi tremendi al pilastro della democrazia. «Sì - scrive la Spicola - perché mio caro amico avvocato, se attacchi me come docente, attacchi la democrazia. Critica semmai il sistema che mi ingabbia piuttosto, non il mio ruolo». E ancora: «I risultati scadenti degli studenti italiani non sono il frutto del singolo insegnante, semmai di un sistema che fa acqua da tutte le parti e su cui molti, troppi, hanno la responsabilità per non averci messo le mani in maniera adeguata». A proposito della preparazione culturale di chi esce dalla scuola italiana, l’autrice di questo battagliero libro fa alcune precisazioni. Per prima cosa afferma che se si va a esaminare le cosiddette eccellenze scolastiche, al confronto dei colleghi europei i ragazzi italiani sono dei geni. Se poi sono messi in condizione di dare il meglio all’estero ci si rende conto di un’altra verità incontestabile, ossia che hanno molto successo. Anche quando provengono dalle tanto criticate scuole del nostro Meridione.Tra gli scienziati italiani negli Stati Uniti ci sono quattro premi Nobel, due vincitori del premio Balzan, due premi Maxwell e diverse medaglie per meriti scientifici. Grazie a chi? Si chiede l’autrice. Solo a mamma e (p.m.f.) papà o anche, o soprattutto, ai docenti?

meno quello. Poi ci sono le famiglie, e qui s’inciampa in note dolenti: quale padre o quale madre è in grado di prestare vera attenzione ai figli? Ci vorrebbe qualcuno tanti «qualcuno» - in grado di trasmettere passioni. Un’operazione che è praticabile se c’è un conduttore, come insegnano le leggi della Fisica.

A Bolzano non ci sono soltanto «italiani» o «tedeschi». La città è piena di pakistani. Qui ci vengono perché credono che la zona sia già «abituata alla multi etnicità». Convivenza tuttavia non sempre pacifica. Ci sono anche russi, sudamericani, magrebini: questi leggono, leggono tutti. E gli autoctoni? Stefano è un ragazzino alto e biondo, di famiglia benestante. Non sa stare seduto, non sa ascoltare, non riesce a stare fermo. È ipercinetico. Un «caratteriale» come dice la burocrazia psicoscolastica. È un campione di nuoto. Odioso a tutti. Obbedisce solo a una prof altissima ed elegante che gli si rivolge in tedesco. Ma il problema, qui, non si chiama solo Stefano. Scrive la Cilento: «Mi sorprendo ad avvertire un malessere ben maggiore che nelle scuole meridionali». Se nelle scuole napoletane uno desidera soprattutto silenzio e ordine, queste cose non mancano a Bolzano e dintorni, ma «non sono certo la formula della felicità». Detto a margine, ma mica tanto: la Lega di Bossi insiste perché nessun insegnante meridionale prenda servizio nelle ordinatissime regioni del Nord. Ma questa anti-italianità ha costi elevatissimi se si presta attenzione ai risultati. Le cosiddette isole non sono isole felici, a parte l’apparenza. Il concetto di autorità, in tutte le scuole, è debole. I ragazzi provenienti da classi abbienti non sono «i salvati» per antonomasia. A Posillipo, finto paradiso napoletano popolato dai «sagliuti», ossia nuovi ricchi, calciatori e politici, la regola che si applica è la stessa che vige nelle «vele» di Secondigliano: quel che è pubblico non mi riguarda, quel che è privato lo curo. Storia vecchissima, riflette Antonella Cilento. Difatti le strade fanno schifo. E in aula? C’è da deprimersi. Nessuno è seduto, un gran baccano, alcune ragazzine sfiorano l’anoressia, molti assumono, digià, leggeri psicofarmaci.A dodici anni vanno dal-

l’analista alla moda. Qualcuno riferisce che in certe classi si fa sesso di gruppo. Abbondano le telefonate porno. Altra scuola della Campania. La Cilento accenna a Cenerentola. Mai sentita. E i film di Walt Disney? Mai visti. Viene da rammentare quanto scriveva Sandro Onofri nel 1998 in Registro di classe, ossia che gli risultava inconcepibile insegnare in una classe in cui solo uno aveva letto Pinocchio. Fa niente, l’«esperto esterno» racconta Cenerentola. Tutti sorpresi, qualcuno estasiato. L’insegnante Peppe racconta di aver incontrato per strada un ex alunno, «uno difficile, che ero riuscito a coinvolgere in un progetto teatrale, abbandonato dalla famiglia ma intelligente». Allora che fai, ci vai a scuola? No. Ma se non vai tu che hai cervello… «Mi ha guardato a lungo, diritto negli occhi: arrivederci professò, ha detto alla fine. Mi ha gelato. Come se con quello sguardo mi avesse detto: basta, mi hai illuso per un anno, non illudermi più, non mi contare palle». Lo stesso ragazzo un anno prima aveva chiesto a Peppe, che doveva andare a un matrimonio a Foggia, di porterlo accompagnare: «Dai, faccio vostro figlio. Potrei, no? Tenete quarant’anni, io quindici…». Voglia profonda di famiglia. La Cilento, a proposito della parola (da registro scolastico) «ingestibile», è sferzante: «Agli adulti non importa più un fico secco dei loro ragazzi. Hanno paura per loro, ma non gli importa di loro».

Qualche ragazzo di Ercolano fa esperienza all’estero e scopre che ci sono altre realtà. Funziona l’esperimento? Le insegnanti rispondono: «Funziona sì, ma quando tornano nelle loro famiglie ricadono nel meccanismo di partenza. Spesso lo scrivono sul giornale scolastico: il mondo è diverso lontano da qui, ma io abito qui e questo è il mio destino». Quali sono le vostre aspirazioni? Chiede Antonella Cilento. Le ragazze si guardano tra loro, si stringono nelle spalle, «abbassano gli angoli della bocca in una smorfia che sta a dire “Ma che vuo’? Ma chi se ne importa?”». Qualcuna risponde: «Da grande mi vedo mamma». Esperimento di lettura in classe, mentre due ragazzine si truccano, altri sbadigliano o fanno scoppi con la gomma da masticare. L’autore è Lovecraft (L’orrore di Dunwich). Poco dopo cala il silenzio. Dormono? No. Irrompe un bidello sbattendo la porta. Gli alunni in coro urlano «fuori!!». E poi: «Prufissuré, andiamo avanti».


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parola chiave

15 gennaio 2011 • pagina 13

PAESAGGIO rande scrutatore di forme, Carlo Emilio Gadda ci fa capire che vibrazione d’anima sia il paesaggio, anche quello più semplice, quello, ad esempio, della pianura lombarda, scandito da filari di pioppi e modeste cascine: «Una cascina si distanzia dall’altra in ragionevole misura, quanto comporta cioè la facoltà del lavoro: quanto può adempiere di lavoro una famiglia di contadini, o un gruppo di famiglie raccolte nell’unità distesa del fondo. E ogni volta che scorgiamo il fumo e poi i bruni coppi e il tetto remoto d’una cascina, ecco un sogno è suscitato nell’anima: un’idea di vigore, di saggezza operosa, tenacemente fedele alle opere necessarie». Il testo di Gadda (Terra lombarda in Meraviglie d’Italia) è del 1940, settant’anni fa, un abisso temporale che ha inghiottito forme e modi di vita. Basta guardare dal finestrino di un treno in corsa lungo la linea per accorgersi che l’«ordine geometrico» di pioppi e cascine non c’è più, e forse neppure la «saggezza operosa» e il «vigore» che li aveva prodotti. La velocità svuota il paesaggio, lo trasforma in una evanescente apparenza, una sorta di poltiglia visiva che accorpa, senza distinzione, tutto quello che abbiamo visto lungo il filo dei chilometri. Che cosa esattamente abbiamo visto? È come se non fossimo mai usciti da un tunnel. La velocità disorienta lo sguardo, lo priva di un fuoco, di un punto d’applicazione. Si guarda senza vedere. Il nastro visivo del paesaggio diventa, davanti ai nostri occhi storditi, un nulla appena animato. Ma non è stata la velocità, né lo stress percettivo che essa comporta, a cancellare i pioppi e le cascine della «terra lombarda». È che il paesaggio non conosce stabilità, si muove, si trasforma come viva materia. Accompagna la storia degli uomini, ed è la sintesi dinamica e lo specchio delle irrequietezze e degli impeti distruttivi che la segnano.

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«Organismo vivo», dice Eugenio Turri, che è stato (è morto nel 2005) uno dei nostri più grandi geografi. All’esplorazione e alla decifrazione del paesaggio, Turri ha dedicato l’intera vita. Antropologia del paesaggio (uscito oltre trent’anni fa per le edizioni di Comunità fondate da Adriano Olivetti, e oggi riproposto da Marsilio) può arrivare a stupire il lettore più disincantato. Turri insegna a guardare. Il paesaggio che attraversa pulsa di relazioni più o meno nascoste che vanno identificate e riportate alla luce. Una piccola, ma lumino-

Non conosce stabilità, si trasforma come viva materia. Accompagna la storia degli uomini ed è lo specchio di ciò che la segna, delle irrequietezze e degli impeti distruttivi. Ma si è incapaci di percepirlo...

Imparare a guardare di Maurizio Ciampa

Una «cieca suicida devastazione dello spazio in cui viviamo», ha trasformato «le pianure e le coste italiane in un’unica immensa periferia». È uno degli allarmi lanciati da esperti, in un tempo in cui un dominio tecnologico che genera paura ha sostituito le linee ponderate dall’operosità dei contadini sissima stella, orienta il cammino, lungo e faticoso, di Eugenio Turri: la convinzione che lo studio del paesaggio non sia una disciplina fra le altre, un sapere fra tanti. Inevitabilmente si trova a incrociare saperi e punti di osservazione diversi. Ma non si limita a questo. È in gioco molto di più: lo studio del paesaggio è una «palestra di educazione», «dovrebbe anzi costituire la premessa o la componente di ogni vera educazione, quella fondamentale che lega l’individuo al proprio paesaggio, ai suoi valori che contano». È dunque l’esercizio di un’intelligenza essenziale: guardare alle forme di un territorio vuol dire stendere una mappa dell’umano e ricapitolarne i passaggi, e forse anche individuare le curve della sua evoluzione, del suo futuro. Per questo la parola «paesaggio» mi è parsa una «parola chiave» nel lessico del no-

stro presente, perché è conficcata nella linea di confine fra natura, storia e cultura, in una zona di turbolenza dove si va definendo, pur provvisoriamente, la relazione fra uomo e mondo. Molto accade su quel confine, molto è in fermento. Se lo si vuole cogliere occorre vincere le inerzie della mente e del cuore. E sono tante.

La parola «paesaggio» gode, oggi forse più che in passato, di una certa diffusa attenzione, anche se stenta a svilupparsi in condotta consapevole e comportamento virtuoso. C’è un’attualità che fa pressione con toni che sono spesso drammatici. È drammatico, ad esempio, il tono di Salvatore Settis (Paesaggio costituzione cemento è uscito da poco dall’editore Einaudi), una sorta di ultimo ragionevole appello. «È oggi più che mai necessario parlare

di paesaggio», dice Settis, indicando «la cieca suicida devastazione dello spazio in cui viviamo, la progressiva trasformazione delle pianure e delle coste italiane in un’unica immensa periferia». Voglio poi ricordare il «Seminario-laboratorio internazionale sul paesaggio» che si apre oggi, 15 gennaio, a San Biagio della Cima, un borgo al limitare della provincia d’Imperia legato alla memoria di Francesco Biamonti, scrittore che, come pochi altri, ha saputo guardare e raccontare la collina ligure e le sue trasformazioni. Quello stretto cuneo fra terra e mare, fra Italia e Francia, di aspra bellezza, costantemente minacciata, è un luogo dell’anima, e certamente adatto a riprendere e infittire l’interrogazione sul paesaggio. Ad animare l’incontro di San Biagio della Cima ci sarà, fra gli altri, Massimo Quaini, un «geografo umanista» dall’intelligenza affilata e dallo sguardo ampio (il suo L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, pubblicato dall’editore Diabasis, è un libro esemplare). «Il paesaggio scrive Quaini non è interessante come categoria analitica per leggere l’ambiente o il territorio in termini scientifici, ma lo è in quanto contenitore di miti, sogni ed emozioni, in quanto accumulatore di metafore per capire le contraddizioni e i problemi del nostro tempo». Non siamo molto lontani dalla pagina di Gadda da cui ci siamo mossi, anche se in un diverso registro discorsivo. Quella pagina si conclude evocando la «ragione profonda, antica» del paesaggio lombardo e, insieme, il suo «ordine geometrico» e «la dirittura delle opere», mentre, nel cuore della cascina, «la sera illividisce di sogni, di futili paure». Perché Gadda dice «futili paure»? Perché quel paesaggio, oggi scomparso, era una radice salda, poteva offrire protezione alla precarietà e alla fragilità degli uomini che lo abitavano. Per questo sono «futili» le paure. Ma distrutte le linee ponderate di quel paesaggio, alla paura l’uomo resta esposto. Ed è quello che accade oggi: il tempo del dominio tecnologico è un tempo che fomenta l’insicurezza e la paura. È lì che occorre guardare, o cominciare a guardare o imparare a guardare, dove il paesaggio si fa vita e comune percezione, come ci invitano a fare Darko Pandakovic e Angelo Dal Sasso in Saper vedere il paesaggio (edito da Città studi). Il loro itinerario attraverso l’intrico di natura, storia e cultura, consente di vedere finalmente quello che fino a un momento prima abbiamo semplicemente guardato.


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Rock

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musica

Il trash inconsapevole DI BIAGIO E GIANNA di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi er noi critici musicali (pardon: ascoltatori con facoltà d’opinione) è sempre cosa buona e giusta «battezzare» nuovi gruppi. Nel caso specifico,The Sand Band. La Band della Sabbia, che arriva da Liverpool e comprende David McDonnell (chitarra e voce), Scott Marmion e Max Goldberg (chitarre), Ben Curtis (organo) e Jay Sharrock (batteria). Tutto ha inizio fuori da un negozio di strumenti musicali. McDonnell e Marmion stanno scaricando pianoforti da un furgone. Si scambiano qualche parola dopo essersi «annusati» e aver capito d’essere entrambi chitarristi, e poi si stringono la mano ripromettendosi di rivedersi al più presto. Sognano, tutti e due, di formare prima o poi una band. Ne parlano più volte, e dopo aver contattato Goldberg, Curtis e Sharrock, scoprono di condividere anche con loro la passione per Nick Cave, Elliot Smith, Verve, Spiritualized, Oasis, Neil Young, Beatles e Sparklehorse. Incidono qualche pezzo, lo limano, lo aggiustano, ne aggiungono altri e l’album, All Through The Night debutta su My Space raccogliendo parecchi consensi. Manca solo l’etichetta discografica: dà l’okay la Deltasonic, che ha in scuderia i già conosciuti Coral coi quali, peraltro, McDonnell aveva in precedenza suonato. Con la sabbia, il quintetto dimostra subito di saperci fare: si dà un nome, ci costruisce sopra la band come fanno i bambini coi castelli sulla spiaggia (paletta, secchiello e il gioco è fatto) e infine rassoda quei granelli sabbiosi con l’acqua della creatività per far sì che il vento non li disperda lontano. Sotto la sabbia, a volte succede che ci sia qualche sogno da scoprire. E i sogni, in questo caso, si trasfor-

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Jazz

zapping

èra una volta il Trash, l’estetica spazzatura che andava tanto negli anni Novanta. La ripresa dei film pecorecci, Giovannona coscialunga che piaceva a Walter. I neomelodici napoletani della prima onda, Angelo Mauro, Nino D’Angelo che non era ancora un intellettuale e portava giacche di tela azzurre e gialle. Giuliano Ferrara che nel teaser di una trasmissione usciva da un bidone della monnezza con una lisca di pesce in mano. Era una ricaduta italica del postmoderno, aveva il suo grado di simpatia, in buona sostanza per un motivo: non si pigliava troppo sul serio. Adesso che siamo bel belli sotto il tallone del revival anni Ottanta (leccatissimi, algidi, inorganici, da bere nel senso del cocktail che la mattina dopo fa mal di testa) il trash c’è sempre, ma, magia, è diventato inconsapevole. Molto meno simpatico perché si prende sul serio. E come sempre trattandosi di pop culture, la musica è al primo posto. Gianna Nannini che mostra la pancia dalla copertina di un disco. Fa un servizio alla bimba? Fa un servizio all’arte? O celebra uno strano rito alla volontà di potenza? E Biagio Antonacci che si fa fotografare in prima su Vanity Fair, un coso muscoloso, depilato e marrone che ti osserva con aria fatale dall’edicola. Non sa di non essere serio, Biagio. E per sfuggire alla deriva di infinita tristezza provocata dalle incursioni del personale nel politico, dal trash inconsapevole, viene quasi voglia di rivalutare la cattiva Amy Winehouse, che alla ripresa dei suoi concerti ha rubato alcolici nell’hotel dove alloggiava. Non insegna che «è meglio amare che essere amati» (come la Nannini). È marcia, e sa di esserlo. E poi a differenza di Biagio sa cantare.

C’

The Sand Band

un esordio di qualità mano in musica rimeggiando con All Through The Night che è pieno di melodie (sabbiose) poco inglesi e molto americane. La pedal steel guitar, nei giri armonici di Set Me Free, dialoga con l’alternative country. E il resto lo fa il canto di McDonnell, scoprendosi addosso la voglia di Neil Young. To Be Where You Are, dinoccolata ballad, si perde nell’orizzonte di un’assolata prateria mentre Song That Sorrow Sings e Someday In The Sky non fanno che abbandonarsi alla dolcezza delle chitarre acustiche. Nel country che amoreggia col texmex, vezzo che fa di The Secret Chord un’autentica perla, c’è invece quel non so che di Calexico, gruppo dell’Arizona che la Sand Band avrà certamente ascoltato, nelle brume di Liverpool. E avrà ugualmente metabolizzato Daniel Lanois, a giudicare dai riverberi sonori

e dai passi sospesi di Open Your Wings/Interlude. E se Neil Young, di nuovo, riaffiora in The Gift & The Curse declinando folklore e gospel, Simon & Garfunkel e Leonard Cohen si spalleggiano a vicenda nell’atmosfera decisamente «western» di Burn This House/Hourglass. Il brano che dà il titolo al disco, viceversa, non prevede l’utilizzo della voce bensì un visionario/psichedelico flusso melodico che ricorda la colonna sonora del serial televisivo Twin Peaks, che Angelo Badalamenti elaborò vent’anni fa. Ma la voce (prima cantata, poi recitata) riaffiora nel pezzo di chiusura, il più lungo del disco, intitolato If This Is Where It Ends/Outro. Il folk, via via, evapora fino a cedere il passo all’essenzialità dell’ambient music. È l’ora del crepuscolo, a pochi rintocchi dai sogni. The Sand Band, per un bizzarro scherzo del destino, sono inglesi. Ma diranno addio a Liverpool, prima o poi. C’è da scommetterci. The Sand Band, All Through The Night, Deltasonic, 17,90 euro

Addio a Brian Rust, genio della discografia

l nome di Brian Rust probabilmente dirà poco o nulla a chi legge queste righe, ma per chi si occupa professionalmente di jazz è conosciuto e fortemente apprezzato. Chi è questo signore o meglio chi era? Infatti Rust è scomparso la notte fra il 5 e il 6 gennaio, durante il sonno, all’età di ottantotto anni nella sua casa di Londra. Ogni appassionato e studioso di jazz possiede almeno una edizione delle molte sue discografie. Infatti Rust è considerato il padre della moderna discografia in campo jazzistico. Nelle enciclopedie del jazz alla voce Discografia, si legge: «Elencazione cronologica e dettagliata delle registrazioni sia in studio che dal vivo, pubblicate o inedite, di complessi, orchestre e singoli musicisti». Una discografia pur necessaria nella musica accademica o commerciale, è spesso limitata a una schematica lista di titoli, esecutori e marche di dischi. Nel jazz invece, a cau-

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Robert e Sonia esponenti del cosiddetto Cubisco-Orfico, a cui si deve la prima diha assoluta necessità di queste informa- scografia nella storia del jazz - ha portazioni per una corretta analisi dell’opera to lo studio di questo importante settore di ogni singolo musicista. Rust è stato a livelli altamente professionali. Rust è riuscito a realizzare e pubblicare la sua immensa discografia generalista, che comprende tutto il jazz registrato dal 1897 alla comparsa sul mercato del compact disc, in un numero impressionante di volumi, recentemente pubblicati anche su cd. Oggi i discografi hanno però un altro problema da affrontare. Cosa fare con la musica registrata sugli iPod e le sue varianti iPod Duke Ellington in sala incisione nano, iPod shuffle, iPod touch? Non avendo numeri di cacolui il quale, prendendo le mosse da talogo è impossibile l’identificazione. suoi predecessori - soprattutto il france- Molti si chiedono se oltre a Brian Rust è se Charles Delaunay, figlio dei pittori anche la discografia a essere morta.

di Adriano Mazzoletti sa del valore di ogni singolo musicista che ha partecipato all’incisione, assume una particolare importanza. Per cui la discografia jazzistica trae valore dal maggior numero di informazioni in essa contenuta: luogo e data di incisione di un determinato disco, nomi e strumenti di tutti i musicisti che hanno preso parte alla seduta, nomi degli arrangiatori dei singoli brani, titoli delle composizioni musicali incise, ma anche quante volte, nella stessa seduta, è stato ripetuto lo stesso brano e quale di questi è stato pubblicato con l’indicazione del nome della casa discografica e del numero di catalogo del disco originale e delle successive ristampe. Perché il jazz a causa del suo carattere estemporaneo


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arti Mostre

ì, pare giusto tornare sull’infallibile mostra del Bronzino, a Firenze (di cui altri ha già parlato su liberal) non soltanto perché è indubbiamente una delle migliori e meritevoli in Italia, ma per pulirsi gli occhi e la mente e snausearsi dallo squallore d’un indegno testo dedicato (?) al pittore, fogliaccio che ci è capitato di trovare abbandonato in treno, su un numero di Vanity Fair, e firmato da un così-chiamato curator, di bazecole, che va naturalmente per la maggiore e che decenza vuole nemmeno sia nominato qui, perché lo si conosce (magari è pure cameratescamente simpatico) e dunque pietà vorrebbe che non fosse lui, ma un suo rivale, a firmare certe miserie annichilenti: per puro disegno di screditarlo. Quale l’assunto altamente sillogistico? (Visto che i confronti allegorici del predetto bazzicano sempre e soltanto tra il calcio, la cucina e l’ambito GF-Alfonso Signorini. Magari paragonando il sublime Adamo di Masaccio alla capocciata di Zidane, sic, letteralmente: si legga dal Partenone al Panettone, titolo che nemmeno Lino Banfi). Dunque (che lusso d’indagine!): Bronzino starebbe a Pontormo, come Corona a Lele Mora. Sì, una «mora» di decenza intanto ci vorrebbe, se non altro per rispetto allo studio dei veri curatori della mostra, Natali e Falciani, che avrebbero così lavorato, anni e anni di serietà, per giungere a questo sublime risultato: emetico-aritmetico. E poi, magari, almeno una corsetta umile di tre minuti, un po’menda torpedone giapponese, ci sarebbe voluta, per le sale di questa impressionante retrospettiva, per rendersi conto, di fronte all’ancora irrisolto problema delle «mani» di Pontormo o Bronzino, in disputa, per i tondi di Santa Felicita (finalmente a portata di sguardo) che l’indegnità delle battutine pezzenti, stile stadio, sul Bronzino, le mani infilzate sotto le coperte col ghiottone Pontormo, e altri giochi malandrini di tocchi promiscui, o altre pecorecce amenità,

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Archeologia

15 gennaio 2011 • pagina 15

Quanta vacuità tra Hirst e Bronzino di Marco Vallora grevemente omofobe, gettano un’ombra, assoluta, d’ignoranza storica, sulla tendenza omofila d’allora, velata di neoplatonismo e di reminiscenze socratiche (che poi vuol dire non aver mai sfiorato una figura come il Salviati, o letto il Diario di Pontormo, o una pagina qualsivoglia di storia medicea). E non lo si dice per moralismo bigotto. Perché se uno sfiorasse soltanto l’humour

bernesco di certi doppisensi, ben più feroci e spiritosi, ma alti però e non Pierino Vitali, dello stesso Bronzino-scrittore, o certe sue allusioni pittoriche a doppi-sensi venatori e sodomitici - ma là c’è, evviva, cultura! - capirebbe bene che certe tematiche si posson trattare, anzi, ma con il cachet dell’intelletto. E vederci solo parametri alla Chi, in tanta ricchezza di iconologia e scialo di sofisticherie miniaturistiche

e di risvolti pre-psicoanalitici, e pure di tentazione luterana, solo pochezza d’occhio rivela, ahimé. Allora si capisce anche perché lo stesso occhietto, warburghianamente perspicace, sia poi responsabile di quell’«evento epocale», «sfida esaltante e impegnativa», come la definisce con trepidante esaltazione il sindaco di città, in un testo di esilarante di pompierismo tribunizio, tra clangori di «imput storici» e «sfide amministrative» e genuflessioni all’Artista «che ha acconsentito a questo progetto e ci onora di aver scelto Firenze», semplicemente ficcando il suo teschio miliardario, tempestato di pseudo-swarosky, nel Palazzo Vecchio vasariano.Tra ululanti halali dell’assessore, che megafona in catalogo: «Il teschio è una bomba! Ordigno di platino e diamanti, strategicamente collocato nelle segrete di Palazzo Vecchio, per colpire al cuore le certezze della nostra quiete secolare e ci costringe a fare i conti con la mortalità al tempo di Facebook e del Viagra». Boom! Ma o’vvia, bischeri: nient’altro che una pacchiana vacuitas (più che una vanitas) di Damien Hirst, un teschio vero («con denti del Settecento!», fan eco i dispacci delle pizie delle public relations e c’è da chiedersi se sian ancora Louis XVI o già Impero) con su una ciuffietta sberluccicante, tipo Zara Lehander, di diamantini fitti: 1.106.18 carati, da allarmare le guardie giurate.Tutto lì. Caprinamente facendoti transitare per il celebre Studiolo alchemico del Granduca birichino (che l’assessore Giuliano da Empoli immagina star nelle «segrete»: però!) in modo da poter poi blaterare di alchimia,Wundercammern, etc. Persino il curatore, di fronte a questo evento così «leggendario», abbandona il campo-base, ahimé a lui così congeniale, della Critica Gastro-Sportiva e, via da Lele Mora, vola, mistico, verso Ray Bradbury, simulando un raccontino Sf, potenza della Sindrome di Hirst («Credo di essermi sentito come chi si è visto apparire i Profeti, ma questi pensieri mi vennero dopo»). Ci sia consentito scender da tanta astronave, e in prossima puntata, tornare tra la sanità terrestre del Bronzino.

Ashoka, il migliore sovrano del mondo occato dalla grazia divina, un re crudele si trasforma in santo. E fonda un impero governato da pace, tolleranza e bellezza. No, non è Costantino (274-337 d.C.), ma Ashoka il Grande (304-232 a.C.), anche se le carismatiche personalità dei due sovrani e la loro attività missionaria a favore del cristianesimo, il primo, e del buddhismo, il secondo, sono state messe più volte in relazione. Quella di Ashoka, tra i personaggi più mitizzati dell’Estremo Oriente, fu una conversione a tutti gli effetti. Che non mirava alla conquista del potere autocratico, ma al dominio del sé. I precetti di Ashoka sembrano contraddire gli ideali portanti di un impero: trasmissione di una morale di non-violenza, altruismo e tolleranza; solidarietà verso tutti i popoli e persino verso gli animali. Eppure, questi precetti apparentemente deboli riuscirono a mantenere saldo e ad ampliare il potere, senza l’uso della sopraffazione. Il suo regno comprendeva gran parte del continente sub-indiano, l’odierno Afghanistan, gran parte della Persia (oggi Iran), il Bengala (oggi diviso tra India e Bangladesh) e l’Assam (Stato dell’India nord-orientale). Gli scavi archeologici più importanti relativi alla storia dell’India antica riguardano proprio l’epoca di Ashoka e vennero condotti da missioni britanniche all’inizio del secolo scorso. Se il suo nome, oggi, è poco noto, la sua influenza come traghettatore di culture religiose, però, è ancora viva. Una delle migliori edizioni degli Editti di

T

di Rossella Fabiani Ashoka è quella Adelphi, con introduzione di Giovanni Pugliese Carratelli. Da leggere anche Khyber Pass, di Paddy Docherty (Il Saggiatore). Il principe iniziò la sua carriera politica come governatore di Taxila, nell’attuale Pakistan, e in tutta la prima fase del suo regno applicò una politica aggressiva e brutale, impegnandosi in innumerevoli battaglie con cui annesse gran parte del continente sub-indiano. Alcune fonti sostengono che per salire al trono, Ashoka abbia assassinato sei dei suoi fratelli, probabilmente perché lo precedevano nell’ordine dinastico. Si narrano orrori spaventosi: 500 donne dell’harem arse vive soltanto perché avevano confessato la sua bruttezza; o la creazione di un vero e proprio inferno sulla terra, un giardino nascosto da un alto muro che doveva intrappolare i curiosi. Il passaggio dall’orrore alla luce divina avviene subito dopo la sanguinosa guerra di Kalinda, nell’odierna Orissa, scoppiata intorno al 264 a.C. e che costò 150 mila deportati e oltre 100 mila morti. Secondo alcune leggende buddhiste, il giovane imperatore sentì il dramma delle sue colpe camminando tra i cadaveri il giorno seguente la vittoria. L’illuminazione avvenne tra i morti, il sangue e la distruzione. L’editto che ne scaturì, un prezioso documento epigrafico a cui il sovrano affidò la propria missione legislatrice, viene definito dallo studioso Ainslie Ebree «un document

umain, un’ora stellare dell’umanità». Oltre a essere fra i più commoventi della storia universale, questo testo sancisce la conversione al buddismo dell’imperatore. Ashoka si rese conto che il vero dominio doveva riguardare prima di tutto il proprio sé. Così Particolare della Ruota dichiarò di intraprendella legge che simboleggia dere ufficialmente un la dottrina buddista iter spirituale; ma senza basarsi su prescrizioni, ordini, imposizioni e decreti che perdono di consistenza se non sono supportati da valori in cui vengano coinvolti tutti gli esseri umani, quindi anche i potenti. Dal momento della conversione, l’impero di Ashoka si tradusse in un’annessione senza fine di popoli che si riconoscevano nella pacifica dottrina del sovrano e nella vittoria della legge morale che è dentro di noi (di kantiana memoria). Il regno si creò dunque sull’adesione culturale prima ancora che politica, un po’come avvenne in Cina con il primo imperatore Qin Shihuang (260-210 a.C.). Ma questa è un’altra storia.


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il paginone

Con la sua fatica storiografica, “Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori”, intese sconfiggere l'oblio che divora la memoria degli artisti. Ma l'ordito narrativo dell'opera di Giorgio Vasari, di cui ricorre quest'anno il quinto centenario della nascita, si intreccia con altri temi di grande suggestione. Come quello sulle tecniche e i materiali di cui svela tutti i segreti… Con folgorante eloquenza di Claudia Conforti l 30 luglio 2011 ricorre il quinto centenario della nascita di Giorgio Vasari: il celebre pittore, architetto e storiografo nato ad Arezzo da una famiglia di mercanti e artigiani, che seppe affermarsi nelle più brillanti corti dell’Italia cinquecentesca, quali furono Roma e Firenze, e che fu universalmente conosciuto per la sua azione di storico dell’arte rinascimentale dedicata alle Vite degli artisti.

I

La prima edizione dell’opera data al 1550, ed è intitolata Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri; essa è nota come Torrentina dal nome dello stampatore ducale

da i fili della sua attività quarantennale, integrando le note autobiografiche già disseminate lungo tutta la narrazione delle altrui vite. Per cogliere il significato delle Vite non si deve dimenticare che esse non si esauriscono nella dimensione storica o encomiastica del genio fiorentino e toscano, ma sono anche un trattato precettistico, di comportamento (non diversamente dal contemporaneo Galateo), indirizzato soprattutto agli artisti, per i quali si tratteggiano (e si auspicano) forme nuove dei rapporti sociali e delle regole professionali. L’artista nuovo che emerge in controluce nelle pagine vasariane è un po’ cortigiano e un po’ confidente del

ne delle Vite vasariane l’imperativo della memoria si intreccia e si confonde con il tema delle origini. Vasari dichiara gli obbiettivi e le strategie della sua fatica storiografica: sconfiggere l’oblio, che divora la memoria degli artisti «…per difenderli (gli artisti) il più che io posso da questa seconda morte (l’oblio), e mantenerli più lungamente che sia possibile nelle memorie de’ vivi». L’attenzione alle origini è tutt’altro che innocente nella strategia storiografica vasariana: se ne comprendono a pieno il movente ideologico e la strumentalità politica quando Vasari asserisce il primato di Firenze e della Toscana, matrici del travolgente empito che, rinno-

La più dura è l’esotico porfido, la più malleabile si cava sulla riva sinistra dell’Arno. Nelle sue descrizioni, linguaggio e figure si coniugano magistralmente, raggiungendo vertici di rutilante invenzione di Firenze Lorenzo Torrentino. Suddiviso in tre parti, lo scritto colloca Firenze al centro e al vertice dell’evoluzione delle arti che, iniziata con Giotto, culmina con Michelangelo Buonarroti (1475-1564), solo artista vivente di cui Vasari traccia in questa edizione la biografia. Nel 1568, all’apice di una folgorante carriera artistica e cortigiana presso il duca Cosimo I de’ Medici, dopo un viaggio (1566) di aggiornamento, Vasari licenzia la stampa di una nuova edizione intitolata Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori. Denominata Giuntina dai Giunti, eredi dello stampatore ducale Bernardo, l’opera, oltre a essere corredata dai ritratti a stampa degli artisti, annovera anche biografie di viventi, che sono concluse dalla Descrizione delle opere di Giorgio Vasari, pittore e architetto aretino, ovvero dall’autobiografia. In essa l’autore riannoanno IV - numero 2 - pagina VIII

principe, il che non impedisce che sia un subalterno e, all’occorrenza, un burocrate. In definitiva: è un gentiluomo che «vive civilmente e come uomo onorato»: possiede un’abitazione dignitosa; veste con eleganza e conversa con signorilità; rifugge dalle beffe plebee e dalle baie mordaci. Grazioso e piacevole nei costumi, si trova a proprio agio ovunque, al contrario di «chi è strano, (che) pa-

Un terzo tema si intreccia nell’ordito narrativo delle Vite: ed è quello delle tecniche e dei materiali, ai quali l’autore allude, significativamente, come ai «segreti» delle arti. Segreti a cui l’aretino consacra per intero il

re in ciascun luogo straniero», come recita Il Galateo (1558) del contemporaneo fiorentino, Giovanni della Casa (15031556). È noto che nella redazio-

Proemio delle Vite e che da quel momento, come è ovvio, non avranno più nulla di segreto! Le pietre sono loquaci: spetta all’artista renderle eloquenti. La pre-

vando la lingua, la filosofia, la scienza e l’arte, ha donato al mondo una civiltà in grado di competere con le più splendide culture del passato.

Le parole messa è utile per tracciare un percorso di lettura tra le pagine della prima parte del Proemio delle Vite degli artisti (1550, 1568) di Giorgio Vasari consacrata all’architettura. La meticolosa descrizione dei materiali e delle tecniche che Vasari profonde nel Proemio è funzionale alla trasmissione di un bagaglio formalizzato di conoscenze professionali, il cui apprendimento può affrancare gli artisti dai lunghi apprendistati di bottega, lascito di una tradizione artigiana e manuale, che Vasari ritiene anacronistica. L’architettura, la più materiale e pratica delle arti, ma anche la più astratta sotto il profilo delle forme, è

concretizzata dalle pietre: naturali, come i marmi e artificiali, come i laterizi, che, «durissime e forti», conseguono «quella graziata bellezza» spettante all’architettura. Alle pietre pertanto Vasari dedica un’estesa trattazione: preludendo la scala di Mohs, che cataloga le pietre sulla base della loro durezza,Vasari inizia dalla più dura delle pietre e termina con la più malleabile. Lumeggiando nella durezza il carattere distintivo della sequenza, egli enumera ben 16 tra pietre e gruppi di pietre, a partire dall’esotico porfido, la più dura e nobile, per concludere con la domestica pietra forte, il calcare arenaceo che si cava sulla riva sinistra dell’Arno.

Per ogni pietra Vasari delinea dapprima la descrizione cromatica e di grana, poi i luoghi di provenienza, quindi gli stru-


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A sinistra, un ritratto di Vasari; accanto, un suo tavolo di pietre dure, il marmo serpentino e il diaspro, un particolare della Biblioteca laurenziana, dove domina la pietra serena; sotto, due opere di Vasari; in basso, l’artista come appare nell’edizione delle “Vite” del 1558 e il frontespizio della stessa edizione. Nella pagina a fianco: particolare michelangiolesco e la moglie Cosima in un affresco dell’artista

e delle pietre menti di lavorazione e, infine, i casi più celebri e più riusciti di impiego. In queste descrizioni è la tavolozza del pittore a suggerire la sfavillante scelta lessicale che, non raramente, si configura come rutilante invenzione. In questo acrobatico esercizio ecfrastico, Vasari dà la misura del suo mirabile talento, tramutando la «naturale» loquacità delle pietre nell’eloquenza dell’arte.

Passiamo rapidamente in rassegna le descrizioni in cui Vasari coniuga magistralmente parole e figure: anticipando con la parola il misterioso gesto con cui l’artista muterà la pietra da materia bruta a opera d’arte, lo storiografo dispiega una fantasmagorico vocabolario cromatico e visivo. Il porfido «è una pietra rossa con minutissimi schizzi bianchi»; il

serpentino «è pietra di color verde, scuretta alquanto, con alcune crocette dentro giallette e lunghe per tutta la pietra»; il cipollaccio «è di color verde acerbo e gialletto, ed ha dentro alcune macchie nere quadre, picciole e grandi, e così bianche, alquanto grossette»; i mischi sono così detti dalla «mescolanza di diverse pietre congelate insieme…» e «se ne trova di tanti colori». Se quello delle cave di San Giusto di Monterantoli (con cui Vasari ha modellato i camini e le cornici delle porte di palazzo Vecchio a Firenze) «trae in colore di paonazzo rossigno, macchiato di vene bianche e giallicce», quello «ch’è nei monti di Verona… è rossiccio e tira in color ceciato». Il granito si presenta in molte varianti, da quella «ruvida e picchiata di neri e bianchi e talvolta di rossi» a quella bi-

gia che «trae più in verdiccio i neri ed i picchiati bianchi».Vi è poi la «pietra nera detta paragone, la quale ha questo nome perché, volendo saggiar l’oro, s’arruota su quella pietra e si conosce il colore, e per questo paragonandovi su vien detto paragone. Di questa è un’altra specie di grana e di un altro colore, perché non ha il nero morato affatto e non è gentile», ma è assimilabile al nero di Prato che, se ben lavorato, è «così lustrante, che pare un raso di seta e non un sasso intagliato e lavorato».

Se per le numerose varietà di marmi apuani Vasari esibisce una sequenza scintillante di aggettivi, capaci di suscitarne visivamente allo stesso tempo la natura e l’aspetto (i cipollini, i saligni, i campanini, o anche i «bianchissimi e lattati» perfetti per le figure, quelli che hanno «in sé saldezze maggiori e più pastose e morbide»), al travertino, anzi al «trevertino», che si cava dal «Teverone a Tigoli», egli riserva efficaci figurazioni, a cominciare da quella con cui ne illustra la consistenza e l’aspetto, attraverso l’evocazione del processo genetico. Il travertino «…è tutta specie di congelazione d’acque e di terra, che per la crudezza e freddezza sua non solo congela e petrifica la terra, ma i ceppi, i rami e le fronde degli alberi. E per l’acqua che riman dentro non si potendo finire di asciugare quando elle son sotto l’acqua, vi rimangono i pori della pietra cavati, che pare spugnosa e buccheraticcia egualmente di dentro e di fuori». La consuetudine, antica e moderna, di mettere in opera il travertino «non finito» e assettato «rusticamente» è fatta risalire da Vasari al temperamento di questa pietra: tanto nobile e fiera da avere «in sé una certa grandezza e superbia» da mettere in sottordine la lavorazione! Mi si consenta un ultimo esempio della facondia

di Vasari che tramuta in folgorante eloquenza la naturale loquacità delle pietre: asserendo che la pietra d’Istria è «bianca livida», immerge di colpo il lettore nelle spettrali notti dell’inverno veneziano. Né può figurare con maggiore efficacia la lucente architettura di Michelangelo nella basilica fiorentina di San Lorenzo, se non evocandone la «pietra azzurigna, che si dimanda oggi la pietra del Fossato… gentile di grana… che d’argento non resterebbe sì bella». Si riferisce evidentemente a una pregiata variante della pietra serena, che si cavava nella valle della Mensola, presso Fiesole. Il funambolico dispiegamento lessicale che impalca il capitolo sulle pietre testimonia la consapevolezza di Vasari che le pietre sono efficaci veicoli di metafore, capaci di esercitare una funzione psicologica, culturale, politica, votiva e perfino terapeutica. A quest’ultimo aspetto si riferisce un episodio autobiografico riferito nella vita del pittore cortonese Luca Signorelli, che offre l’opportunità di entrare ancora di più nel merito della premessa sulla dialettica tra materia e arte, tra loquacità ed eloquenza. L’anziano Signorelli, per motivi di lavoro si reca ad Arezzo, dove è ospite in casa Vasari, a cui lo legano vincoli parentali. Informato dei violenti episodi di epistassi che lasciavano come tramortito il piccolo Giorgio, del quale aveva apprezzato la precoce inclinazione al disegno, Signorelli gli «pose di sua mano un diaspro al collo con infinita amorevolezza».

Il gesto dell’artista vegliardo è evocato da Vasari con la solennità di un rito biblico: la pietra taumaturgica, posta al collo del fanciullo, ne presagisce non solo la pronta guarigione ma anche il luminoso futuro di artista. L’associazione del diaspro al sangue ricorre nella narra-

Vasari era consapevole che marmi e rocce erano efficaci veicoli di metafore, anche taumaturgiche. Come quel diaspro che Luca Signorelli pose al suo collo di fanciullo malato, presagio di guarigione e di successo zione di Vasari e precisamente nella vita dell’intagliatore di pietre dure veronese Matteo del Nassaro, dove è di scena la flagranza del passaggio dalla loquacità della pietra all’eloquenza dell’arte: «…dunque … venuto (a Matteo) un bel pezzo di diaspro alle mani, verde e macchiato di/ gocciole rosse, come sono i buoni, v’intagliò dentro un Deposto di/ croce con tanta diligenza che fece venire le piaghe in quelle parti/ del diaspro che erano macchiate di sangue: il che fece essere quell’opera rarissima…».


Narrativa

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Rebecca Hunt IL CANE NERO Ponte alle Grazie, 250 pagine, 16,00 euro

orprendente. Anzi, spiazzante. Il romanzo d’esordio dell’inglese Rebecca Hunt (pittrice, trentenne) ha come protagonista un cane. Nero, massiccio, «d’aspetto selvaggio e colossale». Parla, infastidisce, insegue senza tregua. È «un cabarettista leggermente screditato» che parla quasi sempre per enigmi per il fatto, come dice, che «l’enigma rimane in testa». Il cane nero: questa è la definizione che Winston Churchill dava della sua depressione, e tutti sapevano che quella bête noir gli stava accanto spesso, sia in pubblico sia in privato. Black Pat - così l’autrice lo chiama - si presenta come inquilino pagante nell’appartamento di Esther, impiegata della Biblioteca del Parlamento britannico. Esther non sta affatto bene, è vedova di un uomo che si è tolto la vita. Perché sei qui? Ma che lavoro fai? La bestia, goffa, bavosa, sporca, maliziosamente conturbante, risponde che questo è il suo lavoro. Cioè? «Non faccio del male in senso fisico. Deprimo le persone». Il cane è anche accanto all’ex premier inglese, ottantanove anni, alla vigilia del suo congedo dalla Camera dei deputati. Black Pat non molla mai la presa, con la quale instaura una sorta di «unione depravata». Con Churchill gli risulta facile il lavoro: il leone d’Inghilterra sa bene che la depressione-bestia ha azzannato il suo albero genealogico, a cominciare dal padre fino alla figlia Diana, che si è tolta la vita. Il cane è in agguato, infastidisce, promette di non togliere mai il disturbo, dialoga, schiamazza, ride con sarcasmo, è capace di radiografare pensieri ed emozioni, sbeffeggia con arguzia. È una presenza che prosciuga. Lui è lì, accanto alle persone che sono nate con

S

libri

Corpo a corpo con

Black Pat

Dedicato alla bestia nera della depressione che afflisse Churchill ed Esther, protagonista del romanzo d’esordio di Rebecca Hunt

Riletture

di Pier Mario Fasanotti

«un difetto nel progetto». Persone che possono scegliere, ma con una fatica immensa. Lui lo sa e ne approfitta. L’autrice narra i giorni - estate del 1964 - in cui il cane «con la bocca a forma di bara» tallona sia Churchill sia Esther, infiltrandosi nella loro esistenza, diurna e notturna, nella loro casa, permettendosi con sadico divertimento di esprimere giudizi su tante persone, soprattutto su quelle che potrebbero ostacolare la sua lugubre missione. Rebecca Hunt procede con una scrittura sobria ed elegante, sa cogliere appieno le sfaccettature del male intimo («la discesa»). Anche se Churchill sa bene che la vita è una prateria dove qua e là ci sono caverne da evitare, anche se Esther sa che la lava vulcanica che ti può travolgere è quella che ti si para immobile davanti, Black Pat azzanna tristezze, rimpianti, nostalgie, insicurezze, li riduce a ossa da mangiucchiare e leccare per suo sozzo divertimento. Il cagnone capace di alzarsi sulle zampe e parere quasi uomo è anche commovente, un dannato da se stesso (o dal caso). Questa è un’imboscata, lo rimprovera Esther un giorno. No, ribatte lui, «è un’affinità: il magnete che mi trattiene qui è lo stesso che mi ha portato qui. Siamo uniti dalla stessa orbita e io sono tutto tuo… è l’affinità che ci incatena». Churchill lotta fino alla fine, aiutato dalla moglie che, pur non rivelandolo mai, è da sempre a conoscenza del cane nero che minaccia il celebre marito. È battaglia tra il politico e la bestia, sarà un faticoso braccio di ferro tra Esther e la depressione con fauci e coda, incarnazione del male del nostro secolo. Churchill e la bibliotecaria s’incontreranno. E intuiranno la comune affinità con l’oppressore peloso. In mezzo a battute frizzanti e a confessioni appena accennate.

Le altezze di Pergolesi nella scrittura di Marta Morazzoni i riavvicino all’ultima prova narrativa di Marta Morazzoni La nota segreta (Longanesi). Ma prima voglio riflettere ancora su due opere precedenti della scrittrice: del ’96 L’estuario (precedendo di un anno un romanzo di grande e meritato successo come Il caso Courrier, premio Campiello), opera di grande fascino, certamente apprezzata al di sotto del suo vero valore e La città del desiderio, Amsterdam del 2006, apparentemente una guida e in sostanza un libro di grande felicità ed emozioni con colori vivacissimi e sotto la protezione - come fu già per La ragazza col turbante - di Vermeer. Ed eccoci a La nota segreta. Una giovanissima e bella nobile milanese Paola Pietra (l’opera poggia su cose realmente accadute, anche se incantevolmente reinventate dalla Morazzoni) entra in convento a Santa Redegonda, per forza, senza alcuna vocazione e con grande tedio della vita. Ma si scoprirà che possiede una splendida voce per il canto. Se ne accorge la maestra del coro, suor Rosalba, e le fa fare delle prove. Si canterà lo Stabat Mater di Pergolesi. Le pagine sul canto e sulla voce di Paola si fanno sempre più toccanti, messe in

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di Leone Piccioni movimento dalla sua voce in un incanto musicale indescrivibile. Proverò a dire che ascoltando musica - e questa musica! - nasce dentro di noi un silenzio incantato, una totale sosta di pensiero, un urgere totale della commozione, della gioia, del dolore, dell’amore sentiti in tutto il nostro essere, in tutto il nostro circolo del sangue. Ebbene: la lettura di queste pagine della Morazzoni riesce a riproporti la stessa emozione e la stessa sorpresa dell’ascolto. Parlo di tutta la prima parte del libro, di tutto il primo capitolo. Forse la Morazzoni nelle sue opere non era mai giunta a una simile altezza. Molto ti prende poi la trama del racconto: un giovane diplomatico inglese si innamora di Paola solo a vederla e a sentirla cantare. Con l’aiuto di suor Rosalba, Paola riesce a fuggire dal convento e si mette poco dopo in viaggio con il suo cavaliere, con una sosta a Venezia, dove conviene anche a noi almeno per un attimo sostare: Paola canterà per il Doge e nel canto si rinnovano le suggestioni. È presente il diplomatico inglese: «Stava in disparte incerto di come dovesse sentirsi. Tra

Lo Stabat mater, “La nota segreta”, ma anche “L’estuario” e Amsterdam nel segno di Vermeer

orgoglio, emozione, un rimescolamento di memorie che lo collocava nella navata scura di Santa Redegonda, lui tra i tanti ad ascoltare le voci tra cui cercare la sua e riconoscerla come il tocco di una mano al buio. E di nuovo, piccola e giuzzante là dove non c’era luce la gelosia». Ricomincia il viaggio e con il viaggio l’avventura, in un genere forse nuovo per la Morazzoni ma egualmente positivo nella resa letteraria. Dirà la scrittrice che questa volta scrivendo di avventure si è anche molto «divertita». Ci saranno anche gli assalti dei pirati contro la nave che trasporta Paola lontano e molte altre vicende strettamente legate fino alla positiva conclusione. Nello sviluppo dell’avventura della protagonista, convive una grande qualità di approfondimento psicologico da parte della scrittrice: i mutamenti di Paola sono seguiti momento per momento nel loro sviluppo: suora senza vocazione, pronta alla fuga, decisa ad accettare un amore non ancora maturatosi, adattamento via via alle diverse vicende drammatiche, poi il vero innamoramento, la fermezza del carattere e delle decisioni - ecco i vari mutamenti psicologicamente movimentati nella protagonista. A contrasto, invece, il carattere immutabile del giovane diplomatico.


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poesia

15 gennaio 2011 • pagina 19

La voce dimessa della nuova Italia

PER UNA CRESTAIA

di Francesco Napoli oeta il padre, poeta lui stesso e poi anche il figlio: nella famiglia Betteloni di Verona la tradizione si tramanda di generazione in generazione. Cesare, prima, Vittorio poi (Verona, 1840-1910) e infine il terzo della genìa, Gianfranco. E dei tre proprio Vittorio appare dotato della cifra più originale, o almeno colui che ha lasciato il maggior segno. Il suo apparire sulla scena della nostrana poesia avviene contemporaneamente all’Unità. L’Italia era fatta, certo, e mancava ancora di fare gli italiani, secondo quel famoso e forse ancora attuale motto di Camillo Benso conte di Cavour; e molto ancora c’era da fare in letteratura, che si dibatteva tra romanticismo e propaggini di classicismo ormai spento. La poesia e la letteratura della nuova Italia stavano definendo una propria autonoma e originale fisionomia e l’opera poetica di Vittorio Betteloni rappresentò forse uno dei frutti allora più originali, almeno nelle prime prove.

P

Alla tragica scomparsa del padre suicida, a soli 18 anni fu affidato, per lascito testamentario, alla tutela di Aleardo Aleardi, amico del padre ma poeticamente lontano dal figlio.Voleva partecipare alla spedizione garibaldina dei Mille ma ne fu trattenuto dal timore di avere una grave malattia. Così studiò prima a Torino e poi a Pisa, dove si laureò in Legge e dove mise insieme nel 1862 la prima raccolta, il Canzoniere di vent’anni. Sposatosi nel 1872, nel 1875 conosce Giosuè Carducci e stringe un’amicizia destinata a durare tutta la vita. È il grande poeta toscano a incoraggiarlo nella sua attività («Il Betteloni fu, come accennai, il primo in Italia a uscire dal romanticismo, pur componendo in lirica il romanzo di un giovane dai venti ai vent’otto anni»), fino a elogiarlo nella prefazione ai Nuovi versi (1880) in cui il non allineato carducciano Vittorio riceveva il gradito e soffocante riconoscimento del maestro, che aveva individuato nella sua poesia d’amore il superamento del sentimentalismo. Qualche anno prima, nel 1876, gli era nato il figlio Gianfranco, modesto poeta ma soprattutto colui che ha cercato di conservare e tramandare l’opera paterna, e vive nella sua Verona, con qualche sporadico contatto con la Milano scapigliata, dove insegna letteratura italiana al Reale Collegio degli Angeli, collabora ai quotidiani locali L’Adige e L’Arena. Morirà nel 1910 nella villa che porta il suo nome, proprietà famigliare dal lontano 1665, nella frazione veronese di Castelrotto.

il club di calliope

Nei primi decenni dell’Unità, dunque, appare nella poesia italiana un cauto realismo che non taglia i ponti con la tradizione classica ma rifiuta tanto l’enfasi risorgimentale che certo patetismo romantico. I versi di Vittorio Betteloni, volutamente prosastici in modo da aderire alla dimensione dimessa dei piccoli casi quotidiani, hanno un andamento narrativo ora rappresentando liete rievocazioni di amori giovanili, ora ripiegandosi in un controllato intimismo. I toni smorzati della sua poesia, percorsa da venature ironiche, sembrano in parte precorrere anche l’ormai incipiente crepuscolarismo. Poeta decisamente antiromantico, dotato di una naturale vocazione al realismo, spoglio di ogni aspirazione metafisica, Vittorio Betteloni può essere considerato «il caso poetico più nuovo nella seconda metà del secolo» (Luigi Baldacci): influenzato, come tanti allora, da Heinrich Heine, le cui liriche venivano ampiamente tradotte sulla stampa periodica del tempo, e dalla poesia inglese contemporanea (tradusse il Don Giovanni di Byron), nei primi versi descrive senza indulgenze verso il formalismo romantico e con un originale gusto prosastico e realistico, la sua esperienza sentimentale: «E fu in piazza di Santa Caterina/ Ch’io d’amor le parlai la prima volta,/ Era l’ora che il sole ormai declina,/ Ora dolce e raccolta». Accanto a un realismo che poteva perfino avere il sapore della goliardia, c’era anche una più o meno chiara intenzione polemica antiborghese: anche qui il lievito poteva essere Heine, ma in maniera decisamente più esplicita e diretta di quanto non fosse stato per Carducci, ad esempio, il poeta-faro di quegli anni. E proprio questo suo versificare che andava ormai decisamente verso il realismo fu oggetto di non pochi attacchi. Ci pensarono alcuni carducciani di ferro ad attaccarlo, tra tutti Giovanni Marradi (18521922) che scrisse: «L’arte del verso non si può abbassare alle umiltà della prosa senza cadere nel volgare». Al pari, Attilio Momigliano a proposito del Betteloni arrivò a dire che «egli scivolò nella poesia alla carlona, veramente prosastica».

Allontanatosi dal gusto romantico e dal classicismo arcadico, Betteloni aveva ormai imboccato con indipendenza critica la strada del naturalismo e del «vero», cercando a suo modo, con limiti certo ma anche con coraggio, di sperimentare una lirica estranea ai condizionamenti retorici. Betteloni affidò la sua dichiarazione di poetica ad alcuni versi: «Mai

I Io rammento benissimo, c'ora non fan sei mesi e m'eran gli occhi, i ceruli occhi tuoi pur cortesi, anco mi sorridevi, tosto che mi vedevi. Ora invece allo scorgermi volgi altrove la testa o pigli una cert'aria d'indifferenza onesta, con che mi fai capire che è tempo di finire. Questo tutto significa c'or non mi vuoi più bene; non c'è che dire, in simili casi gli è quel che avviene; ma il dispiacere mio solo intender poss'io. Vittorio Betteloni da Poesie edite ed inedite

non s’usò in Italia/ Scriver come si parla,/ Mai non s’ebbe il coraggio/ Di scrivere il linguaggio/ Di chi intrattieni o ciarla/ O si spiega a’ suoi simili»; e ancora, in un esplicito invito ai suoi colleghi, Betteloni cantava: «Lasciam l’arti fittizie,/ Linguaggio sia lo scritto;/ Ci sia l’uomo e il suo core,/ Scompaia lo scrittore,/ E questi avrà diritto/ Che i suoi libri si leggano» (Conclusione). E nel frammento finale A se stesso, datato luglio 1910, c’è la leggerezza tenue e ironica di tutta la sua vita: «Ho compiuti settant’anni,/ e son qui pien di malanni/ che mi tocca sopportar/ con la gran filosofia/ di chi altro non può far./ Con la gran filosofia/ di chi aspetta d’andar via / per più indietro non tornar./ Disperarsi è tempo perso,/ di restare non c’è verso:/ devo andare all’ora mia:/ dunque andiamo, e così sia».

NEL SEGNO DEL DOLORE in libreria

IL VUOTO DI VETRO Un palazzo dai muri Di vento

di Loretto Rafanelli

Un palazzo le cui torri Si infiammano alla luce del sole Un palazzo d’opale Nel cuore dello zenit L’uccello fatto d’aria pallida Là vola veloce Lascia una traccia bianca Nello spazio nero Il suo volo disegna un segno Che significa assenza Roger Gilbert-Lecomte (Da Il figlio dell’osso parla, Edizioni L’obliquo)

ulla sappiamo di Enza Silvestrini, se non il tanto che dice in questo esile, sofferto, libretto di poesie (Partenze, Manni editore). Sono versi che escono da un fronte ospedaliero, dove prima c’è stato il passaggio del padre, poi di lei stessa. Passaggi che sono partenze verso un dolore profondo, immersa come è in «piaghe purulente/ che non rimarginano/ mai gli arti/ il sangue le ferite/ del lezzo d’ospedale/ che è attaccato addosso». Un dettato incalzante che abolisce anche i segni di interpunzione per l’esigenza impetuosa di far

N

uscire il tutto che la opprime. Pare quasi che la Silvestrini sia mossa da un’istanza primaria, decisiva, vitale: ne nasce un’opera prima che si presenta come la profondità di una ferita ancora viva, più che un tentativo letterario. C’è nei suoi versi un serrato confronto con la morte: quella del padre, che ella sente come una paralisi perenne, e che ricorda allorché «sono io… che lasciò spegnere/ la sua candela/ quella notte/ che il tuo respiro/ diventò un rantolo/…/ nel buio»; quella da lei sfiorata, ma che sente ancora nella carne come una corsia della pena.


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di Enrica Rosso ranca Maria Norsa, in arteValeri, in onore a quel Paul Valéry di origini italiane, tanto in voga all’epoca del suo debutto. Franca Valeri dunque, 90 anni compiuti da poco e la sua speciale curiosità artistica pronta a carpire dall’osservazione del quotidiano e tradurre con la sua ironia istintiva e caustica, elegante e sobria. Ha debuttato poche sere fa in prima nazionale al TeatroValle di Roma con Non tutto è risolto con cui resterà in scena fino al 23 gennaio. Affidandosi ancora una volta alla regia di Giuseppe Marini e scegliendosi come compagni di avventura Urbano Barberini, con cui ha costruito negli anni una collaborazione consolidata, Licia Maglietta e Gabriella Franchini. Propone un testo di cui oltre che interprete è autrice e di cui si e «egoisticamente aggiudicata la protagonista» per ripercorrere, a modo suo ovviamente quindi in totale libertà, le vicissitudini di una signora di una certa età. Una sorta di catalogo di piccole avventure di tutti i giorni in cui le note autobiografiche si affacciano al racconto non senza una sfumatura di malinconia a rendere conto di un’esistenza ricca e prolifica, ma avverte: «Non è un testo sulla vecchiaia è la protagonista a essere vecchia». Artista di grande generosità, quest’anno compirà 60 anni di carriera: per festeggiare ha presentato, sempre al Teatro Valle in apertura della monografia di scena a lei dedicata, un’autobiografia edita da Einaudi Bugiarda. No reticente che già nel titolo contiene perfettamente la personalità dell’autrice. A seguire dal 25 al 28 gennaio torna l’irresistibile Vedova Socrate. Liberamente ispirato a La morte di Socrate di Friedrich Dürrenmatt è firmato dalla stessa Valeri che traccia una Santippe niente affatto impressionata dalla fama del consorte che fa rivivere mettendo in luce gli aspetti - suoi e del suo gruppo di amici: Platone, Aristofane, Alcibiade - di una convivenza slabbrata e per nulla eccitante. Un punto di vista desueto e pragmaticamente femminile di efferata comicità, non a caso vincitore del Premio Eti Olimpici

F

Televisione

Teatro

MobyDICK

spettacoli DVD

Franca Valeri a tutto tondo

LOUIS KHAN, ARCHISTAR E PADRE DISTANTE n figlio negletto travolto da un padre ingombrante. Geniale, ammirato, famoso ma capace di opporre una gelida distanza a chi avrebbe dovuto sentire più vicino di ogni altri. È questa la forza narrativa di My architect, documentario che indaga l’esistenza di Louis Kahn, uno dei maestri dell’architettura contemporanea. Protagonista della commovente detection paterna è Nathaniel, figlio illegittimo dell’archistar, che insegue una conciliazione impossibile con i frammenti del proprio passato. Lontana dai clangori celebrativi, un’opera scossa da refoli di forte autenticità.

U

CONCERTI

PER I TIROMANCINO RITORNO ALL’ESSENZIALE © foto Federico Riva 2003 per il miglior monologo. Il 29, serata in onore dell’altra grande passione della Valeri: Avrei voluto essere una mezzosoprano, un appuntamento musicale dedicato all’opera lirica in cui Jacopo Pellegrini dialogherà con la Valeri tra un’aria e un duetto eseguiti dal vivo dai vincitori del Concorso Battistini nato dall’energia della stessa Valeri e dal suo compagno, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi. Il 30 a conclusione della monografia, una serata-incontro per indagare il rapporto di Madame con la macchina da presa. L’appuntamento è alle ore 20 con Io e il cinema, una ben strana coppia per ripercorrere insieme a lei le fasi salienti dell’esperienza cinematografica e per assistere alle ore 20,45 alla proiezione della pellicola

Parigi, o cara diretta nel 1962 dal suo compagno storico Vittorio Caprioli. Inoltre, a riprova del fatto che la Signora non solo va di moda, ma è ormai considerata un classico, fino a domani, sempre a Roma, L’importanza di far la Franca, il suo testo contenitore viene proposto al teatro Orologio per la regia di Norma Martelli. Sarà Paila Pavese a dar vita ai suoi ritratti di signore della porta accanto mai banali. Una possibilità in più per trascorrere una serata in compagnia della Sora Cecioni, la madre possessiva, la benefattrice disumana, la cassiera chiacchierona…

Franca Valeri, Monografie di scena, Teatro Valle fino al 30 gennaio, info: www.teatrovalle.it - tel.06 68803794

tre mesi dall’uscita di L’essenziale, i nuovi Tiromancino capitanati da Federico Zampaglione proseguono il product replacement del proprio marchio all’insegna dell’intimismo. Accantonati per ora i precedenti assalti alla frontiera di massa, la band romana riparte perciò dal teatro con un tour teatrale in partenza il 3 febbraio da Catania. In scaletta, oltre ai brani dell’undicesimo album, alcuni atout come Per me è importante e La descrizione di un attimo. A corredo della svolta elitaria, lo spettacolo si gioverà inoltre delle videoinstallazioni di Dario Albertini, artista che ha firmato la regia degli ultimi video del combo.

A

di Francesco Lo Dico

Nero, colto, acutissimo... Benvenuto detective Luther bravi gli inglesi della Bbc. La nuova serie poliziesca Luther (Fox Crime, giovedì, prima serata), bene interpretata dall’attore Idris Ebla, convince appieno. Nulla da invidiare agli americani, anzi. Siamo nell’odierna Londra, ricca di novità architettoniche e urbanistiche. L’ispettore capo John Luther è appena reintegrato dopo una sospensione dal servizio attivo in quanto sospettato di non aver impedito - il che è vero - la caduta nel vuoto di un pluriomicida di ragazzine. Luther, alto, massiccio, di colore, lontano dalla flemma britannica (che oggi appare, anche in tv, un po’ caricaturale), acutissimo detective, esperto in analisi comportamentale (chi non lo è, ora, nei serial polizieschi?), si trova catapultato in un nuovo caso: il duplice omicidio dei coniugi Morgan (anche il cane è stato raggiunto dai proiettili) in una tranquilla villetta nella campagna

E

very british. A chiamare la polizia è la figlia, una sconvolta Alice che successivamente, nella stanza degli interrogatori, si mostrerà per quel che è realmente: genio dell’astrofisica, imbevuta d’odio verso i genitori, anafettiva, sadica, contorta. Una dark lady con un quoziente intellettivo superiore. Insomma, un bel mostro

seducente che, messo abilmente alle strette, sfida l’ispettore, addirittura tuffandosi in un gioco che sfiora l’erotismo. Luther sa che è lei la pluriassassina, ma

fa fatica a provarlo secondo i criteri legali. Allora ricorre al gioco del gatto e del topo, in modo finemente psicologico, puntando tutto sul suo protagonismo, sul suo smisurato desiderio di apparire e di sfidare il mondo intero. L’ex bambina prodigio (a Oxford solo a 13 anni, laureatasi a 18 a pieni voti, ovviamente), affascinata dai buchi neri, dal concetto del male e del «nulla che risucchia», cita la teoria del «Rasoio di Occam», che Luther conosce bene (è tempo di poliziotti colti, evidentemente): mai cercare una soluzione più difficile quando ti si presenta quella più facile. Il dialogo tra detective e killer è serrato e dotto, tutto sul filo di una logica veloce e precisa. Un duello mentale e comportamentale. L’ispettore ha una vita privata, ovviamente. Le scelte potevano essere tre, per semplificare. O un uomo solo con vita disordinata (fa eccezione Derrick, si sa), o un Maigret con moglie pazientissima e materna, o un uomo con

difficoltà coniugali. L’autore della serie, Neil Cross, ha scelto la terza. La moglie di Luther, Zoe, è un’affascinante donna bianca con sguardo intenso, quasi ispanico. C’è un terzo uomo, che si è infilato nella crisi del poliziotto divorato per sette mesi dai sensi di colpa e pure nel letto coniugale. Luther reagisce in modo latino (o africano): a sapere dell’esistenza del rivale sfascia una porta, va al pub a bere, s’interroga sul fallimento matrimoniale, non si dà per vinto a rischio di essere arrestato per molestie. Per questo ci è più simpatico. Il suo superiore è una donna. La quale, pur criticando la sua irruenza, sta dalla sua parte. E lo difende dinanzi a un alto dirigente perché di lui conosce la formidabile intuizione, la capacità di mettere assieme, e velocissimamente, i vari tasselli di un puzzle. Per lei è «un investimento», una ricchezza mentale inserita nel dipartimento di polizia. Qualche ingenuità non manca nel serial. Ma Luther afferra l’attenzione di chi lo segue. Intelligenza e azione. (p.m.f.) Buon cocktail.


Cinema

MobyDICK

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letto con la seconda signora Panofsky (l’unico nome che ha nel libro). A Minnie Driver riesce bene una classica, pushy «principessa ebrea-canadese», laureata in consumismo, con un master in shopping compulsivo. Il sempre anomalo e impulsivo Barney, però, corteggia un’altra donna durante la sua stessa festa di matrimonio, quando capisce di aver sbagliato coniuge per la seconda volta. La visione di Miriam, uno splendore di donna serena, raffinata, bella da togliere il fiato e senza nevrosi, gli fa capire di aver commesso un errore gigantesco, tanto da inseguire il nuovo amore fin sul treno che la riporterà da Montreal a Manhattan. Rosamund Pike nel ruolo della luminosa Miriam è un altro esempio di casting felice. Abbiamo ammirato il suo talento e lo sguardo enigmatico in An Education, We Want Sex, Orgoglio e pregiudizio,The Libertine. Il confronto tra l’eleganza di Miriam e la ricca, demotica seconda signora Panofsky ci fa subito tifare per il neo-sposo squinternato e parecchio irregolare.

di Anselma Dell’Olio

talmente amato La versione di Barney (Adelphi, 2000), che non si sarebbe scommesso un centesimo sulla riuscita del film tratto dall’ultimo libro dell’impareggiabile, compianto Mordecai Richler. Barney Panofsky è un produttore di programmi spazzatura per la televisione, sardonico, sarcastico, ironico e autoironico, al punto di aver chiamato la sua casa di produzione la Totally Unnecessary Productions. Accusato di ogni nefandezza, tra cui l’assassinio (mai provato) del suo migliore amico Boogie, Barney scrive la sua caustica versione dei fatti, sia dell’amicizia tradita dal morto, sia dei suoi tre matrimoni falliti. Ma c’è molto, moltissimo altro, passando per il papà poliziotto, demotico mandrillo, il tradimento e il suicidio della prima moglie femminista e fedifraga, la comunità ebraica di Montreal, la devozione ai sigari e al single malt whiskey McCallan, e le più usurate convenzioni sociali e politiche. Il racconto è un vasto excursus sulla vita disordinata, dissipata di Barney, zeppa di passi falsi, spassosi incidenti di percorso, e di un maschilismo autodistruttivo, che maschera una tenera adorazione per la donna della sua vita, l’ultima moglie Miriam, persa per il suo sempiterno egocentrismo.

È

Sono quasi 500 pagine affascinanti, esilaranti, sia nell’inglese originale, sia nella pregevole traduzione e adattamento italiano di Matteo Codignola. Se ci fosse un Oscar per la traduzione, andrebbe a lui, e possiamo sperare bene per il doppiaggio italiano. Un esempio del suo geniale lavoro: un vocabolo che nel romanzo è il canarino nella miniera per la lenta discesa nell’Alzheimer del protagonista. Non riesce a ricordarsi il nome di un suppellettile di cucina, colander, che significa scolapasta. Effettivamente è una parola molto difficile da rammentare in inglese: «Passami il come-si-chiama, il coso per la pasta» è tipico refrain. Colander si pesca con difficoltà anche con una memoria sana. In italiano non si poteva usare lo stesso termine; scolapasta non è arduo da evocare, aderente com’è all’uso. Allora Codignola e i colleghi dell’Adelphi l’hanno sostituito egregiamente con mestolo, che al momento di servire zuppa o minestra, raramente si riesce a ricordare rapidamente. Le infinite battute scorrettissime, di cui il libro è pieno, sono comiche nelle due versioni allo stesso modo. Nel 2000 si leggeva il romanzo in originale mentre gli amici lo leggevano in italiano, e ci telefonavamo per condividere le risate alle medesime frasi. Sembrava impossibile trarne un film all’altezza del capolavoro tragicomico di Richler, un romanzo di culto, un successo internazionale che ha venduto 300 mila copie solo in Italia con dodici edizioni. Il film ha dei difetti, ma il miracolo è che la versione cinematografica, pur imperfetta, resta godibile, emozionante e spesso esilarante; malgrado sia, per necessità di contenere i tempi entro le due ore, drasticamente ridotta. Il succo della trama c’è. Manca l’inconfondibile, disincantata voce di Barney, che racconta la sua vita in diretta, un punto forte del libro. Si sarebbe dovuto abusare della voce fuori campo per il film, perdendo l’accattivante effetto che ha sulla pagi-

Il cadavere di Boogie (Scott Speedman, un perfetto, bellissimo mascalzone, aspetta ancora la parte che lo spedirà nell’olimpo delle star) che va a fare una nuotata nel lago sotto casa dopo la scena madre, e non s’era mai più visto, non viene ritrovato e il processo non si può fare. Il poliziotto addetto al caso è convinto della colpevolezza di Barney, nonostante la mancanza di prove, e scrive un libro per esporre dubbi e convinzioni sopravvissuti nei decenni a seguire. Ecco perché il protagonista decide di scrivere la sua versione dei fatti. La storia va avanti e indietro nel tempo, e il truccatore ha fatto un ottimo lavoro con l’invecchiamento degli attori. Le scene del film ambientate in Italia sono le meno riuscite. Sono state le prime a essere girate, all’Hilton di Roma. È il periodo della giovinezza bohèmienne di Barney e Boogie, appartenenti a un gruppo di artisti o aspiranti tali canadesi che vivono i loro «anni persi» all’estero. Nel libro sono a Parigi, ma Richler e Lantos avevano deciso di spostare gli avvenimenti di quegli anni, i primi Settanta, dalla Rive Gauche a Trastevere. Il ragionamento non era solo basato sulla partecipazione al film della Fandango di Domenico Procacci, ma sulla popolarità del romanzo nel nostro Paese. Erano anni infelici per la moda: i capelloni, i basettoni, le giacche con le frange, i pantaloni a zampa d’elefante, le ampie vesti e i lunghi capelli da Lady Madonna, rivisti ora non sono donanti per nessuno. Si sente che il regista Richard J. Lewis aveva la troupe e il cast in rodaggio. In seguito il film prende quota e diventa fluido e spassoso. È una goduria Dustin Hoffman, nella parte di papà Panofsky, gonnellaro, sbirro in pensione, dedito a barzellette spinte e freddure, da cui Barney ha preso lo sguardo sbilenco e scettico su ogni cosa, ebraismo di professione incluso. Se il film è un poco meno urticante del libro, vale il prezzo del biglietto anche solo per la primissima scena. A tarda notte, Barney fa una telefonata amareggiata e molesta, una scarica d’insulti scorticanti a Blair (Bruce Greenwood), il nuovo sposo, noioso, per bene e più attento e aggraziato verso la sua Miriam. Che Panorsky se la sia cercata non toglie il gusto alla scena sublime, da vedere e rivedere. L’arcigna, astiosa, piatta, meschina, parrocchiale «stroncatura» di Avvenire è una ragione in più per vederlo. Da non perdere.

L’anima di Richler vive sul grande schermo na. Dopo dieci anni di copioni sempre scartati per inadeguatezza dal simpatico produttore Robert Lantos, ci è riuscito lo sceneggiatore Michael Konyves. Un caro amico di Richler, Lantos ha messo cuore e passione nella realizzazione del film: ogni fotogramma è un labour of love, come ha scritto il New York Daily News. Paul Giamatti (Sideways) è formidabile come Barney, fumatore di sigari Montecristo, bevitore olimpionico, accusato anni prima della morte di Boogie, il suo migliore amico, uno scrittore di talento spregiudicato e disinvolto. All’epoca il produttore era sposato con la seconda moglie. Boogie era scomparso dalla villa di campagna della coppia, dopo una scenata scabrosa. Arrivato senza avvisare nella casa dei weekend, Barney trova l’amico a

Non si sarebbe scomesso un centesimo sulla riuscita cinematografica della “Versione di Barney”, impareggiabile libro di Mordecai Richler. Eppure la regia, il cast e la sceneggiatura, sotto l’attenta supervisione del produttore Robert Lantos, sono riusciti nell’impresa. Seppur con qualche difetto


Fantascienza

pagina 22 • 15 gennaio 2011

MobyDICK

ai confini della realtà

l neologismo retrofuturo è abbastanza recente: se non vado errato fu usato la prima volta in questa forma per una antologia dei racconti di fantascienza scritti da Vittorio Curtoni negli anni Settanta e pubblicata da Shake di Bologna nel 1999. Il termine in forma un po’diversa ha origini americane: come retrofuturism venne ideato da Lloyd Dunn nel 1983 e diede anche il titolo a una rivista (1988-1993). Che si intende con esso? Il futuro visto dal passato, considerandolo tale sino agli anni Cinquanta, cioè un futuro che poi non si è avverato in base alla nostra esperienza concreta. Pensiamo ad esempio alle ricostruzioni, anche virtuali, delle città immaginate dagli architetti futuristi come Antonio Sant’Elia che non si sono mai realizzate. Però la definizione è un po’ troppo generica e generalizzante.

I

Si potrebbe allora intendere come retrofuturo una vicenda fantascientifica e futuribile immaginata oggi ma ambientata nel passato, in specie in un passato ottocentesco o almeno sino alla metà del Novecento, in cui ci si può sbizzarrire a immaginare eventi e marchingegni pseudoscientifici o effettivamente fantascientifici ma non realizzati in seguito, o anche vie della tecnologia realmente esplorate ma poi abbandonate in favore di altre. Per questo motivo pensiamo si possano definire come retrofuturo due recenti romanzi italiani, molto curiosi e stuzzicanti anche se deludenti, nel senso che non ci sono sembrati all’altezza delle aspettative che suscitavano. Però anche dei romanzi imperfetti possono essere utili per discutere sulle potenzialità della fantascienza italiana: mi riferisco a Raimondo Mirabile, futurista di Graziano Versace (Edizioni XII, Torre de’ Busi, Lecco, 2010) e Il volo di Majorana di Andrea Angiolino (Boopen, Napoli, 2010), entrambi, come si vede, pubblicati da piccoli editori ai quali va riconosciuto il coraggio e il merito di aver dato visibilità a opere che, pur carenti, hanno comun-

Retrofuturo italiano di Gianfranco de Turris l’interno di un laboratorio nascosto sotto il cimitero monumentale di Milano che ricorda quello pieno di alambicchi e macchine a vapore degli scienziati ottocenteschi. Una bella idea e una buona capacità descrittiva e inventiva sprecate da un insieme di fattori stilistici e di contenuto: a mio parere il difetto maggiore è la prolissità a tratti esasperante della vicenda e l’uso smodato del dialogo spesso ripetitivo e ridondante (caratteristiche tutt’altro che futuriste) che rallentano non solo l’azione ma anche la comprensione, perché troppe parole spesso non aiutano. Inoltre, mentre lo si legge si prova in alcuni momenti un senso d’irritazione a causa di alcuni termini fuori po-

razzista, classista e guerrafondaio: Raimondo e soci hanno la meglio sui crudeli Eletti nonostante il futurismo, si potrebbe dire! Anche dal titolo si può intuire il succo della vicenda raccontate nel Volo di Majorana.Andrea Angiolino, uno degli esperti italiani di giochi più noto, prende lo spunto dalla scomparsa, ancora oggi mai spiegata, del giovane fisico Ettore Majorana durante il viaggio sul traghetto Palermo-Napoli il 25 marzo 1938. L’autore prende per buone le tesi di Sciascia secondo cui lo scienziato volle scomparire perché aveva capito le potenzialità delle sue scoperte teoriche che avrebbero condotto alla costruzione della bomba atomica, anche se altri studio-

Il termine si applica a una vicenda fantascientifica immaginata oggi ma ambientata nel passato, in cui ci si sbizzarrisce nella descrizione di eventi magari esplorati ma non realizzati. Come nel caso di due recenti romanzi basati su elementi storici reali ai quali viene data una direzione inusitata... que una loro originalità. Che è quella di aver immaginato trame esplicitamente fantascientifiche nel nostro passato di inizio Novecento basandosi su elementi storici reali ai quali viene data però una direzione inusitata. Il romanzo di Versace si svolge nel 1911 e ha per protagonista non tanto il Raimondo Mirabile del titolo quanto il suo maggiordomo Gregorio, voce narrante: i due, insieme al padre ritrovato di Raimondo e altri amici, dovranno sventare l’invasione occulta dei malefici abitanti di un altro pianeta che puntano al controllo mentale dei terrestri grazie all’uso della volontà e a un linguaggio le cui intenzioni vanno oltre il senso comune delle parole, trasmettendo una specie di messaggio subliminale per asservire la personalità umana. Ovviamente i nostri la spunteranno e sventeranno la minaccia in una scena finale al-

sto, nel senso che se si vuole ambientare coerentemente una vicenda all’inizio del Novecento non si può far uso di parole all’epoca inesistenti, di là da venire. Inoltre, la figura di Gregorio è troppo spesso macchiettistica e lo fa assomigliare alla caricatura del più famoso Jeeves di Woodehouse in salsa italiana. Infine, la questione del futurismo mi è sembrata più uno specchietto per le allodole che una questione di sostanza: in realtà il futurismo e i futuristi sembrano essere i «cavalli di Troia» degli alieni per sottomettere i terrestri tramite le «serate futuriste». Gli Eletti cercano d’impadronirsi del mondo proprio grazie al medium di quella Volontà la cui apologia all’inizio del Novecento era assai diffusa (Nietzsche, D’Annunzio, Papini, Marinetti ecc.). In realtà, l’autore non vede di buon occhio il futurismo accusato di essere

si come Recami smentiscono questa ipotesi. Sia come sia, Angiolino immagina che Majorana, «disgustato dal suo tempo», costruisca una cronomacchina, la monti su un biplano Caproni 100 e con questo, attraverso le ere giunga sino nella Svizzera del 2029: qui adotti una falsa identità, quella di Luciano Capizzi, andandosene in giro per l’Europa con i soldi ricavati dalla vendita a caro prezzo di alcuni oggetti degli anni Trenta che casualmente aveva con sé. Idea un po’semplicistica e soprattutto un Majorana eccessivamente spigliato e «uomo di mondo», mentre invece era esattamente il contrario. Scoperto dalla polizia svizzera viene costretto a mettere a sua disposizione, e a disposizione dell’Unione Europea che, su proposta italiana, ha inglobato la nazione elvetica recependone la neutralità, la sua macchina del tempo.

Viene creato così un nucleo di piloti, i Viaggiatori, che esplorano solo il passato e non il futuro, perché si scopre che eventuali loro interventi nel passato non modificano il presente e il futuro. Però non si dice affatto il motivo di questi viaggi a caso nelle ere precedenti: per controllare o studiare la storia? Per turismo? Per semplice curiosità? Per divertimento?

Anche qui Angiolino la fa troppo semplice al limite del semplicismo, così come quando all’improvviso si decide che visitare il futuro non è pericoloso e si comincia a esplorarlo, ma anche qui senza darne una motivazione né scientifica né teorica. E anche qui con una notevole dose di ingenuità come quando si parla di «fantaccini» nel 2080, mentre i sovversivi intonano una canzone che mescola Blade Runner e Bella ciao… Nel 2080!? In Gran Bretagna!? Così, il tutto ha il sapore di puro divertimento goliardico senza volontà di approfondimento, anche se nel finale la trama si risolleva un po’ immaginando che per un intreccio temporale Majorana non inventi più la sua macchina e se ne vada in Brasile in cerca di avventure anche galanti (il che, come detto, stride con il vero carattere dello scienziato). Come per Versace, un’ottima idea sprecata questa volta per eccessiva superficialità: Ettore Majorana è una figura sommamente intrigante (e infatti è entrata in varie opere fantascientifiche e ucroniche), ma meritava di essere trattato con maggiore approfondimento sia psicologico che scientifico: la sua macchina del tempo non si sa a cosa serva esattamente e forse Angiolino si è fatto prendere la mano dalla sua passione per i giochi, e da buon ludologo l’ha usata quasi come un giocattolo temporale.


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