Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“A Single Man” di Tom Ford
AI CONFINI DELLA PERFEZIONE di Anselma Dell’Olio ella sua gloriosa carriera di stilista,Tom Ford ha prodotto molti abiti e are il protagonista Colin Firth ha portato a casa la Coppa Volpi come miglior attore e ticoli di alta moda con la sua griffe personale. Persino quando diseil regista-produttore il «Queer Lion» come miglior film sull’omosessualità. Il Perfetti gnava sotto contratto per il marchio - pardon - la Maison Gucci budget del film è firmato Tom Ford anche lui: sette milioni di dollari (un’igli attori (Colin nezia per Hollywood ma parecchia grana per i comuni mortali) so(periodo Dominatrix) il suo nome campeggiava «sul titoFirth e Julianne Moore), no usciti per intero dalle sublimi tasche sue. Se uno dei compilo», come per le star di Hollywood e Broadway. Bell’esemplare di metrosexual gay (il termine originale si riferisce a ti più importanti di un regista è la scelta degli attori, Ford perfetta la scenografia, perfetto è stato bravo e fortunato almeno due volte (la dea maschi metropolitani eterosessuali dall’aspetto molil libro da cui è tratta la storia bendata è insostituibile per il successo nello to curato e dai gusti molto ricercati, per non di(di Isherwood), perfetta la qualità dell’impegno. spettacolo come in guerra): primo per la scelta di re - scusate la scorrettezza, lo disinfettiamo con le Firth (George Falconer, professore di letteratura) e di virgolette - assai «femminei») Ford, non ancora cinL’exploit del virtuoso di moda Julianne Moore (Charly, la sua migliore amica); secondo quantenne, ha sfornato una gamma di prodotti da lui disea scuola di cinema perché gli attori hanno accettato subito, e terzo perché da regista gnati e che ora firma da sé solo, non appartenendo più ad altra è diventato debuttante si è fidato di loro, non avendo mai diretto degli attori. maison se non alla propria: occhiali Tom Ford, abiti maschili Tom Ford, calzature Tom Ford, profumi Tom Ford, e ora un film Tom Ford. Si chiama A un “must” continua a pagina 2 Single Man, era nel concorso principale all’ultima Mostra del cinema di Venezia,
N
9 771827 881301
00116
ISSN 1827-8817
Parola chiave Mondo di Sergio Belardinelli Il viaggio a Clipperton di Marco Ferrari di Maria Pia Ammirati
NELLE PAGINE DI POESIA
Vincenzo Cardarelli e “il solicello della lunga morte” di Filippo La Porta
Handel, l’Orfeo di tutti i secoli di Jacopo Pellegrini Ungaretti rivisitato: “un soldato della speranza” di Leone Piccioni
La Natività di Lotto ospite a Milano di Marco Vallora
ai confini della
pagina 2 • 16 gennaio 2010
segue dalla prima Firth e Moore sono la vera ragione artistica per non perdere A Single Man. Firth è in scena, in pratica, dal primo all’ultimo fotogramma, ma l’interprete va oltre il già alto livello della sua resa abituale. Il regista non ha saputo o voluto frenare lo stilista che è in lui, e non c’è un millimetro di una sola immagine in novantacinque minuti (la durata perfetta per un film) che non sia studiato nei minimi dettagli per forma, colore, armonia, equilibrio, riflessi, epoca (primi anni Sessanta) ed effetto totale. Nella moda esiste la categoria della fashion victim, un sinonimo di overdressed. Succede quando si esagera con la ricercatezza, con l’insistenza che ogni piccolo dettaglio - pochette, calzino, sfumatura di rossetto, grado e profondità dell’abbronzatura, taglio di capelli e tutto il resto - sia spasmodicamente misurato, calcolato, intonato, fino al punto che l’effetto totale soffoca, annichilisce, ridicolizza la persona che li sfoggia.
A Single Man, se non è fashion victim o overdressed, poco ci manca, ed è indubbiamente overdesigned; nel senso che l’occhio è sempre distratto dal racconto perché continuamente sollecitato ad ammirare la perfezione, l’eleganza, lo splendore appropriato d’ogni scelta scenografica. Se non fosse già così premiabile, Firth meriterebbe un Oscar speciale per come è riuscito a difendersi dal sovraccarico stilistico che rischia di sabotarlo dall’inizio alla fine. E non vengano a dire che il film riflette la personalità rigorosamente «costruita» del protagonista. È chiaro che è così, perché in oversound George dice esplicitamente che lui, omosessuale coperto, si nasconde dentro un manichino perfezionista, artefatto e tirato a lucido, dalla cura del corpo ai vestiti, alla casa «California design» tutta vetrate, legno e piante dalle linee pulite, moderne, e sgombra, ordinata e asettica come uno showroom. Ma non spiega perché studenti e professori sono art directed in ogni dettaglio e vestiti, pettinati e truccati come manichini d’epoca figli di papà. I prof sono tradizionalmente trasandati e incuranti dell’apparenza (vecchi golf, toppe ai gomiti delle giacche, tweed sfondati), per non parlare degli studenti universitari. È vero che esisteva una maggiore formalismo negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta (le donne andavano al lavoro con guanti e cappellini e i «venerdì casual» sarebbero arrivati vari decenni anni dopo), ma non fino a questo punto. E gli studenti, specie se californiani, non erano certo ricercati e spendaccioni nell’abbigliarsi. Anzi. A Single Man è tratto dal breve romanzo (in inglese novella) di Christopher Isherwood (1904-1986), scrittore inglese trapiantato in California alla fine degli anni Trenta. È un caposaldo della bibliografia omosessuale: un must per dirlo in fashionese. Lo scrittore Edmund White scrive: «È tra i primi e i migliori romanzi del moderno movimento di liberazione gay». È un solo giorno nella vita di un professore di letteratura che per un lutto profondo vuol farla finita, in una piccola università nella California del sud all’inizio degli anni Sessanta, con flashback agli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Il libro è dedicato a Gore Vidal, ed è il preferito di Isherwood tra i nove romanzi che ha scritto. Nella nostra epoca Isherwood è più noto per la serie di racconti da cui è stata tratta la commedia musicale e poi il film Cabaret. Ben nato, lo scrittore inglese diventa amante e poi migliore amico per tutta la vita del poeta Wystan Hugh Auden. Nel 1931 conosce il grande romanziere E.M. Forster (Casa Howard, Passaggio in India) che diventa amico e poi mentore dello scrittore più giovane. Insieme con Auden emigra in California alla fine degli anni Trenta (solo Isherwood ci resta fino alla morte) dove fanno parte di un eccezionale circolo intellettuale e artistico, ingrossato dai profughi della guerra in Europa, che include Aldous Huxley, Igor Stravinsky, Thomas Mann, mescolati a star hollywoodiane dell’epoca come Charlie Chaplin e Paulette Goddard.
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni
perfezione
Il film, con qualche alterazione rispetto al romanzo, inizia con un sogno: Jim (Matthew Goode) è sdraiato sulla neve vicino alla sua auto rovesciata, il viso coperto di sangue, gli occhi sbarrati. George entra nell’inquadratura del panorama gelido, s’avvicina a Jim e si sdraia accanto a lui. Nel momento di imprimergli un bacio, George si sveglia di colpo. Sono passati otto mesi da quando gli è arrivata la telefonata di un parente misericordioso che gli annunciava che Jim, il suo compagno da sedici anni, aveva perso il controllo dell’auto sulla strada ghiacciata ed era morto sul colpo. George lo ringrazia e chiede notizia dei loro due fox terrier che Jim si era portato con sé a Denver, dove andava a trovare i sui genitori. Le disgrazie, pare, non vengono mai sole, e l’uomo gli dice che un cane maschio è morto nell’incidente; della femmina non vi è nessuna traccia. Il vedovo di fatto, contenuto e stoico come s’addice a un gay inglese dell’epoca, incassa i colpi e dopo un breve silenzio dice che deve attaccare per organizzare il viaggio a Denver per i funerali; l’interlocutore gli comunica che la cerimonia è riservata «ai famigliari». Buona parte del film è dedicata alla decisione di George di usare contro se stesso una pistola che si porta nella cartella in quello che ha deciso sarà il suo ultimo giorno di vita. Contrariamente alla regola drammaturgica, non parte mai uno sparo.
Nel romanzo non c’è il particolare del compagno gay tenuto fuori dalla sepoltura del suo partner di lungo corso. Ford ha aggiunto questo dettaglio per aumentare il pathos per le sofferenze e le discriminazioni di un’epoca lontana. Il regista dice di aver amato il libro, ma è cresciuto in tempi in cui non solo non è disdicevole l’omosessualità, ma è di gran moda. Eppure il suo è un film militante a favore del matrimonio gay. Le battute che circolavano prima di Venezia sbertucciavano le ambizioni di uno stilista che cercava una consacrazione artistica considerata velleitaria. Oppure si motteggiava: «Tutti i parrucchieri d’Italia hanno le palpitazioni in attesa di vedere il film di Tom Ford». Che sia la verità non rende la boutade meno arcigna. L’automatismo snob nei confronti di chi ha «troppe ambizioni» è una ragione in più per vedere il film. Ma all’anteprima per la stampa al Lido, A Single Man è stato seguito col fiato sospeso. Nemmeno un fischio o una risatina, come si poteva immaginare, per le molte scene che sembrano servizi di moda patinati, come quelle in bianco e nero di George e Jim su una drammatica spiaggia di rocce nel perfetto stile di uno spot Armani. Un altro exploit da virtuoso della moda a scuola di cinema è la scelta di virare il colore delle luci secondo l’umore del protagonista. Il passato, dunque, è sempre luminoso, con colori caldi e accoglienti. Il presente è freddo, i colori smorzati, desaturati, per enfatizzare il doloroso vuoto esistenziale di un uomo improvvisamente solo, che può piangere e sfogarsi unicamente con la sua amica ed ex amante pluridivorziata e più disperata ancora di lui. Si consiglia di vedere A Single Man, prima di tutto per Colin Firth, e in seconda battuta per Julianne Moore; nel film è la quintessenza della fag hag, orribile espressione ormai talmente scorretta, per fortuna, da essere vieta. Significa «befana da froci» e indica quelle donne sole e dannate in amore, che spesso s’accompagnano agli omosessuali. Alla fine dell’anteprima stampa, c’erano pochi cigli asciutti nella sala piena di critici e giornalisti, che si sono liberati in un caloroso, commosso applauso.Vince Firth e il «film impegnato» assai corretto. Le previsioni sono per un ottimo successo anche in Italia. È un film da vedere, discutere, odiare o amare. Consigliamo il film oltre che per la bravura, per l’enorme simpatia di Firth. È sposato con un’italiana molto simpatica, padre di tre figli italiani, e parla la nostra lingua con sorprendente proprietà di linguaggio e accento (nemmeno l’ombra di una calata alla Stanley e Ollio). Il successo di Ford è nell’aver fatto - e chi l’avrebbe mai detto? - un film da non perdere: un must.
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
A SINGLE MAN GENERE DRAMMATICO
USA 2009 REGIA TOM FORD
DURATA 95 MINUTI DISTRIBUZIONE ARCHIBALD ENTERPRISE FILM PRODUZIONE
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938
INTERPRETI COLIN FIRTH, JULIANNE MOORE, NICHOLAS HOULT, MATTHEW GOODE, JON KORTAJARENA
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it Anno III - n° 2
MobyDICK
parola chiave
a un grande filosofo come Martin Heidegger abbiamo imparato a dire che l’uomo è un «essere nel mondo». Ma che significa «essere nel mondo»? Intanto una cosa abbastanza semplice: l’uomo, a differenza degli altri animali, delle piante o delle stelle non è semplicemente una natura, ma ha una natura, una natura che realizza sempre in modo eccentrico, mettendoci, per così dire, del suo; è l’uomo stesso che, almeno in parte, sceglie chi e come essere nel mondo, un mondo che, a differenza di quello naturale, è una sua costruzione. Essere nel mondo è dunque abitare una casa che, a rigore, nessuno ha scelto, ma che ci siamo costruiti con le nostre mani e che dobbiamo sempre continuare a costruire. Senza questo mondo nel quale gli uomini nascono, vivono e muoiono non sarebbe propriamente possibile nemmeno la percezione di ciò che appare come naturale. Senza il mondo che gli uomini hanno costruito tra sé e la natura, senza la stabilità e la permanenza che esso garantisce, non sarebbero possibili la politica, né la storia; avremmo soltanto il gigantesco immutabile ripetersi dei cicli naturali, dove in senso proprio non appare nulla a nessuno e dove ci sarebbe soltanto qualcosa di simile alla mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Come ha scritto Hannah Arendt, «La natura e il movimento ciclico in cui essa costringe tutte le cose non conoscono nascita né morte nel senso in cui le intendiamo noi. La nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali, ma sono riferiti a un mondo in cui singoli individui - uniche, imperturbabili e irripetibili unità appaiono o da cui si allontanano. La morte e la nascita presuppongono un mondo che non è in costante movimento, ma la cui durevolezza e relativa permanenza rendono possibili l’apparizione e la scomparsa, un mondo esistente prima che un qualsiasi individuo vi facesse la sua apparizione e che sopravviverà alla sua eventuale dipartita. Senza un mondo in cui gli uomini nascono e muoiono non ci sarebbe che eterno ritorno senza mutamenti, la durata sempiterna della specie umana come di tutte le altre specie animali».
D
In altre parole, di contro alla nostra soggettività, al nostro essere qualcuno, sta, non tanto la natura, bensì l’oggettività del mondo che noi stessi abbiamo costruito sulla natura. È questo mondo che ci consente di guardare anche alla natura come a qualcosa di «oggettivo». Per farla breve, non esistono piante, animali, montagne, mari e fiumi, diciamo pure, la natura, alla quale, grazie al potere dell’homo faber, si aggiunge successivamente un mondo umano-artificiale: le case, le chiese, le piazze, i monumenti. Avviene piuttosto il contrario. È grazie al mondo fatto dall’uomo che noi abbiamo accesso alla natura; è l’aprirsi di un mondo umano che conferisce a ogni cosa i suoi contorni. A questo proposito c’è un brano molto bello, tratto dagli Holzwege di Heidegger, che mi pare sintetizzi alla grande quanto ho appena detto: «Il tempio, in quanto ope-
16 gennaio 2010 • pagina 3
MONDO È opera delle nostre mani e della nostra intelligenza. Più durevole delle generazioni che l’hanno costruito, rende possibile la storia umana grazie alle memorie che conserva. La sua permanenza dà sostanza anche alla politica e alla nostra percezione della natura
Nella casa dell’homo faber di Sergio Belardinelli
La nostra libertà, per quanto continuamente evocata, sembra diventare sempre più estranea alla logica del mondo, il quale procede ormai secondo cadenze che fanno pensare al regno della natura. Occorre allora mettersi all’opera per costruirne un altro più stabile, nel quale ritrovarci un po’ più liberi ra, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino… Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l’opera tien testa alla bufera che la investe, rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità
dell’opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono». È dunque grazie al tempio, all’opera delle nostre mani e della nostra intelligenza, che abbiamo accesso alla natura, alla sua forza e alla sua bellezza. Tuttavia il fatto che la natura ci si schiuda sempre in modo mediato dalla nostra cultura, non vuol dire che la natura sia semplicemente cultura. Il mare, le montagne o i deserti costituiscono l’ambiente naturale per diversi mondi culturali, i quali esprimono, sì, la creatività e la libertà degli uomini, ma anche il loro condizio-
namento naturale, l’irriducibilità della natura. In altre parole, possiamo guardare al sole, lasciandoci affascinare ora dalla sua luce, ora dal suo calore, ora dalla sua lontananza, ora dalla sua composizione chimica; possiamo disinteressarci del fatto che la vita del nostro mondo dipenda tutta da lui e farne semplicemente una fonte di ispirazione poetica; ma non possiamo fermarlo, facendolo magari girare dall’altra parte; non possiamo far sì che il sole non sia il sole. E questo vale per tutto ciò che esiste intorno a noi. Vale per la natura e vale per il mondo culturale. L’una e l’altro costituiscono la condizione ineludibile e, in parte, indisponibile, all’interno della quale si sviluppa la storia umana.
I templi, al pari di tutto ciò che è stato costruito dall’uomo nel corso dei secoli: le tombe, le chiese, i palazzi, i monumenti, i ponti, i libri, i dipinti, gli utensili, le macchine o le case, anche quelle più modeste, tutto richiama le generazioni che ci hanno preceduto, le loro passioni, le loro ansie, i loro desideri. La storia umana è possibile poiché il mondo dura assai di più delle generazioni che volta a volta l’hanno costruito, le quali, proprio per questo, possono lasciare memoria del loro passaggio. Nasciamo in un mondo che altri hanno costruito prima di noi e che, più o meno modificato, lasceremo a coloro che verranno dopo. Il mondo in cui nasciamo dipende dagli uomini, ma nessun uomo potrà mai scegliere il mondo in cui nascere. Le odierne tecnologie, come sappiamo, rendono possibile che si scelga come, dove e con quali caratteristiche far nascere i nostri figli. Siamo diventati potentissimi anche riguardo alla capacità di dominio e trasformazione della «natura umana»; la nostra «cultura» si sta appropriando di ciò che fino a ieri le era precluso; i nuovi venuti potranno forse imputare ai loro genitori il fatto di essere nati con certe caratteristiche anziché con altre; la «natura» diventa insomma sempre di più «cultura». Ma questo, lo ripeto, non significherà mai che un uomo potrà scegliere come e quando venire al mondo. Ci piaccia o meno, saranno sempre altri a sceglierlo per noi. Piuttosto la potenza di cui stiamo diventando capaci sembra occultare sempre di più la natura sulla quale il nostro mondo è stato e viene continuamente costruito; natura e mondo non costituiscono più i poli di una tensione irriducibile; la natura anche quella umana viene ridotta a una natura puramente mondana. In questo modo, però, perdiamo paradossalmente, non soltanto la «natura», ma anche il senso del nostro «essere nel mondo». La nostra libertà, per quanto continuamente evocata, sembra diventare sempre più estranea alla logica del mondo. Il quale, diventato letteralmente, come pensava Hegel, la «seconda natura» degli uomini, procede ormai secondo cadenze che fanno pensare, non tanto al regno della libertà, quanto piuttosto al regno della natura. E allora occorre mettersi all’opera per costruirne un altro più stabile, nel quale ritrovarci un po’ più a casa e magari anche un po’ più liberi.
MobyDICK
pagina 4 • 16 gennaio 2010
cd
musica
La Mott Reunion nel nome del glam di Stefano Bianchi
Q
uarant’anni dopo, è inevitabile: le dita si rattrappiscono, le pance si gonfiano, le chiome si stempiano. Ma chissenefrega, se sul palco ci sono i Mott The Hoople, che del Glam Rock tutto vizi e vezzi (leggi T. Rex, Roxy Music, Cockney Rebel, Sparks) furono l’esempio più sanguigno e proletario. Lo scorso ottobre, la band inglese decide di riunirsi per due soli concerti (il 2 e il 3) all’Hammersmith Apollo di Londra (l’ex Hammersmith Odeon, dove il 3 luglio 1973 David Bowie «uccise» l’alter ego Ziggy Stardust) per celebrare il quarantesimo anniversario dalla nascita. Settemila biglietti volatilizzati. Viene aggiunta una data, l’1. E poi il 5 e il 6. Un trionfo. Anzi, cinque. Mott The Hoople nella formazione originale. Non succedeva, dal vivo, da trentacinque anni. Mick Ralph (chitarra), Pete «Overend» Watts (basso) e Verden Allen (tastiere), ultrasessantenni, mettono in fila riff memorabili manco avessero preso il gerovital. Dale «Buffin» Griffin, il batterista, ha qualche acciacco in più. Gli conviene stare abbottonato. Si fa sostituire da Martin Chambers dei Pretenders, ma entra in scena quando ci sono i bis. Ian Hunter, il leader (nella foto), di primavere ne ha sommate settantuno ma ci dà dentro come un pischello: chitarra da mille e una svisata, voce da Bob Dylan rockettaro. Come ai tempi d’oro. La Mott Reunion, per i fan (cinquantenni e passa), s’è rivelata un’autentica goduria. Ma può esserlo anche per chi non c’era, a Londra. Basta che si procuri (nei migliori negozi d’importazione o sul sito www.concertlive.co.uk) Live At HMV Hammersmith Apollo 2009: due cd con tutto il concerto del 1° ottobre, più un cd con una cinquantina di foto dei Mott The Hoople on stage e immagini d’archivio (di quando, cioè, il quintetto calzava improponibili zatte-
in libreria
mondo
roni e indossava folleggianti costumi. Ma il Glam Rock, si sa, imponeva regole bisex. E guai a chi sgarrava). Che rock e blues siano ancora oggi l’essenza del gruppo, lo testimoniano i venti pezzi in scaletta, tratti dai loro ellepì più famosi: All The Young Dudes (’72), Mott (’73) e The Hoople (’74). Il rock, duro e puro, esplode da Rock And Roll Queen, All The Way From Memphis, One Of The Boys e Sweet Jane, rivisitazione del classico dei Velvet Underground. Quella sottile vena cabarettistica, tipica dei glammer, affiora da The Golden Age Of Rock ’n’ Roll, Honaloochie Boogie e Roll Away The Stone. C’è melodia sopraffina (e un pizzico di country) dentro I Wish I Was Your Mother e The Ballad Of Mott The Hoople. C’è, soprattutto, All The Young Dudes: inno generazionale come Rock Around The Clock di Bill Haley e Blue Suede Shoes di Elvis Presley; My Generation degli Who e (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones. Inno, ad anni Settanta inoltrati, adottato dal movimento gay londinese. Dudes = damerini.Tutti i giovani damerini. Chiaro elogio all’estetismo, scritto trentotto anni fa da un David Bowie al culmine della popolarità. Grande estimatore dei Motts, non poteva sopportare che dopo un tris di dischi ai bordi dell’hard rock (Mad Shadows,Wild Life, Brain Capers) e un «concerto d’addio» a Zurigo, potessero sciogliersi. E li ha rilanciati, nel nome del Glam, come ha fatto col Lou Reed di Transformer e l’Iggy Pop di Raw Power. Intonando All The Young Dudes nel cuore di questo memorabile concerto, Ian Hunter ha pensato un po’anche a lui. E le settantuno primavere, in quel preciso istante, se le è fatte scivolare addosso come acqua fresca. Mott The Hoople, Live At HMV Hammersmith Apollo 2009, Concert Live, 22,00 euro
riviste
COSÌ NACQUERO I GUNS N’ ROSES
JIMI SUONA DA UN ALTRO PIANETA
«A
llora non preoccuparti del buio, possiamo ancora trovare un modo, perché niente dura per sempre, neanche questa fredda pioggia di novembre. Quindi se vuoi amarmi, allora cara non ti trattenere. O finirò a camminare nella fredda pioggia di novembre». Cento milioni di dischi venduti, concerti in ogni angolo del pianeta, assunti da decenni nell’empireo del rock: for-
«L
ei cammina sulle nuvole, con una giostra in testa che sta girando. Farfalle e zebre e raggi di luna e favole. Questo è tutto quello a cui ha mai pensato, cavalcando il vento», cantava Jimi Hendrix in Little wing. E a quarant’anni dalla sua scomparsa, la mano di sinistra di Dio tornerà a incendiare i cuori degli appassionati con un album, Valleys of Neptune, che raccoglierà una se-
«V
Amico di Slash, Marc Canter rievoca gli eventi che portarono ad “Appetite for distruction”
Esce il 9 marzo “Valleys of Neptune”, album che raccoglie rarità e inediti di Hendrix
La sinfonia del grande compositore britannico simbolizza, nei suoi moti, il viaggio del pellegrino
se neppure i Guns ’n roses dureranno per sempre, ma di sicuro ci sono andati vicino. Una storia tribolata, quella della metal band americana, che comincia nel 1985. Protagonista Saul Hudson, giovane chitarrista che passerà alla storia come Slash, e un giovane fotografo suo amico, Marc Canter. Lo stesso che a più di venticinque anni dagli eventi che portarono ad Appetite for distruction, album d’esordio di Rose e soci, documenta la genesi del gruppo in Reckless Road. Guns n’Roses - La genesi di Appetite for destruction (Edizioni Bd, 360 pagine, 29,00 euro). Fotografie, articoli, pass, curiosità, pareri celebri: Canter restituisce la magia della memoria.
rie di inediti. In uscita il 9 marzo, il disco comprende anche la registrazione in studio del blues Hear my train a comin, lo strumentale Sunshine of your love dei Cream e poi longseller come Fire e Red house, che Hendrix registrò in vista del concerto del 1969 a Londra. E ancora Mr. Bad Luck, brano originale che Jimi era solito suonare al Greenwich Village nel 1966, e Bleeding heart di Elmore James. Supportato dall’imponente lavoro di rimasterizzazione di Eddie Kramer, fedele tecnico del suono di Hendrix, Valleys of Neptune suona oggi come musica di un altro pianeta.
un’entità superiore, esercitava su di lui, e il fatto che la dimensione spirituale umana abbia comunque contribuito spessissimo, come stimolo creativo, a creare musica di prima grandezza». Stefano Naimoli presenta così su musicalwords.it la quinta sinfonia che il grande compositore britannico dedicò a Sibelius. Presentata al pubblico nel 1943 ed eseguita dalla London Philharmonic, l’opera venne incisa per la prima volta nel 1954. Aperta da un preludio di corni e dotata di una tonalità di impianto ondivaga, sospesa tra re e do maggiore, la quinta spicca per una vibrante romanza, capace di rendere il concetto che ispira tutta l’opera: il viaggio del pellegrino.
a cura di Francesco Lo Dico
VAUGHAM WILLIAMS DIETRO LA QUINTA aughan Williams era stato un ateo dichiarato durante i suoi anni di studio a Cambridge; negli anni a venire si dichiarò agnostico. Di certo, è evidente, non fu mai un cristiano professante. Eppure in vita sua non negò mai due cose: il fascino che la “religione”, intesa come ricerca di se stessi e di un proprio perfezionamento morale e non come ammissione dell’esistenza di
MobyDICK
16 gennaio 2010 • pagina 5
zapping
Il fenomeno LadyGaGa? MEGLIO MILES DAVIS di Bruno Giurato ella la musica, ma dopo un po’ scassa» diceva Alex Drastico, personaggio indimenticato di Antonio Albanese. Ed è questo il motto di una personaggia da lodare nel settore forme alternative di promozione. LadyGaGa ha tutte le carte, gli stickers, i gadgets per posizionarsi sulla punta del fenomeno. Tutti tranne uno, la musica: detto tra noi, quella della Lady assomiglia a Ivana Spagna del periodo di Call me, profondi anni Ottanta. Ma appunto, la musica dopo un po’ scassa. Le trovate commerciali anche, per la verità, ma l’attualità è questa, questo passa il convento, una Lady GaGa che sta sulla punta del fenomeno. Esempio: nel cd in edizione limitata dal titolo The fame monster si trovano un poster, un libro e financo una ciocca di capelli della Lady, che si è anche fatta fotografare nuda in copertina, a sfatare la leggenda metropolitana che la vorrebbe uomo. La foto è di profilo e manca la prova finale, quella del body scanner, ma ci accontentiamo. LadyGaGa è la prova di come un’identità composta - un pochino di David Bowie, più un po’ di Madonna, un pezzetto di Marilyn Manson, uno zinzino di Ivana Spagna - sia la pompa migliore per affrontare gli anni Dieci. Nel video di Paparazzi la si vede buttata giù dal balcone da un fidanzato bullo e poi con la testa spaccata, e in sedia a rotelle, e con le stampelle. Cose che vedremo fare anche a una qualche cantante italiana, fra una cinquina d’anni. La Lady è stata anche ingaggiata dalla Polaroid per prendersi cura di una nuova linea di prodotti speciali, non ancora meglio identificati, nel comparto imaging. A questo punto ci arrendiamo. Sulla punta del fenomeno c’è lei. Solo che noialtri possiamo anche scendere dalla punta del fenomeno e ascoltarci Bitches Brew di Miles Davis, di cui ricorre il quarantennale.
«B
jazz
teatro
Emma Dante e la forza del disincanto di Enrica Rosso e Pulle di Emma Dante: uno spettacolo di carne più che di parole. Di carne che non trova pace, di arti che si flettono in posizioni impossibili, di ossa messe a dura prova, di fisionomie negate dietro anonime garze, di occhi specchi di anime troppo tristi per essere visti. Un’ora e trenta di disincanto ninnati da canzoncine amare come il fiele a commento di immagini indigeste. Una operetta amorale come sottotitola l’autrice stessa. Lei, creatura di terra e fuoco, forgiata con l’acciaio e il sole di Sicilia, vulcanica, carismatica, incontentabile, provocatoria, indomita, si materializza, cuore pulsante della compagnia Sud Costa Occidentale, calcando le scene nelle vesti di Mab, la levatrice delle fate, attorniata dalle sue magiche adepte: la fata parlante, la fata danzante, la fata cantante: tre burattine rotte e sgraziate, ma in grado di donare il loro femminile a cinque pulle (in dialetto palermitano puttane) quattro travestiti e un trans, in arte Rosy, Sara, Ata, Moira e Stellina. In tempi non lontani le chiamavano donnine allegre. Queste pulle, pupe, pupazze, pupattole, marionette inutili, prendono vita il momento stesso in cui vengono dismesse. La Mab di shakespeariana memoria, travolta dai fatti, evolve qui in una disincantata maîtresse che scandisce i tempi, espone la merce e all’uopo consola. La giornata delle ragazze si srotola veloce tra siparietti e numeri musicali e loro si struccano e si smascherano, si svelano e si confidano, sempre intime, sempre compatte. Sorelle di dolore con un unico corpo abitato da anime diverse, non più vuoti a perdere, ma piccole donne invidiose di un seno che cresce e che perseguono desideri semplici, di normalità negata. Memorabile la scena finale in cui, dopo aver dato fondo al pozzo dei desideri coronando il sogno di Stellina di convolare a giuste nozze in chiesa, con il suo amato, di bianco vestita, in un tripudio di botti e trombette, la fata danzante raccatta da terra i simulacri svuotati degli invitati eccellenti: bamboli gonfiabili ormai
L
tramutati in femmine vere in carne e ossa. L’uso dei dialetti (dal siciliano al napoletano) conferisce a una scrittura già di per sé potente, grande presa anche laddove la comprensione del testo non risultasse essere integrale, la battuta guadagna movimento, ritmo ed espressività sonora. Fitti tendaggi delimitano uno spazio emotivo capace di contenere il piano della realtà quanto quello onirico, sopravanzati da ulteriori drappi rosso cremisi… un bordello in divenire, un labirinto immaginifico, un magico castello frequentato da fate storpie e gentili, un veliero che quando, con fragore, ammaina, crea privè e isola primi piani. A fine recita il pubblico in sala tributa applausi calorosissimi e prolungati a una compagnia esemplare per com-
pattezza ed entusiastica adesione alla regia. Eppure Emma Dante, pluripremiato astro nostrano, amatissima all’estero, ancora fatica a trovare teatri italiani che investano sul suo talento (come peraltro i suoi vicini di casa Scimone e Sframeli). E così per dar corpo a Le Pulle si è avvalsa della co-produzione tra il Teatro Mercadante di Napoli (e guarda caso Francesco De Rosa è il più giovane direttore di Teatri Stabili italiani), il Thèatre du Rond Point di Parigi e il Thèatre National de Bruxelles.
Le Pulle di Emma Dante,Teatro Valle di Roma fino al 24 gennaio, Info: 06 68803794 - www.teatrovalle.it
John Lewis e Bill Evans memorabilia iniziale è anche da ricordare il suo assolo in Parker’s Mood, inciso nel 1948 con ohn Lewis e Bill Evans sono stati Charlie Parker e Miles Davis, così persodue pianisti che hanno caratterizza- nale e difforme dallo stile degli altri piato, dal secondo dopoguerra, il jazz nisti suoi contemporanei. L’incontro con per lunghi periodi. Il primo nato nel Davis, ma anche le pagine che aveva 1920, scomparso nel 2001, già nel 1946 fa- scritto per Gillespie come Two Bass Hit, ceva parte della grande orchestra di spinsero Miles a chiedergli un arrangiaDizzy Gillespie. Dunque esponente, an- mento che avrebbe inciso per Capitol che se non di rilievo, del primo periodo nella seduta del 21 gennaio 1949. Si tratdel bop. Per il suo più anziano leader, nel tava di Move, tema composto dal batteri1947, compose quella Toccata for Trum- sta bop Denzil Best, che Lewis concepì a pet and Orchestra che lo mise subito in mo’ di fuga anticipando quelle idee che evidenza, soprattutto nell’ambito dei mu- avrebbe poi sincretizzato attraverso il sicisti e dei critici più attenti. Del periodo Modern Jazz Quartet da lui fondato nel 1952, primo complesso jazz a superare quell’invisibile, ma invalicabile confine con il mondo accademico. Indiscusso caposcuola è stato invece Bill Evans, il cui stile è stato preso a modello da una infinità di altri pianisti, Chick Corea, Herbie Hancock, Keith Jarrett, ma anche Paul Bley. Più giovane John Lewis
di Adriano Mazzoletti
J
di John Lewis di nove anni, scomparve ventun anni prima del collega. Un vita breve, ma intensa sempre con il suo trio in cui si alternarono, dal 1956 al 1980, alcuni importanti contrabbassisti, Teddy Kotick, Scott La Faro, Eddie Gomez e Gary Peacock. La già abbondante discografia di John Lewis e Bill Evans si arricchisce di altre preziose testimonianze. La prima proviene dalla registrazione che John Lewis, con due componenti del Modern Jazz Quartet, Percy Heath e Connie Kay, effettuò a Stoccarda il 20 e il 21 febbraio 1958 nel corso della prima tournée europea del complesso. Bisogna dire che John Lewis, in quel periodo, non era solito esibirsi in trio, perciò la registrazione del concerto tedesco colma una lacuna. Il repertorio, in parte diverso da quello solitamente eseguito dal Modern Jazz Quartet, comprende però anche brani solitamente eseguiti dal complesso quali Django, The Queen’s Fancy, Cortege oppure Two Degrees East Three Degrees West. L’assenza del quarto elemento, il vibrafonista Milton Jackson, favorisce John
Bill Evans
Lewis che improvvisa a lungo linee assai diverse da quelle che era solito eseguire con il Modern. Le registrazioni di Bill Evans, invece, provengono da due diversi concerti di altrettante tournées. Nella prima del 1970 in Finlandia è accompagnato da Eddie Gomez e Marty Morell. Nella seconda, cinque anni dopo in Svezia, il batterista Eliot Zigmund aveva sostituito Morell. Si tratta di due concerti memorabili e questo cd dovrebbe essere in possesso di tutti gli appassionati. John Lewis, European Windows, American Jazz Classics; Bill Evans Trio, Lund 1975-Helsinki 1970, Jazz Lips Music, Distribuzione Egea
libri I misteri di Clipperton MobyDICK
pagina 6 • 16 gennaio 2010
narrativa
un romanzo singolare questo di Marco Ferrari, coniabile nella sommaria dicitura di avventura storica, perché di questo si tratta, di un romanzo a base storica centrato su una vicenda oscura e fascinosa capitata agli inizi del secolo e nota ai più come quella dei dimenticati di Clipperton. Lavorando di cesello letterario, Ferrari affronta la vicenda storica irta di complessità e intrichi a partire dal luogo dove tutto si svolge: un atollo sperduto nel Pacifico nordorientale, una striscia di terra di un chilometro e settecento metri quadrati con una circonferenza di 12 chilometri. Un isolotto apparentemente inutile dal punto di vista dei traffici, della collocazione geografica e delle risorse, ma che diviene un vero e proprio bottino al centro di una querelle spartitoria tra vari paesi. I primi a contendersi una terra esigua, e apparentemente sperduta, sono i francesi e i messicani alla fine dell’Ottocento. L’isolotto è in realtà più vicino al Messico distando da Acapulco circa 1.200 km, ma la Francia accampa le pretese di sfruttamento e posses-
È
di Maria Pia Ammirati so per la vicinanza con Tahiti. Ma cosa possiede l’atollo di così prezioso da giustificare la contesa di tanti paesi tra cui gli Stati Uniti? L’isola è infestata di uccelli e granchi arancioni e poiché è praticamente priva di vegetazione è una sorta di giacimento di guano. Per lo sfruttamento del guano e per spirito di prelazione il Messico decide di occupare mandando un piccolo contingente dell’esercito. E qui comincia l’avventura descritta dallo scrittore. L’ionarrante è una donna Alicia, la giovane moglie del capitano Ramon Arnaud, governatore dell’isola. Alice scrive al re italiano Vittorio Emanuele II divenuto nel frattempo il giudice della contesa tra Francia e Messico. La voce della donna è limpida e forte e affronta nei minimi particolari la tragica avventura del contingente e dell’esigua popolazione dell’isola a partire dall’anno dello sbarco del contingente militare, il 1897. Una strana popolazione assortita di militari, contadini e famiglie a segui-
to con bambini, anche piccolissimi, si trova a fronteggiare una natura inclemente e padrona assoluta, una terra desolata, devastata ciclicamente da uragani e tempeste, un mare infido zeppo di squali affamati, il puzzo costante del guano depositato a tonnellate dagli uccelli padroni del territorio. L’avventura incalza e la Storia sovrasta impietosa quel manipolo di gente, che viene letteralmente dimenticato dal governo messicano spazzato via dalla Rivoluzione. La nave che ciclicamente arrivava a portare viveri, mobilio, libri e ogni genere di conforto, non arriverà più per tre anni. I trenta abitanti dell’isola moriranno lentamente di scorbuto e di fame, alcuni di loro divorati dagli squali. L’orrore non finisce qui e lasciamo al lettore, che non ha memoria di un fatto storico minore, la possibilità di scoprire quale fu il finale per i superstiti, che - paradosso - furono solo donne e bambini, e quale fu il destino dell’isola. Un’isola fondata da un bucaniere britannico dal nome suggestivo, Isola della Passione, che Alicia nel suo accorato memoriale descrive così: «un luogo assente, privo di ogni dono di Dio». Marco Ferrari, Morire a Clipperton, Mursia, 208 pagine, 16,00 euro
riletture
Heidegger nella Caverna di Platone
di Giancristiano Desiderio miti platonici sono alla base della storia della filosofia. Il mito più famoso è senz’altro quello della Caverna. Il mito è raccontato nel dialogo Repubblica. Il mito è ricco di significati: da quello ontologico a quello gnoseologico, riguarda l’essere e la conoscenza, ma anche l’educazione, la politica e soprattutto la condizione umana. Non veniamo noi da una caverna e non andiamo verso una caverna? Forse, detta così, è un’immagine un po’ lugubre. Sta di fatto che ognuno di noi è un po’ cavernicolo, vive nel buio e ha bisogno della luce. Siamo esseri che vivono a metà strada tra ombra e luce, non possiamo vivere né interamente nel mondo delle tenebre, né interamente nel mondo della luce. L’idea che la nostra vita sia un’ascesa verso la luce ha condizionato tutta la storia del pensiero Occidentale.
I
Di più: è alla base della storia della civiltà dell’Occidente. I filosofi hanno sempre avvertito la necessità di confrontarsi con Platone e con i suoi miti. Sia in positivo, ad esempio Gadamer; sia in negativo, ad esempio Popper. Il filosofo di Atene è visto come il filosofo dei filosofi e il suo pensiero la fonte a cui tornare per alimentarsi. Fu così anche per Martin Heidegger che nel passaggio dalla metafisica all’essere come Evento avvertì il bisogno di ritornare a Platone per capire dove avesse avuto inizio l’idea di pensare l’essere come «idea» o «correttezza». Il risultato di questo «ritorno a Platone» da parte di Heidegger fu il corso di Friburgo del 1931-32 poi diventato il libro L’essenza della verità, edito in Italia da Adelphi, l’ultima edizione risale al 1997. In questo libro c’è, appunto, una magistrale interpretazione del mito della Caverna, dell’ombra e del buio, dell’oscurità che av-
volge l’uomo e della necessità di una «conversione» alla luce del sapere. Il proposito di Heidegger è mostrare come con Platone l’idea di verità subisca un mutamento essenziale, in particolare rispetto alla figura che di essa si era delineata in Parmenide, e come tale mutamento segni l’inizio di un destino dal quale l’umanità è condotta, volente o nolente, fino alla tecnica moderna. Allo stesso tempo Heidegger chiarisce che la verità non è un valore che si lasci tranquillamente addomesticare in vista di un’arcadica edificazione dell’uomo come vorrebbe l’umanesimo e il nuovo umanesimo - ma piuttosto un evento in cui l’uomo mette in gioco tutto se
stesso e che implica necessariamente il rischio della caduta, del fallimento, della «non verità». Così il pensare filosofico, che in tale impresa si dibatte a fatica, non è una discplina specialistica o una tecnica, né una visione del mondo o un valore culturale, bensì un radicale domandare che trasforma l’uomo, nel suo esistere, dalle fondamenta. L’essenza della verità di Heidegger è al centro del suo pensiero. È un libro fondamentale e una grande interpretazione del mito della Caverna che rende attuale quel mito proprio nel momento in cui tenta di capovolgerne il significato o di individuare in Platone il «responsabile» della umanizzazione dell’idea di verità come «giusta idea» o «idea esatta».
MobyDICK
16 gennaio 2010 • pagina 7
diari
Dove ribolle l’anima di Mircea Eliade di Riccardo Paradisi ircea Eliade (19071986), non è stato solo il più grande storico delle religioni, è stato soprattutto una di quelle figure chiave del panorama culturale europeo novecentesco. Una di quelle figure attraverso cui si aprono le porte della comprensione riguardo una stagione intellettuale straordinaria. Straordinaria e tragica, dato che il Novecento è stato il secolo che ha visto insieme il fiorire della contaminazione con l’Oriente, la riscoperta delle antiche scienze spirituali, il diffondersi della psicologia del profondo, dell’arte astratta e di avanguardia, ma an-
M
personaggi
che l’imporsi di ideologie furibonde e la costruzione degli inferni concentrazionari. Il Diario portoghese (1941-1945) è una testimonianza diretta, intensa e drammatica, di un periodo cruciale della vita di Mircea Eliade, tanto più interessante in quanto le pagine di queste annotazioni personali non erano destinate alla pubblicazione durante la vita del loro autore. Una scrittura febbrile, incandescente che ci rivela un complesso intreccio di spiritualità e carnalità, ossessione patriottica e presa di distanza dalle scelte politiche nazionaliste, sconforto psicologico e lucidità. All’autenticità della riflessione intima si accompagna l’attenzione critica:
note di lettura, appunti di viaggio, incontri, annotazioni a margine delle proprie creazioni letterarie e scientifiche. Uno zibaldone dove ribolle l’anima di Eliade, afflitto dalla guerra in cui è coinvolta la sua Romania, le cui convulsioni impediscono allo scrittore, al pari della morte della moglie, di concentrarsi sul lavoro scientifico, di scrivere, di ispirarsi. Nel diario emerge anche l’Eliade più discusso. Eliade aveva prestato la sua intelligenza alla destra romena firmando alcuni articoli sulle riviste di quella galassia, ma l’acceso nazionalismo di quelle formazioni non rende giustizia alla sua prospettiva di fondo metafisica. Nel diario queste contraddizioni
emergono e si sciolgono via via. «Ortega Y Gasset - si legge in un appunto del 2 febbraio 1944 - ha detto che io sono un uomo di scienza orfeizzante. Soltanto un romeno dice potrebbe essere un filosofo mistico e uomo di scienza al tempo stesso, perché noi siamo vicini a Orfeo, ma possiamo anche rivolgere lo sguardo a Occidente. Io mi considero un cavallo di Troia in campo scientifico e la mia missione è di porre fine alla guerra che dura da tanto tra scienza e filosofia». È una descrizione abbastanza precisa di Mircea Eliade. Mircea Eliade, Diario portoghese, Jaca Book, 330 pagine, 34,00 euro
Il libro di Dio scritto da Shakespeare di Angelo Crespi
Q
uello che tenta di fare Piero Boitani, docente di letterature comparate alla Sapienza di Roma, non è certo dimostrare quanto Shakespeare fosse cristiano, né se cattolico, protestante o calvinista. O che tipo di Bibbia usasse, quando non di rado gli capitava di citare le sacre scritture, se la Bibbia di Ginevra, o quella anglicana di Re Giacomo, o quella cattolica di Douai-Rheims. Piuttosto che nel variegato mondo dei suoi lavori - dove non è rara la sovrapposizione sincretica di divinità pagane e Dio biblico, l’intreccio di politica e passioni, il contrasto e la complementarietà di natura
autobiografie
e cultura - il grande bardo abbia disegnato una sorta di Vangelo personale retto da una visione teologica della vita in cui gli uomini sono spinti al divino dalla percezione del dolore, cioè dal patimento. Certo, come molti sanno, le allusioni bibliche nell’opera di Shakespeare sono innumerevoli, ma dice Boitani - «egli è artista troppo consumato per costruire mere equivalenze o semplici moralities: ama l’obliquità, la stratificazione di ombre, la sovrapposizione di miti e luoghi». Di fatto, si potrebbe dire, costruisce un suo personale «libro di Dio» diverso e più ampio delle sacre scritture poiché attinge a tutta la letteratura anche precedente fin dai
tempi di Omero, e lo fa con la medesima intensità: «Si tratta insomma di Vangeli fondati sull’immanenza, sulla realizzazione terrena: che appare ombra di quella celeste». Alla fine il saggio di Boitani, davvero godibile seppur denso, che ripercorre molte delle tragedie e delle commedie del grande scrittore inglese seguendo le tracce di Dio che immancabilmente egli lasciava come segnali, non ci dà la certezza che Shakespeare nel suo intimo credesse davvero all’immortalità dell’anima o alla resurrezione della carne. Ci spiega però che proprio le sue opere sono il risultato di una fede e leggendole a noi non resta che credervi. «C’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero» esclama Amleto parafrasando gli evangelisti Matteo e Luca, figuriamoci in tutte le opere di Shakespeare. Piero Boitani, Il Vangelo secondo Shakespeare, Il Mulino, 176 pagine, 15,00 euro
Thomas Bernhard e l’insostenibile altro di Pier Mario Fasanotti no dei più grandi (ma non così citati, purtroppo) autori del Novecento, Thomas Bernhard, racconta di sé dietro le quinte dei premi letterari. Episodi gustosi, trattati con leggerezza e acidità, che confermano lo spirito provinciale e gretto che sta attorno alle manifestazioni culturali. Al premio Grillparzer, ovviamente prestigioso ma senza alcun dono in denaro, Bernhard ci va, come di consueto, con la zia. Un gran travaglio, prima, nello scegliere l’abito nuovo, che a poche ore di distanza si dimostrerà strettissimo. Il premiato non è seduto in prima fila. Uno degli «importanti» se ne accorge, c’è un certo trambusto. Discorsi noio-
U
si, con una ministra che dorme, anzi russa. Poi l’attribuzione di un’opera a Bernhard che di Bernhard non è, ma fa niente.Tutto si conclude con un suo striminzito «grazie». L’autore e la zia se ne vanno. La ministra, uscita finalmente dal torpore, gorgheggia una domanda: «Ma dov’è il nostro scrittorello?». L’autore (anche di teatro) confessa momenti di rifiuto artistico, ai tempi in cui si guadagnava da vivere come camionista: «Della letteratura non volevo più saperne, io le avevo dato in pasto tutto quello che possedevo e in cambio mi aveva buttato dentro quella fossa. Mi nauseava, la letteratura, odiavo tutti gli editori e tutte le case editrici e tutti i libri». Prese a odiare anche il sedile del camion e
si rifugiò nel suo stanzino a casa della zia. Un continuo ricominciare a scrivere, tutte le volte. Un giorno si trovò a discutere sull’assegnazione di un premio. E fece il nome di Elias Canetti. Si accorse che alcuni non sapevano nemmeno chi fosse. Uno dei signori seduti al tavolo esclamò alla fine: «Ma pure quello è un ebreo!». Alla fine la maggioranza trovò un’intesa: il premio Brema doveva essere assegnato a Hildesheimer, dietro la proposta dell’unica persona che lo conosceva davvero. Bernhard non lo disse, ma ebbe la tentazione di rivelare che anche quello era ebreo. Interessante soffermarci su alcuni passi dei discorsi di ringraziamento tenuti da Bernhard, sempre in occasione dei riconoscimenti ricevuti. Per esempio: «Ciò
che noi pubblichiamo non coincide con ciò che è, altro è lo sgomento, altra è l’esistenza, noi siamo altro, l’insostenibile è altro, non è la malattia, non è la morte, sono ben altre condizioni, sono ben altre situazioni… Il problema è venire a capo del nostro lavoro, il che significa: della riluttanza interiore e dell’ottusità esterna… il che significa passare sopra me stesso, sopra cadaveri di filosofie, sopra l’intera letteratura, sopra l’intera scienza… è una questione di costituzione mentale e di concentrazione mentale e di isolamento, di distanza… di monotonia… di utopia… di idiozia». Chissà se qualcuno l’avrà capito. Thomas Bernhard, I miei premi, Adelphi, 133 pagine, 11,00 euro
altre letture Dopo la conquista del potere, Adolf Hitler intuisce che i giochi olimpici di Berlino, programmati per il 1936, si sarebbero prestati a una grande operazione di regime. Occorreva dimostrare la qualità dell’atletica tedesca ed esibire al mondo le capacità organizzative della Germina. David Clay Large in Le Olimpiadi dei nazisti (Corbaccio, 494 pagine, 26,00 euro) descrive l’impressionante preparazione scenografica e politica delle Olimpiadi tedesche del ‘36. I tecnici del comitato olimpico tedesco con la regia di Leni Rifenshtal prepararono minuziosamente il trasferimento della fiamma olimpica dalla Grecia a Berlino. Si voleva gettare un ponte tra la Germania e l’antica Grecia, dare una base storica e spirituale al neopaganesimo che sarebbe stato da quel momento la vera religione del Reich. L’apparizione della tv negli stadi quattordici unità mobili create da Telefunken per 25 sale di spettacolo consolidò anche l’immagine della Germania come potenza scientifica e tecnologica. Aracismo e tecnologia: l’essenza cioè della Germania nazista. L’avvento della televisione commerciale e la privatizzazione delle telecomunicazioni hanno cambiato la relazione fra comunicazione e potere: governi e network concorrono a definire l’agenda dei contenuti e la produzione di significato nella mente delle persone, mentre le contese politiche sono combattute sui media a colpi di scandali. L’orizzontalità di internet entra poi in conflitto con la verticalità del potere economico e politico. Il poderoso saggio di Manuel Castello Comunicazione e potere (Università Bocconi editore, 665 pagine, 34,50 euro ) attraverso casi come il controllo di internet in Cina, la campagna di Obama giocata sulla mobilitazione dei social network, l’anarchia in rete e nelle strade dei noglobal, mette a fuoco il nuovo stadio della comunicazione globale. Intorno ai celti esiste da molti anni un interesse diffuso. Il loro mondo affascina per il senso di mistero che trasmette, una peculiare miscela di ancestrale e di arcano. Divinità imperscrutabili, sciamani, druidi, sacerdotesse, fate, elfi, gnomi, draghi ma anche re, principesse, soldati. Muovendosi tra leggenda e storia Devon Scott in Il cerchio di fuoco (Edizioni età dell’acquario, 182 pagine, 14,50 euro) getta uno sguardo rigorosamente documentato su uno dei popoli che maggiormente hanno contribuito alla nascita e al progresso dell’Europa. Dalla mitologia alla religione, dalle rune ai megaliti, dall’astroloiga ai riti iniziatici e magici: ogni aspetto della civiltà celtica è riproposto e fatto rivivere. a cura di Riccardo Paradisi
MobyDICK
pagina 8 • 16 gennaio 2010
ritratti
GEORGE FRIEDRICH HANDEL RICORRENDO A UN PARAGONE FIN TROPPO ABUSATO PER I MUSICISTI, COSÌ LO DEFINIRONO I SUOI CONTEMPORANEI. AZZECCANDOCI, TUTTAVIA, PERCHÉ LA DEFINIZIONE VALE OGGI E SEMPRE, COME ALLORA. MA IL 250° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI QUESTO SUPREMO MAESTRO È APPENA TRASCORSO SENZA AVER PRODOTTO FRUTTI SUCCOSI. EPPURE LA SUA OPERA, CAPACE DI PIEGARE LE CONVENZIONI IN NOME DI UN'ASSOLUTA LIBERTÀ, HA SEMPRE SOLLECITATO ESTRO E FANTASIA DI REGISTI E DIRETTORI…
L’Orfeo
di tutti i secoli di Jacopo Pellegrini ell’anno appena concluso cadevano i 250 anni dalla morte di George Friedrich Handel, autore tra i più celebri, ma non troppo eseguito, almeno in Italia. Il suo nutrito catalogo operistico (oltre quaranta titoli) ha cominciato a piantare radici da noi a partire dal 1985 (terzo centenario della nascita); purtroppo, però, a dispetto delle premesse maturate nel corso delle passate stagioni, quest’ultimo anniversario non ha prodotto frutti specialmente succosi: un’attendibile Agrippina in forma di concerto - direttore lo specialista Alan Curtis, protagoniste la Pendatchanska, la Ek, la Semmingsen - a Milano per il festival MiTo, un’altra in forma scenica a Venezia; la rara Partenope in giro per l’Emilia; alla Scala, come già nell’85, Alcina. Se anche dimentico qualcosa, è roba di poco conto.
N
Eppure, e lo spettacolo milanese con la regia, nata a Parigi, di Robert Carsen ne offriva una testimonianza eloquente, registi e diret-
un coro finale che riunisce tutti gli attori sulla scena. Muovendo da questo patrimonio di convenzioni condivise - da compositori, librettisti, esecutori, pubblico, - Handel lo arricchisce e diversifica dall’interno, grazie all’incremento dei brani a più voci, all’introduzione, sulla scia della tragédie lyrique francese, di danze e cori (non formati dai solisti), all’inserzione di episodi strumentali, alla presenza di elementi comici accanto ai seri.
si era fatto inglese e aveva mutato l’originario Händel in Handel. Il problema era - ed è - che esaminato colla lente del «dramma musicale», il teatro handeliano finisce coll’apparire un fallimento su (quasi) tutta la linea. Un punto di vista espresso in forma esemplare da un musicologo britannico d’inizio Novecento, Edward J. Dent: «Non esiste alcun moto drammatico, fisico o psicologico, all’interno di un numero musicale; le arie, e persino i pochi pezzi d’assieme, sono del tutto statici». Oggi, dopo oltre cinquant’anni di riscoperte, abbinate a una maggiore consapevolezza stilistica riguardo alle prassi esecutive d’epoca, l’opinione generale si è a tal punto rovesciata che Winton Dean, il 93enne decano degli esegeti handeliani, ha potuto ascrivere il suo prediletto oggetto di studio al novero dei maestri supremi dell’opera, insieme a Monteverdi, Mozart,Verdi e Wagner (io aggiungerei anche Rameau, Puccini, Berg, Musorgskij e Ciaikovskij). E William Christie, il grande clavicembalista e direttore franco-statunitense, specialista del repertorio barocco e classico da Lully a Mozart, non teme di affermare che i melodrammi di Handel «sono la dimostrazione di una libertà assoluta», grazie alla quale le convenzioni vengono piegate «prodigiosamente per rendere ancor più vive le passioni che animano i personaggi».
Tra il 1754, Handel ancora vivente, e il 1920 nessuno dei suoi spartiti operistici, scritti tra i venti e i cinquantacinque anni per gli spettatori di tre nazioni (Germania, Italia e, soprattutto, Inghilterra), apparve più sulle scene. E quando cominciarono a riaffacciarvisi (in Germania per iniziativa Oskar Hagen, storico dell’arte, direttore d’orchestra e regista), il loro assetto venne sottoposto a tali e tanti aggiustamenti da parere, ed essere, tradimenti (taglio dei «da capo» nelle arie, mutamenti nella strumentazione, trasposizioni di regi-
Tra il 1754 e il 1920 nessuno dei suoi spartiti operistici, scritti tra i 20 e i 52 anni per gli spettatori di tre nazioni (Germania, Italia, Inghilterra), apparve più sulle scene. E quando cominciarono a riaffacciarsi il loro assetto venne tradito tori trovano nel teatro di Handel una drammaturgia vera e varia, ricca di opzioni, e sollecitante al massimo grado estro e fantasia. Senza, con ciò, rinnegare le regole dell’opera seria settecentesca, italiana per lingua ma internazionale per diffusione e struttura: castrati, contralti o soprani in parti maschili; alternanza di recitativi - secchi, se sostenuti dal cosiddetto «basso continuo» (clavicembalo e violoncello, o viola da gamba, o fagotto); accompagnati se sorretti dall’orchestra - e numeri chiusi, per lo più arie nella forma «da capo» o «dal segno» (con ripresa, completa nel primo caso, ridotta nel secondo, della parte iniziale dopo una sezione centrale autonoma), qualche raro duetto, terzetto o quartetto,
stro nelle voci: castrati o contralti mutati in baritoni o tenori). Il primo titolo a essere dissepolto fu Rodelinda (1725), da Hagen definito un Musikdrama. E il ricorso a una formula di derivazione wagneriana denota un esplicito messaggio polemico, che coinvolge a un tempo estetica e ideologia. Se Wagner aveva additato in Gluck il precursore del moderno teatro musicale tedesco (vale a dire di se stesso), Hagen risalì ancora più indietro, fino a Handel: in un sol colpo, il paese natale, appena uscito sconfitto umiliato e coperto di debiti dalla prima guerra mondiale, riaffermava la propria superiorità in campo artistico reimpossessandosi del compositore, clavicembalista e organista sassone, che nel 1727
Sopra, due opere di Hogarth tratte dal ciclo “Carriera del libertino” e un’immagine di una messinscena del “Giulio Cesare”. A destra, una riproduzione della casa del musicista a Londra
Tra i tanti obblighi estetici, uno, molto pregiato dall’Ottocento in avanti, sarebbe parso non poco stravagante a Handel: l’originalità a ogni costo.Tutti i libretti italiani da lui messi in musica, fatta eccezione per l’ultimo (Deidamia di Paolo Rolli, 1741, comunque imparentato coll’Achille in Sciro di Metastasio), si servono di fonti antecedenti, anche di parecchi decenni: Giulio Cesare, ch’è del 1724, attinge a un originale veneziano di Bussani risalente al 1677, e non è un caso isolato; e gli imprestiti di musiche proprie o altrui (una linea melodica, uno schema ritmico o armonico, un movimento del basso) rampollano quasi a ogni pagina. Il notissimo tema di «Lascia ch’io pianga», l’aria di Almirena nell’Atto II di Rinaldo (1711), aveva fatto la sua prima comparsa in Almira (Amburgo, 1705), per poi riaffacciarsi anche nel Trionfo del
MobyDICK
16 gennaio 2010 • pagina 9
Zeno e Metastasio, coloro che, per dirla con Charles Burney (uno dei primi veri storiografi musicali, in gioventù violinista nell’orchestra di Handel) avrebbero «bandito dall’opera seria» la buffoonry; anche in Giulio Cesare l’infantile perfidia di Tolomeo inclina al burlesco. Ma al tempo di Orlando e Serse (’38) sono ormai le situazioni a riuscire comiche non i caratteri. Al fratello despota, un misto di pompa capriccio e vanità, che gli intima di intercedere in suo favore presso Romilda, Arsamene (di Romilda innamorato) replica facendogli il verso: «Io le dirò che l’amo» canta Serse, «Tu le dirai che l’ami» gli fa eco Arsamene sulla stessa musica.
tempo e del disinganno, una cantata allegorico-sacra realizzata a Roma nel 1707. A Handel si addice la qualifica di drammaturgo totale, che esercita un controllo assoluto su tutte le fasi creative dell’organismo operistico, a cominciare proprio dall’organizzazione del testo: potature (a Londra, dove Handel fissa la sua dimora a partire dal 1710, in pochi intendono l’italiano, dunque s’impone un drastico ridimensionamento dei recitativi, per concentrarsi sull’espressività delle arie), aggiunte e cambiamenti (relativi sia al luogo della vicenda, sia alla destinazione dei pezzi chiusi) puntano a delineare personalità complesse e complete. Ogni aria, conformemente a quella che i posteri avrebbero battezzato «teoria degli affetti», incarna un sentimento convenzionale (ira, pietà, rimorso, amore, dolore), ma alcune figure ricevono la loro impronta indelebile dal fatto di insistere su certi affetti e non su altri (Ariodante e Ginevra, gli innamorati divisi dall’inganno del geloso Polinesso in Ariodante, 1735, si distinguono dagli altri caratteri in virtù della loro vena patetica; le maghe Armida - Rinaldo - e Alcina opera omonima, sempre del ’35 - esercitano una fascinazione aggressiva, isterica, per mezzo di un canto tutto agilità).
È difficile, se non inutile, tentare una classificazione delle opere di Handel sulla base dei soggetti (Dean, nel 1970, le ripartì in tre grandi classi: eroiche, antieroiche e magiche); e seppure alcune categorie sembrino chiaramente delineate, esse sono abbastanza generiche, e tendono a mescolarsi tra loro: ad esempio, l’elemento pastorale, basilare nel Pastor fido (’12) e in Atalanta (composta nel 1736 per celebrare le nozze del principe di Galles, Federico, con Augusta di SassoniaCoburgo), s’insinua nel Medioevo eroico di Ariodante (inizio Atto II, Atto III), nel mondo magico di Orlando (’33: la pastorella Dorinda), ed, entro certi limiti, in Partenope (’30) e Imeneo (’40). Anche l’ingrediente comico (personaggi o circostanze) non si presta a una lettura univoca: all’altezza di Agrippina (Venezia, 1709) gli inserti buffi rappresentano una sopravvivenza del melodramma secentesco antecedente la riforma librettistica di
La follia dell’eroe ariostesco, che a Daniela Goldin Folena pare di «carattere sostanzialmente innocuo», estranea alla «statura gigantesca, anche negativa, del suo progenitore rinascimentale», rifulge di grandezza tragica proprio in virtù dell’incastro e contrasto tra passi in tono comico (fittizio in quanto ostentato: il tema danzante - «A tempo di Gavotta» prescrive Handel - più volte replicato) e passi in tono elevato (il recitativo accompagnato che si apre a frammenti in stile arioso o descrittivo; i due episodi che interrompono la gavotta, un lamento e uno scatto d’ira ossessivo nelle sue catene di agilità ma impotente nel suo replicato incepparsi su ostinati «no, no, no»): il compositore traduce in musica, con estrema esattezza e puntigliosità, il decorso di una crisi nervosa (allucinazioni, catatonia, depressione, furia, ricaduta nella depressione) quale chiunque allora poteva osservare recandosi a Bedlam, il manicomio di Londra, e sborsando un penny (ingresso gratuito il primo martedì del mese). Gli antics - vocabolo che, significativamente, può essere reso sia con stramberie sia con buffonerie, - dei lunatici sono uno degli spettacoli favoriti dalla borghesia e dalla nobiltà britannica del Settecento, fissato in immagini da William Hogarth nella famosa serie d’incisioni sulla Carriera del libertino (1735: appena due anni dopo Orlando). La frammentarietà della lunga scena, oltre 200 battute di musica, è palese, eppure i nessi tra le parti non mancano: il profilo discendente di molti incisi (rovesciato in ascendente quando trabocca il furore), le griglie ritmiche basate su terzine e quartine di crome e semicrome: le manifestazioni della pazzia possono essere diverse, la malattia è una e originata dagli eccessi delle passioni, come si può leggere nella premessa al libretto stampato per la prima esecuzione. Non è soltanto quando vìola gli schemi dati (accanto a Orlando, spiccano la morte di
d’oro dei divi italiani e si affida alle sorprese sceniche), le dimensioni dei numeri musicali si riducono, le lunghe arcate canore essendo riservate ai vertici emozionali dell’intreccio. Così, per esempio, in Ariodante il punto culminante cade giusto a metà dell’opera, sull’estesa (circa 9’) aria «dal segno» del protagonista «Scherza, infida» (Atto II): squisita gemma melodica di genere lacrimoso, potenziata sul piano espressivo dal connubio vocestrumenti (archi con sordina e due fagotti solisti, ai quali spetta di dare evidenza acustica a un dolore inesprimibile a parole) e dalla rete di relazioni armoniche interne (la pagina è in sol minore, tonalità base, insieme all’omologo maggiore, dello spartito).
Ma la pieghevolezza, l’efficacia, la disponibilità davvero assoluta (sciolta cioè da ogni vincolo) delle articolazioni formali più comuni si può riscontrare lungo l’intero percorso teatrale di Handel. Nella Scena II, Atto II del Giulio Cesare dapprima «s’ode vaga sinfonia di vari strumenti» sulla scena; a essa segue un breve scambio di battute in recitativo secco tra il condottiero romano e il confidente di Cleopatra, Nireno; quindi «s’ode nuovamente una sinfonia; s’apre il Parnasso, e vedesi in trono la Virtù, assistita dalle nove Muse»; altro brevissimo recitativo di Cesare e finalmente la Virtù (ch’altri non è se non Cleopatra, presentatasi però sotto le mentite spoglie di Lidia, damigella di corte) intona un Largo, il languidissimo «V’adoro pupille»; conclusa la Sezione B dell’aria, ancora quattro battute di recitativo per Cesare e la regina egiziana attacca il «da capo». Le regole sono seguite fino in fondo, ma anche adattate a questo autentico momento di «teatro nel teatro» o, meglio, di «opera nell’opera»: i recitativi inseriti tra il ritornello orchestrale introduttivo (eseguito due volte) e l’inizio del canto, tra il pannello centrale e la ripresa, più che a camuffare l’assetto interno dell’aria col «da capo», servono da valvola di sfogo verbale allo stupore di Cesare. Questi, infatti, è il destinatario di un duplice travestimento - Cleopatra si è mascherata da schiava (Lidia) che, a sua volta, si maschera da Virtù, - e di una rappresentazione sdoppiata, dove la musica gioca un ruolo preponderante: il Parnaso, oltre alle divinità greche, ospita una gruppo strumentale (oboe, due violini, viola, arpa, tiorba, viola da gamba, fagotto e violoncelli), che nel sostenere la voce interagisce con l’orchestra, trasportando nel melodramma la dialettica soli (il concertino)-tutti (il ripieno) caratteristica dei Concerti grossi (Handel ne approntò due raccolte, l’op. 3, 1734, e l’op. 6, ’39).
A lui, che nel 1727 si era fatto inglese e aveva mutato la grafia del suo cognome, si addice la qualifica di “drammaturgo totale”, che esercita un controllo assoluto su tutte le fasi creative dell’organismo operistico, a cominciare dal testo Bajazet - una magnifica sequenza di recitativi accompagnati dagli archi - in Tamerlano, 1724, la follia di Rosmene in Imeneo) che Handel riesce forte drammatico commovente. A partire dalla fine degli anni Venti, la conoscenza di Metastasio (tutt’altro che insignificante, come talora si sostiene: tre titoli più quattro «pasticci», le opere confezionate con brani di autori vari) e delle dolci, orecchiabili cantilene introdotte a Napoli da Vinci e Pergolesi determina un melodizzare più semplice e diretto, un alleggerimento del tessuto sonoro, senza tuttavia rinunciare a un’armonia e a un’orchestrazione studiate. Poi, negli anni Trenta, mentre cresce l’interesse per la visualità (Handel non può più contare sulle ugole
L’autonomia di questo quadro allegorico dall’intreccio principale è più apparente che reale: il canto è la più efficace delle «astuzie e frodi» architettate da Cleopatra per sedurre Cesare e portarlo dalla propria parte nella lotta per la conquista del potere contro il fratello Tolomeo. Figura unica nel teatro d’opera (e forse non solo d’opera) settecentesco, costei, mossa non da ideali (positivi o negativi), ma da puri appetiti fisici, sensuali, violenti quanto effimeri. I contemporanei definirono Handel l’«Orfeo del nostro secolo», ricorrendo a un paragone fin troppo abusato per i musicisti. Per una volta, tuttavia, ci avevano preso: la definizione è tanto vera ch’essa vale oggi come allora.
MobyDICK
pagina 10 • 16 gennaio 2010
riletture
Ungaretti
Il poeta rivisitato dall’autore del Meridiano del ’69, dopo l’uscita della nuova edizione curata da Carlo Ossola
dal deserto alla terra promessa di Leone Piccioni opo aver veduto il nuovo Meridiano Mondadori con tutte le poesie di Ungaretti per l’ottimo lavoro di Carlo Ossola e delle sue collaboratrici, riprendiamo a leggere («Questo vizio impunito della lettura» come diceva Valery Larbaud). (L’edizione del Meridiano ungarettiano del 1969 fu curata da me e ha dato ora il cambio al nuovo volume). Molte volte il Canzoniere ungarettiano è stato definito un «diario». Ed è vero: aggiungerei «diario di viaggi»: non solo nel senso di un viaggio materiale ma insieme un viaggio sentimentale sorretto da una forte drammaticità (non insomma quel viaggio sentimentale di Sterne e di Didimo). Una caratteristica di alcuni grandi poeti è che ogni poesia, anche presa a caso, senza specializzazione di note o di commenti, ci dice subito, prima di ogni altra cosa, dove, come e quando è nata. Con Ungaretti subito sentiamo se siamo a Lucca o nel paesaggio italiano, a Roma o in Africa, sul Carso o in Brasile o in Francia o in altre parti d’Europa o del mondo. (Con Paulhan o Fautrier - ricordo - Ungaretti fece nell’ultima vecchiaia una specie di giro del mondo in aereo). E sentiamo persino che il suo canto può arrivare anche dalla luna pur dopo la contaminazione che l’astro notturno ha subito: «La verità per crescita di buio/ si va facendo la frattura fonda». Comuni nel fondo sono certi riferimenti che Ossola ha messo chiaramente e definitivamente in luce: c’è Sant’Agostino (maestro del pensiero petrarchesco e predecessore della «vita d’un uomo»); c’è ancora Petrarca e specialmente quello dei Trionfi («Morte bella parea sul suo bel viso»); c’è Pascal e quella punta di giansenismo che certo aveva attratto Ungaretti; c’è il barocco; c’è Leopardi, con tutti i temi che s’intrecciano, si reggono su vasi comunicanti e insieme si fondono gli uni con gli altri, così come la poesia di Ungaretti, ognuna per tonalità si distingue, si fonda l’una con l’altra
D
strenuamente in un solo discorso, in un solo diario, in un solo «diario di viaggio». Quello di Ungaretti - come si sa - è un viaggio dal deserto alla terra promessa (per Lucca - dice il poeta - mia madre ci parlava sempre di questi posti e «la mia infanzia ne fu tutta meravigliata»). Una terra promessa che resti nella meraviglia sempre invocata e sempre ricercata nei sentimenti, nei personaggi, nelle emozioni che si conclude con una delusione finale. L’esito del viaggio, infatti, non è nella pace del cuore dopo tanti pensieri e tante riflessioni e tanti discorsi, ma si concreta in un ambìto ritorno al deserto: «Poi mostrerà il beduino, dalla sabbia scroprendolo, frugando col bastone/ un ossame bianco». Ma il ritorno al deserto non è alla fine considerato come una sconfitta, si erge in lui un uomo che non sottostà alle illusioni, che accetta la conclusione dell’esperienza di vita e accetta la
vecchiaia: «Io credo - ha scritto - che nelle poesie della vecchiaia non ci sia più la freschezza, l’illusione della gioventù, ma credo ci sia una somma tale di esperienza che se si arriva - e non si arriva sempre - a trovare la poesia necessaria a esprimerla - sia la poesia più alta da lasciare». Anche nella disperazione della guerra, quella del ’15 e quella
1946 diciassette frammenti alla morte del suo bimbo di nove anni avvenuta in Brasile. Frammenti che si svolgono con una partecipazione quasi crudele al proprio dolore, con grandi rimorsi, con grandi disperazioni («Per uno spoglio desiderio, inverno/ distende la stagione più clemente!»), ma via via con il passare del tempo si aprono spiragli verso la calma, verso
Il suo Canzoniere è un “diario di viaggio”, il cui esito riconduce al punto di partenza accettato senza delusione, ma da “soldato della speranza”. Ricordo dell’Ungà privato attraverso una lettera inedita da New York: “Sono allegro ma ho il pianto dentro...” categoria del mistero, del tempo, della durata, del segreto. Quale più ossessiva illusione che quella del miraggio patita nel deserto? «Ma balenante da un’interna secchezza, consumata come una calce e come una cenere, l’acqua che s’intravvede è acqua senza umidità, un’acqua crudele: non è l’acqua che, anche se malata, anche se corrotta può blandire la sete: è uno scherzo sadico della luce».
Ungaretti non è un poeta dell’illusione, è un poeta della speranza: sono un poeta della speranza - ci ha detto - «un soldato della speranza». E non accetta alla fine la conclusione deludente: reagisce nell’amore, nel credo cristiano totalmente riscoperto a Subiaco nel ’28 e trasmesso al mondo con La Pietà; risorgono anche le spendide e turbate poesie d’amore della
del ‘40, in Ungaretti subentra amore, amore «diffuso» su tutta la terra, amore come attaccamento alla vita: «Un’intera nottata/ buttato vicino a un compagno massacrato… ho scritto lettere piene d’amore./ Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita», e con l’amore, anche nella guerra, anche in Roma occupata rinasce la speranza: «E subito riprende il viaggio/ come dopo un naufragio/ un superstite lupo di mare». Amore terreno e amore sublime come ci dice in una poesia capolavoro come Dove la luce. Là «dove non muove foglia più la luce», «dov’è posata sera» e si è «liberi d’età», il tempo «nel suo perduto nimbo/ sarà nostro lenzuolo». E non è un lenzuolo funebre: è un lenzuolo di amore sublime. Nella raccolta Il Dolore, nella parte intitolata Giorno per giorno Ungaretti dedica dal 1940 al
una sorgente luminosa del ricordo. E Giorno per giorno si conclude: «Fa dolce e forse qui vicino passi/ dicendo questo sole e tanto spazio/ ti calmino. Nel puro vento udire/ puoi il tempo camminare e la mia voce./ Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso/ lo slancio muto della tua speranza/ sono per te l’aurora e intatto giorno». ***
Abbiamo ricordato il poeta Ungaretti, la sua intensità, la sua emozione, la sua invenzione, la sua drammaticità poetica. Ma si dimentica l’uomo affascinante, ironico la cui risata scoppiava improvvisa, il cui furore d’un tratto si placava in un sorriso, le sue indimenticabili battute, il suo spirito, la sua «allegria»? Vogliamo ricordare anche quell’Ungaretti che ci è stato vicino per tutta la vita e lo rifaremo rileggendo una delle
sue ultime lettere che mi ha scritto (sono più di 200 e stavamo entrambi a Roma). È una lettera da New York del maggio ’69: «Caro Leone, sono qui, ospite di Harvard. Mi considerano il maggior poeta vivente del mondo, e anche in Canadà dove sono stato l’altro giorno. Sarei invitato in California ma non ci posso andare. Ho un appartamento magnifico, cinque stanze, mobili coloniali, stile Harvard, bellissimi, tutto a spese di Harvard, e anche sono nutrito, e ho anche una domestica portoghese, anziana e brutta. Potrei non fare niente. Ma è possibile che Ungà non faccia niente? Farò due letture di mie poesie, ne faranno un disco ad uso esclusivo di Harvard e di altre due università della New England dove dovrò parlare, cioè leggere le mie poesie. Le traduzioni sono di Wylie e sono stupende. Ho avuto fortuna con le traduzioni. La Bachamm e Celan, cioè i due migliori poeti tedeschi, Jaccottet, un ottimo poeta è un traduttore perfetto… Incontro, solo per conversazioni a turno, gli studenti di italiano e di francese: ci sono tra loro bellissime ragazze: c’è un corso preparatorio, poi un corso medio, infine quello dell’addottoramento. Le ragazze studenti mi fanno le fusa! Una, ed è stata la prima domanda che mi è stata fatta, voleva sapere che cosa pensassi dell’amore libero. È una domanda che mi conviene.Ti dirò un’altra cosa, a New York, con una bellissima ebrea, un altro“giovane”e un’altra bellissima ebrea, nell’appartamento della prima ho fumato marijuana. Non mi ha fatto niente, proprio assolutamente niente, e non capisco perché la fumino. Ma la ragazza era voluttuosa. Come vedi sto bene. Non posso non avere il pianto dentro ma per gli altri non avrò mai il muso e continuerò a ridere fino alla fine dei secoli… Sono allegro, almeno d’aspetto; ma tu sai quale implacabile ironia ci sia per me nella parola Allegria.Ti abbraccio, Ungà». (Testo letto dall’autore all’Accademia dei Lincei il 13 novembre 2009)
video Io e mio figlio MobyDICK
tv
16 gennaio 2010 • pagina 11
Il talento I di Buzzanca
l commissario Federico Vivaldi indaga nella bellissima Trieste, sede della sua squadra mobile. Un bel prodotto (Rai Fiction, in prima serata su Rai 1 in sei puntate) con un Lando Buzzanca che, a dispetto dei suoi anni (è nato nel 1935), risulta un uomo di mezz’età, funzionario credibile, ironico, paterno, argutissimo. E - questa la novità già sperimentata con due puntate nel 2005 - tribolato per la vocazione omosessuale del figlio Stefano, anche lui poliziotto. Dico subito che il tema dell’omosessualità è trattato con sobrietà, senza i caricaturismi e le sguaiate mode che ormai imperversano in radio, ove si esibiscono vocalmente gli homosex che danno discutibile spettacolo di sé, ciliegina forzatamente di moda e che pare irrinunciabile (risultato: che noia! E a volte: che fastidio quei gorgheggi rotondi che tutto sommato fanno male alla «causa»). Buzzanca in video è la riprova che dipende dal regista (in questo caso Luciano Odorisio) la valorizzazione delle doti da palcoscenico di un attore. Per anni e anni Buzzanca è stato confinato al ruolo di macchietta, sul filone del maschio arrapato, del siciliano che «vede nudo». Insomma, per citare una pellicola, è stato troppo a lungo il Merlo maschio (film del 1971). Con Pietro Germi, nel 1961, aveva cominciato bene: Divorzio all’italiana. Con lo stesso maestro, nel 1964, dette buona prova in Sedotta e abbandonata. Poi la scivolata nel vortice dei filmetti di serie B. Critica severa e miope. Ma questo dipese anche dal fatto che Buzzanca si dichiarava di destra: un bel guaio. Non a caso l’attore palermitano raccontò di essere stato scelto da Roberto Benigni per interpretare Mangiafuoco nel Pinocchio del 2002. Rifiutò perché il toscanaccio (molto di sinistra) non volle mettere il suo nome in locandina. E Buzzanca, con una certa fatica, ha deciso poi di affrancarsi dal macchiettismo sessuale. Si è dedicato al teatro e ha dato ottima prova, in tv, nei Vicerè (regista Roberto Faenza).Tra poco lo vedremo, sempre in tv, nella serie intitolata Lo scandalo della Banca Romana. Nelle sei puntate di Io e mio figlio Buzzanca si trova a dover risolvere vicende criminali che hanno sempre un aggancio con la
di Pier Mario Fasanotti
web
WHOOZY, L’AMICO RITROVATO
psicologia, con i problemi realmente esistenti e non con quelli inventati sul tavolino dell’enigmistica poliziesca. Affiancato dal figlio-poliziotto (molto bravo l’attore Giovanni Scifoni), il commissario Vivaldi evita di vantarsi dei propri dubbi: in questo caso si allontana dallo stereotipo del solitario, dell’unico uomo sulla terra che ragiona bene. I dubbi li instilla anche nei componenti della sua squadra. Un po’grezzo, anche se inevitabile in una fiction, il rapporto padre-figlio. Il primo severo ma sostanzialmente tollerante, pur con sopite (ma visibili) reazioni. Il secondo ossessionato dal voler dimostrare al padre, per giunta anche «capo», d’essere all’altezza, emozionalmente autonomo. È il confronto figlio-genitore alla base dell’orientamento sessuale. Laqualcosa è scelta per modo di dire, semmai risultanza di un conflitto non risolto, di un’assenza, di un abuso. Ci rendiamo conto, tuttavia, che la materia è scottante se la si vuole rappresentare con le giuste sfumature. Buzzanca-Vivaldi ha una sua vita privata.Vive separato dalla moglie Laura (l’attrice Caterina Vertova, molto espressiva), però la corteggia, ci dorme assieme, e assieme a lei ragiona, con molta prudenza, su un futuro ricongiungimento logistico. È lei ad avvertirlo: «Tu blocchi tuo figlio… lui pensa che non lo stimi abbastanza perché è un diverso». Il padre si barcamena, vuole recuperare terreno, senza però alterare il proprio carattere, che di natura è forte e autoritario. Ma sono gli anni, l’incanutimento e il procedere non più con l’agilità del quarantenne, ad ammorbidire il suo atteggiamento. Buzzanca recita, e assai bene, con gli occhi: penetranti, mai opachi. Nella serie non possono mancare personaggi di contorno che risentono dei luoghi comuni. Per esempio l’esperto d’arte che fa un po’ il gigolo, lo sciupafemmine galante. Come non mancano frasi spudoratamente banali: «Noi tutti dobbiamo attraversare il caos per ritrovare noi stessi». Purtroppo nella vita d’ogni giorno si sentono continuamente.
games
dvd
NELLA MORSA DEL SERIAL KILLER
ROSARNO, CINA, MONDO
C
he fine avrà fatto quel compagno di scuola che abbiamo perso di vista da tempo immemorabile? Come fare a recuperare informazioni utili sul suo conto? A questa e altre domande può rispondere Whoozy, primo motore di ricerca specificamente dedicato alle persone fisiche. Di utilizzo semplice e gratuito, e di origine tedesca, questo speciale ispettore dell’anagrafe scanda-
C
hicago è scossa da un nuovo omicidio. Le modalità dell’esecuzione fanno pensare al killer della East Coast mai arrestato pochi anni prima. Si apre così l’atteso sequel di Still Life, un poliziesco al femminile ricco di suspence e ritmi cinematografici che ha il pregio di offrire al giocatore una doppia possibile identificazione. Si può scegliere di incarnarsi nei panni dell’agente
e vicende di Rosarno che hanno riportato al centro dell’attenzione il lavoro nero e lo sfruttamento della manodopera non sono il sintomo di una inadeguatezza tutta italiana, ma di una tendenza globale. A ulteriore riprova, basta vedere China Blue, intenso documentario che il regista americano Micha Peled ha girato in una fabbrica di jeans nel distretto di Canton. Protagoni-
Un motore di ricerca segue e mette a disposizione le tracce lasciate nella rete dalle persone
“Still Life 2” offre una doppia identificazione e introduce una grafica 3D di buona fattura
Micha Peled racconta lo sfruttamento del lavoro minorile nell’intenso “China Blue”
glia la rete, i principali social network e gli innumerevoli blog alla ricerca di tracce utili in grado di ricondurci al contatto di nostro interesse. Suddivise per aree, le informazioni reperite da Whoozy vengono visualizzate in comode griglie, che comprendono inoltre eventuali materiali fotografici e supporti audio-video dell’interessato. È possibile inoltre, laddove il ricercato abbia lasciato traccia dei propri recapiti, recuperare numeri telefonici e indirizzi e-mail. E inoltre recuperare eventuali citazioni della persona desiderata in blog e forum di ogni genere. In casi di omonimia, è possibile inoltre affinare la query, grazie all’immissione di chiavi di ricerca. Buona caccia.
dell’Fbi Victoria, o in quelli della vittima perseguitata dal misterioso assassino, Paloma. Ricco di riferimenti tecnologici, come gli smartphone e i registratori digitali, o citazionisti, come il famoso kit della scientifica reso celebre da Csi, Still Life 2 si differenzia dal predecessore per una scansione a tempo, e per l’introduzione di un impianto grafico 3D, memore della finezza compositiva che aveva caratterizzato del primo episodio. Il plot investigativo non risulta invece particolarmente esaltante, concedendo più di qualcosa alla logica mainstream.
ste della pellicola Orchidea, Giada e Jasmine, tre ragazze comprese in un’età tra i quattordici e i sedici anni, alle prese con i turni massacranti dell’azienda tessile per cui lavorano e i difficili rapporti con il signor Lam, loro datore di lavoro. Assunte grazie a falsi documenti d’identità procurati dalla stessa azienda, le tre giovani cuciono i blu jeans destinati al mercato occidentale. I rapporti sempre più stretti con le multinazionali, gli accordi sottobanco con le griffe occidentali, il totale disprezzo di ogni più elementare norma di sicurezza: China Blue commuove per rigore e immediatezza, mostrando da vicino ciò che oggi viene celato da mille depistaggi. Da non perdere.
a cura di Francesco Lo Dico
L
MobyDICK
pagina 12 • 16 gennaio 2010
poesia
Cardarelli e “il solicello della lunga morte” di Filippo La Porta incenzo Cardarelli (Tarquinia 1887Roma 1959) è classico e modernissimo. L’ossessione dello stile(rifà continuamente i propri versi per perfezionarli), la sobria compostezza, la dedizione a un ideale cinquecentesco di letteratura, convivono con una inquietudine, e anzi una «insonnia» tutta novecentesca. La acuta, dolorosa consapevolezza della crisi è scandita da versi purissimi, non ignari del proprio carattere effimero: «Brevi sono le forme/ che il caos inquieto produce». Rappresentare il caos attraverso una lingua (sia poetica che prosastica) votata a un ordine disciplinatissimo. «Le mie giornate sono/ frantumi di vari universi/ che non riescono a combaciare (…)». Chi ha detto meglio, in modo così semplice ed essenziale, la scissione dell’io, e senza alcuna concessione all’informe (a volte un po’ facile) delle avanguardie? Cardarelli sa che si è spezzato per sempre il patto del soggetto con il mondo (l’«accordo esatto» che vigeva «tra me e le ore»), che le «allegre curiosità» dell’adolescenza sono «dalla coscienza scoperte e turbate». Però ciò non gli impedisce di evocare quell’«accordo» attraverso la scelta di una parola «esatta», luminosa e tagliente. Basti pensare all’aggettivazione «studiatissima» (Mengaldo): per esempio dell’intimità con un amico dirà che è stata «incresciosa» (in Amicizia).
V
ALLA MORTE Morire sì, non essere aggrediti dalla morte. Morire persuasi che un siffatto viaggio sia il migliore. E in quell’ultimo istante essere allegri come quando si contano i minuti dell’orologio della stazione e ognuno vale un secolo. Poi che la morte è la sposa fedele che subentra all’amante traditrice, non vogliamo riceverla da intrusa, né fuggire con lei. Troppo volte partimmo senza commiato! Sul punto di varcare in un attimo il tempo, quando pur la memoria di noi s’involerà, lasciaci, o Morte, dire al mondo addio, concedici ancora un indugio. L’immane passo non sia precipitoso. Al pensier della morte repentina il sangue mi si gela. Morte non mi ghermire ma da lontano annùnciati e da amica mi prendi come l’estrema delle mie abitudini. Vincenzo Cardarelli (da Poesie)
Notava giustamente su queste pagine Francesco Napoli che neanche il cinquantenario della morte ha risvegliato l’interesse per l’opera di Cardarelli, sempre un po’ in ombra rispetto al coetaneo (e per certi versi affine) Ungaretti. Come se fosse consegnata a una prudente immagine di colpevole restaurazione, di ostinato conservatorismo letterario. Certo la Ronda, rivista romana da lui fondata e diretta (1919-1923), auspicava un recupero dei valori poetici tradizionali contro ogni sperimentazione, eppure è anche attraverso Cardarelli che ho capito Nietzsche (uno dei suoi maestri, almeno accanto a Baudelaire e al Leopardi delle Operette morali)! Prendiamo la splendida Estiva: «Distesa estate/ stagione dei densi climi/ dei grandi mattini/ dell’albe senza rumore -/ ci si risveglia come in un acquario -/ dei giorni identici e astrali (…)». È una celebrazione quietamente dionisiaca della «stagione estrema» e della felicità meridiana, appena velata da un’ombra malinconica: la certezza del «sole traboccante», i giorni astrali, il tempo quasi rallentato in pause estatiche che evocano l’eternità… Ed è un Nietzsche solare, mediterraneo, depurato di tutto il kitsch superomistico (altro che D’Annunzio!) e della polverosa mitologia wagneriana, riportato a una misura classicamente sobria, interamente al di qua del bene e del male. Né si pensi, in relazione al suo neoclassicismo, a una poesia autoriferita e paga di sé. A rendere Cardarelli nostro prossimo è proprio quello che Sapegno definì un «urto» costante tra tensione dello stile e materia autobiografica. Forse la sua poesia (polemicamente contrapposta a ogni Ineffabile e ol-
tranza ermetica) va verso la prosa, e proviene dalla prosa, più di ogni altra nel secolo scorso, così come la sua prosa tende alla poesia. Si rileggano alcuni incipit: «Io pago tutto./ Non c’è peccato/ che io non abbia finora debitamente scontato» (Homo sum), «Io son come Mercuzio/ fra Capuleti e Montecchi/ risibile figura,/ incolpevole vittima» (Lamento), «L’idea che ci facciamo d’ogni cosa/ è cagione che tutto ci deluda» (Memento) o anche «Ecco la sera e spiove/ sul toscano Appennino» (Sera di Gavinana), «Ce ne sono di chiese e di chiesuole/ al mio paese, quante se ne vuole!» (Santi del mio paese), infine «Una volta, in questo mondo,/ il beneficio che avevo/ era immenso e ignorato» (Tempo immacolato). Assomigliano a pagine di diario, a lettere, a conversazioni, a capitoli di una autobiografia intellettuale, a volte severa e altre volte incline all’autocompatimento. Il suo canzoniere è un ininterrotto ragionamento filosofico, un discorso sul tempo, sul mutare delle stagioni, sull’infanzia, sulla vita e sulla morte.
Una volta ebbe a osservare che «Non per nulla in Dante, in Petrarca, in Leopardi, “ragionare” è sinonimo di poetare. E come discorrono questi poeti! Che divina eloquenza è la loro. Divina, s’intende, non in quanto differisca formalmente dall’eloquio comune, ma per la qualità degli affetti, dei sentimenti che chiama in causa…». Nelle poesie di Cardarelli si parte da una idea, da una riflessione, o anche da una immagine, che poi si sviluppa e si modula come un tema musicale (in ciò, benché rivolte al passato classico, poesie non immemori del simbolismo). Una volta ha voluto riassumere la sua poetica antiromantica di algida purezza in questi versi: «Ispirazione per me è indifferenza./ Poesia: salute e impassibilità». Dove però il gelo immacolato di un distacco ascetico, quasi autoimposto, serve a proteggere il calore degli affetti e dei ricordi, a ritrovare «piano piano i minuti vissuti», a custodire la precaria felicità di un’esperienza amorosa («Il più corto saluto è fra noi due/ un commiato finale./ Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo/ senza speranza»). Poesia tremante e sepolcrale, funebre e gioiosa, percorsa da una «vagabonda felicità» (Cardarelli fuggì di casa a 17 anni vagabondando in cerca di fortuna) e come incrinata da una stanchezza atavica, sempre prossima all’autunno, a quel sole pallido «ch’è il solicello della lunga morte». Nel componimento che ho scelto si auspica che la morte diventi l’estrema delle abitudini: qualcosa dunque di familiare, domestico, quotidiano. Ma potrà mai diventare un’abitudine la morte? Evidentemente no. Ma educarci a considerarla tale, ad accoglierla come un’amica (e, paradossalmente, moglie fedele), appartiene a una visione laica e leopardianamente disincantata («vaga e triste è degli uomini la sorte»), a una disperazione serena, autunnale che si affida all’incanto del ritmo e dei suoni: «il bene è l’infrazione, il male è norma».
MobyDICK
16 gennaio 2010 • pagina 13
il club di calliope LA MORTE DI COLUM Quando le ombre si distesero sulla terra degli elfi la luna si acciambellava sopra i tetti di torba, le madri preparavano la cena e i padri la legna per riscaldare le stanze. Nessun Dio nessuna religione può trasformare in lupi gli agnelli. Anche noi abbiamo scelto la lotta, fratello. Nessuna imboscata sotto stelle innocenti né canne di fucile riflesse nel lago. Siamo gli occhi che arrivano sino a te, Caino: ovunque tu sia. Sul muro dell’odio scriviamo i nostri versi affinché i falsi cristi e i falsi profeti non ingannino i discepoli.
UN POPOLO DI POETI Il mio paese è malato di incultura di dimenticanza storica e di rassegnazione, di prepotenza di uno di paura di altri io penso che sia ora che i poeti lascino la rima cuore amore per salvare la poesia che si trova nel volto ferito dell’altro.
Renzo Morini
Paolo Lisi
UN “IRRIVERENTE” A TU PER TU CON LA VITA in libreria
di Nicola Vacca l Novecento è andato via e si è portato dietro i suoi codici e i suoi canoni. Di là delle scuole che lo hanno influenzato, c’è da chiedersi cosa rimarrà della letteratura di questo secolo tormentato e difficile in cui non sono mancate tendenze e idee. La riscoperta della lezione di Carlo Bo (Letteratura come vita) forse potrebbe esserci utile per apprezzare, soprattutto nella poesia, quella parte in ombra del Novecento in cui già esisteva un pensiero sgombro dai condizionamenti ideologici. All’epoca era molto forte il legame tra la cultura letteraria e l’ideologia. Chi non lo sottoscriveva ha pagato un conto molto alto. Non si può dimenticare l’isolamento di grandissimi poeti e scrittori che con coraggio hanno apertamente combattuto questo binomio dannoso. Carlo Cassola e Giorgio
I
zione di Romano Leoni, sarà possibile rendersi conto dell’importanza capitale che alcuni autori dell’altro Novecento hanno avuto nella comprensione delle contraddizioni di un secolo che poco ha ascoltato i suoi figli migliori. La poesia di Romano Leoni riconosce e legge il nostro tempo. La vocazione alla nitidezza del verso lo conduce a una riconoscibilità stilistica che supera tutte le matrici storico-culturali del momento. Occupandosi dell’uomo e del suo rapporto con la civiltà, Leoni scrive poesie per cercare nelle parole il senso dell’esistere. La lingua è pura e tende sempre, opponendosi alle scelte dell’avanguardia, a un faticoso recupero delle ragioni umane. «Considero il mio rapporto con la quotidianità come il miglior rapporto con la poesia… nel senso che poesia e quotidianità
Il lirismo civile di Romano Leoni nelle “Poesie. 1950-1995”. Un isolato del Novecento, che a stereotipi e modelli, ha preferito la dolorosa verità dell’esistenza Bassani furono considerati dalle cosiddette avanguardie nemici da neutralizzare. Mi vengono in mente anche i nomi di Girolamo Comi, Salvatore Toma eVittorio Bodini. Romano Leoni fa parte di questa schiera di isolati e appartati. In vita ha pubblicato soltanto due raccolte. Su Officina, nel 1956, Pasolini recensendo Tenerezza del mondo parla di «maledettismo astorico». Siamo davanti a una poesia che non richiama nessuna delle esperienze contemporanee, ma si innesta nel panorama più ampio e complesso della coscienza poetica europea. Leggendo il volume delle sue Poesie. 1950-1995 (Book editore, 208 pagine, 20,00 euro), che comprende quasi tutta la produ-
sono inscindibili, ma allo stesso tempo carichi dello stesso modo di essere e di vivere». Così Leoni spiegherà in un’intervista le ragioni autentiche del suo lirismo civile che ci mostra l’uomo intento a chiarire i suoi rapporti con questa sua «vita difficile». La vicenda poetica di Romano Leoni è attuale perché a questo compito, oggi più che mai, è chiamata la poesia. L’isolamento umano di Leoni, che nella sua opera ha rifiutato gli stereotipi e i modelli, suggerisce una verità che infastidisce ancora i critici strutturalisti. Il meglio del Novecento letterario è tutto da scoprire, ed è nella storia personale e artistica dei suoi irriverenti antinovecentisti che erano già andati oltre.
Tremulo dardo nel cielo sale elenca novanta verticali troni lanciati tra torri prive di scale Urla e doni Dardo Francesco Aresco
Abito il mare e le spiagge La spuma azzurra che mi sfrange il viso Ma non sono un pesce Ma navigo tra mondi e mondi E sono ormai di acqua di sabbia di conchiglia E anche se non avessi una barca Navigherei perché il mare Scende sul mio corpo azzurro.
Cecilia Murri
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
MobyDICK
pagina 14 • 16 gennaio 2010
mostre
nche a non esser troppo d’accordo con questo mercimonio e traffico continuo di opere da un museo all’altro, che connota questo nostro periodo continuo di frenesie mostrificanti, un’eccezione doverosa andrà fatta, per l’abitudine abbastanza anglosassone dell’opera unica ospite, della mostrastudio, dapprima tentata a Bologna, ora di casa al Museo Diocesano di Milano. Legittima assoluzione, proprio per il lodevole intento conoscitivo (con appresso ben curato cataloghino Silvana) e la tensione «devota», per isolare a sé un’opera davvero significativ-eccezionale ed accendervi sopra il flash «longhiano» dell’indagine analitica. «Staccando» l’opera stessa dal contesto, per esempio veneto-lombardo, della Pinacoteca Tosio Martinengo da cui questo capolavoro di Lotto proviene, rischiando d’esser soffocato da altre presenze similari e non meno autorevoli. E questa soffusa Natività del veneziano, che dopo la festeggiata villeggiatura milanese tornerà trionfalmente riaccolta tra le braccia luminose del museo bresciano, ha in più la giustificante coccarda, d’esser stata recentemente premiata da un efficace restauro. Che non solo ha restituito all’insieme uno squillo cromatico d’intensità più veneta che lombarda, ma ha rivelato anche l’importante presenza oscurata della firma L. Lotus (anche se non c’era bisogno di questa stampella positivista - tanto l’opera è già di per sé lottesca), ma pure l’importante data del 1530, tracciata umilmente sulla pietra contadina della mangiatoia (dettaglio rivelatore). Data significativa, che le permette di situarsi in un contesto lagunare, quando il Lotto stenta, tra altri rivali di ben altro nome, quali Tiziano, Giorgione, Carpaccio, ma anche Catena, Cima, Pordenone, a imporre la propria autorità ufficiale per pale d’altare vistose e ripiega dunque, prima di fuggirsene inquieto nella retraite monacale marchigiana, in una brillante attività di artista fidato per committenze private (come dimostra anche la, pur notevole, dimensione orizzontale di questa dolce Natività crepuscolare). E che la destinazione di questa Adorazione dei pastori sia privata (addirittura legata all’aristocratica famiglia veneziana dei Gussoni, come sostenuto dal primo menzionatore ottocentesco, il Brognoli) lo rivelano bene quelle fisionomie quasi gemellari dei due pastori ado-
A
Gli squilli cromatici di Lorenzo
Lotto di Marco Vallora
ranti (il naso leggermente distinto, certo, ma gli occhi sono gli stessi, e analogo l’attacco dei capelli, anche se il probabile fratello maggiore è già segnato realisticamente da un’ampia stempiatura realistica, secondo la moda dei cripto-ritratti umanistici, ben studiata da Francesco Frangi in catalogo). I due pastori adoranti, che entrano in scena sospinti dai serafici angeli, atterrati e solleciti, e che non sono più degli zelanti committen-
arti
ti, secondo un’iconografia più antica, ma dei testimoni intimiditi, che han velocemente calzato degli umili panni agresti, per non perdere quest’occasione clamorosa e spettacolare, di figgere gli occhi stupefatti e calamitati, sopra la luce divina e soprannaturale, che promana da quella morbida creatura, gonfia di latte e di salute contadina, trasformando la modesta capanna in un mistero glorioso di luce esterefatta. Creatura umanissima e già intraprendente, autonoma, quel piccolo Dio incarnato, le gote arroventate di curiosità leonardesca e le mani leste a saggiare la morbidezza arrendevole del vello del tremante agnellino spaesato, che i due fratelli delicatamente gli propongono all’abbraccio simbolico. Un semplice bambino, deposto sul manto trepido e tiepido della Vergine, che s’è così imprigionata a vita, ma che gli evita di soffrire le spine di quella vilissima cesta di paglia pungente, su cui è adagiato. Già descritta con un realistico dettaglismo più pre-caravaggesco che fiammingo. Certo, l’aria che circola tra quelle cromie veneziane è tutta di Lombardia, tra Savoldo e il Moretto, con una punta inconfondibile di Lotto, che non ha ancora però sposato per sempre quella sua nevroticità compositiva, spastica e sgrammaticata, sbilanciata, che sarà del periodo più tardo. E del resto i panni aristocratici che trapelano dal rustico travestimento pastorale dei due committenti, fiocchi, giubbe, anelli, parrebbero provenire direttamente dalla sartoria del Moroni. Se non fosse per le ali «manieriste» di quegli angeli che accendono di mistero la notte incipiente e pastellata della capanna, come bene suggerisce l’intenso testo di Paolo Biscottini, a rievocare la voce di Longhi, che vede trasformarsi la Sacra Conversazione veneziana in «una riunione confidenziale, che accomuna sullo stesso terreno e distribuisce la stessa indole ai personaggi divini e umani». Ma si guardino le mani soavi degli angeli custodi, che non si limitano ad appoggiarsi protettive sui due fratelli, ma che li sospingono con una certa autorità, a violare la loro pudica ritrosia. E si rileggano le prediche coeve di Savonarola, «Va’ figliol mio a questo santo presepe»: è come l’invito pressante a entrare dentro un «ordine» religioso. Lorenzo Lotto, La Natività, Milano, Museo Diocesano (poi alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)
diario culinario
Mangiare a Napoli come al tempo di Eduardo di Francesco Capozza isotto al gorgonzola… salmone marinato… spaghetti alla bolognese… tagliatelle al pesto… cotoletta alla milanese… cotoletta alla bolognese… spiedino alla romana… Chi non è mai stato alla Bersagliera e si mette a leggere lo sterminato menù viene preso dallo sconforto, convinto di aver prenotato in un ristorante per turisti provenienti dall’Oklahoma (che è pur sempre lo Stato di Chet Baker). Il consiglio è quello di rifiutare lo sgomentevole papiello e di ordinare senz’altro i formidabili spaghetti alle vongole, i migliori a nostra memoria per quanto riguarda ogni ingrediente e fattore: pasta, molluschi, punto di cottura. Perché alla Bersagliera sanno ancora cucinare come al tempo in cui il pignolo
R
Eduardo De Filippo diceva della fondatrice: «Donna Emilia sape quello che fa e io saccio chello che me mangio». Doveva essere una forza della natura donna Emilia Del Tufo, figlia di bersagliere, capace di mostrarsi col cappello piumato in testa, di consumare due mariti, di sfornare dodici figli e di trattenere per la camicia, ormai in tarda età, quell’altro malmostoso di Pier Paolo Pasolini che aveva osato prenotare da un ristorante rivale. Quarantasei anni dopo il passaggio del regista del Vangelo secondo Matteo, gli eredi della bersagliera forniscono ancora delle belle prestazioni culinarie, a patto che le ordinazioni conservino l’accento napoletano. E dopo gli spaghetti alle vongole, mai sufficientemente elogiati, si chiede, non paghi, un sautè sempre di vongole (e anche una formidabile ’mpepata di cozze), una
mozzarella in carrozza, giusto per ricordare che la cucina partenopea è tutt’altro che leggera. Alternative affidabili sono il pesce all’acqua pazza o al sale e fra i dolci ovviamente il babà, il vero motivo per cui Domenico Rea continuò ad abitare nell’amata-odiata Partenope fino alla fine dei suoi giorni («Non abbandonerò mai Napoli! Mai! Mi piacciono i babà, col rum, soffici come bambagia»). Siamo insomma in un tempio della vielle cuisine, dove non solo si può mangiare bene ma anche essere serviti e riveriti (da camerieri gentilissimi) e non infastiditi dagli ambulanti che affliggono gran parte della ristorazione napoletana: qui anche i venditori sono signori e non insistono. Ma la Bersagliera non è solo un ristorante, è un panorama unico al mondo. A pochi centimetri dai tavoli ci sono le
barche dei più prestigiosi circoli nautici di tutti gli oceani, con splendidi legni anche d’epoca. A pochi metri si alza la massa primordiale del Castel dell’Ovo, isola rocciosa e luminosa, opera ennesima di Federico II stupor mundi, galera di Francesco De Sanctis dal 1850 al 1853, modello non dichiarato ma evidentissimo del Guggenheim di Bilbao disegnato da Frank Gehry (e chi non condivide quest’affermazione che Renzo Piano lo colga). In una città dove - gli amici napoletani non ce ne vogliano - è difficile, se non nelle case, mangiare le prelibatezze dell’antica cucina dei monsù, questo indirizzo rifulge come barlume nella notte. Prenotare, subito. Sui 35,00 euro.
La Bersagliera, Borgo Marinaro 10, 081.7646016
MobyDICK
16 gennaio 2010 • pagina 15
architettura
A Ravello l’inconfondibile segno di Niemeyer di Marzia Marandola e architetture di Oscar Niemeyer, o meglio l’iter progettuale dell’ultracentenario maestro brasiliano, suscitano frequentemente perplessità, soprattutto in coloro, architetti e ingegneri, che quotidianamente si confrontano con i complessi problemi del cantiere e del costruire. Il procedimento dell’architetto brasiliano, che prefigura i suoi progetti in pochi icastici schizzi, dal segno tanto spo-
L
glio quanto efficace ed esaustivo, lascia alcuni sconcertati e altri ammirati. Se da un lato infatti affascina constatare come le opere realizzate da Niemeyer rispecchino fedelmente i suoi semplici e quasi ideogrammatici schemi di progetto, dall’altro sconcerta il fatto che per la gran parte delle opere il maestro deleghi a esecutori esterni la messa in opera del manufatto. Niemeyer non ama volare, anzi ha una
archeologia
gran paura di salire su un aereo; si racconta che, costretto da urgenze irrinunciabili a prendere l’aereo, Niemeyer potesse viaggiare solo se completamente ubriaco e quasi privo di sensi. Di conseguenza i suoi trasferimenti in Europa sono stati effettuati, il più delle volte, in nave, con tempi lunghissimi di viaggio. È questa la ragione ufficiale del fatto che tante opere progettate da Niemeyer, soprattutto quelle fuori dai confini brasiliani, sono solitamente affidate in fase costruttiva a esterni, che eseguono le sue indicazioni e possono attingere a un repertorio prestabilito di modelli costruttivi e di finiture, soprattutto ora che si avvicina a compiere 103 anni. Tra le opere più riuscite in Italia di Niemeyer si annoverano la sede della Fata, acronimo di «Fabbrica
automazione trasporti e affini», il palazzo per uffici a Pianezza, a pochi chilometri da Torino e pochi anni prima, lo straordinario edificio della Mondadori a Segrate. Quest’ultimo, contrassegnato da un’audace sequenza di arcate, ha dimostrato l’efficacia propagandistica dell’architettura nella divulgazione dell’immagine di un’industria moderna. In questi giorni è in completamento l’ultima, discussa, opera italiana di Niemeyer, che all’età di 104, ha firmato un piccolo auditorium a Ravello, che sarà inaugurato il 29 gennaio, contestualmente a una mostra dedicata all’architetto brasiliano, e il cui progetto fu donato nel settembre del 2000 al sociologo
Domenico De Masi, presidente della Fondazione Ravello. Niemeyer ha dichiarato di «voler creare un complesso architettonico non eccessivamente costoso, semplice e ardito al tempo stesso, capace di inserire nel paesaggio ravellese un segno inconfondibile ma non dissonante». Ravello, elegante centro della costiera amalfitana, è sede di un prestigioso e antico festival italiano, il più antico dopo il Maggio Musicale Fiorentino, un evento però che si svolge all’aperto e solo nella stagione estiva. Per i promotori dell’opera, l’auditorium consentirà di trasformare Ravello in un vero centro internazionale per la musica e lo spettacolo.
Capolavori del Regno Hashemita di Giordania e Sale delle Bandiere del Palazzo del Quirinale ospitano 60 capolavori risalenti alle varie fasi della storia della Giordania, dal Neolitico fino ai tempi dell’Impero Ottomano. Le opere, alcune delle quali concesse per la prima volta dai musei di Petra e di Amman, raccontano l’eccezionale ricchezza di un paese che ha attraversato oltre dieci millenni di storia ed è stato un crocevia di popoli e di culture, un trait d’union costante tra l’Oriente mesopotamico, la Valle del Nilo e il Mediterraneo. Abitata sin dal Paleolitico, la Giordania conosce un periodo di grande sviluppo nel Neolitico, la cui economia si basa soprattutto sull’allevamento degli ovini e dei caprini, mentre nei campi si seminavano i primi cereali. All’inizio del III millennio avanti Cristo, con l’avvento delle civiltà metallifere e l’invenzione del tornio per la fabbricazione dei vasi, nasce un artigianato fiorente. Il commercio si sviluppa e appaiono anche i primi mercati legati a vasti insediamenti urbani protetti da mura difensive, come quello che la missione archeologica dell’Università La Sapienza di Roma sta riportando alla luce a Khirbet al Batrawy. I cinque anni di scavi sulla rocca di Batrawy nella Giordania centro-setten-
L
di Rossella Fabiani trionale hanno svelato i momenti fondamentali della vita di quella che fu una delle prime città-stato del Levante nel III millennio avanti Cristo e un nodo nevralgico dell’antico traffico carovaniero: una vera e propria porta aperta sul deserto. Batrawy fu anche centro carovaniero quando nel III millennio avanti Cristo il dromedario e il cammello non erano ancora addomesticati nel Vicino Oriente antico. Lo provano i numerosi resti di ossa equidi e di onagri raccolti negli scavi. Le carovane di asini che facevano capo alla rocca di Batrawy erano formate da 20 a 30 animali, potevano compiere tappe di quasi 20 chilometri al giorno e itinerari di diverse centinaia di chilometri. Oltre all’Università La Sapienza di Roma, in Giordania operano altre missioni archeologiche di enti e istituzioni italiane dall’Università di Firenze, al Centro Scavi dell’Università di Torino, l’Università di Perugia, l’Istituto di Studi per l’Africa e l’Oriente (Isiao) e, infine, lo Studium Biblicum Francescanum della Custodia di Terra Santa dei Frati Francescani, tutte impegnate nello studio dei beni archeologici del Regno Hashemita di Giordania, sostenute anche dal Ministero degli Affari Esteri. I reperti esposti al Quirinale ripercorrono la storia di questo paese nel quale si sono succedute diverse culture. Ma i territori dell’odierna nazione giordana sono stati
anche teatro di eventi cruciali come, solo per citare i più significativi, i conflitti incessanti con i re di Israele nel corso dell’età del Ferro; la conquista persiana nel 537 avanti Cristo; l’arrivo di Alessandro Magno che nel 330 avanti Cristo aveva completato la conquista della Persia e creato un impero che si estendeva dalla Grecia all’Iran, Giordania compresa; l’avvento dei Nabatei, un popolo nomade proveniente dalla Penisola araba che si installarono nel paese e strapparono Petra agli Edomiti facendone la loro capitale; l’inserimento del regno nabateo nella Provincia romana d’Arabia da parte dell’imperatore Traiano o, ancora, nel 395 dopo Cristo, l’assegnazione della Giordania all’Impero Romano d’Oriente, da parte di Teodosio I. Il catalogo della mostra Giordania. Crocevia di popoli e di culture è a cura del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica in collaborazione con Civita.
Giordania. Crocevia di popoli e di culture, Roma, Palazzo del Quirinale, fino al 31 gennaio
pagina 16 • 16 gennaio 2010
fantasy
vviva, l’Unità sdogana finalmente J.R.R.Tolkien! Ci ha impiegato la bazzecola di quarant’anni esatti, ma si è decisa finalmente a farlo. Come mai? Ha infatti scoperto che l’autore del Signore degli Anelli è un «tardormantico» che si inserisce nel filone letterario che da Novalis arriva, in Gran Bretagna, sino all’antimoderno ed esaltatore del Medioevo William Morris, e al precursore dell’horror e della fantasy moderni George MacDonald: questo a suo dire lo assolverebbe finalmente dall’infame accusa di essere «di destra» e di essere interpretato «da destra». Ecco il motivo per cui la critica che fa capo al giornale che fu di Gramsci, del Pci, del Pds e ora del Pd, si è decisa ad accettarlo fra le sue braccia redentrici… La sinistra cultural-giornalistica ha un problema: non ha quasi più punti di riferimento, se proprio non vogliamo usare la parola miti. Li ha rottamati tutti. Sicché non può far altro che appropriarsi di quanto non è mai stato suo, oppure semplicemente cercando di demolire il lavoro critico che dalla parte avversa è stato fatto per valorizzare autori che oggi pensa di far suoi. Un lavoro di retroguardia e di retrocultura che ha una duplice base teorica: la prima è che il termine «destra» e simili ha ancora e sempre un valore di per sé negativo, dispregiativo, da cui è necessario disfarsi e da cui è obbligatorio assolvere ai suoi occhi lo scrittore, il poeta, lo storico, il regista, il cantante, l’attore ecc. ecc.; la seconda è che non si può accettare in toto, non si può accogliere completamente uno di costoro se non lo si è mondato dall’infamante «accusa», se non lo si è - appunto - «redento», come ha ben spiegato nel suo libro di pochi anni fa Mirella Serri. Il tempo passa, il mondo cammina, le cose si evolvono ma i cosiddetti progressisti da questo punto di vista non fanno alcun progresso.
MobyDICK
ai confini della realtà
E
Ultima prova è l’Unità del 7 gennaio scorso sulle cui pagine è apparso l’illuminante articolo di un suo redattore, Roberto Arduini, con il seguente titolo: «Di destra? No era un romantico. L’Italia finalmente capisce Tolkien». A parte il fatto che i romantici non furono mai considerati dei «progressisti» ma sempre dei «conservatori» per il loro amore per i miti del passato e la riscoperta delle tradizioni nazionali e la rivalutazione di passioni e sentimenti, che cosa c’entra mettere sullo stesso piano i due termini? Lo si capisce leggendo l’articolo che prende lo spunto da un libro collettaneo dedicato a Tolkien, La falce spezzata, in cui tra le altre cose si sostiene la tesi che il professore di Oxford fu un «tardoromantico» inglese sulla scia di Morris e MacDonald, per sostenere che questa tesi metterebbe in mora e farebbe decadere «le interpretazioni allegoriche, tradizionaliste e mistico-dualiste», cioè le interpretazioni considerate «di destra» (inserendo quindi tra esse anche quella crstiano-cattolica). Ora, questa non è che una corbelleria o addirittura una castroneria: ma passando l’Arduini per un esperto tolkieniano che certe cose le dovrebbe ben sapere dobbiamo ritenere che si tratti di affermazioni in mala fede. Infatti, nessuno fra la critica definita sprezzantemente «di destra», ha mai sostenuto interpretazioni «allegoriche», respinte esplicitamente dallo stesso Tolkien: ad esempio, che la Guerra dell’Anello sarebbe una allegoria (o una metafora) della seconda
Il romanticismo che sdogana Tolkien guerra mondiale e Sauron quella di Hitler, come hanno appunto scritto alcuni interpreti ideologizzati che volevano trascinare per forza Tolkien sul piano politico. Si è invece sempre sostenuta una interpretazione simbolica, cosa diversa dall’allegoria e dalla metafora, come ben dovrebbe sapere l’Arduini e come invece forse non sa: la Guerra dell’Anello, per restare all’esempio fatto, simboleggia invece lo scontro fra un Potere ingiusto, malvagio e prevaricatore e un Potere giusto, positivo e vivificatore che fanno rispettivamente capo a Sauron/Saruman e a Gandalf/Aragon. Del resto, non si capisce il motivo di tanta indebita euforia: la tesi di un Tolkien «tardoromantico» non contraddice affatto la tesi simbolica o mitico-tradizionale, semplicemente perché i piani inter-
di Gianfranco de Turris pretativi sono diversi. Nella prima, a quanto scrive l’Arduini, appare un Tolkien che cantò i miti ancestrali, esaltò il coraggio individuale e collettivo, rivalutò il passato, amò la Natura, ma anche, si può aggiungere, ripropose l’epos in pieno Novecento, sparse in tutte le sue opere i temi tradizionali, si oppose al Potere negativo e corruttore. E allora in cosa risiede la capacità di questa interpretazione di sostituirsi all’altra?
Il punto è un altro, molto più sottile e inespresso. La critica di sinistra di cui il buon Arduini fa parte non sopporta che si possa dare una interpretazione spirituale, metafisica, mitica e anche religiosa (di qualunque genere di religiosità, da
Dopo quarant’anni, la critica di sinistra che più lo aveva osteggiato, senza risparmiargli gli epiteti di fascista, reazionario e razzista, tenta di appropriarsene demolendo il lavoro di chi, per tutto questo tempo, lo ha studiato e apprezzato. Ma la lettura che lo “emenda” è contraddittoria...
quella cattolica a quella «pagana») delle opere di Tolkien. È al di fuori delle sue coordinate mentali, culturali e psicologiche. Non potendo contraddirla all’interno, cerca di sostituirla all’esterno con altre: in questo caso (come nel caso di altri libri italiani precedenti che non hanno lasciato una significativa traccia critica e di cui nessuno si ricorda già più) con una analisi di tipo puramente letterario, facendo ricorso alla categoria del «romanticismo», che è una categoria soprattutto letteraria anche se ha una sua precisa Weltanschauung, in cui si vuol far rientrare Tolkien. Insomma, Il Signore degli Anelli è un bellissimo romanzo di fantasy adulta, una serie di avventure coinvolgenti, un esempio di «tardo romanticismo» sulla scia di William Morris, ma non andategli a chiedere di più, per favore. Il romanzo che ha segnato il Novecento e che ha cercato con successo di riportare l’epica nella letteratura del XX secolo attingendo ai miti e alle leggende che sono alle radici dell’Occidente, ridotto a un epigono di Novalis (che fu un grande, basti pensare alla sua proposta di un «idealismo magico»). Il che, dal punto di vista, estetico-letterario potrebbe essere anche un nuovo e positivo elemento, ma che certo non contraddice né si sostituisce alle tesi sostenute ed espresse nell’arco di quattro decenni da quelli che l’Arduini definisce «i più zelanti alfieri dell’interpretazione di destra» (vale a dire il sottoscritto e l’amico Quirino Principe). C’è voluto il tempo di un paio di generazioni perché il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e diretto da Concita De Gregorio, che insieme ad altre testate progressiste sputava negli anni Settanta contro Tolkien accuse del tipo «fascista!», «reazionario!» e «razzista!», da accusatore ne diventasse il difensore e l’esaltatore…