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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

ALTRE La narrativa (vincente) che viene dall'Est

LETTERATURE di Pier Mario Fasanotti al dopoguerra fino a poco tempo fa quando si diceva narrativa straniera che sono diventati europei da poco o lo diventeranno prossimamente: Romania, si pensava agli americani, agli inglesi, ai francesi e, più raramente Turchia (il caso del premio Nobel Pamuk farà certamente da levatrice cultuI Nobel (peccato!), ai tedeschi. Altri germogli di prosa sono nati nell’ulrale), zone dell’Europa dell’Est dove è usata la lingua tedesca, Albania, timo decennio: spagnoli e portoghesi. Infine c’è stata l’onCroazia e in genere le zone dell’ex Jugoslavia. È l’ inizio di un piaa Pamuk e a Herta data, che ha visto vendite strabilianti e non smette la sua cacevole assedio. Nessuno di questi autori ha comunque un imMüller hanno fatto rica irruente, degli scandinavi (vedi anche articolo nella patto forte, tale da essere paragonato a quello svedese. da battistrada. Ora da Turchia, pagina seguente, ndr). Oggi ci sono anche gli «alTanto è vero che la Longanesi, spezzando il quasi monopolio della Marsilio, si è aggiudicata i ditri», ossia libri provenienti anche da terre un Romania, Albania, Ungheria, Croazia ritti del best seller internazionale firmato, pare, tempo fertili in quanto a narrativa. Per esempio arrivano romanzi che aggrediscono da un esordiente, Lars Kepler, autore dell’Ipnotista. l’Ungheria: qualcuno ricorderà che negli anni Trenta/Quaranta gli scrittori di Budapest - con Ferenc KormenKepler, che è uno pseudonimo (ma di chi?), ha inviato all’ele classifiche di tutto il mondo di (1901-1975) in testa - andavano molto di moda. Ormai il lettoditore Albert Bonniers il suo testo. I lettori di Stoccolma si dicosenza nessuna re deve confrontarsi con temi e ambienti diversi. Salman Rushdie ha no entusiasti. Prima tiratura: 30 mila copie. soggezione... aperto il filone indiano, il premio Nobel Gao Xingjian quello cinese, Nagib continua a pagina 2 Mahfuz quello nord-africano. Ma poco ancora sappiamo della prosa dei paesi

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Nascondimento di Sergio Valzania Il fascino ipnotico dei Tindersticks di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Quel “maudit” di Tarchetti di Francesco Napoli

Tommaso d'Aquino, la maestà e la paglia di Sabino Caronia Il felliniano “Nine” e George tra le nuvole di Anselma Dell’Olio

Tassi, tre pittori e la natura di Marco Vallora


altre

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Svezia & dintorni

letterature

sa anche da Mondadori, ma con minor successo). Ci si interroga spesso sul perché il congegno narrativo svedese funzioni così bene, e come mai gli abitanti di Stoccolma e dintorni siano così versatili sul filone criminale. La connessione freddo-buio-solitudine porta forse a scavare negli anfratti oscuri dell’anima? Certamente una certa malinconia (favorita da inverni lunghi e scurissimi) induce a elucubrazioni non proprio gioiose. Ma Camilla Läckberg, trentacinquenne che ha già venduto sei milioni di copie in 27 paesi (esce ora da Marsilio La principessa di ghiaccio), preferisce insistere sul crack di una società erroneamente creduta perfetta: «I lettori stranieri - dice - si sentono sollevati al pensiero che anche gli altri siano infelici. Il thriller è perfetto per un mondo in crisi». Il suo romanzo è ambientato a Fjällbacka, cittadina fin troppo quieta della costa occidentale. Di lei ha detto un critico: «Va oltre gli stereotipi e insegue l’interrogativo su come qualcuno possa togliere la vita a un altro». Il romanzo, che ha una struttura alla Agata Christie, diventerà presto film (produzione francese). Altra star femminile è Liza Marklund, che qualcuno chiama la first lady del giallo svedese. Marsilio ha pubblicato due suoi romanzi: Il lupo rosso e Il testamento di Nobel. La sua eroina, Annida, è una donna che si barcamena tra lavoro e famiglia, tra impegni giornalistici e insicurezza sentimentale. L’ultimo suo lavoro penetra nei meandri della scienza (ecco perché c’è Alfred Nobel nel titolo) con l’ostacolo di un silenzio stampa che vorrebbe tener nascosti i lati peggiori del potere, descritto in tutta la sua meschinità. Ma ci sono altre due donne molti abili nella scrittura, bestselleriste di fama. La prima si chiama Äsa Larsson (omonima dello scomparso Stieg, ma non parente), avvocato fiscalista e creatrice del personaggio Rebecka Martinsson, non a caso un legale. I suoi romanzi sono connotati da una forte carica emotiva e dalle domande, che compaiono sempre: sull’origine del male, le proprie origini, la solitudine e, inevitabilmente, la ricerca dell’amore. Il suo ultimo thriller s’intitola Sentiero nero, e fa seguito (sempre edito da Marsilio) a Tempesta solare e a Il sangue versato. La seconda fuoriclasse scandinava è nata in Norvegia e si chiama Anne Holt: ex giornalista, ha collaborato con la polizia come psicologa criminale, ha esercitato come avvocato per poi diventare ministro della Giustizia dal 1996 al ’97. La pubblica Einaudi, e i titoli più noti sono Quello che meriti e Non deve accadere. S’inserisce nella tradizione dell’inglese P.D. James e dell’americana Patricia Cornwell. È molto apprezzata da Carlo Lucarelli, gran intenditore del genere poliziesco. A (p.m.f.) ingadare è una coppia. Gusto per la precisione, atmosfere rarefatte.

Il thriller perfetto per un mondo in crisi a pista era già stata aperta. Stieg Larsson, con la sua trilogia imperniata sulla strana coppia di indagatori, ha solo fatto esplodere in termini di notorietà (un milione e mezzo di copie vendute nel nostro paese), - grazie anche al film Gli uomini che odiano le donne - lo straordinario caso della letteratura gialla svedese. A tal punto che verrebbe quasi da dire che nell’innevata terra del nord-Europa ci sono più criminali e vittime che non abitanti. Un tempo era la casa editrice Iperborea ad avere l’esclusiva dei narratori venuti dal freddo. Ormai il pressoché monopolio lo detiene la Marsilio, che ha puntato su cavalli tutti vincenti. A cominciare - ecco l’apripista vero - da Henning Mankell, che in Italia ha venduto oltre il milione di copie con 13 romanzi (una sua serie è compar-

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segue dalla prima Alla Fiera del libro di Londra le case editrici si contendono la traduzione del romanzo che annusano come asso vincente al pari di Stieg Larsson con la sua famosissima trilogia. Intanto in Svezia si vendono centomila copie in soli due mesi. Ventotto paesi lo lanciano nei rispettivi mercati. L’ipnotista è un thriller, incentrato sulla terribile verità rivelata, appunto sotto ipnosi (termine che deriva dal greco hypnos, ossia sonno, mitologicamente rappresentato da un ragazzo alato), da un pre-adolescente, unico testimone di un massacro. Le sue parole sono destinate a risolvere il caso, ma anche a sconvolgere la vita di chi le ha ascoltate. E ora veniamo agli «altri», come sbrigativamente li abbiamo definiti. La sorpresa internazionale è stata il premio Nobel del 2009, Herta Müller, della quale il primo editore italiano è stato Roberto Keller di Rovereto (con Il paese delle prugne verdi).

In dicembre, da Marsilio, è uscito In viaggio su una gamba sola. Ora va all’assalto la Sellerio, con Lo sguardo estraneo, storia ansiogena, ma quanto mai metaforica, della paura e della vigilanza su un essere umano. Seguirà, sempre per l’editore siciliano, Cristina e la sua imitazione, uno testo autobiografico in cui la scrittrice s’addentra nella lettura del dossier che la riguarda, redatto dagli agenti della «Securitate» di Budapest. Ricorda molto la scena finale del film Le vite degli altri, ambientato a Berlino est sotto l’asfissiante controllo della «Stasi». Herta Müller è romena di nascita e nel 1982 si è trasferita in Germania (e scrive in tedesco). La Müller ovviamente non è l’unico scrittore valente della Romania. È solo il più famoso. Per ora. Lucian Dan Teodorovici (nato nel 1975), autore dell’ormai famoso Il nostro circo vi presenta, e Petru Cimpoesu (1952), autore di Il santo in ascensore (edito in Italia

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

dalla Castelvecchi), stanno aggredendo le classifiche dei libri in America, Svezia e in alcuni paesi est-europei. Senza per questo dimenticare Doina Rusti, uno degli intellettuali più autorevoli della generazione del dopo-muro di Berlino assieme ad Ana Maria Sandu e Filip Florian, il cui romanzo Dita piccole ha riscosso un buon successo in Ungheria, Germania, Polonia, Slovenia e Usa (in Italia sarà l’editore Fazi a farlo conoscere). Alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, Zonza Editori di Milano ha organizzato il lancio della prima tappa del progetto «La Romania incontra l’Italia», presentando due romanzi: Sono una vecchia comunista! di Dan Lungu e Un anno all’inferno di Liliana Corobca. Novità interessanti dall’Ungheria. La Mondadori ha appena pubblicato il romanzo Tutti i giorni di Terézia Mora (classe 1971), che dal 1990 si è trasferita a Berlino. Scrive in tedesco. È stata finora tradotta in molti paesi, tra cui Olanda, Turchia, Russia, Spagna, Ucraina, Gran Bretagna e Stati Uniti. Protagonista del suo romanzo è Abel, un esule fuggito da un paese dilaniato dalla guerra e approdato a B., metropoli occidentale. L’uomo, enigmatico e affascinante, pone con la sua vicenda di sradicamento le domande più urgenti del nostro secolo, che riguardano i paesi ricchi e coloro che sono visti, giudicati, e talora accolti, come «i nuovi barbari». Qualche critico ha paragonato Terézia Mora, vincitrice del premio della Fiera di Lipsia, ad Agota Kristof (pubblicata da Einaudi), famosissima e superba autrice della Trilogia della città di K, anch’essa proveniente da oltre-cortina. Mentre l’Adelphi continua la sua nobilissima ricerca di autori nei cimiteri dell’Europa centrale e orientale, la collana Bur della Rizzoli ha appena stampato tre racconti (La Bibbia) di Péter Nàdas, l’ungherese più volte in odore di Nobel che nel 2003 ha vinto il premio Kafka. Il racconto principale è ambientato a Budapest nei primi anni Cinquanta ed è la storia dell’evoluzione emotiva di Gyuri, figlio di alti fun-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

zionari del partito comunista, che si misura con la scoperta del mondo femminile e della carica di violenza che ha in sé. In questi giorni la casa editrice romana e/o lancia l’ungherese Vilmos Condor, autore di polizieschi che si ispira al genere hard-boiled americano. Con Budapest noir siamo nella capitale magiara, ed è il 1936. Il giornalista di cronaca nera Gordon indaga attorno alla morte di una prostituta, la cui foto ha visto poco prima, e per caso, negli uffici della polizia. Difficile risalire alla sua identità, si sa soltanto che potrebbe chiamarsi Miryam. Nella sua borsetta c’è un libro di preghiere femminili ebraiche. L’inchiesta è destinata a scoperchiare pozzi di corruzione e di miseria e crudeltà umane sia nelle classi alte che in quelle infime di Budapest.

Dai tribolati paesi dei Balcani arrivano modernissimi romanzi che presentano un’autonomia letteraria tale da escludere qualsiasi soggezione nei confronti di quelli europei e americani. È il caso del croato Zoran Drvenkar, autore di Sorry (Fazi editore), selezionato al Festival del Cinema di Berlino come uno dei 12 migliori da candidare a trasposizioni filmistiche. La Einaudi pubblica il secondo volume (Rosso come una sposa) di Anilda Ibrahimi, nata a Valona (Albania) nel 1972. Una storia generazionale che vede al centro quattro donne, la cui esistenza s’intreccia con le vicende albanesi, fatte di sangue, amore e tradimenti. Nato a Belgrado, Zoran Zivkovic, narratore raffinato con tratti surreali e visionari, viene presentato al pubblico italiano dal gruppo Longanesi (con L’ultimo libro). Un critico americano ha scritto di lui: «Come nei racconti di Kafka, le grandi idee non sembrano mai cadere dall’alto. Sgorgano, piuttosto, dal cuore stesso delle storie». Altri hanno tentato paragoni con Luis Borges e con il regista David Lynch, per la mistura di malinconia e di minaccia, di crudeltà e sottile umorismo.

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NASCONDIMENTO e letture relative alla teoria dell’evoluzione sono affascinanti e l’anno darwiniano appena concluso, anche se in toni più bassi di quelli annunciati, ha fornito molti materiali capaci di suscitare riflessioni. Due aspetti mi hanno interessato in modo particolare. Il primo è la base competitiva che stimola e indirizza la trasformazione delle modalità nelle quali la vita si manifesta. Uno dei più rigorosi ricercatori del settore, il compianto Jay Gould, ha scritto molti testi di alta divulgazione, il più noto dei quali è forse Il pollice del panda, per chiarire che la teoria di Darwin si basa sull’affermazione dei caratteri più adatti alla sopravvivenza e alla sua trasmissione insieme al principio in base al quale le mutazioni avvengono per un meccanismo nel quale il caso gioca un ruolo decisivo. Se la cultura si trasmette di generazione in generazione con un effetto moltiplicatore molto potente, la genetica ha dimostrato che i caratteri acquisiti in vita dai singoli individui, non incidendo nel patrimonio dei cromosomi, non sono ereditari. La macchina selettiva funziona selezionando fra gli individui che già alla nascita sono più favoriti rispetto all’ambiente nel quale si trovano a vivere, e questo avviene con un sistema a sbalzi, come dimostra la paleontologia, che in periodi relativamente brevi, in scala geologica decine di migliaia di anni, porta a trasformazioni che poi si fissano e si mantengono costanti per miliardi di anni. A questo di aggiunge la questione del cambriano, un periodo geologico di 600 milioni di anni fa, nel quale le forme viventi si moltiplicano con una rapidità impressionante. Da questo punto di vista l’uomo, che nella sua forma attuale ha circa cinquantamila anni, costituisce una sorta di neonato nella creazione.

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Il grande sforzo intellettuale prodotto dalla modernità a oggi e teso a liberare la scienza da ogni condizionamento di natura ideologica riesce a rendere più evidenti, essenziali i perché che costituiscono la spinta alla radice di ogni ricerca. La vita deve essere considerata per quello che è: una modalità casuale dell’organizzazione della materia che, dato l’assetto dell’Universo, si trova a raggiungere formazioni complesse. Già questa formulazione risulta forse eccessiva. Più che essere indirizzata, la vita sviluppa complessità per forza, sulla base di necessità probabilistiche. Jay Gould utilizza la metafora dell’ubriaco per spiegare questa affermazione. Un uomo ha bevuto troppo ed esce barcollando da un pub che si trova nei pressi di un canale, se gli viene concesso un tempo sufficientemente lungo, è certo che finirà con il caderci dentro. Così la vita, affermatasi sulla terra soprattutto nella forma semplice dei batteri, ha avuto il tempo utile a che si formassero casualmente organizzazioni complesse, capaci di arrivare fino a sviluppare una coscienza e un’autocoscienza, come è capitato all’uomo. Nel rapporto fra il «caso e la necessità», per riprendere il titolo dell’opera del premio Nobel Jacques Monod, la seconda diviene dominante sotto la spinta dei calcoli statistici. Aven-

Le teorie dell’evoluzione non bastano a spiegare il momento nel quale la vita assume forma umana. Per farlo occorre cercare nelle profondità del creato quella forza che trascende la conoscenza scientifica, che si cela agli uomini e nello stesso tempo li salva...

I mille strati del volto di Dio di Sergio Valzania

La scienza non è in grado di fornire tutte le risposte. Come quella drammatica sul perché la vita voglia vivere, affrontando le sofferenze che questo comporta e non preferisca nichilisticamente sprofondare di nuovo nella materia non appena raggiunge una coscienza sufficiente do tempo infinito a disposizione la scimmia messa davanti alla tastiera del computer arriva a comporre la Divina Commedia, che Borges dice essere nascosta nella Biblioteca di Babele, dove sono raccolti i libri formati da tutte le combinazioni possibili di lettere. Dato il creato e la macchina evolutiva in esso inserita diventa difficile rifiutare altre domande, sostenere che se il caso domina l’Universo esso deve trovarsi anche dall’altra parte, da quella che ci è invisibile fino a quando ne restiamo all’interno. Un’impostazione del genere rappresenta solo un modo troppo semplice di eludere la questione, anche se a essa la scienza non è in grado di fornire risposte. Come quella drammatica sul perché la vita voglia vivere, affrontando le sofferenze che

questo comporta e non preferisca nichilisticamente sprofondare di nuovo nella materia non appena raggiunge una coscienza sufficiente per farlo. Resiste al dolore, alle ingiustizie, alle privazioni è un’esperienza calata in profondità nell’esperienza dell’uomo. È corretto che lo scienziato non si faccia turbare dai propri convincimenti nel momento della ricerca, ma è infantile che egli neghi di possederne, e grave che sostenga che non è lecito occuparsi di quanto trascende le possibilità della conoscenza scientifica per come si è formata storicamente, ossia in riferimento alla grandissima maggioranza delle questioni etiche, estetiche, morali e religiose. Non si tratta che di un atteggiamento ideologico, più pericoloso in quanto non dichiarato

come tale, ma che invece si pretende neutrale.Tutti noi, proprio per la trasmissibilità dei dati culturali, siamo imbevuti di convinzioni e in base a esse abbiamo sviluppato una personale visione del mondo che condiziona i nostri comportamenti, ma che non può essere lontana da quella di quanti ci circondano e ci hanno accompagnato nel corso della nostra formazione. E la cultura non può costruirsi solo su dati rigorosamente scientifici, per i limiti che la scienza stessa dichiara di avere. Ciascuno possiede una propria concezione di quello che la vita significa, indipendentemente da quello che la vita è in termini di dimostrabilità scientifica, oggetto di analisi della biologia e campo di ricerca dell’evoluzionismo. La confusione di piani rischia di condurre alla povertà intellettuale, fino al rifiuto dell’umanità, che deve elaborare un’etica proprio perché il mondo non ne ha una già pronta, inserita nel suo interno, da proporgli. Ritengo che questo sia uno dei motivi insiti nel mistero dell’incarnazione. L’uomo si colloca in un mondo che esiste ed è dotato di regole precise di funzionamento, ma lo stesso è chiamato a dare un nome per ciascuna delle sue creature, come mostrato nel racconto biblico, deve costruire un ordine morale nel quale riconoscere il proprio ruolo e Dio interviene di persona in suo aiuto, con la sua presenza incarnata per sostenerlo in questo compito e per offrire un’occasione puntuale di riferimento e di comprensione.

Qui giunge il secondo elemento di fascinazione datoci dalle teorie dell’evoluzione, che allontanano e confondono il momento nel quale la vita si sviluppa e giunge ad assumere la forma umana: il nascondimento della forza creatrice, di Dio, nelle profondità del creato. Un celebre passo del profeta Isaia esprime questo paradosso: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele, salvatore!» (45,15). In due versetti sono raccolte due verità contrastanti e complementari, Dio si nasconde agli uomini e nello stesso tempo li salva. Il volto di Dio è nascosto, viene ripetuto di continuo nelle scritture, e nei Salmi uno dei grandi desideri dell’uomo, una delle sue aspirazioni maggiori, consiste proprio nel poter scorgere quel volto. La strada per conseguire questo obbiettivo non passa solo attraverso la natura, che del volto di Dio è sì specchio ma nello stesso tempo velo, nascondimento, la pienezza dell’incontro avviene attraverso la manifestazione, la rivelazione. I greci esprimevano il termine verità con la parola aletheia, che letteralmente significa privo di velo, liberato da quel sottile strato che ci impedisce di scorgere il fondamento dell’esistenza e che riconosciamo essere connaturato alla nostra natura. Ogni volta che solleviamo un lembo del manto di mistero che ricopre la nostra esistenza e il mondo che la circonda ci accorgiamo che sotto ce n’è un secondo, e poi un terzo, fino a sospettare, credere?, che l’infinita potenza del Signore abbia voluto proteggere la nostra libertà di andargli incontro senza costrizioni in modo delicato, ma fermissimo. Il volto di Dio è mille volte velato.


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cd

musica

I Tindersticks un marchio, una garanzia di Stefano Bianchi è voce e voce. Quella del britannico Stuart A. Staples, fra le migliori in circolazione, è profonda, accorata, baritonale. Provate a pensare a un Bryan Ferry meno narciso e più dark; a Leonard Cohen, Nick Cave e Scott Walker che si giocano a dadi il copyright d’un melanconico intimismo. Esprime una cascata di emozioni, questo crooner esistenzialista nato a Nottingham. Dal 1993 è il capobanda dei Tindersticks, voluttuosi del pop «noir» che hanno attraversato gli anni del Britpop e del disimpegno imboccando con gran coraggio traiettorie

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orchestrali, talvolta funeree, imprescindibilmente romantiche. Non sono mai riusciti a tradirmi, i Tindersticks. Quel loro microcosmo «a parte» fatto di suoni riveduti, raffinati e aggiornati con puntigliosa classe, mi ha di volta in volta riservato magie lo-fi, l’imprevedibilità (fra i violini) di qualche guizzo latinoamericano, pillole di kabarett alla Kurt Weill, scampoli di soul music, addirittura un country acciuffato sul viale del tramonto. Eppoi nei loro dischi c’è sempre stato, da Tindersticks (’93) a The Hungry Saw (2008), un non so che di «cinematografico». Certe loro canzoni persuasive come temi da film (ricordo ad esempio I Know That Loving con quell’ondeggiar di ar-

chi, fiati e organo Hammond; From The Inside, così ossequiosa nel citare Booker T; le ballate Sweet Release e Chilitetime) hanno preannunciato la nascita di vere colonne sonore (Nénette et Boni, Trouble Every Day, 35 Shots Of Rum) che la band ha traghettato verso una musica d’essai crepuscolare e piacevolmente colta. Solo tre parole: inquietante, impaurita, eccitante. Le ha pronunciate Stuart A. Staples (che fra un album dei Tindersticks e l’altro s’è misurato in chiave solista sublimando l’identità di languido interprete), per descrivere l’aria che si respira nei dieci brani di Falling Down A Mountain, ottavo disco registrato

in Francia e in Belgio nell’estate dello scorso anno. Più che eccitante, oserei dire, nei pezzi che aprono e chiudono il cd tracciando nell’economia del gruppo inediti percorsi creativi. Se la title track innesca su un tappeto ritmico che ricorda Dave Brubeck un jazz ipnotico increspato dalla tromba e dal canto bluesy di Staples, lo strumentale Piano Music è un incantevole crescendo melodico che quando si concede una pausa non può non ricordare Nino Rota. Inquietante e impaurita, caro Stuart, mi suona invece un po’ stonato (se ripenso alle prime incisioni, quelle sì, di noir cameristico). Il resto del nuovo canzoniere, semmai, è un intrigante mordi e fuggi d’orecchiabilità fra lounge music e Velvet Underground (Keep You Beautiful), memorie di stampo Sixties (Harmony Around My Table), umori spagnoleggianti (She Rode Me Down), incroci di glam rock (Black Smoke) e pseudo country (No Place So Alone), introspezioni alla Nick Cave con un pizzico d’Ennio Morricone (Hubbard Hills), tenerezze da pelle d’oca (Factory Girls). La voce di Staples, in questo gioco d’atmosfere contrastanti, accarezza e ghermisce, ipnotizza e seduce. Si accoppia, perfino, col timbro di cristallo della canadese Mary Margareth O’Hara: lei gli lancia la sfida, lui la raccoglie, si rimbalzano versi e umori, diventano una sola voce mentre un’armonica a bocca e una tromba li pedinano in sottofondo. Succede in Peanuts. Succede in questo disco, che si prenota fin d’ora tra i più fascinosi del 2010. Firmato Tindersticks. Un marchio, una garanzia. Tindersticks, Falling Down A Mountain, 4AD/Spin-Go!, 20,00 euro

in libreria

mondo

riviste

LA FELICITÀ COSTA UN GETTONE

ELLIE, PROSSIMA STAR DELLA BBC

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utto ha inizio nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando dagli Stati Uniti arriva una musica nuova, dai ritmi frenetici e dai contorcimenti mozzafiato, in grado di aprire uno squarcio frizzante e oltraggioso nelle vite dei ragazzi italiani: il rock’n’roll. Sboccia così una nuova generazione che desidera affermare la propria libertà di parola e partecipazione». Titti Santa-

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a poco terminato lo spoglio del Sound of 2010, sondaggio targato Bbc che ogni anno coinvolge più di centosessanta tra esperti di musica, dj, giornalisti e blogger di rilievo scelti nel panorama inglese, è emerso il nome dell’artista più dotato di quell’ x-factor che negli anni passati ha già predetto una luminosa carriera a un campione di vendite come Mika. Il volto nuovo di

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Tiziano Tarli racconta il rock’n’roll all’italiana, che trova nel juke-box il suo mito fondante

Il network britannico incorona la Goulding: sarà lei il nuovo fenomeno musicale del 2010

La De Vito pubblica “Mind the gap”, album che riflette una straordinaria erudizione musicale

mato presenta così La felicità costa un gettone, Storia del primo rock’n’roll italiano (Arcana, 160 pagine, 29,50 euro), nuovo libro di Tiziano Tarli che racconta l’epopea del juke-box in Italia. Ricco di foto d’epoca, di una nutrita discografia che elenca personaggi e brani che hanno fatto le fortune del periodo, e di un cd audio con i maggiori successi del tempo, il bel volume di Tarli ci conduce nel mondo di Mina e Giorgio Gaber, Celentano e i blu-jeans, i flipper e i musicarelli. Affresco di un’epoca vitale che al ritmo del rock n’ roll scoprì le prime trasgressioni, la frenesia rumorosa del beat, e la spavalderia di un nuovo spirito, ingenuo e libertario, dopo i disastri della guerra.

questo 2010 è quello di Ellie Goulding. «Se Kate Bush, Bjork e Stevie Nicks condividessero un appartamento nella zona londinese di Shoreditch, questo sarebbe il rumore che ne verrebbe fuori», commenta la Bbc per rendere l’idea della proposta musicale dell’artista. Brava ragazza dell’Herefordshire, ventitreenne, salutista e per nulla interessata alle droghe, la Goulding pubblicherà a fine febbraio Lights, album d’esordio che promette una potente onda d’urto. A partire dal primo singolo estratto, Starry eyed, nelle radio dal 22 febbraio. Garantisce la Bbc.

intitolato Mind the gap. Cantante e compositrice, l’artista napoletana vanta ormai un trentennio di attività jazzistica, che l’ha portata in giro per il mondo grazie a collaborazioni prestigiose con Kenny Wheeler, John Taylor, Ralph Towner, Joe Zawinul, Michael Brecker e molti altri. Memore delle sue ricerche etnomusicologiche, e non avversa al pop d’autore, la De Vito non fa che confermarsi un’erudita performer. A suonare con lei, Claudio Filippini alle tastiere, Luca Bulgarelli al basso, Walter Paoli alla batteria e Francesco Bearzatti al sax. Un universo sonoro policromo, quello di Mind the gap, tenuto insieme dalla straordinaria attività ricombinatoria del jazz.

a cura di Francesco Lo Dico

MARIA PIA, STILISTA DEL JAZZ ella sua musica la prassi jazzistica dell’interplay si manifesta così attraverso un linguaggio nel quale il pop, gli echi di un folklore reale o immaginario, le arditezze vocali provenienti dal retaggio eurocolto, trovano posto coerentemente in una sintesi curata sin nei minimi dettagli». Maurizio Franco presenta così su musicaedischi.it il nuovo album di Maria Pia De Vito,


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zapping

Vasco e i De Andrè TRIBUTE BAND A GO GO di Bruno Giurato ove ti giri e dove ti volti è tutta una Tribute Band. Ere geologiche fa, al tempo delle sale prova che puzzavano di sigaretta con il polistirolo sulle pareti e il poster dei Doors preso da Ciao 2001, c’erano le cover band, cioè i gruppi che rifacevano canzoni famose. Molti con le cover, o con quella specie particolare di cover che erano le traduzioni, sono diventati famosi, come i Dik Dik di Sognando California. Molti hanno suonato oscuramente ma divertendosi. Adesso dove ti giri e dove ti volti le cover band non le vuole più nessuno. Gli annunci dei gruppi che cercano musicisti segnalano «no cover, pezzi originali». Per compensare tanta originalità ci sono le tribute band. Cioè gruppi che fanno solo il repertorio di un artista, e spesso cercano di assomigliargli in tutto, dai vestiti gli arrangiamenti, un po’ come in Usa esistono da decenni gli impersonator di Elvis. Risultato: decine di cloni di Vasco si aggirano per l’Italia. Sono tra noi. Indisturbati. Trentenni che mettono apposta un po’ di pancetta, portano la bandana o il cappellino, si vestono con quei giubbottini stretti, cantano «siamosolonoi quellichenonhanvogliadifarniente!». Decine di impersonator di Ligabue cantano in emiliano anche se sono di Marsala. Esistono perfino tribute band dei Krokus (trattasi di gruppo metal tedesco degli anni Ottanta), e a quanto si dice di Laura Pausini. Poi ci sono le tribute band ufficiali, quelle riconosciute dal fan club dell’artista, una specie di bollino come il Dop delle mozzarelle. E poi c’è il mio Mario, che sta per mettere su una tribute band di Cristiano De Andrè che fa la tribute band di Fabrizio De Andrè. Gli ho offerto una bottiglia di Cartizze, come tributo.

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jazz

Vita e opere di Mr. Johnson di Adriano Mazzoletti a vita e le opere di Robert Johnson, cantante di blues, sono state oggetto ma solo in questi ultimi anni, di studi e ricerche approfondite. Se consultiamo vecchie enciclopedie e storie del jazz, la sua biografia si esaurisce in poche righe. Nell’Enciclopedia del Jazz di Giancarlo Testoni e Arrigo Polillo, pubblicata nel 1952, il suo nome non appare. Due anni dopo Hugues Panassié nel Dictionnaire du Jazz citava Johnson come uno dei rappresentati del «blues di campagna» che sembra «aver influenzato Muddy Waters». Leonard Feather nel 1960 scriveva «che Robert Johnson è stato un esponente del country blues che ha inciso negli anni Trenta qualche disco e che poche settimane dopo quelle incisioni è stato assassinato a Dallas». Finalmente nella Grande Enciclopedia del Jazz pubblicata nel 1982 da Curcio, la sua figura e la sua straordinaria importanza vengono poste in evidenza. Era successo che una sua canzone del 1937, Love in Vain, era stata riproposta, nel 1969, dai Rolling Stones che la inserirono nell’album Let it Bleed anche se il brano venne attribuito a uno sconosciuto Woody Payne. Nella discografia del gruppo inglese il blues di Robert Johnson appare altre due volte in album registrati dal vivo fra il 1969 e il 1972. Po-

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chi anni fa anche Eric Clapton, uno dei massimi esponenti del British Blues, la inserì nell’album Me and Mr. Johnson. Ma chi era in effetti Robert Johnson? La risposta si trova in un volume di Luigi Monge, di recente pubblicazione, dedicato a questo cantante che non è stato solo un esponente del country blues come detto da molti, ma «il più grande musicista blues della storia» secondo Eric Clapton; oppure come disse ancora Bob Dylan «parafrasando l’immortale Robert Johnson: la nostra roba vi farà partire». Robert Leroy Johnson nato l’8 maggio 1911 e scomparso il 16 agosto 1938, morì nel mistero. «Qualcuno ricorda che fu pugnalato, - scrive Greil Marcus altri che fu avvelenato, che morì in ginocchio sulle sue mani, che la sua morte aveva a che fare con la magia nera». La figura del diavolo era una costante nelle sue liriche. Cantò l’allucinazione demoniaca, nel tentativo di esorcizzare il destino, nella disperata e ossessiva ricerca di un ruolo, un affetto che il «diavolo» costantemente gli rifiutava. Artista d’avanguardia, compreso e apprezzato solo in epoca recente, il suo stile alla chitarra, tecnicamente assai semplice, produceva un suono nervoso che ben rifletteva le tensioni emotive delle sue liriche. Robert Johnson più di ogni altro è stato un punto di riferimento oltre che per cantanti anche per molti chitarristi blues e rock. Luigi Monge, Robert Johnson. I Got the Blues, Testi commentati, Arcana Editore, 291 pagine, 18,50 euro

danza

Dalla Ruskaja alla Bausch, il nuovo Incipit dell’Accademia di Diana Del Monte empre uguale, sempre diversa: la magia dell’Accademia Nazionale di Danza si trova tutta qui, in questa alchimia tra tradizione e innovazione. Il 2010 si apre con due importanti eventi per questa storica istituzione: il 22, 23 e 24 gennaio si inizia con la presentazione al Palladium di Roma di Incipit, prima produzione della neonata compagnia giovanile dell’Accademia, per passare, il 28 gennaio, all’inaugurazione della prima Biblioteca Nazionale di Danza. Due nuove vittorie culturali per l’Accademia che non arresta la sua marcia verso le più note istituzioni coreutiche europee e si proietta in avanti, nel panorama futuro della danza internazionale. Fondata nel 1948 da Jia Ruskaja, l’Accademia Nazionale di Danza ha iniziato un importante piano di riforme dieci anni fa, a seguito della legge sulle Accademie e sui Conservatori del dicembre del ‘99, e da allora ha messo in atto una serie di importanti novità strut-

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turali. Con l’apertura della sua Biblioteca, l’Accademia colma, oggi, un enorme vuoto nel panorama della cultura coreutica italiana, silenziosamente e pacatamente subito per anni da tutti gli amanti dell’arte di Tersicore. Pensata già dalla stessa Ruskaja, la Biblioteca Nazionale di Danza foto di Carlo Laudicina è ospitata nel Villino Liberty all’interno del parco accademico sull’Aventino, residenza amanti di quest’arte. Il taglio del nastro privata della fondatrice durante il perio- sarà accompagnato da momenti di dando della sua direzione. Con più di 3000 za disseminati lungo un percorso volumi, raccolte video, cd e dischi in vi- performativo da scoprire tra le sale, il nile, materiale iconografico raro, libri di giardino, i corridoi e il teatro sotto la guistoria della danza dal 1600 fino ai nostri da degli allievi. Ragazzi che presto pogiorni e con un sistema di digitalizzazio- tremmo veder danzare nella Compane che consente di sfogliare i volumi più gnia, questo il nome scelto per la formarari e delicati attraverso un tavolo apti- zione giovanile dell’Accademia, in sceco, la Biblioteca Nazionale di Danza è na questo week-end al Palladium con destinata a diventare uno strumento di Incipit, spettacolo manifesto presentato ricerca prezioso per tutti gli studiosi e gli in anteprima lo scorso giugno alla Bien-

nale diVenezia. L’idea di costituire una compagnia internazionale giovanile è nata nel luglio del 2008 sotto la supervisione artistica di Pina Bausch che, poco prima della sua scomparsa, ha voluto donare alla formazione un brano tratto da Nefès, coreografia di viaggio del 2003 ispirata dalla città di Istambul. Oggi, i dieci componenti della Compagnia, selezionati dopo un lungo percorso formativo, si presentano al pubblico romano con un programma composto, oltre che dal solo di Cristiana Morganti, Omaggio di Pina Bausch a La Compagnia, anche da Incipit (il 22 e 23), il brano di Jacopo Godani che dà il titolo a tutto lo spettacolo, e da due inediti di Robyn Orlin (il 24), coreografa sudafricana controversa e provocatoria tornata al lavoro dopo un lungo periodo di assenza. Il futuro della danza è in scena al Palladium, ma da oggi nasce anche in biblioteca.


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narrativa

na delicata leggenda ebraica (un Midrash) racconta che prima di venire al mondo un angelo ci fa fare un giro turistico della nostra nuova vita e ci mostra la persona con cui dovremmo sposarci. Poi l’angelo ci colpisce sotto il naso, creando quel leggero incavo nella pelle tra le narici e la bocca, facendoci dimenticare ciò che abbiamo visto. Tuttavia non si dimentica tutto, ne rimane una traccia, sufficiente a provocare un sussulto di riconoscimento del nostro sposo (bashert), se siamo così fortunati da incontrarlo durante la nostra esistenza. Emilia, procace trentenne, avvocato, ebrea non praticante, guarda gli occhi di Jack e capisce. Si sposeranno, dopo che lui divorzierà da Carolyne, medico dal carattere spigoloso. Jack ha un figlio, William, un ragazzino mentalmente precoce e come tale pedante e fragile, che si trova diviso tra due case e due famiglie. L’autrice di questo romanzo a forte valenza psicologica, Ayelet Waldman (moglie del celebre scrittore Michael Chabon, dal quale ha avuto quattro figli), descrive con tono a volte leggero e a volte drammatico il percorso sentimentale di quattro persone. O perlomeno di tre adulti che girano attorno al vulcano emotivo di nome William. Emilia, aggrappata al suo nome originario, Greenleaf, ancorata com’è alle vicende tragicomiche dei suoi genitori, ondeggia tra il duro sforzo di essere «matrigna» e la gioia di assumersi questo ruolo, tra i rancori e le ripicche generati dalla contesa di due donne inevitabilmente rivali, e lo slancio intimo verso la creazione di una saldo nucleo familiare. Jack, avvocato come la sua neo moglie (molto più giovane di lui), si ritroverà nell’occhio del ciclone, proprio nel mezzo di due tensioni. Emilia rivendica per lui il diritto a essere felice pur avendo alle spalle un abbandono, quindi anche un senso di colpa. La storia si aggroviglia perché Emilia rimane incinta e, poco dopo

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di Pier Mario Fasanotti il parto, assiste alla «morte in culla» della neonata Isabel. Non vorrà più vedere le foto scattate dal marito, si sentirà addirittura un’assassina perché lo shock luttuoso non le spiega le ragioni della morte, quindi è lei a farsi carico di una «colpa». Già, un’altra colpa. Il piccolo William, lodato dagli insegnanti e ossessivamente spin-

libri

bera, generosamente, dal più atroce sospetto che una madre può coltivare. Il medico Carolyne fornisce le prove scientifiche, sulle quali nessuno aveva osato indagare. Jack, come capita nelle famiglie cosiddette allargate di ogni paese, tende a ricondurre i conflitti con la seconda moglie al benessere emotivo del figlio, e inevitabilmente si «schiera» con lui. In questo mondo dagli equilibri ancora molto precari tutti sfiorano l’autodistruzione e la distruzione dell’altro. La stessa Carolyne, prima di accettare in sé una nuova vita e un secondo matrimonio, si comporta in modo passivo-aggressivo: alla condiscendenza subentra la rivalità, all’altruismo fa seguito la volontà d’essere unica guida per il figlio. La pacata civiltà dei sentimenti è una terra ad altissimo rischio tellurico: basta un capriccio, un piccolo incidente, un gesto goffo, una frase sbagliata, ed ecco che si aprono crepe. Che però sono spesso più ampie di quelle reali. È un effetto domino dalle mille sfumature psicologiche. Emilia, sull’orlo della separazione coniugale, si rifugia da un amico fidato, si concede tempo, cerca di imparare qualcosa dal libri «sull’educazione dei figliastri». È una parentesi di marca fortemente americana, specchio di una società che si abbevera alla fonte dei manuali o si avvicina ai gruppi, e di gruppi negli Stati Uniti ce ne sono a migliaia, tutti tesi a curare gli effetti o dell’etilismo, o della vedovanza, o del lutto genitoriale. Ma sarà la naturale dinamica di coppia a ricongiungere Emilia e Jack, mentre William affronta con difficoltà l’allargamento della famiglia della madre, che vola a nozze. L’autrice farà dire a Emilia: «L’amore per il figliastro è stato difficilissimo da riconoscere, ma alla fine sono riuscita a vederlo per quel che è: una grazia».

Famiglie allargate

amori difficili to dalla madre verso scuole prestigiose, fa un disegno nel quale è raffigurata l’intera sua famiglia. Sopra lo schizzo che rappresenta Emilia c’è una specie di angelo: è il riconoscimento della sorella che non ha mai avuto. Carolyne non accetta l’elaborazione fantastica del figlio, straccia il disegno. Ma sarà poi Carolyne, che aspetta un figlio dal nuovo compagno, a rivelare a Emilia che la morte improvvisa della neonata è un fatto assolutamente staccato dalla volontà umana. E così la li-

Ayelet Waldman, L’amore e altri luoghi impossibili, Rizzoli, 334 pagine, 20,00 euro

riletture

Dino Campana lungo il crinale della Verna di Claudio Marabini orna puntuale Dino Campana a farsi vivo attraverso la sua poesia indimenticabile e quella città del piano che lo vide e lo conobbe assai bene. Marrani era molto vicino ma era Faenza che sapeva corteggiare gli ospiti e lusingarli con la sua torre e i suoi palazzi. Non si può ricordare la Verna senza scendere a questa città, quasi Marrani dovesse scendere al piano e ritrovare quelle pietre che Dino Campana conosceva bene. Il nuovo libro, che ci riporta il poeta e la sua poesia, si intitola semplicemente La Verna, cioè a quello spicchio delle nostre colline che oramai forma la fatale trascrizione della poesia stessa, quale Campana sembra ancora poterci regalare e nel regalo ammonirci a fondere con la più forte e alta poesia. Il libro che esce per le edizioni di Alba Pratalia, è curato

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assai bene da Giuseppe Sandrini, e reca preziose foto di Aldo Ottavini. Unisce al testo anche quattro lettere a Sibilla Aleramo, che appartengono al ‘16 e nascono da Barco, una frazione di Firenzuola in Mugello sul versante romagnolo dell’Appennino. Dice il testo: «Tratto dai Canti Orfici, il diario della Verna non è certo un testo dimenticato dalla grande editoria. Riproporlo, isolato dal suo contesto e accompagnato da una manciata di lettere significative, è un tentativo di guardare a Dino Campana con un’attenzione nuova: di seguire il poeta tra le foreste dell’Appennino, alle sorgenti della sua fantasia». Ed ecco il 15 settembre, «per la strada di Campigno.Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le rocce e il fiume…». E torna il testo a conquistarci, a prenderci

passo passo, e a indicarci i luoghi, che appartengono alla poesia ma anche ai nostri ricordi: luoghi, strade, corsi d’acqua, montagne o colline; montagne che montagne non sono mai, strade che sanno solo scendere, e scendono al piano, da Marrani a Faenza, quasi a cercare quella città. Il libro è infatti ricco di belle fotografie che raccolgono monti e colline, e che sembrano cogliere la magia dei luoghi: magia che a tratti sembra scoprirsi in favore della poesia più pura, quella che Campana sembra ritrovare quasi per miracolo al margine del suo camminare e inesausto guardare… E sono bellissime le foto che si uniscono alla poesia, e sembrano vivere solitarie al margine dei luoghi, ricche di alberi e di miracoloso verde… «Lungo il crinale» dice il titolo del capitoletto che contiene le foto di Aldo Ottavini, i colli che conosco da sempre, con infiniti alberi, un casolare dimenticato, alberi immensi, sen-

tieri appena segnati su una terra che pare abbia dimenticato il passo degli uomini. Poi il tetto inverosimile di un rifugio del tutto nuovo, quindi un vecchio casolare che pare abbandonato. Poi le quattro lettere a Sibilla Aleramo. E lui, il Campana, che si firma «votre Cloche», cioè il vostro Campana. Scrive Campana, il 27 luglio del ’16: «Je vois que nous pourrons être des amis si vous le voulez…». E qualche giorno dopo aggiunge: «Jeudis matin je serais a Borgo S. Lorenzo au train des 8,55.Vous me verrai a la fenêtre du wagon, venant de S. Piero a Sieve, e vous me reconnetrez a ma tête rousse… Nous irons a Marrani alors?». Ci dice una nota che l’Aleramo era in villeggiatura a Borgo San Lorenzo in val di Sieve e che per incontrarla Campana doveva prendere la corriera fino a San Piero, valicando l’Appennino al Giogo di Scarperia, e poi il treno della linea di Marrani: il treno della Firenze-Faenza…


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personaggi

Wilcock contro il potere della parola di Nicola Fano uan Rodolfo Wilcock sapeva scrivere in tante lingue. In un paese simpaticamente provinciale come l’Italia un difetto del genere non passava inosservato: sicché Wilcock era assai odiato perché non tutti si poteva prendere la libertà di invidiarlo. Negli anni dai Cinquanta al 1978 (quando morì) visse in Italia e si adoperò per portare i suoi lettori italiani di là da Chiasso (come predicava Alberto Arbasino), riuscendoci solo in parte. Sia pure non per sua colpa. Con quel nome, poi, c’era poco da fare i simpatici (sempre in virtù di quel provincialismo...); senza considerare che all’epoca i sudamericani era-

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società

no gli arabi di oggi: non erano proprio ben visti. È vero: Juan Rodolfo Wilcock era argentino per metà e per metà inglese. Ma negli articoli che Adelphi ripubblica ora in un libriccino gustoso (Il reato di scrivere) è più inglese che altro. Nel senso che amabilmente pontifica «sulle camarille e le conventicole» (le virgolette stanno a indicare che una volta si diceva così facendo premio sull’equazione generalizzare=banalizzare) prendendo in giro gli italiani dei salotti che scrivono senza sapere non dico le lingue degli altri (Wilcock ne sapeva bene una mezza dozzina) ma neanche la propria. Ci sono strali garbati rivolti alle case editrici, ai critici, agli editor, ai giurati dei premi e agli scrittori. Per-

ché tutti insieme si prestavano a coltivare interessi e ad accumular denari in modo molto, molto spregiudicato. Questo almeno a giudizio di Wilcock. Due cose colpiscono - in trasparenza - leggendo gli articoli raccolti nel volumetto: il fatto che l’editoria all’epoca (siamo soprattutto nei Sessanta e dintorni) fosse un’industria e il fatto che la cultura rappresentasse un «potere». Perché le parole di Wilcock anche quando non lo dicono pungono interessi economici anche pesanti: il gioco sporco tra critici, editor, autori e premi muoveva denari veri. Cosa che oggi non succede quasi più: l’industria editoriale prospera (e accumula potere e capitale) con il

gossip e la saggistica d’accatto, non certo con la narrativa. E poi perché la durezza dei suoi giudizi (raramente fa i nomi, più per britannica eleganza che per italiana codardia) punta a scardinare un sistema di «potere» reale. Ossia con i suoi addentellati nelle istituzioni e nell’opinione pubblica. Non perché si stesse meglio quando si stava peggio, ma negli anni Sessanta e Settanta la cultura era un valore. Magari mal gestito e per ciò stesso da emendare, ma tutti riconoscevano un primato alle idee. Si può dire lo stesso oggi? Juan Rodolfo Wilcock, Il reato di scrivere, Adelphi, 88 pagine, 6,00 euro

La fisiologia dell’anarchico secondo Lombroso di Giancristiano Desiderio a casa editrice LaVita Felice ha pubblicato nella collana «La coda di paglia» un’opera di Cesare Lombroso: Gli anarchici. Il volumetto, che si presenta bene con una veste tipografica accattivante ed elegante, merita di essere letto. Non per condividere le idee di Lombroso e della sua «sociologia del crimine» o della sua «antropologia criminale», ma per meglio cercare di capire le impressioni della società del tempo quando si imbatteva con quella che ancora oggi chiamiamo «faccia da delinquente». Nell’operetta di Lombroso, peraltro, sono riportate molte «facce da delinquente» in un capitolo finale in cui i «rivoluzionari e rei politici - mattoidi e pazzi morali» e i «rivoluzionari e rei politici per passione»

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storia

sono fotografati con quella che dovrebbe essere la tecnica della foto segnaletica del tempo o comunque la riproduzione della faccia dell’anarchico, del rivoluzionario, del ribelle e comunque di colui e colei che semplicemente dava segni di insofferenza e mostrava con i fatti di non mandare giù la nascente società industriale del tempo. A guardare oggi queste fototessere dell’Ottocento non sembra di imbattersi in pazzi criminali; anzi, le immagini di questi pazzi criminali, confrontate con quelle dei delinquenti del nostro tempo, sembrano essere delle facce d’angelo o comunque rispettabili. Conviene ricordare, per sommi capi, la dottrina di Lombroso (che oggi gode di un certo favore negli Stati Uniti). L’autore dell’Uomo delinquente sostiene, in pratica, che i criminali non delinquono per un atto cosciente e libero, ma perché hanno tendenze malvagie, tendenze che

ripetono la loro origine da un’organizzazione fisica e psichica diversa da quella normale. Da questa premessa la «Scuola positiva del diritto penale» ne ricavava che il diritto della società a punire i delinquenti non si basa sulla «responsabilità» o sulla malvagità del delinquente, bensì sul fatto che è oggettivamente pericoloso per la società. Per quanto Cesare Lombroso distinguesse tra vari soggetti criminali - quello nato, quello occasionale, quello pazzo - non c’è dubbio che la sua posizione sia sostanzialmente razzista: il criminale è tale perché così ha voluto la sua biologia. E infatti Lombroso passava a elencare i tratti anatomici e caratteriali del «criminale nato». Gli anarchici compendiano tutte le idee di Lombroso, il quale, scrivendo nel 1894 all’indomani dell’attentato del presidente Sadi Carnot da parte di Sante Caserio, prova a rintracciare un fondamento fisiologico, e non solo morale e politico, alle concezioni anarchiche. Cesare Lombroso, Gli anarchici, La Vita Felice, 131 pagine, 9,50 euro

E Napoli riscopre i padri del Futurismo di Vittorio Alfredo Novi el corso degli anni Novanta l’intellighenzia napoletana ha posto un marchio di garanzia su quello che veniva sbandierato dai media come rinascimento. A suscitare il plauso dei salotti erano state feste, vie pedonali, in genere tutte le opere promosse dall’amministrazione di sinistra. È stato forse proprio per quegli indebiti entusiasmi che il successivo tracollo ha generato un rimbombo ancora più fragoroso. I celebratori di quella stagione dimostravano di non riconoscere le vette raggiunte in passato dalla città. Se avessero superato l’ancestrale complesso di inferiorità

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(mascherato da irridente fatalismo) della cultura napoletana, avrebbero potuto recuperare alcune delle sue voci migliori e ancora poco incensate, come Francesco Bruno. L’intellettuale nato nella cilentana Ascea nel 1899 aveva in dote non già la capacità di impacchettare prodotti (utili al mecenate di turno) quanto l’intelligenza di aprire nuovi orizzonti critici. Merito riconosciuto negli ultimi tempi con la pubblicazione postuma di suoi volumi su Vico e Croce, sulla scapigliatura, Pirandello e il decadentismo. I suoi contributi erano stati illuminanti ma asistematici: l’impegno del figlio Elio (morto nel 2005), della sua famiglia e dell’italianista Francesco D’Espiscopo ha portato alla luce diverse sue

opere di critica letteraria.Tra queste Storia e genesi delle avanguardie letterarie: il Futurismo, di cui si è discusso di recente presso la «saletta rossa» della libreria Guida, luogo sacro della cultura partenopea, in concomitanza con la settima edizione del premio di giornalismo intitolato all’autore cilentano. L’analisi di Bruno fa perno tanto sulle opere e i documenti dei futuristi quanto sulla critica imbastita attorno a essi. Quindi si amplia in un prospetto che percorre la scapigliatura, le filosofie irrazionaliste e le poetiche del Novecento. Fra queste, per Bruno, esiste un filo di affinità ideale, da cui deriva un’agile comparazione con le altre avanguardie, il surrealismo e il dadaismo,

successive al futurismo, e con il cubismo. Lo studio prende spunto dalle posizioni di Flora, Tilgher, Papini, Soffici, Prezzolini, Lucini, ma anche di Croce e Gramsci, per delineare le fasi, fra consensi e polemiche, della propagazione del futurismo nella cultura italiana ed europea. Risalendo alle radici si arriva persino in Russia con Pasternak e Majakovskij. Rilevante infine è la contestazione documentata della data di nascita del surrealismo, che per Bruno risale al 1921 e non al 1924, come si ritiene comunemente. Francesco Bruno, Storia e genesi delle Avanguardie letterarie. Il Futurismo, Edizioni Scientifiche Italiane, 140 pagine, 11,70 euro

altre letture Il 27 luglio del 1935, lungo le curve del Nurburing, si disputa il Gran Premio di Germania di automobilismo. Sotto la pioggia e la nebbia Tazio Nuvolari e la sua Alfa rossa lanciano la loro sfida, una sfida che a ogni metro può trasformarsi in tragedia. Nuvolari parte dalle retrovie e con un’auto che sulla carta non può nulla contro le modernissime Mercedes. Ma il pilota mantovano non vuole accontentarsi, vuole vincere. Un’atmosfera epica che viene resa benissimo nella ricostruzione romanzata di Gianluca Puzzo Nuvolari. Un giorno, una vita (Mediaservice Millennium, 59 pagine, 12,00 euro) della più sensazionale vittoria di Tazio Nuvolari in un racconto che sa di velocità, di coraggio sconfinato e di umanissime paure. Uno dei baluardi della libertà americana per il presidente Ronald Reagan, un nemico dell’umanità per il collega Isidor Rabi, Nobel per la fisica. Nel bene e nel male Edward Teller giganteggia come un protagonista del Novecento - dalla nativa Ungheria alla sua patria di adozione, gli Usa - padre della bomba H e probabile ispiratore del Dottor Stranamore creato dal regista Stanley Kubrick, Teller ha combattuto la sua disperata battaglia per trovare l’arma che mettesse fine a tutte le guerre, incurante delle proprie amicizie e in continuo contrasto con le idee dominanti. Prima di liquidarlo come un guerrafondaio però, raccomanda Peter Goodchild in Il vero dottor Stranamore. Edward Teller e la guerra nucleare (Raffaello Cortina editore, 570 pagine, 36,00 euro), occorre tenere conto della sua passione per la conoscenza e l’insofferenza verso qualsiasi autorità. Diomede, rivista di cultura e politica dell’Umbria diretta da Gabriella Mecucci (Associazione Diomede, 161 pagine, 12,00 euro) pubblica il ricordo di Renzo Foa di tre persone che lo hanno conosciuto bene: Ferdinando Adornato - che dell’amico ripercorre il contributo di revisione critica nei confronti della sinistra italiana; Gennaro Malgieri, che ne rammenta l’acume dell’osservatore e del giornalista, e Lucetta Scaraffia che di Foa restituisce la fine sensibilità umana e intellettuale. In questo stesso numero di particolare attualità sono gli interventi di Gabriella Mecucci, Ada Girolamini e Rosellina Spinosa sulle prossime elezioni regionali mentre, tra gli approfondimenti, è da segnalare il saggio di Marco Maovaz e Bruno Romano su evoluzionisti e antievoluzionisti. Tutto da leggere anche il confronto tra favorevoli e contrari sulla chiesa di Fuksas a Foligno. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

TOMMASO D'AQUINO SOMMO TEOLOGO, CELEBRATO DALLA CHIESA IL 28 GENNAIO, EBBE SEMPRE PRESENTE IL LIMITE DELLA CONOSCENZA UMANA, LE ANGUSTIE DELL'INGEGNO, IL PRESENTIMENTO DI UN'IMMENSA ZONA DI REALTÀ E DI VERITÀ CHE SFUGGE ALL'INTELLIGENZA E VERSO LA QUALE È DIRETTA UNA SEGRETA ASPIRAZIONE DELL'UOMO. COME MOLTI EPISODI DELLA SUA ESISTENZA DIMOSTRANO…

La maestà e la paglia di Sabino Caronia n bicicletta da Terracina a Fossanova. Percorro la vecchia Appia, legata al ricordo di Orazio e di Paolo di Tarso, e poi, costeggiando l’Amaseno, il fiume legato alla memoria della vergine Camilla, arrivo e mi fermo proprio davanti alla chiesa. Entro. Nel pilastro di sinistra, l’ultimo rispetto a chi entra in chiesa, un’iscrizione ferma la mia attenzione: Huius aedis maiorem partem turrim sacrum atque aram maximam ictu fulminis deiectas Petrus cardinalis Aldobrandinus Clementis VIII pont. fratris fikius huius monasterii perpet. Commendatarius restituit anno salutis MDXCV. Leggo: ictu fulminis deiectas. Dunque il fulmine distrusse il tiburio e l’altare maggiore. Leggo e penso a san Tommaso che in questo luogo venne a morire. Si dice che san Tommaso non fosse impassibile al terrore che incutono certi fragorosi e violenti temporali e che in questi casi si faceva coraggio segnandosi col segno della croce e invocando il mistero della nascita e della pas-

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Scrive Gilbert Keith Chesterton nel suo San Tommaso d’Aquino: «A quanto si narra, il D’Aquino non poteva sopportare alcun rumore e aveva in orrore gli uragani… in ogni modo, la nota dominante del suo carattere fu la serenità». Gli uragani e la serenità. Qualcosa sembra collegare l’orrore degli uragani con la serenità, quella serenità di Tommaso che, come dice Chesterton, era la nota dominante del suo carattere. Lo scrittore inglese osserva: «Ogni generazione cerca il proprio santo per istinto; e questi non è quello che la gente vuole ma piuttosto quello di cui la gente ha bisogno». Poi aggiunge il seguente paradosso: «Ogni generazione viene convertita dal santo che maggiormente la contraddice». Quindi conclude: «Il XX secolo si sta aggrappando alla teologia razionale tomistica perché ha messo da parte la ragione». Penso a san Tommaso e ricordo. Sappiamo che nel 1272 Tommaso è a Firenze in Santa Maria Novella dove Dante

Soprannominato dai suoi condiscepoli di Colonia “il bue muto”, interruppe la “Summa Theologiae” dopo un evento devastante che lo colpì durante una messa a Napoli il 6 dicembre del 1273: un’esperienza mistica o forse un ictus sione di Nostro Signore: «Deus in carne venit, Deus pro nobis mortuus est...».

C’è un episodio biografico che permette di spiegare questo terrore. Si racconta che, mentre egli era ancora di pochi mesi, durante una notte di formidabile tempesta, una di quelle formidabili tempeste del cielo ciociaro, il castello di Roccasecca venne investito da violente raffiche di vento e sembrava che si scuotesse tutto sotto il rombo di tuoni paurosi. Un fulmine cadde sul torrione e penetrò nella stanza dove Tommaso era custodito da una domestica con la sorellina e uccise questa e poi i cavalli della stalla sottostante. La mamma accorse spaventata e trovò il suo piccolo Tommaso tranquillo accanto alla nutrice.

con ogni probabilità lo vede. Proprio la visione notturna di Santa Maria Novella, una sera, alla stazione di Firenze, di ritorno dall’ospedale di Pistoia dove, dopo l’ictus, era stato ricoverato mio padre, si collega per me alla figura di san Tommaso. E così mi vien fatto di accostare quell’episodio a un episodio cardine della vita del santo. Durante la messa celebrata nella cappella di San Nicola della chiesa domenicana di Napoli il 6 dicembre 1273 avvenne qualcosa di devastante, un’esperienza mistica o qualcosa di diverso, un’emorragia o un ictus cerebrale. In conseguenza di ciò la Summa Theologiae rimase interrotta alla parte III, questione 90, articolo 4. Al fedele amico e segretario, Reginaldo da Piperno, che lo esortava a completarla,

Tommaso disse: «Reynalde, non possum, quia omnia quae scripsi videntur michi palee» («Reginaldo, non posso, perché tutto quello che scrissi mi sembra paglia») e, insistendo quello, ripetè: «Videntur michi palee respectu eorum quae vidi et revelata sunt michi» («Mi sembra paglia rispetto alle cose che vidi e mi sono state rivelate»). La maestà e la paglia. Si pensa al bambinello che scende dall’alto del cielo per venire a nascere in una mangiatoia tra il bue e l’asinello, come in Tu scendi dalle stelle, il canto natalizio composto da sant’Alfonso. E a questo proposito forse non a caso Chesterton, nel suo confronto tra san Francesco e san Tommaso, accostava il primo all’asinello e il secondo al bue, il «bue muto», come era stato soprannominato Tommaso dai suoi condiscepoli di Colonia.

Quel che chiaramente risulta da questo e da altri episodi della vita del santo è il senso religioso, senso del mistero, del limite della conoscenza umana, il presentimento di un’immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo, come nel tentandum est solvere, riferito alle obiezioni contro l’immortalità dell’anima, che esprime le difficoltà della ragione quando si avvicina alle verità che più incidono sul significato della vita umana, nel capitolo 81 del libro II della Summa contra gentiles, e soprattutto come nel capitolo 48 del libro III nel quale si afferma che la suprema felicità dell’uomo è oltre questa vita, capitolo che, pur nella veste raziocinante, ha un sapore quasi pascaliano, con quella osservazione finale sull’angustia sofferta dai praeclara ingenia dei filosofi che non avevano a sostenerli la fede nella rivelazione. Leggiamo: «Da ciò appare quanta angustia soffrisse il loro nobile ingegno. Dalle quali angustie veniamo liberati, se, in base alle dimostrazioni date, ammettiamo che l’uomo può giungere alla vera felicità dopo questa vita, data l’immortalità dell’anima umana; nel quale stato l’anima intenderà alla maniera delle sostanze separate, come abbiamo spiegato nel Secondo Libro di quest’opera. Perciò l’ultima felicità dell’uomo consisterà nella conoscenza che ha di Dio l’anima umana dopo questa vita, nel modo in cui lo conoscono le sostanze separate. Ecco perché il Signore ci promette “una ricompensa nei cieli” (Matt., V, 12); affermando che i Santi “saranno come gli angeli”(Matt., XXII, 30),“i quali in cielo vedono Dio continuamente” (Matt., XVIII, 10)». Vien fatto di ripensare ai noti versi del canto terzo del Purgatorio: «“State contenti, umana gente, al quia;/ ché, se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria,/ e disïar vedeste sanza frutto/ tai che sarebbe lor disio quetato,/ mch’etternalmente è dato lor per lutto:/ io dico d’Aristotile e di Plato/


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almeno secondo la propria mente desse una breve spiegazione dei Cantici, fatti venire a sé alcuni monaci perché ascoltassero e scrivessero le parole che uscivano dalla sua bocca, incominciò la seconda esposizione del Cantico, diversa nello stile e nell’erudizione dalla prima esposizione nello stesso libro, come richiedeva il tempo, le preghiere dei monaci e la circostanza della malattia, scrivendo non ciò che l’arte, ma ciò che sinceramente il pio animo, che ormai si avvicinava alla futura immortalità, suggeriva… Nel dare la spiegazione, essendo arrivato fino al sesto capitolo del libro, e pronunciando con gli occhi rivolti al cielo quelle parole dello stesso capitolo, nelle quali si era imbattuto con veemente ardore dello spirito e con somma gioia: “Vieni… entriamo nell’orto”, subito esalò l’anima… (la quale) uscì dal corpo mortale verso il giardino della felicità eterna… l’anno 44° della sua età e 127[4°] dalla nascita di Cristo».

San Tommaso d’Aquino ritratto in alcune opere d’autore: da sinistra, in senso orario, da Velazquez, Benozzo Gozzoli, Zurbaran e Giovanni di Paolo. Sotto, G. K. Chesterton

e di molt’altri”; e qui chinò la fronte,/ e più non disse, e rimase turbato». Dicevamo del terrore dei temporali, dei fulmini.A quel terrore si può collegare anche un altro episodio della vita di san Tommaso, un episodio che precede di poco la sua morte. Discendendo da Teano per la strada di Borgonuovo Tommaso batté con la testa contro un albero che era caduto per traverso sulla strada, e questo forse accadde proprio a causa di una tempesta. «Maestro - gli chiese allora fra Reginaldo - vi siete fatto male?». E a lui Tommaso rispose: «Un poco». A partire da questo momento il santo va incontro alla morte rientrando nella dimensione familiare e tra i luoghi della sua infanzia. Come noto Tommaso scriveva gli appunti e gli abbozzi delle sue prediche in latino ma parlava al popolo in quella sua lingua nativa («in illo suo volgari natalis soli»), cioè un ciociaro con espressioni e inflessioni napoletane, che era l’unica da lui conosciuta oltre al latino. È a quel mondo familiare, da cui gli era derivata quella sua parlata che non era mai riuscito a cambiare, che ora Tommaso ritorna nell’imminenza della morte. Durante la seconda metà del mese di febbraio, a quaresima già iniziata (la Pasqua quell’anno cadeva il 1° aprile), Tommaso si ritira nel castello di Maenza, ospite della nipote Francesca, andata sposa al signore del luogo, Annibaldo di Ceccano. Il castello ancora oggi domina l’alta valle dell’Amaseno, sul versante tirrenico dei monti Lepini. È qui che avviene il miracolo delle aringhe: Tommaso, sofferente di stomaco, chiede delle aringhe fresche. Tutti rimangono interdetti perché a Maenza non arrivano che le sardelle pescate a Terracina. Comunque, per acconsentire alla richiesta, il medico corre in paese ed ecco vede giungere in piazza un pescivendolo, tale Bordonarius, con il suo carretto carico di sardelle. Il medico gli chiede se per caso ha altri pesci e quello risponde di no, ma poi, rovistando tra le ceste, ecco venirne fuori una piena di aringhe fresche. È dopo questo «miracolo concesso dalla Divina Provvidenza al suo appetito», come scrive Guglielmo di Tocco, che Tommaso pare riprendersi e quindi decide di rimettersi in viaggio per Roma, ma sentendosi di nuovo male dice: «Se il Signore vorrà visitarmi, preferisco che egli mi trovi in una casa di religiosi e non in una casa di secolari».

Non vi era nelle vicinanze un convento domenicano, ma a circa sei miglia dal castello di Maenza si trovava il monastero cistercense di Fossanova dove, a causa della gravità della sua condizione,Tommaso si reca a cavallo di un mulo. Possiamo chiederci se oltre al desiderio di rifugiarsi in una casa religiosa non avrà influito sulla scelta di Tommaso il fascino di quella spiritualità tradotta in pietre, in colonne, in archi, il ricordo di ore felici trascorse altre

volte in quell’abbazia dove, chissà,Tommaso doveva aver goduto molte volte, come a Santa Sabina, la bellezza della proporzione, dell’ordine e quell’asciutta nudità, immagine del suo spirito equilibrato e serenamente abbandonato in Dio. Fatto sta che appena giunto al monastero ed entrato in chiesa Tommaso passa nel chiostro dalla parte del parlatorio e lì, pensando che avrebbe trovato la sepoltura, esclama col Salmista: «Questo è il mio riposo per sempre: qui abiterò perché ho scelto questo luogo». Gli è assegnata la migliore stanza della foresteria. Quella stanza, la stanza del transito, la cella dove Tommaso passa ad altra vita all’alba (hora matutinali) di mercoledì 7 marzo 1274, venne trasformata in cappella nel Seicento dal cardinale Francesco Barberini che la fece decorare di un bassorilievo che raffigura Tommaso sul letto di morte mentre sta spiegando ai religiosi il Cantico dei Cantici.Ai lati dell’altare due distici latini lo ricordano ed esaltano: «Tommaso è morto qui per essere una luce più grande per il mondo, e perché Fossa

Scrive Chesterton a proposito della morte del santo nel suo San Tommaso d’Aquino: «Qualcosa di grandioso pare aleggi intorno a lui. Coloro che lo attorniano hanno la sensazione che un’intelligenza poderosa lavori in mezzo a loro come un gigantesco mulino, e che l’interno del monastero sia ben più vasto di tutto ciò che è oltre le sue mura». Chi oggi visita l’abbazia può avere la sensazione di afferrare qualche eco che viene da lontano, dal coro dei monaci, dai campi di lavoro, forse dalla stessa cella di Tommaso, quasi un flebile sospiro o una preghiera, ma si è pervasi da un profondo senso di malinconia al pensiero che si tratta di un mondo non solo lontano ma anche sparito.Tutto ci richiama all’attualità. Pure in alcuni momenti sembra quasi di essere ancora lontano nei secoli, di sentire risuonare ancora quel canto dell’antifona al termine della Compieta di Quaresima che tanta suggestione esercitava, specie negli ultimi anni, sull’animo di Tommaso: «Media vita in morte sumus/ quem quaerimus adjutorem nisi te, Domine,/ qui pro peccatis nostris jus irasceris/ sancte Deus, sancte fortis,/ sancte et misericors Salvator/ amarae morti ne tradas nos…». Si ripete e si pensa alle due strofette finali del Pange lingua, quel canto del Tantum ergo che unito all’odore dell’incenso tanta suggestione esercitava su di me e sui miei coetanei al tempo dell’infanzia. Come noto su incarico di Urbano IV Tommaso compose l’ufficio e gli inni per la festa del Corpus Domini appena istituita, tra cui spicca appunto l’inno Pange lingua. Tornano alla mente le parole dette da Gesù all’apostolo che porta il nome di Tommaso: «Io sono la via». E si pensa alle Questiones disputatae de veritate: «Il nostro corpo è corruttibile a causa del fatto che non è pienamente soggetto all’anima: se lo fosse l’immortalità dell’anima si rifletterebbe anche nel corpo come accadrà dopo la resurrezione. Ed è per questo che la corruttibilità del corpo offusca l’intelletto: sebbene il corpo non sia di per sé impedimento all’intelletto, a causa della sua corruttibilità ne pregiudica la purezza». E si

Scrive Chesterton nel suo libro dedicato al Santo: “Qualcosa di grandioso pare aleggi intorno a lui. Coloro che lo attorniano hanno la sensazione che un’intelligenza poderosa lavori in mezzo a loro come un gigantesco mulino...” Nova sia così un candelabro,/ luogo celebre a motivo di questa lampada ardente e non nascosta. Chi dunque potrà negare che questa Fossa è Nuova?». Sulla parete di sinistra si può leggere il seguente racconto della morte del santo fatto da un anonimo: «San Tommaso, dimorando nel cenobio cistercense di Fossanova presso l’Amaseno, fiume della Campania, dopo che si era indebolita la forza del suo stomaco per gli studi continui, fu pregato dai monaci presenti al suo capezzale che spiegasse loro il cantico di Salomone secondo il senso e lo spirito di san Bernardo, ma in un modo più breve; egli però si rifiutò dicendo: datemi lo spirito di san Bernardo e io vi darò la spiegazione che riflette il suo animo. Ma essi pregandolo ancora più insistentemente perché

pensa alla Summa Theologiae: «L’anima, essendo parte della natura umana, non ha la perfezione naturale se non quando è unita al corpo». Allora si ricorda Dante che nel canto XIX del Paradiso introduce Salomone a parlare di quel rapporto tra corpo e anima che era un tema così caro a san Tommaso. E si pensa alle parole del terzo libro del Convivio: «Nel suo corpo per bontade dell’anima sensibile bellezza appare». E si pensa, ancora una volta, ai versi del terzo canto del Purgatorio: «“State contenti, umana gente, al quia;/ ché, se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria,/ e disïar vedeste sanza frutto/ tai che sarebbe lor disio quetato,/ mch’etternalmente è dato lor per lutto:/ io dico d’Aristotile e di Plato/ e di molt’altri”; e qui chinò la fronte,/ e più non disse, e rimase turbato».


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tv

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Con il detective

Murdoch il mistero è old style e la dovevamo aspettare la variante poliziesca televisiva. Il ritorno della serie I misteri di Murdoch (Fox Crime, Sky) è giunta gradita perché siamo un po’ saturi di scienziati forensi che da un minuscolo frammento di ossa o di qualsiasi altra cosa risalgono addirittura al carattere della vittima o dell’aggressore. Il rituale del laboratorio, a lungo andare, è ripetitivo, e questo vale un po’per tutti i serial, in specie Csi, Ncis, Csi Miami. William Murdoch è un detective trentenne (ha la voce scanzonata e decisa di Tony Di Nozzo di Ncis) che è partito dalla gavetta (è figlio di un pescatore), aspira a diventare ispettore dopo aver affrontato brillantemente 36 casi criminali, è scapolo (ma è innamorato dell’anatomopatologa Julia, che talvolta immagina di baciare), va regolarmente in chiesa, non è mai in maniche di camicia, legge con assiduità le riviste scientifiche e mediche. Siamo a Toronto (Canada), anno 1890. Deve confrontarsi con un ispettore che, come tanti militari, è rozzo nei modi d’indagine (grandi schiaffoni agli arrestati) e un po’ ottuso anche se alla fine duttile, e manco a dirlo è diffidente verso ogni cambiamento di quella che appare la

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tecnologia ai suoi albori. È l’agente George Crabtree il più curioso, il più open mind come direbbero gli anglosassoni, e non a caso sta sempre alle costole di Murdoch. La struttura della Police Station numero 4 di Toronto è rigida, militare, in ogni caso coerente con lo spirito di quei tempi. Anche il linguaggio usato non stona. Si sentono pronunciare parole come «bellimbusto», «canaglia», «feccia d’uomo», «rifiuto umano». Le relazioni tra investigatori sono improntate al formalismo e al rispetto reciproco. Grande meraviglia, ovviamente, cala nella stazione di polizia quando Murdoch mostra l’antesignana della macchina della verità, che misura la sudorazione del sospettato, con una spirale di vetro che si riempie di liquido rosso quando «avverte» una bugia. Il detective votato a una brillante carriera prova su di sé il marchingegno sottoponendosi a una serie di domande. Inevitabile quella riguardante le sue pulsioni sentimentali, lui è che ha avuto la disgrazia di assistere alla morte della fi-

web

QUALCHE GIOIA A NOLEGGIO

danzata. Solo il fidato George si accorge che il segnale della macchina «tipo Frankestein» - così la chiama l’ispettore baffuto e con la carnagione londinese si riferisce alla dottoressa Julia. Il Canada, a statuto monarchico britannico, assomiglia alla campagna inglese: dai prati ben curati alle case old style. E anche per la spocchia di certi circoli aristocratici, per l’arroganza non tanto dei nobili quanto dei maggiordomi e servitori dell’aristocrazia, da sempre caricatura pietosa dell’upper class. Siamo al «prima» della tecnologia spinta dei nostri giorni, che inevitabilmente confina, o riduce, la capacità di intuito personale e di elaborazione psicologica. Vigilia del Ventesimo secolo: eppure se la cavano bene. Un topos dell’epoca non poteva mancare: un cadavere nel baule. Ci penserà la cordiale e graziosa Julia a fornire il punto di partenza per le indagini. Murdoch non è da meno nell’esaminare attentamente tracce ematiche e sostanze trovate sotto le unghie delle vittime. E a riordinare i tasselli dell’inchiesta. Al posto dei sofisticati microscopi, applica agli occhiali dei visori di

games

POKER FACE, OCCHIO AL BLUFF

vistoso stampo ottocentesco. Circa le indagini canoniche è inevitabile ritrovare le frasi più frequenti degli interrogatori anche odierni: «quando è stata l’ultima volta che l’ha visto morto?»; «secondo lei aveva dei nemici?»; «aspettiamo il risultato degli esami prima di prendere una direzione piuttosto che l’altra». Divertenti, almeno per chi ha il gusto della storia, vedere le prime biciclette «motorizzate», constatare il fastidio degli uni e l’entusiasmo futuristico degli altri (pochi, per la verità), ascoltare profezie plausibili sui mezzi di locomozione (unica nota stonata è la previsione di inquinamento urbano: mi sembra francamente l’applicazione forzata al passato di un problema strettamente moderno). Curioso anche che in un circolo esclusivo molti si entusiasmino per una «bevanda venuta dall’Europa», ossia il caffè. Il detective dirà che non potrà mai diventare un’abitudine, visto che c’è il the. Salvo abbozzare quando la dottoressa Julia elogia la bontà della tazza nera, «un’esclusiva che viene dalla Turchia». Lo prende a braccetto, e lui berrebbe anche la cicuta. (p.m.f.)

dvd

URLA DAL SILENZIO DI GITMO

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e sognate un matrimonio sfavillante, magari arricchito da quel particolare luccichio che gioielli inarrivabili possono conferire al vostro polso o al girocollo della vostra promessa sposa, non disperate. Jewmia.com è il primo portale italiano di noleggio gioielli, indicato per quanti amano affiancare alla letizia di certi eventi, alcune gioie inarrivabili. Per un giorno o per un inte-

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“Jewmia.com” è un portale che consente l’affitto di gioielli in modo rapido e sicuro

Il gioco online è in grande crescita, ma aumentano le truffe: i consigli degli esperti

Erik Gandini e Tarek Salek visitano il carcere più noto d’America: la parola alle immagini

ro week-end, il sito consente di farsi recapitare l’ambito ninnolo direttamente a casa, in ogni parte d’Italia. «L’idea - fa sapere Marco Matranga, amministratore unico di Jewmia.com - non è quella di rendere popolare il gioiello di lusso, ma piuttosto quella di renderne agile il suo utilizzo». Grazie a una partnership stretta con le più rinomate botteghe orafe, il servizio online gode di un’ampia scelta di modelli e pezzi unici, e garantisce consegne puntuali all’insegna della sicurezza. Indicato per quanti intendono dare un tocco chic alle proprie cerimonie, senza dovere per questo passare notti insonni a protezione del proprio scrigno. O al ricordo del suo prezzo.

ce la vostra prematura dipartita dal gioco. Spesso e volentieri esistono delle vere e proprie taskforce della combine. Tutti d’accordo sul prossimo pollo da spennare. Gli esperti consigliano perciò di diffidare dai tavoli in cui manca soltanto un giocatore. Meglio puntare, spiegano, su partite tutte da organizzare. Può essere utile inoltre, per i pokeristi del web, dotarsi di un buon firewall. La giusta soluzione per quanti temono di poter essere spiati. L’innovazione tecnologica rischia di trasformare insomma anche la più incallita poker face, in un abbacchio.

di cui è regista insieme a Tarek Salek. A partire da un reale fatto di cronaca, l’incarcerazione di un cittadino svedese di origine araba, il regista italiano conduce lo spettatore nel carcere più noto d’America, guidato dai militari Usa che illustrano le loro abitudini. Si indaga inoltre sulla rimozione del generale Baccus, considerato troppo morbido, e della sua sostituzione con Miller, poi nominato alla guida di Abu Ghraib. Un leitmotiv, «trattiamo i prigioneri con grande umanità», accompagna le numerose interviste. Ma poi, nel corso della visita a Gitmo by night, echeggiano potenti urla. Testimonianza potente perché diretta. Da vedere.

a cura di Francesco Lo Dico

entire queste urla dei prigionieri dentro Guantanamo era una situazione da film dell’orrore. Quando non puoi vedere che cosa c’è dietro questi lamenti, il risultato è un’atmosfera da incubo, sicuramente rappresentativa per Guantanamo e per chi c’è dentro». Erik Gandini racconta così Gitmo -The new rules of war, prezioso documentario d’inchiesta girato in 16 mm


cinema di Anselma Dell’Olio ra le nuvole è il terzo film riuscito del regista, appena trentaduenne, Jason Reitman. È figlio d’arte del divino Ivan Reitman, regista di Ghost Busters, ma si sa che un genitore «pesante» è un coltello a lama doppia; per ogni erede di successo, ci sono innumerevoli fallimenti, perché insieme con l’esempio e la spintarella, può arrivare la pigrizia o il complesso paralizzante d’inferiorità. Thank You for Smoking, Juno e Up in the Air (titolo originale del nuovo film) sono commedie ben scritte, intelligenti e anticonformiste. Smoking ha come protagonista un impenitente lobbista per l’industria del tabacco, Juno è una teenager incinta contraria all’aborto, e Nuvole è la storia di Ryan Bingham (George Clooney), scapolo di mestiere e tagliatore di teste di professione; ama il suo lavoro e la vita randagia che conduce. Si sente a casa solo negli aeroporti «con l’aria riciclata, le luci al neon e il sushi scadente». Passa più di tre quarti dell’anno in viaggio, a Des Moines, Milwaukee, Detroit; entra in aziende nelle quali non ha mai lavorato, e licenzia gente che non ha mai visto prima, perché i loro capi sono troppo pussy (vigliacchi) per impugnare l’ascia. Il poco tempo che passa a Omaha, sede dell’azienda di «boia» in affitto, è per lui una sofferenza. Detesta la domesticità e qualsivoglia legame affettivo. Sua sorella Julie si sposa, ed è talmente incerta sulla sua presenza che ha chiesto allo zio dello sposo di accompagnarla all’altare. Persino la duecamere-con-cucina che abita gli va stretta, e appena può si trasferisce direttamente nella cuccia preferita: una camera d’albergo.

T

Incontra la sua donna ideale on the road. Alex (Vera Farmiga) è una manager che viaggia per lavoro come e quanto lui. Anche lei non chiede nulla oltre una zipless fuck, la scopata senza cerniera e senza impegno, espressione che ha fatto epoca in Paura di volare, il romanzo best-seller di Erica Jong. Per incontrarsi di nuovo, i due aprono in perfetta sincronia i loro computer portatili e consultano gli impegni per scoprire quando saranno di nuovo nella stessa zona. Ma la vita perfetta di Ryan viene sconvolta quando in azienda arriva Natalie (la sensazionale Anna Kendrick), una neolaureata assertiva che vuole tagliare i costi di viaggio dei terminator, cambiando i licenziamenti da incontri dal vivo a faccia a faccia virtuali via videoconferenza. Ryan è allibito e si difende da par suo. C’è pur sempre un’etica in quello che fa, che diamine! Se devi mandare le persone allo sbaraglio, annullando il loro orgoglio e amor proprio, puoi almeno subire il loro dolore di persona. Il suo capo Craig Gregory (l’eccellente e versatile Jason Bateman, lo yuppie rockettaro di Juno) obbliga Ryan a portarsi dietro l’intraprendente ragazza per un giro di prova «sul campo», e poi si deciderà. Le dritte sul viaggiare che il cinquantenne squalo dà alla giovane che vuole fargli le scarpe sono una delle cose più divertenti del film. Portare solo un trolley, per non perdere un’ora ogni viaggio. Nella coda per il controllo sicurezza mai mettersi dietro anziani o gente con bambini: i primi sono pieni di protesi che suonano quando passano i metal detector, e i secondi non riescono a piegare un passeggino in meno di dieci minuti. Mettersi in fila dietro gli asiatici che viaggiano leg-

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Daniel come Marcello

e George tra le nuvole

“Nine”, il musical ispirato a “8 e mezzo” di Fellini, è stato maltrattato dalla critica come pochi altri: basta contenere le aspettative e godersi gli attori eccellenti. Clooney è il protagonista perfetto del divertente film di Jason Reitman: davvero da Oscar geri e portano sempre mocassini, arrivano al varco con il computer già aperto e le scarpe nella vaschetta sul nastro. Ryan prende temporaneamente il sopravvento; la sua lunga esperienza gli dà un vantaggio enorme sulla pivella determinata ma inesperta che lo accompagna. Natalie, però, ha una sapientia cordis più profonda delle sue ambizioni: una guida che la rimette in carreggiata quando esagera. Clooney, vicino a due straordinarie interpreti come Farmiga e Kendrick, dà il meglio di sé. Non si riesce a immaginare un ruolo più calzante, e Gorgeous George lo interpreta alla perfezione. L’Oscar è suo, ora o mai più, viene da dire. (Lui e il film avranno la nomination.) Al cellulare in aeroporto, Natalie risponde alle gelosie del fidanzato: «No, non penso a Ryan

in quel modo: è vecchio!». La reazione del brizzolato dongiovanni è un capolavoro. Il genio della sceneggiatura (tratta dal romanzo di Walter Kirn) è di elaborare un esilarante racconto morale facendo ridere senza prediche, moralismi, ricatti, nulla di scontato. Ryan non conosce la massima di Freud sull’equilibrio tra lieb und arbeit fondamentale per una vita piena e armoniosa; del resto non lo vediamo mai con un libro in mano, malgrado viva «tra le nuvole», o forse proprio per questo. Da non perdere.

Nine è la premiata commedia musicale di Broadway, ora sullo schermo, ispirato da 8 e mezzo di Fellini. Quelli che lo conoscevano farebbero carte false per ascoltare quella voce chioccia ironizzare

su questo «omaggio» alla sua opera più lodata. Non sappiamo se i produttori abbiano pagato i diritti per il saccheggio dell’opera, se i diritti erano suoi o di qualche acquirente successivo. Si sa, però, che spesso l’autore si scocciava per lo scippo frequente del suo nome (negozi, bar, gli articoli più svariati) e per le sue opere poteva essere anche peggio. Era un uomo incantevole, nel senso originario della parola; intratteneva come pochi e ti trasportava nel suo universo. Si restava soggiogati dai suoi aneddoti, vere e proprie brevi sceneggiature orali, che da mago materializzava davanti all’occhio interiore di chi lo ascoltava. Nine è forse il film più maltrattato dalla critica ad avere tre nomination come miglior film nel primo round di premi: Golden Globes, Broadcast Film Critics, Screen Actors’ Guild Ensemble (critici della stampa estera, critici radio-TV, e il premio Cast Corale del sindacato attori). In passato, 28 degli ultimi 34 film con le tre suddette candidature hanno avuto anche quella all’Oscar. Sul sito RottenTomatoes, Nine è solo al 37% di recensioni favorevoli: gli altri raggiungono fino al doppio di consensi. Il New York Times lo ha definito «un abominio». Per gustarsi quel che c’è da gustare (cast stellare, valori produttivi altissimi) è meglio andarci con basse attese. Ecco le performance migliori: la cantante Fergie (dei Black Eyed Peas, e unica cantante vera del cast) è perfetta negli stracci e la sinuosa ciccia di Saraghina, la prostituta sulla spiaggia che fa da nave scuola ai marmocchi riminesi. Judy Dench è Lily, assistente e costumista del Maestro. Con il suo superbo mestiere e fascino fa una gran bella figura pur non essendo né cantante né ballerina. Marion Cotillard è la moglie Luisa, «più cornuta ‘e cento lumache» come dicono al Sud, che licenzia con grazia e classe l’ingrato ruolo di femmina triste e petulante. Poi c’è il gusto di guardare Daniel Day Lewis mentre con sorriso sardonico dà fondo al suo talento per non soccombere nel ruolo che era di Marcello Mastroianni. L’italiano era il più disinvolto e languido degli attori, mentre Day Lewis è il più teso e contratto. (P.S. O è un abbaglio, o s’è visto Guido/Daniel masticare chewing gum durante il primo soliloquio. Maybe nel tentativo di sembrare più dégagé?).


poesia Quel “maudit”di Tarchetti MobyDICK

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di Francesco Napoli ginio Ugo Tarchetti, il secondo nome verrà assunto dal poeta in onore di Foscolo, nasce nell’alessandrino, a San Salvatore Monferrato, nel 1839, da famiglia borghese. A vent’anni entra nella carriera militare e all’indomani dell’Unità si trova in Italia meridionale a fronteggiare il fenomeno del brigantaggio. Trasferito a Parma nel 1865 ebbe nella città emiliana un incontro che gli ispirò il suo romanzo forse giustamente più conosciuto, Fosca, opera pubblicata a puntate sul Pungolo e poi rimasta incompiuta e che fu portata a compimento dall’amico Salvatore Farina che così descrive il suo amico letterato: «Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. Le donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua idealità d’artista».

I

Lasciato l’esercito, Tarchetti a Milano entra nei circoli letterari, scrive per mantenersi su diverse riviste e diventa immediatamente uno dei punti di riferimento del nascente movimento scapigliato. Ed è tra il 1860 e il 1880 in area lombardo-piemontese che si sviluppò questo movimento, di protesta e di polemica, espressione di disagio e d’insofferenza, definito Scapigliatura, chiamata anche milanese o lombarda non perché gli artisti che vi aderirono fossero esclusivamente milanesi o lombardi, molti infatti furono gli adepti di altre regioni italiane, ma perché, essendo un movimento di protesta antiborghese, Milano, centro dinamico della borghesia italiana, divenne anche il centro ideale del movimento. Il termine, immediatamente evocativo dell’indipendenza dalle convenzioni, derivò dal titolo del romanzo di Cletto Arrighi (pseudonimo del giornalista e scrittore Carlo Righetti, uno dei protagonisti della vita artistica milanese del secondo Ottocento), La scapigliatura e il 6 febbraio, pubblicato nel 1862, in cui l’autore così tradusse in italiano il termine francese bohème. Il romanzo di Arrighi fu importante proprio perché si pose come denuncia del reale disagio esistenziale degli intellettuali lombardi, definiti «classe di inquieti, travagliati e turbolenti, vero pandemonio del secolo, serbatoio del disordine e dello spirito in rivolta». La protesta degli scapigliati si manifestò in campo politico, con le accuse alla borghesia di aver tradito gli ideali risorgimentali di libertà, giustizia ed eguaglianza, opprimendo le masse popolari; in campo morale, denunciando l’ipocrisia e le menzogne della morale comune; in campo

M’avea dato convegno al cimitero a mezzanotte - ed io ci sono andato: urlava il vento ed il tempo era nero biancheggiavan le croci del sagrato; e alla smorta fanciulla ho dimandato: «Perché darmi convegno al cimitero?» «Io son morta» rispose «e tu nol sai: vuoi nella tomba mia giacermi allato? Molti anni or sono che viva ti amai, che mi serra l’avello inesorato… Fredda è la fossa o giovane adorato! Io son morta» rispose «e tu nol sai». Iginio Ugo Tarchetti (da Desjecta)

letterario, con il rifiuto sia delle tendenze patriottiche, moraleggianti ed educative del primo Romanticismo, sia dei languori e dei sentimentalismi del secondo Romanticismo. Il gruppo originario fu costituito da Emilio Praga, Arrigo Boito e Iginio Ugo Tarchetti, ai quali poi si unirono Carlo Dossi, Giovanni Camerana e Giovanni Faldella, tutti legati dal comune interesse letterario, non escludendo, però, aperture interdisciplinari: Praga e Camerana furono anche pittori, Boito librettista e compositore, e Dossi cultore di archeologia. Accomunati da interessi ed esperienze simili, tutti questi intellettuali del «rifiuto» ebbero atteggiamenti davvero da bohèmiens; insofferenti, sregolati, ribelli alle convenzioni sociali, assunsero posizioni anticonformiste, contro l’ipocrisia, il quietismo, il perbenismo e il falso pudore borghese, sia nella scelta dei temi, sia nella scelta del linguaggio. Per le inquietudini, le nevrosi e gli eccessi delle loro vite disordinate, a molti toccò un tragico destino: Praga morì a trentacinque anni distrutto dalla sifilide e dall’alcool, Tarchetti di tisi e tifo e Camerana suicida. Lontani dai sentimentalismi patriottici e dai moralismi borghesi e cattolici simboleggiati dal Manzoni, fortemente contestato dagli scapigliati come simbolo di tutto un costume ripudiato, scelsero sempre la provocazione e la dissacrazione. Nella loro poetica confluirono il simbolismo francese, dal quale mutuarono gli atteggiamenti anarchici e la ricerca della poesia come rivelazione immediata della realtà, e il naturalismo, con il culto del vero, la preferenza per il brutto e il deforme, l’attrazione per la descrizione di ambienti squallidi e degradati e la predilezione per il macabro e il torbido, anche nell’amore. Il linguaggio adottato fu spesso un lessico triviale e blasfemo ma, quasi sempre, sciattamente classicheggiante e melodico, restando in bilico tra sperimentalismo e tradizione.

La poesia di Tarchetti verrà pubblicata postuma una decina d’anni dopo la tragica morte, avvenuta in povertà e malattia a Milano nel 1869, raccolta in Desjecta (Versi) e nelle prose liriche alquanto baudelariane di Canti nel cuore. In questi testi affiora il romanticismo mortuario («M’avea dato convegno al cimitero»), un certo lirismo nero («Molti anni or sono che viva ti amai,/ che mi serra l’avello inesorato») e una giovanile disperazione («vuoi nella tomba mia giacermi allato?») che non sempre raggiungono autonomia formale e forza inventiva. La poesia di Tarchetti risente di certa forza maudit di un Baudelaire, ma non lontano gli sono sia Poe che Hoffmann, e suggestivi mi sembrano quei due versi, «urlava il vento ed il tempo era nero/ biancheggiavan le croci del sagrato», che il poeta Carducci sembra avere ben presente nella sua famosa e antologica San Martino.


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il club di calliope POESIA ILLEGITTIMA Quella sera che ho fatto l’amore mentale con te non sono stata prudente dopo un po’ mi si è gonfiata la mente sappi che due notti fa con dolorose doglie mi è nata una poesia illegittimamente porterà solo il mio nome ma ha la tua aria straniera ti somiglia mentre non sospetti niente di niente sappi che ti è nata una figlia

Vivian Lamarque da Teresino

IL MAZZOLIN DI FIORI CHE VIEN DALLA MONTAGNA... in libreria

UN POPOLO DI POETI Ho immaginato di fare come se gli occhi non vedessero più. Pensaci bene! Non vedere nulla. Infilare la maglia a rovescio senza accorgermene, toccare le pareti della mia stanza come quelle di una prigione. Poi storta di vedere niente ho pianto. Volevo te. Lì in quel momento in cui tutto era uguale nel buio. In quel niente volevo accorgermi di te sentire che c'eri vicinissimo anche se in silenzio. Mi si è spenta la voce desiderando di sentire la tua. Così ho fatto come allora. Ho cercato un surrogato abbracciando come fossi tu senza sapere il nome.

di Loretto Rafanelli

iamo nel 1918 e un giovane poeta, volontario tra gli alpini nella guerra 1915-18, raccoglie per il giornale di trincea, L’Astico, di cui è direttore, i canti di guerra dei militari della prima guerra mondiale. Il fatto potrebbe passare inosservato se questo poeta non fosse uno dei più significativi del Novecento: Piero Jahier, vociano, anzi importante collaboratore di Prezzolini alla rivista La Voce, tra il 1911 e il 1913. Jahier fu una figura singolare «d’interventista democratico» e sicuramente l’esperienza della guerra lo formò fortemente e lo portò, nella produzione poetica, come suggerisce Mengaldo, all’esaltazione di una «coralità» e alla mani-

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Come porti i capelli bella bionda, Sul cappello che noi portiamo, Il mazzolin di fiori, Inno degli alpini, ecc. L’editore Mursia pubblica questa raccolta (Canti di soldati, 90 pagine, 15,00 euro), che ci riporta alla tragica esperienza di quelle vicende. Sono canti elementari, canti necessari per i soldati, perché danno coscienza della guerra, e «coscienza delle libertà», e infine dice Jahier perché gli italiani «non possono fare a meno di cantare». Sono semplici espressioni linguistiche, senz’altro un’immagine fedele di una Italia povera, dove i valori sono quelli popolari, comuni, quelli di un paese contadino, dove esaltata è la retorica guerresca, ma pure si avvertono grandi ideali e

I canti dei soldati della prima guerra mondiale raccolti da Piero Jahier, “necessari per la coscienza della libertà... e perché gli italiani non possono non cantare” festazione di un marcato «slancio populistico»; fu pure mosso da un grande idealità libertaria che lo impegnò anche nella lotta antifascista e alla partecipazione attiva alla Resistenza. I canti nelle intenzioni di Jahier, fedele appunto all’idea di una voce collettiva, dovevano «aiutare ogni reparto volenteroso a fabbricarsi un buon coro di soldati senza bisogno di nulla», in quei duri giorni di battaglia. Canti che erano, e diverranno ancor più, molto popolari e che corrispondevano al «sentimento di guerra» di quei ragazzi impegnati nella terribile prova. Alcuni titoli:

speranze. Testi che fanno vibrare di emozione ripensando alla condizione di quei giovani combattenti morti nelle trincee, pronti a uno spaventoso sacrificio, versati alla fedeltà verso la nazione. È la storia di una commovente e gloriosa Italia dove grande è il senso patriottico, forte l’identità e lo spirito d’appartenenza alla comunità nazionale. Certo non ci vuole una guerra per esaltare tali valori, ma rimane il senso di una lezione per l’Italia di oggi, che pare non voler neppure adeguatamente considerare la prossima ricorrenza della sua nascita.

Laura Vallieri

Ho visto il dorso argenteo dell'erba piegarsi docile sotto il vento, nel sole lieve dei miei pensieri che ti abbracciano a ogni ora. Poi l'onda verde si è impennata contro l'azzurro caldo che parlava di cose da scoprire, con quel fremito inatteso degli eventi che ci aspettano, sicuri che verremo, noi, incerti invece del futuro. Ho visto l'erba piegarsi sotto il vento, come io mi piego sotto la tua schiena, e San Luca sfumare all'orizzonte, come in un miraggio estivo. E allora mi è venuto in mente come in un ricordo vago, che tu solo potevi farmi amare questi luoghi.

Antonella Berni

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

Tre pittori e la natura raccontati da Tassi di Marco Vallora iù che una vera mostra, questa di Parma, è un omaggio non soltanto al suo critico più indimenticato e caro a tutti quelli che lo hanno potuto frequentare, Roberto Tassi, ma al fortunato evento del confluire d’una parte della sua multiforme e appassionata biblioteca, quell’angolo considerevole che riguarda appunto la sua specializzazione, alla Facoltà di Architettura, grazie all’intelligente sollecitudine del suo preside, Ivo Iori, che da irrimediabile bibliofilo è anche il curatore dell’ormai preziosa collana Mup, dedicata a testi inediti di poeti e critici, corredata da un originale controcanto grafico di artisti quali Mattioli, Bendini, Xerra, Migliori, Romiti. Dunque la mostra, che è dedicata a tre dei suoi artisti preferiti, Sutherland, Morlotti, Ruggeri (ha ragione Mario Lavagetto, nella sua vigile introduzione: «altre scelte sarebbero state possibili, nessuna, probabilmente, avrebbe potuto vantare maggior titoli di legittimità») va vista attraverso i prodigiosi occhi stilistici della prosa dei testi inediti di Tassi, qui raccolti. E che proprio a contatto con tre protagonisti della pittura di natura, così negletta nel secolo trascorso, tre artisti così vicini e in fondo variati, riesce a trasmetterci la profondità lucida e tenera del suo progressivo accostarsi a questi tortuosi e sofferti e quasi perduti percorsi. Di tre inquieti protagonisti novecenteschi del naufragare consapevole e battagliato, entro la splendente palude nera della natura naturans (Schelling, con la sua visione antinomica ma mai risolta, tra materia e intelligenza, natura e sapere, gli è molto più vicino del trionfante Hegel idealista: non è vero che tutto quello che è, è razionale. Tutt’altro). L’uno, Morlotti, viene dall’antico rapporto «realista» tra nudo e natura, Giorgione, Tiziano, Renoir, Courbet e Cézanne. E, coerentemente alle sue passioni,Tassi preferisce citare il Déjeuner sur l’herbe dell’amato Monet, che non quello, più celebre, di Manet. L’altro, Ruggeri, su cui calendariamente Tassi è ritornato, proviene piuttosto dal grido interiore del gesto, che lotta eternamente con la luce e il nero, con il colore la materia e le proprie accese passioni, utopia incenerita e sempre rinata. Solo, nel suo percorso angosciato, anche se è difficile non vedere i legami con l’action painting americana, di Pollock e De Kooning. Sutherland infine, visionario e graffiante, fatto di spi-

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autostorie

Sutherland, “Study of a tree”. In copertina, Ruggeri, “Erbe nel giardino”

arti

ne e di rocce celtiche e gaeliche, «viene» da Blake e da Palmer, da Ruskin e Paul Nash, e anche quando scopre Picasso o ripensa a Gruenewald, non cade mai nella trappola onirico-surrealista e rimane perfettamente anglosassone. Il che permette a Tassi di citare Hardy, Dylan Thomas, il magnifico Eliot di «un ramo contorto sulla spiaggia/ corroso, levigato e lucido/ come se il mondo abbandonasse/ il segreto del suo scheletro». Tassi cita, ma non per sfoggiare cultura o divagare: le sue citazioni sono sempre pulsanti e perfette, aiutano a illuminare il suo e il nostro percorso avventuroso, anche quando egli sfora volentieri verso il cinema, di Herzog per esempio, o si confronta con l’ispirazione musicale (di Schumann o Schubert). E del resto la sua prosa stessa, modulante, procede come una sorta d’ondosa e pacata parafrasi melodica, variazione meticolosa sull’amato tema della naturalità, che penetra l’uomo, perpetuamente romantico. Che differenza, dalla geniale prosa pirotecnica e istrionica del suo maestro Longhi, che alla parafrasi musicale preferisce l’ekfrasis letteraria, virtuosistica. Che abisso, con i lapilli straziati e penitenziali del rapsodo Testori, suo compagno di strada, su Paragone, ed esegeta-rivale, per Morlotti e Ruggeri. Che sensibile divergenza, anche, con il suo vicino e affezionato fratello-maestro Arcangeli, che predilige i «tramandi» della storia.Tassi preferisce invece i «rimandi» orizzontali dei pittori viventi, che evolvono e maturano come rampicanti caparbi, e a ogni tela rinnovano la loro pittura e riaccendono l’accortezza del critico. Che non è un pretenzioso, che vuole capire o spiegare, perché sa bene, lo suggerisce Lavagetto, citando Braque, che «in arte c’è una sola cosa che ha valore: quella che non si sa spiegare». Non c’è nulla da capire, da spiegare razionalmente, nell’arte: basta «dispiegare», come fa una casalinga con le sue lingerie. Accostarsi con comprensione e tenerezza al corpo dell’arte, con complicità solidale e l’ansia perenne, di non saper catturare abbastanza la «malattia» dell’intelligenza e del sentire altrui, con la stessa attenzione e delicatezza con cui probabilmente sapeva incontrare i suoi pazienti, lui che è stato dottore otorinolaringoiatra sin quasi alla fine, quando la «medicina» angosciante della scrittura d’arte non l’ha cattturato. Con lo stetoscopio dello sguardo, perché ogni volta nella pittura egli ascolta un’eco lontana: la voce della vita, il crepitare della pittura, «lo smorire del tuono di primavera sui monti lontani» (ancora Eliot). In quel mondo desolato che ormai lo attanaglia. Dice bene Stefano Roffi, che ogni volta che accostava un’opera delicatamente arrossiva. Perché con l’amato De Stael sapeva che a quel «cuore di tenebra» ci si poteva accostare, ma non esaurirlo, vincerlo con le parole.

Roberto Tassi. Tre pittori, Parma, Palazzo Bossi Bocchi, fino al 31 gennaio

Ian Fleming e la magica Chitty Chitty Bang Bang di Paolo Malagodi niversalmente conosciuto come il creatore di James Bond, senza dubbio il più famoso agente segreto della letteratura mondiale, Ian Fleming era nato a Londra il 28 maggio 1908 da una famiglia aristocratica e la sua fama è legata a una lunga serie iniziata nel 1953 con Casino Royale, proseguita con altri undici romanzi e due volumi di racconti brevi, incentrati sul mitico 007. Tuttavia pochi mesi prima della morte, avvenuta a Canterbury il 12 agosto 1964, il cinquantaseienne autore britannico scrisse anche un libro per ragazzi, dedicato a Caspar il più piccolo dei suoi figli. Pubblicazione che, rispetto alle tirature stellari delle trame spionistiche, riscosse in quel 1964 un ben più modesto successo editoriale. Salvo riprendere deci-

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samente quota a seguito di una brillante trasposizione cinematografica, uscita nel 1968 sotto forma di musical e con Dick Van Dyke quale attore principale. In una storia che ruota attorno alle mirabolanti proprietà di una vecchia vettura, trovata in condizione quasi di rottame e restaurata con amorosa cura da un eccentrico inventore. Che, insieme ai suoi due bambini, avrà la sorpresa di viaggiare su un’automobile capace non solo di correre a tutta velocità, ma anche di volare nonché di navigare con tutta sicurezza. In immaginarie avventure «affettuosamente dedicate alla memoria della Chitty Chitty Bang Bang originale, costruita nel 1920 dal Conte Zbrowski nella sua tenuta nei pressi di Canterbury. Aveva il telaio di una Mercedes 75 cavalli con trasmissione a catena, anteriore alla guerra del 1914, sul quale era mon-

tato un motore d’aeroplano Maybach a sei cilindri, la versione militare adottata dai tedeschi per il loro Zeppelin. Aveva la carrozzeria grigio acciaio, con uno smisurato cofano lungo due metri e mezzo, e un peso superiore a cinque tonnellate. Nel 1921 a Brooklands vinse la corsa delle Cento Miglia, toccando i centosessanta chilometri orari, e nel 1922 trionfò ancora a Brooklands. Ma quell’anno fu coinvolta in un incidente, e il Conte non la fece correre mai più». Come precisa lo stesso autore, in premessa a un’opera la cui ultima uscita italiana (Chitty Chitty Bang Bang: la macchina magica, Salani editore, 180 pagine, 11,00 euro) è arricchita dai bei disegni della prima edizione inglese. Nella scorrevole prosa di Ian Fleming si snoda così un’avvincente storia che, annota il frequentatore italiano di un internet bookshop, «sarà senz’altro per

ragazzi, ma mi è piaciuta moltissimo e ragazzo non lo sono più da cinquant’anni. Con la piacevolissima sorpresa di un ottimo scrittore, conosciuto sinora solo come autore di James Bond». Sintetico giudizio che ben inquadra i pregi di una vena letteraria attenta a interpretare le automobili come vere creature, capaci di corrispondere le attenzioni loro riservate dai proprietari. «Perché - si legge nelle righe iniziali della narrazione - sono agglomerati di acciaio, fil di ferro, gomma, plastica, elettricità, olio, benzina e acqua. Ma alcune automobili, la mia per esempio e forse anche la vostra, sono diverse. Se riuscite ad amarle e a capirle, se siete gentili con loro ed evitate di graffiare la vernice e di sbattere gli sportelli, le tenete pulite e lucide, forse scoprirete che diventano quasi come persone, anzi più che normali persone: persone magiche».


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23 gennaio 2010 • pagina 15

moda

Finita l’era del trend, l’uomo piace “vissuto” di Roselina Salemi nno 2010, fuga dal cappotto. Se proprio ci deve essere, perché fa freddo, sarà un giaccone con le extension, come quello di Trussardi. La moda uomo torna in pista, con Pitti Immagine e con le sfilate che decretano la fine dei trend. Niente più diktat, soltanto emozioni. E, più delle collezioni al femminile, quelle al maschile testimoniano l’evolversi di una società destrutturata, dove l’eleganza è soggettiva e il mercato offre strumenti per esprimere l’Io. Quello degli uomini che tornano virili, senza paillettes, ma influenzati dalle culture di altri mondi, e scelgono piumini con grandi tasche, caban informali, impermeabili imbottiti, montgomery di maglia, giacconi in cachemire idrorepellente, giacche da Vecchio Marinaio e giubbotti da biker. Al limite, anche cardigan. Trionfano gli ibridi, appunto: il cappotto-non cappotto, l’impermeabile gommato, l’eskimo in pelliccia ecologica. In questo dissolversi delle regole, anche nell’abbigliamento, nasce un nuovo genio, lo stilista turco Umit Benan, consacrato definitivamente dalla terribile Susy Menkes dell’Herald Tribune: è lui l’espressione della moda post-fashion. I suoi cappotti quadrettati, dal taglio dritto e dalla ricchezza di un mantello, fluttuanti, hanno strappato gli applausi. Poi ci sono le Clarks di tartan e le sneakers ricamate, c’è la nappa stretch e il cachemire elasticizzato, c’è il giubbino di opossum (poveretto), ci sono le tasche inter-

A

Dalla collezione Armani. A fianco, lo stilista turco Umit Benan consacrato dall’Herald Tribune

architettura

ne delle giacche di Cerruti realizzate con vecchie cravatte (simbolo del riciclo? Dell’eterno ritorno? Dell’impossibilità di sbarazzarsi del passato?). In tutto c’è anche una nota di vissuto. Non sta bene che l’abito sia troppo nuovo, la scarpa troppo lucida (Santoni ha inaugurato una linea shabby chic, finto usurato, per i suoi costosi stivaletti), il feltro dei cappelli troppo leccato. Dolce&Gabbana hanno mandato in passerella quasi-cappotti di lana cotta, infeltriti, scarpe maltrattate, macchiate di calce, canottiere bucate, ma nel loro caso è l’«effetto Baarìa», più che l’«effetto clochard», è la Sicilia romantica e sensuale del film di Tornatore che si traduce in un linguaggio semplice: jeans, maglie, coppole e camicie bianche, come vent’anni fa, quando hanno cominciato. Con loro, la sfilata è diventata un set, una piazza. E ci sono ovunque citazioni cinematografiche, dal Richard Gere di American Gigolo, ripreso al Pitti da Corneliani, ai pastrani di pelliccia genere Russia del dottor Zivago e

ai berretti da Armata Rossa di Pignatelli, visti su una pedana decorata con finta neve. È un mix che non esprime nostalgia, ma bisogno di radici. Perciò anche il ragazzo di Emporio Armani, atletico e casual, va rassicurato. I suoi giubbotti sport chic, le sue giacche corte, reversibili, lavorate a canestro lo coccolano, lo proteggono. Non ci sono più armature. Giusto qualche citazione militare, qualche divisa. Il massimo che un vero uomo può chiedere alla moda, alla vita, è una giacca di alluminio contro i campi magnetici (l’ha fatta Piquadro). Ammesso che serva.

Forma e tecnica in Morassutti, allievo di Wright el dopoguerra il fascino di Frank Loyd Wright e dell’architettura americana, propagandata dagli scritti di Bruno Zevi sedusse numerosi giovani architetti, tra essi il torinese Paolo Soleri (1919), che si trasferirà definitivamente negli Usa, e il veneto Bruno Morassutti (1920-2008), alla cui opera è ora dedicato un volume a più mani... Nato a Padova, Morassutti si laurea all’Istituto Universitario di Venezia (Iuav) nel 1946 e nel 1949 si imbarca per il leggendario centro di Taliesin, nel Wisconsin, dove il maestro americano Frank Lloyd Wright ha fondato un atelier-laboratorio, che attira giovani architetti da tutto il mondo. Dal 1949 al 1950, Morassutti partecipa all’attività di Taliesin, dove vive in contatto con il

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di Marzia Marandola maestro americano, unico italiano tra i discepoli di Wright. Questa esperienza lo indirizza a una grande attenzione agli aspetti tecnologici della progettazione dell’architettura. Ritornato in Italia fonda nel 1955, insieme con l’architetto Angelo Mangiarotti con cui collabora fino al 1962, uno studio a Milano: in questi anni firma alcune delle sue opere più innovative e originali, affrontando contestualmente anche la redazione di piani urbanistici. Nel 1967 si associa agli architetti Giovanna Gussoni, Mario Memoli e Maria Gabriella Benevento, con i quali elabora il progetto per la sede dell’Ibm a Novedrate (1970-74), oggi divenuto sede dell’università e-Campus, oltre a numerosi studi e progetti sull’uso di sistemi costruttivi prefabbricati. A Morasutti e ai suoi rapporti con i maestri del Novecento è dedicato il volume dell’editrice Electa, 1920-2008 opere e progetti Bruno Morassutti, a cura di Giulio Barazzetta e di Roberto Dulio. I testi introduttivi, le schede di approfondimento, redatte da giovani studiosi come Stefano Poli, Roberta Martinis, Federico Ferrari e altri, ricostruiscono il profilo di Morassutti, coadiuvati da una elegante veste grafica e da un effi-

cace corredo fotografico. Dal volume emerge come carattere distintivo dell’architettura di Morassutti la composizione di forme semplici, di geometrie elementari, associate in perfetto equilibrio tra funzionalità distributiva ed economia costruttiva. L’identità delle architetture di Mangiarotti e Morassutti è fondata sull’uso di elementi prefabbricati, che impalcano volumi originali e sempre diversi. La struttura costruttiva imprime l’immagine all’architettura e gli edifici sono caratterizzati da una perfetta coincidenza tra forma e tecnica. Il supporto tecnico di molte opere è fornito dall’ingegnere Aldo Favini, che elabora le soluzioni strutturali, mettendo a punto originali metodi costruttivi, soprattutto con il cemento armato precompresso. La perfetta coincidenza tra architettura e struttura trionfa nella chiesa parrocchiale di Baranzate di Bollate a Milano

del 1956, dove un semplice parallelepipedo di 20 metri per 14, alto 10 è allestito da quattro pilastri che sostengono la copertura tessuta da sei travi di cemento armato precompresso; le tamponature sono risolte da pannelli di rivestimento di vetro traslucido. Que-

st’opera di elegante semplicità, è divenuta un’icona dell’architettura degli anni Cinquanta.

1920-2008 opere e progetti Bruno Morassutti, a cura di G. Barazzetta e R. Dulio, Electa, 224 pagine, 45,00 euro


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ai confini della realtà Una piccola Bibbia

cristalli sognanti

filosofi, i sociologi e gli intellettuali di ogni razza o religione se ne dovranno fare una ragione. Non è più una questione di mode, tendenze o contingenze astrali. Le nuove generazioni stanno cambiando il mondo, lo stanno riplasmando nei tempi, nei linguaggi e negli ambienti sociali a loro immagine e somiglianza. Non ci sarà un passaggio di testimone - come spesso amano raccontare i vessilliferi della tradizione ma una vera e propria fuga in avanti, già in atto, per la quale le vecchie generazioni saranno lasciate a guardia di un simulacro. La fine del mondo, quello degli appuntamenti sull’agenda, dei viaggi di lavoro, delle serate tra amici con una birra e una chitarra sulla spiaggia diventerà presto protagonista di leggende metropolitane, un po’ come quelle che i cani, eredi di una razza umana ormai estinta, si raccontavano in Anni senza Fine, forse il più bel romanzo di Clifford Simak.

I

E tutto questo non suoni come un allarme o una minaccia ma, piuttosto, come una pura e semplice constatazione. La fotografia di uno stato in continua, rapida e definitiva evoluzione. E se volete davvero rendervi conto di quanto sia palpabile e reale questa mutazione genetica non dovete fare altro che leggere un libro il cui titolo dell’edizione italiana è al contempo sintesi e simbolo. X di Cory Doctorow, pubblicato di recente per i tipi di Newton Compton, è ormai diventato una piccola Bibbia per le generazioni 2.0. Romanzo, saggio, riflessione sociale e politica in grado di «leggere» tutte le più dirompenti implicazioni del cambiamento. Il suo autore, vero e proprio guru di quelli che qualcuno si ostina ancora a definire nuovi media, è considerato oggi tra i venticinque personaggi più influenti del web. Il World Economic Forum lo ha indicato come «giovane leader globale» ma la definizione è riduttiva e forse perfino fuorviante. Doctorow è semplicemente uno degli intellettuali apicali della nuova razza dominante: i nativi digitali. In un libro di grande successo uscito qualche anno fa anche in Italia, Marc Prensky coniò per primo questa definizione spartiacque. Da una parte gli immigrati digitali, le persone nate nel mondo della comunicazione classica, abituati ai tempi e ai linguaggi delle lettere e della fruizione sequenziale delle informazioni. Dall’altra i nativi digitali, le persone nate durante la fase di massima diffusione dei videogiochi e dei social network, abituati a vivere in piccoli universi multimediali in cui immagini, informazioni e rapporti sociali si in-

MobyDICK

per i ragazzi del 2.0 di Roberto Genovesi

ne, delle ideologie mascherate da proclami demagogici. X è un simbolo. Il simbolo di un muro costruito da due braccia incrociate sulla difensiva, la sintesi di un pensiero esclusivo, il segno di un confine. Non c’è modo di passare dall’altra parte, non vi sono vie d’accesso, di comunicazione tra un mondo - quello fuori - e l’altro. È una questione di sangue, dna, appartenenza. C’è chi crede ancora che il mondo al di là si possa controllare, monitorare, gestire. Ma non è possibile. Non lo è più da tempo, nonostante effimere sicurezze. E Marcus, il protagonista di X, lo sa bene. Per lui, nonostante i sistemi ultramoderni per monitorare le attività degli studenti momento per momento, uscire da scuola senza permesso, non è mai stato un problema. La rete lo conosce come w1n5t0n e lui conosce tutti i segreti della rete. Più di molti altri, sicuramente meglio di coloro che tentano di incolpare lui e il suo gruppo di un crimine terribile: una strage terroristica. Marcus viene arrestato e chiuso in carcere senza alcun processo, l’ennesimo rappresentante di quella schiera di giovani capri espiatori che anche nel nostro paese ha fatto felici giornalisti, poteri occulti e servizi deviati per tanti anni. Ma i ragazzi degli anni Settanta non avevano una consolle modificata. Ed è quanto basta a Marcus a scardinare il sistema e a eludere i controlli del governo. Una volta libero, w1n5t0n dà vita a una comunità di ribelli non violenti, con l’obiettivo di combattere il potere del famigerato Dipartimento di Pubblica Sicurezza.

Romanzo di fantascienza?

È “X”, il romanzo ribelle di Cory Doctorow destinato ai nativi digitali, le persone nate nell’era dei social network. Una riflessione sociale e politica in grado di leggere la grande mutazione e le sue dirompenti implicazioni. Ma anche una linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo trecciano varcando i propri confini di rappresentanza e dominio e si fondono, si amalgamano e si alimentano vicendevolmente producendo un nuovo modo di comunicare e pensare. Sono questi nuovi individui, giovani, indipendenti, vaccinati contro l’influenza ormai esotica del quarto potere, i pro-

tagonisti del romanzo di Doctorow. Sono ragazzi che quando hanno finito di fare l’amore non accendono una sigaretta ma la Xbox, quando si danno appuntamento scelgono una locanda in un universo virtuale e quando decidono di informarsi su ciò che sta accadendo realmente nel mondo non si

fanno abbindolare dai titoli dei quotidiani o dei tg asserviti all’ultimo padrone di turno. Sono soggetti non ricattabili, non circuibili, non manipolabili: i veri nemici della nuova società dell’immagine, dell’apparenza e dell’effimero. Gli avversari della politica spicciola, fatta di urla e di «battute», delle dottri-

Diario di formazione di una generazione a cavallo tra presente e futuro? Cronaca di una realtà che solo pochi conoscono? Può darsi. Sicuramente un romanzo diverso, testimone di uno scenario inedito e capace di assurgere al rango di pietra miliare di un nuovo genere di narrativa speculativa. X ha suscitato l’entusiasmo di scrittori come Neil Gaiman e Bruce Sterling, da sempre attenti alle mutazioni della scrittura e dei mondi da essa raffigurati. Un romanzo che non si rivolge a tutti ma solo a coloro che sono in grado di comprendere la neolingua e tutte le sue implicazioni di fruizione. Un romanzo scritto per nativi digitali da un nativo digitale. Una prova che, come una X, definisce una linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo, tra il mondo che fu e che non è più e il mondo che è e che sarà da oggi in poi. In ogni caso da ogni pagina di questo splendido romanzo ribelle di Cory Doctorow esplode un canto liberatorio. Datemi un collegamento in rete e vi solleverò il mondo.


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