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SETTIMANALE DI ARTI E CULTURA
di Anselma Dell’Olio ra del tutto giustificato diffidare di Charlie Wilson’s War, tenendo conto della sfilza di film antiguerra, politicamente prevedibili e ipercorretti visti ultimamente. Redacted, Nella Valle di Elah, Rendition e Leoni per agnelli di Robert Redford sono solo le più note pellicole pacifiste uscite tra gli osanna della critica e i cavernosi sbadigli del pubblico. Quello di Redford è stato il flop più tremendo, dato il cast: Meryl Streep, Redford stesso e Tom Cruise. Il film, però, era didattico e noioso, e gli altri poco meglio. Per spiegare la mancanza del successo atteso, vista l’impopolarità della «guerra di Bush», s’è detto che la gente è stanca e sfiduciata dall’andamento della guerra in Iraq e in Afghanistan, e nel tempo libero vuole distrarsi e non ammorbarsi ulteriormente. Charlie Wilson’s War (sugli schermi italiani dall’8 febbraio), grazie alla sceneggiatura di Aaron Sorkin e alla regia di Mike Nichols (Il laureato, Closer), sta avendo una riuscita ben diversa e meritata. Mentre gli altri film
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Parola chiave: antropologia l’infinito che è in noi di Rino Fisichella
9 771827 881301
ISSN 1827-8817 80126
Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
LA GUERRA DI CHARLIE
Dopo il tour, continua il revival Led Zeppelin di Stefano Bianchi
Esce il film sulla storia del parlamentare americano che finanziò i mujahedin in Afghanistan contro l’Armata Rossa
nominati sono «ispirati» a eventi reali ma ultra manipolati per sollecitare indignazione pacifista negli spettatori, il nuovo film, tratto dall’omonimo bestseller del 2003 del giornalista della Cbs George Crile, scomparso due anni fa, è la storia vera di un parlamentare democratico del Texas, spregiudicato e scavezzacollo. S’inizia negli anni Novanta con una cerimonia segreta, come segreta è stata la missione che Wilson si era assun-
NELLE PAGINE DI POESIA
“Alla sera” di Foscolo liturgia della nascita
di Roberto Mussapi
to: la cacciata dei sovietici dall’Afghanistan attraverso il finanziamento occulto dei mujahedin da parte degli Stati Uniti. Durante i 90 e rotti minuti del film, assorbiremo una lezione di geopolitica complessa e molto divertente e capiremo com’è potuto succedere che la Cia abbia esaltato come «collega onorato» un cocainomane, sciupafemmine e bevitore olimpionico. Flashback: siamo nell’aprile del 1980, e il protagonista è in una vasca termale a Las Vegas, bicchiere di scotch in mano, circondato da una coniglietta di Playboy ansiosa di diventare attrice, un produttore che vuole compiacere e sfruttare l’amico politico e due spogliarelliste che tirano coca. Qui serve una nota su ciò che al cinema è ammissibile per un eroe: Sorkin, il più abile sceneggiatore in circolazione di intricate storie politiche (vedere per credere la sua serie tv su un fittizio presidente americano, West Wing), ha detto al New York Times che «vi è un vocabolario cinematografico che trova accettabile un beone, soprattutto
I giudizi al vetriolo di un inedito Tobino di Leone Piccioni Simone de Beauvoir e gli altri impostori di Robert Conquest
continua a pagina 2
E la Francia riscopre Ferdinand Hodler di Marco Vallora
la guerra di
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IL GRANDE GIOCO (dall’800 alla guerra fredda) di Mauro Canali criveva nel 1990 Peter Hopkirk: «Se nel dicembre 1979 i russi si fossero ricordati le infelici esperienze britanniche del 1842 in Afghanistan, in circostanze tutto sommato simili, forse non sarebbero caduti nella stessa terribile trappola e avrebbero risparmiato così la vita di quindicimila ragazzi, per tacere delle innumerevoli vittime afghane innocenti». Lo storico e giornalista inglese stabiliva in tal modo un parallelismo tra le vicende della «guerra fredda» della seconda metà del Novecento, di cui l’invasione sovietica del grande paese asiatico rappresentò forse la fase conclusiva, e quello che gli storici chiamano the Great Game, il «Grande gioco», una lunga contesa per il controllo dell’Afghanistan tra l’Inghilterra e la Russia zarista, la quale, a partire dalla seconda decade
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segue dalla prima se poi si redime… ma se si vede il protagonista sniffare, non si riuscirà più a interessare lo spettatore ai russi, agli afghani e all’orrore laggiù». Perciò Wilson è circondato da polverina bianca, ma non la tira mai, anche se lo vedremo indagato per consumo di stupefacenti nientemeno che da Rudy Giuliani, allora pubblico ministero in ascesa politica. Ma torniamo alla storia, perché vale la pena descrivere come avviene che un politico edonista, disinvolto, il cui unico interesse è portare più vantaggi economici possibili al suo collegio elettorale, si sia convertito in paladino della causa afghana e anticomunista fervente. La prima tappa è merito di un televisore acceso davanti alla vasca termale. L’anchorman Dan Rather, in diretta da Kabul, racconta il massacro dei mujahedin afghani, armati solo di fucili antiquati per difendersi dagli elicotteri d’attacco ad alta tecnologia dei sovietici. Muoiono a decine di migliaia, eppure continuano a combattere. Wilson chiede di alzare il sonoro del tg. Rather continua: «Se riceveranno armi da noi del mondo libero, gli
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dell’Ottocento, aveva dato l’avvio a una progressiva annessione al suo impero delle grandi pianure dell’Asia centrale. Lo spostamento sempre più a Oriente della frontiera russa era stato seguito con preoccupata attenzione dalla diplomazia inglese, convinta delle mire russe nei confronti dell’India, la «perla» dell’impero inglese. Nel decennio tra il 1865 e il 1875, l’avanzata russa aveva assunto un ritmo inarrestabile. Erano finiti nella sfera d’influenza russa tutti gli antichi canali sulla via della Seta, ed erano state conquistate città carovaniere d’importanza strategica come Taskent, Samarcanda, Buchara e Chiva. Il progressivo ridursi della distanza tra le frontiere dei due grandi imperi ottocenteschi, finì inevitabilmente per trasformare l’Afghanistan il terreno del «Grande gioco», poiché il controllo dei passi afghani di Khyber e Bolan avrebbe consentito ai russi di scavalcare la fortezza himalaiana e reso più realistico il loro progetto di discesa verso le grandi pianure indiane. Fu una guerra di spionaggio e controspionaggio di rara intensità e ferocia, nel corso della quale agenti segreti dei due imperi presero a varcare avventurosamente gli impervi passi della catena himalaiana e a spingersi in territorio nemico per studiare le mosse degli avversari, per corrompere i khan locali e renderseli alleati, per studiare la natura del terreno e disegnare mappe più precise di territori ancora per lo più sconosciuti. Molti di loro vi persero la vita. Alcuni echi del «Grande gioco» si possono cogliere nel Kim di Rudyard Kipling, dove il giovane indù protagonista del racconto opera nella veste di agente dello spionaggio inglese. Le tribù musulmane dell’Afghanistan rappresentarono talvolta il terzo giocatore. In due occasione, nel 1839-42 e nel 1878-80, esse non esitarono a sollevarsi contro gli inglesi. Nel gennaio del 1842, truppe afghane, armate dei micidiali jezail, i caratteristici fucili a canna lunga, distrussero l’intera armata anglo-indiana dell’Indo nella tragica ritirata da Kabul a Jalalabad.
afghani vinceranno». Wilson è agganciato e indaga. È intercettato da Joanne Herring (Julia Roberts), una ricca texana moglie di una serie di petrolieri, ex miss e conduttrice tv, di destra dura, mangiacomunisti, cara amica del generale Zia, presidente del Pakistan. La Herring sa che Wilson siede in Commissione Difesa - quella che approva finanziamenti segreti che non arrivano mai al dibattito in Parlamento, proprio perché coperti - e lo seduce due volte: prima fisicamente, mai un arduo compito con Charlie, e poi politicamente. Lo spedisce da Zia che provvede a mandarlo in visita ai campi profughi afghani, gremiti di un’umanità sofferente e di bambini senza arti per le bombegiocattolo seminate dai russi: «Perché sanno che s’impegnano più mezzi per curare un bambino handicappato che seppellirne uno morto», gli dicono. La terza tappa è l’incontro di Wilson con Gust Avrokatos, agente della Cia, pugnace e collerico, di umili origini, mal sopportato dai colleghi, in maggioranza d’estrazione sociale più elevata, sin dalla fondazione dell’agenzia spionistica. Gust, l’ineguagliabile Phillip Seymour
Hoffman, conduce una lotta impari «con altri due tizi nel mio ufficio» per portare fondi e armi ai mujahedin. È da sottolineare la perizia di Sorkin nello sceneggiare l’incontro tra Avrokatos e Wilson, nell’ufficio congressuale del secondo: s’imparano, con massima goduria, una quantità di cose sui loro caratteri, sul loro passato, sui loro orientamenti e sulla politica, compreso lo scandalo che sta per divorare il parlamentare e che la spia-«ragazzo di strada» contribuisce a scansare grazie una dritta imparata sul campo. Lo staff di Wilson è composto da giovani simil-veline. «Siete tutte così?», chiede Gust. Una di loro risponde: «Charlie dice che puoi insegnare a battere a macchina, ma non alle tette a crescere». Le donne nel film fanno servizio multiplo. Il parlamentare respinge la richiesta di un pastore evangelico del suo collegio perché sia permesso un presepe in un luogo pubblico («Ci sono tante chiese in quella zona dove il presepe starà benone»), e poco dopo ne seduce la figlia. Con un colpo viene confermato donnaiolo impenitente ma di solidi principi liberal-laicisti. Scene come questa servono a fargli
perdonare le amicizie di destra e la solidarietà fraterna con lo spione anticomunista. «Andiamo ad ammazzare un po’ di russi!», dice a un certo punto Avrokatos a Wilson. Mai dobbiamo dubitare che Charlie Wilson sia «Uno di Noi» - ossia di siniSiamo sempre a stra. Hollywood, sia pure nelle mani di professionisti che non hanno bisogno di dare troppe gomitate nelle costole per fare il raccordo con la (sbagliata, secondo il Verbo) guerra al terrore. Solo qualcuna. Ecco il messaggio: poiché gli Stati Uniti hanno armato i mujahedin sotto copertura, per non trasformare la guerra fredda in una guerra calda, gli afghani pensano di dover essere grati solo ad Allah per la cacciata dell’Armata Rossa. E i talebani che hanno preso il potere dieci anni dopo, oggi sparano contro gli americani con le loro stesse armi, ignari dell’aiuto decisivo ricevuto da chi odiano come non mai. Che scemi: invece di ritirarsi, bastava che gli yankee avessero finanziato le scuole afghane per evitare l’11 settembre. Certo, a patto che Osama Bin Laden, invece di finanziare Al Qaeda, fosse stato ancora tra i banchi di scuola.
MOBY DICK di Ferdinando Adornato
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ANTROPOLOGIA Da secoli l’uomo occupa il centro della ricerca e della riflessione. Ma la domanda sulla sua identità non si esaurisce con le risposte fornite da scienza e tecnica. La sfida è sempre la stessa: conoscere se stessi, oltre l’inevitabilità della morte. Impresa possibile solo se ci si abbandona al mistero
L’infinito che è in noi di Rino Fisichella uanti termini iniziano con la vocale «a»? Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta nel momento in cui viene chiesto di aprire una rubrica a partire dall’alfabeto. Ogni termine va giustificato; soprattutto se si tratta di dare il via a una collaborazione con un giornale che intende aprire nuove piste di impegno culturale, politico e sociale. Ho scelto di iniziare con «antropologia» perché ritengo che intorno al termine si nascondano una serie di riflessioni di grande attualità. Per cogliere al meglio il valore del termine, comunque, è necessario farsi carico di una lunga tradizione di pensiero che ci ha preceduto per essere coscienti di quanto vogliamo proporre alle nuove generazioni. «A», quindi, come antropologia; studio e riflessione sull’uomo a partire dall’uomo stesso. Nel contesto culturale in cui ci si trova, che tende spesso a confondere gli spazi di competenza per approdare a ipotesi che si arrogano la spiegazione di tutto, non è superfluo saper distinguere. Dell’uomo si occupano molte scienze. Da quelle naturali a quelle filosofiche, l’uomo sembra occupare il centro della ricerca e della riflessione. La scoperta del Dna permette di progredire verso traguardi fino a ieri impensabili mentre la sperimentazione sulle cellule staminali apre di giorno in giorno a conquiste che fanno presagire un futuro diverso. Ridurre l’uomo a semplice analisi biologica o chimica, tuttavia, non basta. Certo, la scienza permette di compiere progressi che affascinano e aprono orizzonti insperati; eppure, più la mente riflette su tali eventualità e maggiormente tende a insinuarsi l’ombra della tristezza. Le teorie e le ipotesi possono affascinare, ma l’uomo ha bisogno di certezze. La scienza ne procura alcune, ma ne lascia molte altre senza risposta. Il senso di fiducia e speranza dell’ammalato tende ad affievolirsi quando il medico facendo la diagnosi propone una terapia che non dà e non potrebbe dare certezza di guarigione. L’uomo, quando riflette su se stesso, percepisce che vi è in lui qualcosa che va oltre gli impasti biologici e i miscugli chimici; sa con certezza che oltre alla fisiologia in lui regna il pensiero.
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La questione antropologica, alla fine si condensa tutta nella domanda di sempre scolpita nell’architrave di Delfi: gnothi seauton. La sfida è sempre la stessa, non cambia. Si modifica con il passare dei secoli per la perdita di memoria storica; eppure, permane con la sua carica di provocazione che non permette indifferenza alcuna. Conosci te stesso! Provocazione e dramma nello stesso tempo, perché ne deriva una scelta da compiere che non può essere demandata a nessun altro. La sfida è la volontà di conoscere se stessi; impresa ardua soprattutto nel momento in cui tutto tende a portarci
la consapevolezza e induce a una prassi consequenziale fatta di ricerca per il bene di tutti e di dignità per ognuno. Se guardiamo ai prossimi decenni è facile verificare come una delle domande che dovranno essere poste sul tappeto della speculazione sarà pro-
al di fuori di noi per dare spazio all’effimero. Ribadiva con forza un filosofo dello spessore di Blondel: «C’è un infinito presente a tutti i nostri atti volontari, e questo infinito non possiamo da noi stessi contenerlo nella nostra riflessione, né riprodurlo con il nostro sforzo umano». Il senso di infinito non può essere compresso per l’avidità di voler guardare solo al momento presente e a ciò che produce guadagno. Solo nella misura in cui si dilata l’apertura per l’infinito presente in noi si vive con la certezza che quanto appartiene alla vita merita di essere vissuto. Sostenere lo spazio di infinito non distoglie dall’assunzione di responsabilità, al contrario, ne abilita
prio quella dell’identità dell’uomo. Sarà ancora in grado di gestire la tecnica o sarà sopraffatto dalla sua stessa conquista? Sarà libero di scegliere e di progettare la sua esistenza personale oppure vivrà l’illusione di farlo mentre altri dietro le quinte muoveranno le fila? Sarà ancora l’uomo come è stato pensato fin dall’antichità oppure si sarà costretti a modificare la stessa concettualità con i linguaggi che ne derivano per avere una coerente visione di ciò che un tempo abbiamo definito come «uomo»? Domande non retoriche che richiedono l’umiltà di un confronto tra le scienze piuttosto che l’arroganza di un’imposizione prettamente scienti-
sta. Davanti all’immensità degli spazi che ci si aprono sembra possedere ancora più valore il sarcasmo di Pascal: «Sono in una ignoranza terribile circa tutte le cose; non so cosa è il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte di me che pensa ciò che dico, che riflette su tutto e su se stessa e non conosce sé più di quanto conosca il resto… tutto quello che io conosco è che debbo morire, ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare». L’infinito presente in noi obbliga ad andare oltre l’inevitabilità della morte, ma questo è possibile solo nella misura in cui si scopre il mistero e ci si abbandona.
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musica
rock
LED ZEPPELIN
parabola (vincente) di una live band di Stefano Bianchi
o scorso 10 dicembre, alla 02 Arena di Londra, in parecchi si sono stropicciati gli occhi. Confusi e felici. Sul palco, i Led Zeppelin hanno consumato la Reunion Maxima del 2007 omaggiando Ahmet Ertegun, ex loro manager nonché fondatore dell’etichetta discografica Atlantic. Bello tosto, il quartetto inglese. Senza «se» e senza «ma». Quasi come ai bei tempi. Robert Plant (classe 1948) ha scosso la folta chioma liberando l’ugola imbizzarrita; Jimmy Page (1944), spalleggiato dal basso di John Paul Jones (1946), s’è rimesso a far miracoli con la chitarra elettrica; il quarantunenne Jason Bonham, alla batteria, se l’è cavata più che bene: non era facile sostituire suo padre, il tentacolare John Bonham detto Bonzo, morto per overdose di alcolici il 24 settembre ‘80. Tre mesi dopo, i Led Zeppelin decisero di sciogliersi anziché ingaggiare un nuovo drummer. Ma siccome la loro fama si è sempre rispecchiata nella reputazione di grande live band che ha sovvertito le regole del rock e del blues (cambiando soprattutto il modo di ragionare, sul rock, delle generazioni successive), era destino che il «dirigibile», prima o poi, si rimettesse in volo. E così è stato, per la gioia di nostalgici aficionados e nuovi fan. Che ora attendono, tutt’altro che appagati dal reunion concert londinese da una botta e via, la fatidica tournée mondiale.Trattative in corso, Plant & Co. ne stanno discutendo, si vedrà. Nel frattempo, per riassaporare il brivido degli Zep dal vivo, vale la pena ascoltare la ristampa (con sei tracce in più) del doppio cd The Song Remains The Same (Atlantic/WEA). È la colonna sonora dell’omonimo film
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diretto da Joe Massott nel ‘73 e uscito nelle sale cinematografiche tre anni dopo, coi quattro ripresi in concerto (un sunto delle tre serate, luglio ‘73, al Madison Square Garden di New York) e fuori scena, tra sequenze visionarie e ultra kitsch. I Led Zeppelin, in quel tour che confinava con la pubblicazione dell’ellepì Houses Of The Holy, in quanto a fama sedevano tranquillamente il cima al mondo. E si sente, cavalcando il suono (rimasterizzato) di questi dischi da annoverare fra i più bei live di sempre. Malgrado qualche pecca: eccessi di narcisismo, improvvise défaillance nel cuore dei pezzi più intoccabili. Ma tant’è. Anche alle divinità, ogni tanto, è consentito sbagliare. Quel che conta, alla fine, è l’incipit della performance: cioè Rock and Roll. Che si abbatte all’improvviso sul pubblico, alimentato dai cortocircuiti di Jimmy Page. Da qui, decolla una sequenza da pelle d’oca (14 brani) che mette in fila l’inconfondibile «passo» di Black Dog, il blues di Dazed and Confused, l’ineffabile melodia di Stairway To Heaven, il chilometrico assolo di batteria che marchia a fuoco Moby Dick, l’inimitabile refrain di Heartbreaker e Whole Lotta Love: scandita da citazioni di vetusti blues e imprigionata nell’orgasmica voce di Robert Plant. L’epilogo perfetto, per la Band con la maiuscola. Che rivedremo in scena? Led Zeppelin, The Song Remains The Same, Atlantic/Wea, 24,90 euro
in libreria
mondo
HENDRIX, VITA DI UNA LEGGENDA
SONY CEDE ALLA MUSICPASS
ra le leggende musicali, quella di Jimi Hendrix, nato a Seattle nel 1942 e morto a Londra a soli 28 anni, continua a stagliarsi prepotente e gli «svisi» del chitarrista mancino, anche decenni dopo Woodstock, commuovono e stupiscono ancora. Sulla base di una ricca documentazione - materiali inediti, lettere private, interviste a quanti lo conobbero bene e foto private di famiglia -
ony BMG Music Entertainment, la seconda casa discografica per grandezza al mondo, diventerà questo mese l’ultima delle quattro grandi major a eliminare il software di protezione delle copie nel download musicale, il cosiddetto Digital rights management (Drm). L’azienda, etichetta di artisti come Britney Spears o Céline Dion, ha lanciato una card per un servizio, avviato
Documenti inediti, lettere private, foto di famiglia: esce una biografia dedicata al mitico chitarrista
Nell’era del Mp3, anche la grande major elimina il software di protezione delle copie del download
Charles R. Cross ha scritto una biografia dell’artista, noto anche per i suoi eccessi (sesso, droga e rock ‘n roll), che Feltrinelli ha appena mandato in libreria. Il titolo, La stanza degli specchi (472 pagine, 13,50 euro) è una citazione di quel brano - Room Full of Mirrors - in cui si «racconta di un uomo intrappolato in un momento di riflessione su se stesso talmente potente da perseguitarlo nei suoi sogni. L’uomo riesce a liberarsi solamente dopo aver infranto tutti gli specchi e, ferito dalle schegge di vetro, cerca un “angelo” che possa restituirgli la libertà». Una metafora dell’esistenza di Jimi, di cui l’autore analizza la sofferta umanità.
lo scorso 15 gennaio e dal nome «Platinum MusicPass», che consentirà di scaricare gli album digitali in formato Mp3 senza la protezione Drm. I fan potranno acquistare le card per gli album digitali normalmente nei negozi e scaricare i dischi dal sito Web MusicPass dopo aver digitato un numero identificativo. «L’introduzione di MusicPass - ha spiegato Thomas Hesse, presidente della divisione vendite Usa e businness digitale di Sony BMG è una parte importante della nuova campagna della casa discografica, che vuole veicolare la musica degli artisti in modo innovativo, sviluppando sempre nuovi modelli di business».
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riviste
OMAGGIO A STOCKHAUSEN arlheinz Stockhausen è scomparso il 5 dicembre scorso. Ha lasciato un vuoto incolmabile per quanto la sua straordinaria opera non mancherà di ricordarcelo. Intanto ci conforta che la rivista Classic di gennaio, ce lo restituisca, per quanto possibile, raccontandocelo con un profilo di Mario Messinis e con un’autointervista del grande compositore. Da questa apprendiamo come e in
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In Classic di gennaio un profilo di Messinis e un’autointervista del grande compositore che contesto nacque quella che lui chiamò la «musica puntuale», vale a dire una musica non più fatta di melodie o di accordi, ma di punti: punti nel tempo e nello spazio. Ciò vuol dire, secondo Stockhausen, organizzare in serie il ritmo, le melodie, gli accordi, le armonie e i movimenti spaziali. Fu «rivoluzionaria» la Kreutzspiel nella quale sperimentò queste caratteristiche che non mancarono di suscitare perplessità che hanno gravato sull’opera del musicista si può dire per tutta la vita. Era il 1951. Da allora Stockhausen non ha mai smesso di scandalizzare, ma anche di mostrare a tutti la sua grandezza. Il più innovatore tra i classici moderni.
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zapping
Robbie Williams in Cina DIVENTA BITUME
classica
Elisabeth, inimitabile regina del Lied
di Bruno Giurato
di Pietro Gallina
La musica pop ormai è un modello di sostenibilità ambientale. Si ricicla tutto, il rock, il punk e la disco. Rivive qualsiasi cosa, si veda il revival anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Tutto si ricicla niente si butta. Ma la notizia vera è che si riciclano persino i dischi di Robbie Williams. Rudebox, l’ultimo album dell’ex Take That ha venduto pochino, la Emi, in difficoltà economiche, recupererà i costi inviando le copie in Cina. La plastica e il metallo dei Cd diventeranno bitume e componenti di semafori. Così si legge sui comunicati ufficiali, ma le nostre fonti segrete hanno rivelato la storia vera, occultata dalle pressioni della major inglese. La sveliamo ai lettori di liberal. In prima battuta le tonnellate di dischi invenduti sono caricate nottetempo su camion e indirizzate a Napoli, alla discarica di Pianura. Lì vengono bloccate da una sommossa popolare, capeggiata dai rapper Co’ Sang e Speaker Cenzou che cavalcano la protesta contro Robbie Williams al grido di «tornatece i neomelodici, tornatece a munnezz!». Un tentativo di liquidare il carico presso il termovalorizzatore di Brescia era fallito per l’opposizione dei dirigenti locali, Fausto Leali in primis. Allora, sempre nottetempo, le tonnellate di cd vengono imbarcate per la Sardegna, ma all’arrivo a Cagliari un’altra sommossa blocca l’operazione. A guidare i tumulti sono i jazzisti Paolo Fresu e Antonello Salis, con l’appoggio inatteso di Renato Soru, che tra fumi e barricate urla: «A su burriccu sardu du coddasa una orta sola!» cioè: «l’asino sardo lo freghi una volta sola!». Per fortuna nostra e di Robbie Williams la Cina è vicina (e i musicisti cinesi lontani).
più di un anno dalla scomparsa di Elisabeth Schwarzkopf, la Emi Classics pubblica un cofanetto con 5 cd che raccontano la sua leggenda. L’omaggio postumo riguarda comunque una compilazione di registrazioni effettuate in differenti anni, con differenti tecniche, con differenti accompagnatori pianisti (Gieseking, Parsons e Moore) e direttori d’orchestra (Ackermann, De Sabata, Furtwängler, Karajan, Krips e Serafin). Universalmente nota come una delle più straordinarie cantanti del Ventesimo secolo, dotata di una voce di rara bellezza e dolcezza in un congiunto armonico con la sua persona di dirompente fascino e splendore fisico, la Schwarzkopf aveva capacità di comunicare e recitare a tal punto con la voce che il critico John Steane scrisse che ella riusciva a rendere quasi visibile la sua stessa voce. In comune con la Callas, altra grande sua contemporanea - insieme cantarono alla Scala una Turandot aveva il dono di grande attrice, una presenza carismatica notevole sul palco: una vera Regina del canto. Dopo essersi ritirata dalle scene, nel 1971, con l’ultima interpretazione della Marescialla a Bruxelles, e dalla vita concertistica, con un concerto di addio ad Amsterdam, nel 1977, si era dedicata all’insegnamento, attività che aveva proseguito ininterrottamente, sino a pochi mesi prima di morire: tra i suoi allievi spiccano i nomi di Matthias Goerne e Thomas Hampson. Toscanini le aveva consegnato personalmente l’Orfeo d’oro nel 1955 e nel 1992 la Regina Elisabetta il titolo di Dama dell’Ordine Britannico. Tantissime le interpretazioni memorabili, le testimonianze di una sensibilità superiore, capace di intendere, in ogni frangente, il proprio ruolo di soprano, segnato da un pathos drammatico d’immensa intensità. Mario Bortolotto, nell’in-
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troduzione all’Ala del turbine intelligente, un libro di scritti di Glenn Gould, parla di un’incisione degli Ophelia Lieder di Strauss, del pianista con la Schwarzkopf, affermando che «il disco andrebbe ascoltato in ginocchio». Ma la sua maturazione e approfondimento artistico - nell’opera è straordinario e travolgente, fino alle insuperate interpretazioni di Strauss - trovano il suo più perfetto humus e il sublime assoluto della liricità nel Lied tedesco. Come da lei stessa dichiarato: «Mentre nell’opera è sufficiente centrare il profilo sonoro del personaggio, nel Lied devo trovare anche cento, duecento colori diversi in una stessa serata, per rendere tutte le sfumature». Mai un soprano, con la voce della purezza e dell’assoluto, ha dato una totale e completa dimostrazione di tutte le possibilità di comunicare il Lied in tutte le sue età, dagli inizi fino ai contemporanei, per passare tra i giganti del romanticismo tedesco (Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, Wolff, Malher, Strauss). Certo il Lied è la voce segreta e l’essenza del popolo tedesco; in esso si muovono tanti complessi intrecci tra anima e nostalgia, libertà e destino e attraverso le vie del Lied che più profondamente hanno aperto le porte alla lirica romantica, si respira un brivido di paradiso perduto. Ecco perché tanta sehnsucht, uno stato d’animo perennemente inquieto e scontento della realtà, che vuole affondare nel sogno. Una condizione umana di cui la Schwarzkopf penetrò ogni fibra e filamento, per renderla dorata e sublime anche se in conflitto eterno tra vita, amore e morte. Proprio uno degli Ultimi Lieder di Strauss, un cavallo di battaglia della Schwarzkopf, cifra distintiva del proprio stile, pare essere adatto a questo finale, con le parole di Hesse in Im Abendrot: «O pace vasta e silenziosa, pace profonda del tramonto. Siamo così stanchi del cammino, è così, forse, che si muore?».
Elisabeth Schwarzkopf 1915-2006, Emi Classics, 5 cd
jazz
Le variazioni parigine di Chet di Adriano Mazzoletti ent’anni fa moriva Chet Baker. Già leggendario mentre era in vita, a 23 anni nel celebre quartetto di Gerry Mulligan era diventato una stella del jazz. Continuò a esserlo fino alla morte avvenuta in circostanze misteriose ad Amsterdam pochi giorni dopo aver partecipato a Roma a una trasmissione radiofonica, dove aveva suonato, raccontato di sé e del suo dramma infinito con le droghe. Una vita vissuta in un caos incessante intrisa di genialità. Già dalle sue prime incisioni aveva ottenuto l’unanime consenso del pubblico e della critica internazionale. Molti credettero di ravvisare nel suono della sua tromba, nel suo lirismo, nell’attacco delle note, nel vibrato appena accennato, il ricordo di Bix Beiderbecke, un altro grande del jazz, anch’egli artista maudit,
V
scomparso a soli 28 anni. Bix e Chet in comune avevano fascino a carisma. Un musicista italiano, Oscar Valdambrini che tanto suonò con lui, un giorno disse: «Il mio primo incontro con Chet è stato come quello di un uomo che incontra la donna dei suoi sogni e le dice: ti conoscevo già prima, ma adesso ti ho incontrata. Un’emozione fortissima». La stessa che ebbe Oriana Fallaci quando nel 1962 lo volle intervistare: «Sorrideva con quegli occhi azzurri un po’ingenui», scriveva. Dopo il successo negli Stati Uniti, decise di trasferirsi in Europa. A Parigi prima, in seguito in Italia dividendosi fra Milano e Roma. Era il 1955 e in cinque mesi, fra l’11 ottobre e il 15 marzo dell’anno successivo, Baker realizzò per Barclay, una delle più autorevoli case discografiche francesi, trentanove brani in otto sedute, pubblicati a suo tempo su vinile e successivamente in cd, da troppo
tempo introvabili. Dischi importanti per conoscere e apprezzare la sua evoluzione stilistica: dai primi, autentici capolavori incisi con il quartetto giunto con lui dagli Stati Uniti agli altri con il complesso francese che venne per la prima volta in Italia per una lunga tournée. In questi giorni la Universal ha pubblicato l’integrale di quelle otto sedute. Ai trentanove brani ne sono stati aggiunti altri cinquantadue quasi tutti inediti, fra prese alternative dello stesso brano e false partenze. Opera colossale divisa in otto compact raccolti in un cofanetto di grandi dimensioni con accluso un volume di ottanta pagine, con un numero davvero impressionante di foto e il racconto di quegli anni, i primi dei tanti passati da Baker in Europa. Nelle oltre otto ore di ascolto, molti i momenti di grande suggestione. La tromba di Chet domina su tutto e tutti. Una naturalezza indescrivi
bile, un fluire di idee sempre nuove nelle diverse edizioni dello stesso brano, anche perché i musicisti che gli fanno corona sono a lui congeniali.
Chet Baker in Paris. The complete 19551956 Barclay Sessions, Universal, 80,00 euro
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libri
narrativa
MONSIEUR FÉRON
simbolo dell’Europa in guerra di Pier Mario Fasanotti arcel Féron è sempre stato pudico e impacciato. Il laboratorio di radiotecnico e la famiglia sono il suo duplice rifugio. Vive senza passioni, si aggrappa alle abitudini rassicuranti di Fumay, cittadina vicino alle Ardenne. Sua moglie Jeanne è una garanzia sentimentale, e così pure la figlia, le galline, il vicino di casa. Le truppe tedesche invadono Belgio e Olanda e attaccano la Francia. Marcel spia il mondo con la radio a onde corte. E qui Georges Simenon, in questo romanzo scritto nel 1961, riassume come pochi sanno fare la più confusa e barbara vicenda del Novecento: «Parlavano tutti contemporaneamente». Le strade si popolano di futuri profughi, goffi e nervosi, molti raggiungono la stazione ferroviaria. Anche Marcel con
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moglie e figlia, alla ricerca di un treno che li porti lontano. Ma per lo sbiadito tecnico francese la guerra non è l’inatteso fulmine, bensì qualcosa che doveva pur venir giù dal cielo, prima o poi. Intimamente è preparato, addirittura avverte «una gioia torbida» nell’infilarsi in un vagone bestiame, lontano da quello dove sono state fatte salire moglie (incinta) e figlioletta. Il treno vagabonda sui binari, in certe stazioni perde vagoni. Gli chiedono se è preoccupato, soprattutto perché senza famiglia, e lui risponde: «Non eccessivamente». A se stesso confessa: «È una faccenda tra me e il destino». E ricorda di quando la madre, nel 1918, un giorno tornò a casa nuda, col cranio rasato e la mente sconvolta. Poi l’affidamento a parenti, gli anni del sanatorio, la ricerca dolorosa di normalità anche a costo di silenziare desideri e pulsioni. Il treno
diventa simbolo dell’Europa in guerra, senza un domani. Marcel impara che ormai «tutto è possibile»: si mischiano voci, lamenti, odori, furbizie, sesso, pietà e cinismo. L’incontro con Anna, ebrea ventenne, si trasforma in ciò che lui non aveva mai vissuto: batticuore, passione dolce e prepotente, gelosia. Della moglie chiede notizie più per dovere morale che non per assecondare le grida del cuore. «La vita con Anna era come se dovesse durare per sempre» lui ricorda, ma la storia smentirà. Féron è uno dei personaggi simenoniani che alcuni strappi di vita buttano in una parentesi esistenziale: sognata, temuta e destinata a chiudersi. A testimonianza di come «noi» siamo tanti «noi». Georges Simenon, I l t r e n o , Adelphi, 152 pagine, 16,00 euro
riletture
I giudizi inediti di un Tobino al vetriolo tante sulla pittura di Marcucci e altri. Ma lo scrittore Tobino (era anche mediei «Meridiani» di Mondadori esce co del manicomio di Lucca) è nel ’40 il volume delle opere scelte di molto avvilito e polemico perché i suoi Mario Tobino del quale De primi libri tra il ’42 e il ’50 non avevano Robertis scriveva: «Tobino, tra gli scritto- avuto recensioni positive se non da Velso ri della sua generazione, è sicuramente Mucci, Ferruccio Ulivi e pochi altri. E quello che ha più “sprint”». In questo Mucci e Ulivi fanno parte di quella piccovolume si pubblica anche un inedito la schiera di scrittori amati da Tobino: molto interessante, il Diario del 1950, che Cardarelli, Sbarbaro, Garboli, Piovene. Tobino (nato nel 1910 e morto nel ‘91) Per tanti altri (direi per tutti gli altri), scrisse a quarant’anni. (E De Robertis Tobino si presenta come una befana carinon poteva immaginare come Tobino l’a- ca di carbone amaro. Montale, «come vrebbe conciato nel suo Diario). In un una zitella che ha perso l’ultimo marito»; centinaio di pagine Tobino metteva a Ungaretti, che cominciò bene la sua fuoco la situazione letteraria dell’Italia ricerca poetica che poi miseramente fallì; contemporanea (con tanti insulti, come si Vittorini «sciocco e femminile»; Brancati vedrà) dedicando poi pagine bellissime a «il più stupido del nostro tempo»; un viaggio a Roma, a Michelangelo, ai Pratolini «che come unica qualità è in templi di Paestum, con un saggio impor- preda a un “morboso erotismo”»; Cecchi
di Leone Piccioni
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«tipico servitore della dittatura»; Gadda nella sua «demenza delle parole»; Maccari «odio Mino Maccari, esempio di italianetto»; Moravia «si è sempre indaffarato a sciorinar segatura, sicuramente non ha mai letto un poeta», con tante altre citazioni negative. Se la piglia ferocemente con gli ermetici fiorentini delle Giubbe Rosse e in particolare con Luzi, ma Luzi parla nel ’50 in toni molto positivi di Tobino e allora, ecco le contraddizioni: «Non posso che inchinarmi alla austerità del Luzi… questo Luzi deve avere sofferto». Contro De Robertis si sa quante contumelie («pettegolo stizzoso»), ma come l’avrà messa Tobino vedendo poi nel ’53 la recensione entusiastica di De Robertis alle Libere donne di Magliano e nel ’54 alle Due italiane a Parigi? Ma tutto si può perdonare a chi
ha scritto libri felici e importanti come questi, e come La brace dei Biassoli del ’56, Per le antiche scale del 1971 e, prima, Il clandestino del ’62, vincitore del Premio Strega nello stesso anno (e uno dei due presentatori del libro ero io, insieme, mi pare, a Carlo Bo). Tanti scrittori che nel ’50 Tobino riteneva nemici, mentre ora si crea uno stuolo si ammiratori. Di sé Tobino scriveva: «Sono un popolano di origine aristocratica» e non taceva di essere un don Giovanni, con tante fanciulle e giovani signore per lui disponibili. Dunque nell’arco del Diario 1950 splende anche la bellezza delle donne e su tutte la sua compagna più cara che ci viene indicata spesso con il nome di Paola. Doveva essere, se non mi sbaglio, la sorella di Natalia Ginzburg e moglie separata di Adriano Olivetti.
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medioevo
In linea diretta con Dio di Franco Cardini na discutibile tradizione recensoria vuole che le enciclopedie non siano, in genere, oggetto di recensione. Ma chi si vuol occupare un po’di cose del Medioevo, deve raggiungere una qualche confidenza con la dimensione della preghiera: il che rende questo libro, come direbbero i francesi, incontournable per un medievista, anche se non solo per lui. D’altra parte, 1332 pagine sono parecchie, ma non poi moltissime: e, una volta tanto, verrebbe davvero la voglia di suggerire di leggersi quest’enciclopedia come si legge un libro, da cima a fondo. La struttura dell’opera lo consentirebbe; e anche il taglio, che va al di là della preghiera cristiana per cogliere il nucleo antropologico di quell’atto profondo e
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ineffabile attraverso il quale l’uomo si rivolge... già: a chi? Al Dio creatore e onnipotente dei figli d’Abramo? Al Dio-Uomo? Ai milioni di divinità tanto diverse fra loro eppure forse infiniti volti d’un solo Divino, di un Sacro al quale le differenti culture e le diverse età si sono rivolte? E rivolgersi, poi, al Divino, per lodarlo, per amore, per indurlo a esaudire i desideri o a sovvenire i bisogni umani, per mendicare una grazia? La preghiera confina con l’implorazione, ma anche con la magia. Sulla linea di altre due precedenti grandi opere del medesimo editore, il Dizionario di mistica del 1998 e il Nuovo dizionario di spiritualità del 2003, quest’opera completa il disegno di una trilogia delimitante i contorni della grande avventura dello spirito umano intento a saggiare il Mistero
degli invisibilia dentro, oltre e al di sopra di se stesso. Preghiera come colloquio serrato tra l’Amato e l’Amante, ma anche esperienza comunitaria profonda, tessuto strettissimo di Voci e di Nomi. L’Enciclopedia si compone di otto ampie sezioni, rispettivamente dedicate alla Bibbia, alla teologia, alla patristica, alla storia, alla preghiera in alcune aree geografiche (il Nord e il Sud del continente americano, l’Estremo Oriente, l’Africa), alle scuole, alla pastorale, alle confessioni cristiane altre dalla cattolica e alle religioni non cristiane, al rapporto tra la preghiera e alcune scienze umane come la filosofia, la psicologia, l’arte e la musica.
Enciclopedia della preghiera, a cura di C. Rosini e P. Sciadini, Libreria Editrice Vaticana, 1332 pagine, 70,00 euro
economia
Il capitalismo salvato dalla famiglia di Giancarlo Galli n Dinastie David Landes, dall’alto della sua autorevolezza (è professore emerito a Harvard), da anni va affrontando un problema di estrema attualità, sempre irrisolto: per una grande azienda, meglio i «padroni» o i manager? In altri termini, hanno più contribuito allo sviluppo del capitalismo le famiglie o i gestori che, esenti da condizionamenti parentali, hanno quale primario obiettivo il creare ricchezza attraverso il profitto? Landes ha una tesi precostituita, in netta contrapposizione con la vulgata impostasi fra gli economisti a partire dalla crisi degli anni Trenta, e rafforzatasi nel dopoguerra: il primato della managerialità. Per lui, al contrario, sono stati i Baring, i Rothschild, i Morgan a scrivere la storia del
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moderno banking. I Ford, gli Agnelli, i Peugeot, i Toyota in campo meccanico-automobilistico. Con loro i Rockefeller, i Guggenheim, gli Schlumberger. Ricavandone «medaglioni» di palpitante suggestione dove, in un intreccio secolare di successi e fallimenti, vengono ricostruite le più significative vicende del nostro tempo. Ma quel che rileva, nel robusto e documentato saggio, è una dirompente, duplice affermazione. Primo, in assenza delle dinastie (delle quali, peraltro, non si nascondono errori e limiti, allorché le famiglie scadono nel nepotismo), il capitalismo non sarebbe esistito. Secondo, se oggi il Terzo e il Quarto mondo sono incapaci di riscattarsi, ricercando un alibi nel passato colonialismo, è per l’assenza di dinastie, che unendo rigore e determinazione, spezzano le catene dell’immobilismo, di una
mentalità parassitaria spesso favorita dallo statalismo. Così, partendo dall’aneddotica (stimolante quella sugli Agnelli), Landes finisce col farsi paladino di una crociata intellettuale a favore dell’impresa familiare. Laddove il «piccolo» lotta per conquistarsi spazi, prima per esistere, poi per imporsi. Siamo insomma alla rivalutazione dell’Uomo imprenditore, mettendo in discussione il mito manageriale. Pubblico o privato che sia. Un libro su cui riflettere nella fase che viviamo; laddove manager avidi e talvolta irresponsabili, erigendosi a casta autoreferenziale, stanno causando danni immensi alla finanza e all’economia. David S. Landes, Dinastie. Fortune e sfortune delle grandi aziende famigliari, Garzanti, 430 pagine, 28,00 euro
politica
Nazione, patria… ergo sum di Riccardo Paradisi e la nazione è solo un artificio, un’ideologia costruita dalle classi dirigenti per far marciare a ranghi serrati i popoli e subordinarli agli interessi dominanti perché per la nazione, negli ultimi cinquecento anni, milioni di uomini si sono sacrificati e sono morti? Se la patria è una sovrastruttura della cultura borghese perché persino Stalin fu costretto a mobilitare questa idea, e non il marxismo leninismo, per spingere i russi a liberare l’Unione Sovietica dalle armate di Hitler durante la seconda guerra mondiale? Una risposta a queste domande viene da un saggio di Anthony Smith, che è un capolavoro di sintesi e di
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efficacia insieme. Si intitola La nazione e lo ha curato per la casa editrice Rubbettino Alessandro Campi, politologo dell’università di Perugia impegnato da anni a studiare i temi del nazionalismo e del realismo politico. Smith non è un teorico qualunque: allievo di Ernest Gellner che considerava la nazione una costruzione moderna, Smith ha elaborato un percorso diverso da quello del suo maestro, tanto da essere considerato oggi il maggiore esponente dell’approccio etno-simbolico all’idea di nazione. In altre parole, come scrive Campi, «Smith si è andato convincendo che la comparsa delle nazioni storiche contemporanee sia avvenuta non a partire da una sorta di vuoto sociale e culturale,
ma sulla base di comunità etniche preesistenti, di nuclei etnico territoriali coesi con un’identità collettiva già ampiamente formata in epoca premoderna, spesso da una base storica». Smith declina anche i caratteri che definiscono una nazione: un nome collettivo identificante il gruppo, un mito relativo alla sua origine e discendenza, il senso di una storia condivisa basata su memorie comuni, un sistema culturale vissuto come specifico, l’associazione con un determinato territorio e, infine, un sentimento comunitario dell’identità e della solidarietà. Anthony Smith, La nazione, storia di un’idea, Edizioni Rubbettino, 184 pagine, 9,00 euro
altre letture Il Gambero Rosso non ha dubbi: se oggi ci fosse un campionato mondiale di cucina, a vincerlo sarebbe l’Italia, «in barba alle rivoluzioni europee…». Ingredienti eccellenti, fantasia e capacità imprenditoriali sono il mix vincente dei nostri chef e ristoratori che hanno fatto, negli ultimi anni, passi da gigante. Così, in questa guida Gambero Rosso Ristoranti d’Italia 2008 (639 pagine, 22,00 euro), sono ben 25 le Tre Forchette assegnate da Nord a Sud del Belpaese. Un’allegoria della storia del mondo, lacerata dalla divisione che solo una riscoperta capacità di accettare l’altro può risanare. Tra mito e favola, Doris Lessing consegna al matrimonio tra una mite regina di un mondo pacifico e un brutale re di una terra dominata da guerra e caos, il possibile sviluppo di un mondo migliore. Nell’inedito Un pacifico matrimonio, recentemente pubblicato da Fanucci editore (326 pagine, 17,00 euro). Nancy Horan, giornalista americana, ha scelto per il suo esordio narrativo di raccontare la storia d’amore che alle soglie della prima guerra mondiale legò il celebre architetto Frank Lloyd Wright e una delle sue clienti, Mamah Borthwick Cheney, simbolo, per il suo tempo, di quella libertà cui tutte le donne aspiravano. Basato su fatti reali, Mio amato Frank (Einaudi, 446 pagine, 16,80 euro) è, «un romanzo appassionante… Una lettura emozionante e provocatoria» (parola di Scott Turow!). Progettare la modernità è uno dei compiti più difficili in questa Italia sfilacciata e confusa, demagogica e intollerante, buonista e buontempona. Eppure, quasi due secoli fa, con questo compito si era misurato anche Giacomo Leopardi, nel tracciare un identikit dell’italiano che tanto assomiglia alla nostra contemporaneità. Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (riproposto ora nell’Universale economica Feltrinelli, 112 pagine, 5,50 euro) è dunque lettura utile e necessaria per conoscersi meglio e per tentare di cambiare.
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anticipazioni
DRAGONI DELLA SPERANZA PER ABBATTERE LE FALSIFICAZIONI DI CUI È STATA FATTA OGGETTO LA STORIA E PER SBARAZZARCI DELLE BENDE INTELLETTUALI. COSÌ NEL SUO ULTIMO SAGGIO ROBERT CONQUEST SVELA MOLTE DISTORSIONI. A COMINCIARE DALLA «LUNGA MARCIA» DELLA DE BEAUVOIR (DI CUI RICORRE QUEST’ANNO IL CENTENARIO DELLA NASCITA)
LE BUGIE DI SIMONE di Robert Conquest
i sembra del tutto ragionevole includere fra i nostri impostori un rappresentante francese; dopotutto, questo atteggiamento ha conosciuto proprio in Francia il suo periodo di maggiore fioritura, prima di implodere pochi decenni fa. Ma chi scegliere? Sartre e altri personaggi del suo stampo sono ormai stati consegnati alla polvere (o almeno così si spera). Simone de Beauvoir, invece, è ancora ben conosciuta nei paesi di lingua inglese (dove i suoi scritti sono ampiamente pubblicati); per di più, ci offre un ulteriore vantaggio, come esempio del citato atteggiamento in riferimento alla Cina. La lunga marcia, il libro che Simone de Beauvoir ha dedicato alla Cina, ci interessa soprattutto perché offre al lettore un’opportunità a posteriori di vedere con i propri occhi le qualità che un tempo hanno abbagliato tanta gente. Ma non solo; ci presenta anche, in una forma estrema, quel senso di astratta amarezza riscontrabile in una certa misura persino tra gli intellettuali
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anglofoni: e una simile reductio ad absurdius può illuminare l’absurdum da cui eravamo già circondati. Poi, ancora, potrebbe sembrare che acquisti una sorta di vitalità vampiresca affondando i propri denti in una questione allora più o meno viva: ossia la perdurante mitezza di alcuni fra i nostri piccoli Borboni nei confronti del totalitarismo asiatico. Per cinquecento noiose pagine, Simone de Beauvoir rifiuta con un ghigno derisorio tutte le argomentazioni di anonime o irriconoscibili zie Sally. Critica altri scrittori per non avere dato informazioni di prima mano, ma lei stessa cita delle favole di partito spacciandole per descrizioni reali di come si sono svolti i fatti! (Questo, ovviamente, è accaduto prima che gli intellettuali approfittassero di un breve «disgelo» per raccontare una storia completamente diversa. La sua principale informatrice, l’anziana scrittrice cinese Ting Ling, fu poi tra coloro che finirono vittime delle successive purghe proprio per essersi presi tali libertà). Ma, in ogni caso, anche le testimo-
nianze di prima mano ostili al regime vengono considerate sospette da de Beauvoir. Il suo presupposto di partenza è questo: l’esistenza anche di una sola falsa accusa contro i leader maoisti è sufficiente per scagionarli completamente (il che equivarrebbe ad assolvere i nazisti perché una fra le accuse loro rivolte, ossia la responsabilità del massacro di Katyn, si è dimostrata essere una perfida montatura). Se da una parte bisognava rifiutare tutte le informazioni non ufficiali, frutto della malvagia contropropaganda di Hong Kong, d’altra parte nemmeno le dichiarazioni ufficiali andavano bene, perché erano citate «fuori dal contesto». Mi piacerebbe proprio sapere come si possa citare fuori dal contesto, tanto per fare un esempio, l’ammissione fatta dall’esecutivo del Kwantung, cioè che non appena è stato (temporaneamente) permesso, si è verificato un esodo di massa di contadini provenienti dalle fattorie collettive, che l’autrice considerava create sulla base di un’adesione volontaria e
popolare. Fra le altre argomentazioni di de Beauvoir figurano la giustificazione degli abusi, perché se ne sono compiuti anche in Occidente (sulla base del principio così definito da Orwell nel Leone e l’unicorno: il socialismo e il genio inglese [nella raccolta di saggi Tra sdegno e passione, Rizzoli, ndt]: «Nero più nero fa bianco, mezza pagnotta è come non avere pane»), e il continuo richiamo alle indubbie colpe del vecchio regime. Un ottimo esempio per illustrare fino a che punto di tortuosità intellettuale era capace di arrivare la scrittrice francese è offerto dalla sua reazione di fronte a una dichiarazione ufficiale, nella quale si ammetteva che la classe contadina non aveva manifestato alcun entusiasmo per l’espropriazione delle proprietà dei «padroni» e la loro condanna a morte, tanto che si erano dovuti mandare i militanti del partito per portare le cose a termine. I contadini in realtà volevano fare esattamente quanto il partito ordinava, sostiene de Beauvoir, ma avevano
bisogno dello stimolo di questi militanti per riscuotersi da quello «stato ipnotico» nel quale i priopietari terrieri li tenevano soggiogati. Una vera jacquerie! Simone de Beauvoir giustifica anche il controllo della stampa, perché solo così il regime poteva «spiegare» le cose a una popolazione fino a quel momento completamente disinformata, com’è accaduto, naturalmente, per la bufala della «guerra batteriologica». Ancora più spesso le sue argomentazioni non contengono nemmeno questo piccolo residuo intellettualistico, ma sono caratterizzate da una pura e semplice inaccuratezza propagandistica, per di più di mediocre qualità. Per esempio, sostiene che gli aiuti economici dell’Unione Sovietica erano «disinteressati» e che non si trattava di «accordi commerciali», in quanto l’Unione Sovietica non voleva e non poteva trasportare il grano cinese. I termini dei tre accordi in proposito (stipulati rispettivamente nel 1950, nel 1954 e nel 1956), anche così come sono stati divulgati, prevedevano un risar-
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cimento completo da parte cinese: non si parla di grano, è vero, ma si nominano molti altri tipi di beni - e, in mancanza di questi, oro o dollari americani. Inoltre, la scrittrice francese attribuisce la distruzione dell’industria della Manciuria esclusivamente ai giapponesi e ai nazionalisti. In realtà era stata in larga misura causata dal saccheggio dei macchinari compiuto dai sovietici (con danni che il Rapporto Paulley calcola di un valore pari a due miliardi di dollari), ammesso e giustificato come «refurtiva di guerra» dagli stessi sovietici in una breve lettera indirizzata al governo cinese nel gennaio del 1946. Ma il travisamento dei fatti è, dopotutto, solo una componente di secondaria importanza in questa miscela unica e tipicamente sartriana di disintegrazione intellettuale e morale; e la maggior parte dei francesi avrebbe provato vergogna nel sapere che era stata presentata a un pubblico anglo-americano come il fiore all’occhiello della logique. Non c’è forse qualcosa di profonda-
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il libro
Tutti i nomi degli impostori Chi, oltre a Simone de Beauvoir, è da annoverare nel «branco di impostori», indicati da Robert Conquest nel suo libro I dragoni della speranza. Realtà e illusioni nel corso della storia, appena pubblicato da liberal Edizioni? Lo storico americano, specialista di storia sovietica (tra le sue opere più note Il grande terrore, Rizzoli 1999, Stalin, la rivoluzione, il terrore, la guerra, Mondadori 2003 e Raccolto di dolore, liberal Edizioni 2004) non ha dubbi nel citare esempi di diffuso fraintendimento e distorsione dei principali eventi storici. Così, accanto al «Castoro», fanatica ammiratrice nella Lunga marcia del maoismo, ecco lo scrittore inglese C.P. Snow «esempio di profondo attaccamento emotivo nei confronti … della supremazia dello Stato e di illusioni quasi marxiste e filosovietiche». E l’economista John Kenneth Galbraith, mirabilmente «capace di presentare i propri argomenti in maniera persuasiva» e proprio per questo paragonato da Conquest a un orario dei treni «meravigliosamente stampato e finemente rilegato» ma dove «gli orari di partenza e di arrivo sono sbagliati». O il programma Cold War, prodotto dalla Cnn di Ted Turner accompagnato dal libro Cold War: An Illustrated History, 1945-1991 di Jeremy Isaacs e Taylor Downing, dove la descrizione del tutto falsa di un Lenin benevolo (così come di altri esponenti della sua corrente politica) risalta, per contrasto, con i toni usati per descrivere leader occidentali cone Truman, Marshall, Reagan. Del resto, Conquest ha consacrato tutta la propria vita allo smascheramento delle distorsioni politiche e mentali che hanno provocato o accolto nel Ventesimo secolo l’ascesa di regimi feroci, portatori soltanto di morte e distruzione. Questo nuovo saggio è una difesa della civiltà e una denuncia del degrado politico e del feticismo intellettuale che caratterizzano il mondo odierno. Passando dal pensiero politico dell’antica Grecia all’effetto corrosivo dell’ideologia socialista o agli attuali controsensi dell’Unione Europea, l’autore indaga le distruzioni del nostro passato, le assurdità del nostro presente e le trappole che insidiano il nostro futuro. Esortandoci a sbarazzarci della “benda intellettuale” che soffoca il dibattito e impedisce un sincero esame di coscienza.
mente a-voltairiano nell’accusare i cattolici di avere preferito un «pacchiano martirio» che avrebbero potuto evitare con la sottomissione al controllo del governo? Prendiamo però un esempio concreto, ossia un passo in cui appare confermato con trasparenza chirurgica tutto quanto ho detto finora sui metodi argomentativi di Simone de Beauvoir e sui suoi criteri di giudizio morale. Il passo riguarda il tema della «fedeltà nei confronti della famiglia e nei confronti dello Stato». In Cina, se questi due doveri entrano in conflitto, sostiene la scrittrice, «bisogna scegliere lo Stato; ma anche in Occidente accade lo stesso, quando sorgono conflitti simili». E cita come esempio un pilota da corsa francese che aveva portato a termine la gara dopo avere ricevuto la notizia della morte del fratello. E durante la guerra i genitori francesi erano preparati a vedere i figli rischiare la vita «in Indocina o in Algeria». I legami di sangue «borghesi», in forza di considerazioni di carattere finanziario, erano meno saldi di quelli incoraggiati in Cina, e perciò la borghesia mostrava tutta la sua ipocrisia nel condannare i maoisti su questo punto. Inoltre, in una nota a piè di pagina, a dir poco rivelatrice, de Beauvoir afferma: «Tutta la destra ha elogiato la condotta del generale franchista che ha preferito lasciare che suo figlio fosse colpito a morte piuttosto che arrendersi e consegnare l’Alcazar», mentre se fosse accaduta la stessa cosa durante la guerra civile cinese, avrebbe suscitato soltanto orrore e indignazione. La sterile dicotomia è immediatamente chiara: se non sei pro Mao, sei borghese, «di destra» o filofranchista. Altrettanto chiaro è il rozzo metodo impiegato per difendere presunti abusi, fondato sul principio del «tu sei diverso». Ciò che non appare subito evidente è che cosa, nell’atteggiamento dello Stato cinese nei confronti della famiglia, suscitava la disapprovazione di alcuni osservatori. Ci limitiamo a un solo esempio: un articolo apparso sul quotidiano ufficiale China Youth più o meno nello stesso periodo in cui Simone de Beauvoir si trovava nel paese. L’autore, ChenYi, rispondeva a delle lettere inviate da alcuni giovani che si mostravano riluttanti a denunciare i propri parenti. Prima viene spiegato a una ragazza perché era suo dovere accusare il marito. Poi viene dato un consiglio a un adolescente il cui padre, sebbene non più membro attivo del movimento controrivoluzionario, era stato in passato un dispotico proprietario terriero. Ecco come si risponde a uno degli scrupoli del giovane compagno: «Ti chiedi come farai ad affrontare tuo padre se, invece di essere condannato a morte, sarà infine
rimesso in libertà. Se tuo padre non sarà condannato alla pena capitale, e le autorità di governo, dopo averlo educato e riformato, lo rilasceranno, perché dovrebbe serbare dell’odio nei tuoi confronti o cercare di farti del male di nascosto, se si è veramente riformato e ha intenzione di iniziare una vita nuova, di essere una persona diversa? Sarà invece grato al governo e anche a te per essere stato salvato. Comunque, se non si fosse davvero riformato e mantenesse un atteggiamento ostile nei tuoi confronti, puoi sempre denunciarlo un’altra volta». E in effetti la stampa maoista riportava letteralmente centinaia di casi di denunce familiari come queste, spesso seguite da cerimonie di congratulazione per i giovani accusatori - per esempio, a uno studente di Shangai fu conferito pubblicamente il titolo di «lavoratore modello sotto l’aspetto della sicurezza» per aver denunciato il padre. Ancora, un ragazzo iscritto a una scuola superiore di Chengchow ricevette un particolare encomio perché aveva attivamente contribuito all’arresto di suo padre. Atti di questo genere sono davvero paragonabili a quelli del pilota da corsa, dei genitori del soldato, del generale franchista? I vecchi maestri di Simone de Beauvoir, nel dipartimento di filosofia della Sorbona, non avrebbero forse mormorato la parola distinguo? Se vogliamo ascoltare la vera voce dell’umanesimo francese di sinistra, invece di Simone de Beauvoir, possiamo scegliere l’analisi di Camus. Il movente di questi pseudo sinistroidi con la «passione per la schiavitù», ha detto Camus, non era l’amore per i totalitaristi, ma il fatto che «detestano profondamente una parte dei francesi». E in risposta a tutti i loro discorsi subdoli e ambigui, ha aggiunto: «Nessuno dei mali a cui il totalitarismo pretende di porre rimedio è peggiore del totalitarismo stesso». Ha inoltre aggiunto alcune parole applicabili anche ad altri paesi dell’Occidente, e precisamente: «La sinistra è in piena decadenza, prigioniera delle parole» e ha bisogno di una cura a base di «critica spietata, uso del cuore, sano ragionamento e un po’di modestia». Finora la tipica donna francese - Héloise o Mlle de Lespinasse o qualsiasi altra - è stata ammirata sempre e dovunque per la sua sensibilità e intelligenza. Probabilmente sono state calunniate perfino le tricoteuses; ma almeno non si è mai avuto il sospetto che abbiano lasciato aggrovigliare il loro lavoro a maglia in modo tanto spaventoso. (Traduzione di Aldo Piccato) © Robert Conquest Pubblicato per gentile concessione dell’Agenzia letteraria Roberto Santachiara
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libri
psiche&società
Il cervello? Possiamo modificarlo… di Claudio Risé l cervello non è dato una volta per tutte e il suo sviluppo, o deterioramento, non è iscritto in inesorabili codici genetici. Al contrario, come Freud aveva intuito più di un secolo fa, all’alba della psicoanalisi, l’organizzazione cerebrale è profondamente plastica. Per questo l’analisi insistendo su ricordi, vissuti, emozioni del paziente, e aiutandolo a sviluppare un nuovo atteggiamento (per esempio di rifiuto e di liberazione), gli consente di esprimere nuove organizzazioni neuronali, che modificheranno il suo comportamento e la sua vita. Si tratta appunto della «neuroplasticità», branca delle neuroscienze che studia le possibilità di rige-
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nerazione e sviluppo del cervello, perfettamente esposta (con grande ricchezza di casi clinici ed episodi umani) dallo psichiatra Norman Doidge nel Cervello infinito. Ripercorrendo in questo libro le tappe di quest’avventura scientifica, si scopre così che ciò in Freud sembrava una tarda difesa organicista, era invece una formidabile intuizione. Al termine dello scambio di lettere con Einstein su «perché la guerra», ad esempio, Freud sostiene che persone come i due scriventi, lui ed Einstein, sono contro la guerra perché «non possiamo fare diversamente… a ciò siamo costretti da ragioni organiche», vale a dire da quella modificazione delle pulsioni che la forza d’amore, Eros, esercita sulle spinte
aggressive, indebolendole e trasformandole. Questa ed altre affermazioni, che potevano sembrare metafisiche difese del positivismo al tramonto, rivelano una consistenza ben diversa alla luce della neuroplasticità: appunto la capacità del cervello di modificarsi e svilupparsi a seconda degli obiettivi che l’individuo si propone e dei comportamenti che adotta. Seguendo questa attenta dinamica neuronale diventa meno misteriosa sia la straordinaria precisione del sogno nell’interloquire nel percorso analitico, sia la prontezza della psiche nel reagire alle indicazioni che il sogno ha proposto. Norman Doidge, Il cervello infinito, Ponte alle grazie, 410 pagine, 20,00 euro
medio oriente
Islam: mappa ragionata di una realtà sconosciuta di Enrico Singer islam è plurale e la sua pluralità culturale, religiosa e politica è l'elemento decisivo delle diverse realtà degli Stati che costituiscono il mondo musulmano. Che sia quello arabo, culla dell’islam, o quello africano e asiatico, dove l’islam condivide il suo spazio con altre religioni, o quello europeo dove l’afflusso crescente di immigrati che arrivano dall’altra parte del Mediterraneo ha ormai fatto nascere una specie di islam trapiantato, periferico, ma sempre più forte. Un mondo complesso che, come scrive Khaled Fouad Allam nella prefazione, «è davvero ben conosciuto soltanto dalla Chiesa cattolica». E non è un caso che l’autore
L’
di Il nuovo Iraq e il Medio Oriente, padre Justo Lacunza Balda, sia stato rettore del Pisai, il Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica. Lacunza Balda ha fatto del mondo arabo e dell’islam la propria vita, ne conosce la lingua, i dialetti e le tradizioni. Il libro, in forma di lunga intervista alla studiosa di islam Maria Albano, delinea la più aggiornata e precisa mappa di questa realtà plurale che pochi in Occidente conoscono nei suoi aspetti-chiave: la questione dello Stato, le donne, i capi religiosi, i dirigenti politici, i sistemi di governo, la jihad. Il libro analizza anche il proliferare dei movimenti islamisti, soprattutto dopo la guerra in Iraq e il tormentato stallo del processo di pace israelo-palestinese,
fino alla deriva del terrorismo. Con una contraddizione irrisolta: quella di proporre uno Stato fondato su basi religiose a società che chiedono di vivere nel mondo di oggi. I paesi islamici non possono evitare il confronto con la modernità, la globalizzazione e la democrazia. Ma esiste un’accezione islamica di democrazia? E fino a quale punto è arrivata la lenta marcia dei diritti umani: la libertà di pensiero, di stampa, di culto e di separazione del potere politico dall’autorità religiosa? Nei dodici capitoli di questo libro si possono trovare molte risposte a queste domande. Justo Lacunza Balda e Maria Albano, Il nuovo Iraq e il Medio Oriente, Cantagalli, 178 pagine, 15,00 euro
filosofia
Tre motivi per ritornare a Husserl di Renato Cristin egnalare l’opera di Husserl Esperienza e giudizio, recentemente ripubblicata, oltre a ricordare il grande insegnamento husserliano, ha un duplice significato: tematizzare la dimensione dell’esperienza antepredicativa come fonte di conoscenza e mostrare come il rapporto fra logica ed esperienza trovi nel soggetto il punto di sintesi. In opposizione al positivismo, la teoria fenomenologica della conoscenza si fonda sull’intuizione dell’essenza orientata sul criterio dell’evidenza, e poiché l’evidenza precede qualsiasi datità oggettiva, l’intuizione precede qualsiasi predicazione. L’esperienza, quindi, che sta alla base del giudizio è
S
un’esperienza trascendentale vivente, fondata su un’intuizione sensibile e categoriale al tempo stesso, che scaturisce sempre dalla sfera di proprietà del soggetto e dal suo orizzonte intenzionale. Da queste indagini ricaviamo anche alcuni motivi di attualità del pensiero husserliano. Il primo riguarda la critica fenomenologica della conoscenza scientifica, che non è in grado di fornire il criterio di verità del sapere e l’orizzonte di senso del comprendere. Un secondo investe i concetti di identità e di etica: l’identità soggettiva basata sull’esperienza intuitiva è il centro sia di tutte le funzioni logico-proposizionali sia dell’indeclinabile responsabilità della prima persona singolare dinanzi al
mondo: la responsabilità si esercita solo affermando la propria identità. Infine, un terzo motivo è biografico-politico: fra pochi mesi cade l’80° anniversario della morte di Husserl e, auspicando una rinascita di interesse autentico per uno dei maggiori filosofi del Novecento, va ricordata la censura che questo libro subì nel 1939 durante l’occupazione nazionalsocialista della Cecoslovacchia (avendo subìto in Germania il divieto di pubblicare, Husserl aveva fatto trasferire a Praga i suoi manoscritti per sottrarli alla furia del regime). Anche questo piccolo episodio può aiutare a non dimenticare la violenza ideologica dei totalitarismi. Edmund Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, 991 pagine, 31,00 euro
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video
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tv di Pier Mario Fasanotti rieccolo Piero Chiambretti, il torinese con la faccia da Charlie Brown, quasi senza rughe, quelle sane increspature disegnate dal dubbio. Con allegrezza sfrontata, s’affaccia su LA7 dopo le 23,30, e ripropone Markette, precisando sempre che è con la kappa e questo lo fa con insistenza alla Gigi Marzullo, convinto che i ritornelli diventano, forse, stornelli gioiosi nel mediocre etere italiano. Il Piero che non si scolla mai dall’etichetta logora del monello, fa precedere il programma da uno «speciale» dove, in maniche di camicia e bretelle (nere e non rosse come quelle di Giuliano Ferrara), vorrebbe porre la sua vis comica (che non si vede, se non nell’intenzione facciale) tra la parodia del Tg e le riflessioni para-politiche dei fatti del giorno. Come inviato speciale sguinzaglia un cagnetto languido, offensivamente chiamato Pinoli -l’assonanza giornalistica esiste, ma vabbe’ - il quale riprende gli avvenimenti dal basso. L’idea poteva essere buona, anche se non originale, salvo che il commento non s’alza mai dalla terra del luogo comune. Stacco pubblicitario, poi c’è il Markette vero e proprio. Riuscito il fondale tutto neon, americaneggiante. Ottima l’ouverture musicale con cantanti di colore, per fortuna lontani dal casereccio degli show domenicali. E lui riprende il motivetto ripetendo «allelujua»: si deve pur rinnovare l’«allegria» di Mike Buongiorno. E la satira? È nella scaletta, ma in realtà farebbe meglio a rinunciarci. Bersagliato da fotomontaggi chip è Clemente Mastella con signora Sandra al fianco: l’ex ministro è un mix tra James Bond con variabile bonazza e Brad Pitt con Angelina Jolie. Il cattivo gusto è stato rimarcato da uno degli ospiti intervistati, Marcello Dell’Utri: «È cosa inopportuna, visto quel che gli sta capitando». Ma il monello televisivo, in attesa di far da spalla a Pippo Baudo al Festival di San Remo, incassa bene, anzi non replica proprio. Ed è questo lo stampo dello showman in abito scuro e le scarpe da ginnastica bianche e banalmente trendy: gli altri possono obiettare, lui svicola. Vorrebbe seppellire il mondo con le risate, come si leggeva nei poster rivoluzionari, ma alla fine rimane solo un abbozzo di risata. Il suo. Chiambretti infatti non ride mai apertamente, esprime soltanto la grande voglia che lo facciano gli altri. Uno studioso annotava che l’umorismo «è l’arte di sfiorare senza insistere». Chiambretti cambia interlocutori, ma il suo ghignetto rimane: è una forma di insistenza. Anche quando dice: «Nel mondo tutto cresce, salvo io». Allusione alla statura, mica si deve sempre pensare male.
A
Fermati Piero! Il monello Chiambretti si ripete e non bada al buon gusto web
games
WIMAX: RUSH FINALE
SUONARE CON BON JOVI
scaduto lo scorso martedì 22 gennaio il termine per la presentazione delle offerte per la gara Wimax, relativa all’assegnazione dei diritti d’uso di frequenze per sistemi Broadband Wireless Access (Bwa). Al ministero delle Comunicazioni sono pervenute 29 offerte in busta chiusa, che verranno aperte nella mattinata del prossimo 30 gennaio. La gara, che
vete sempre desiderato suonare in una rock band, ma non avete mai avuto la voglia o il tempo per imparare a padroneggiare uno strumento? Da oggi, se avete una console di videogiochi (Xbox 360, PS3, PS2 o Nintendo DS), potete farlo - insieme agli amici - nella comodità del vostro salotto. Oppure online, improvvisando jam session con perfetti scono-
È
A giorni si conoscerà il vincitore della gara per le frequenze nella banda larga digitale riguarda le frequenze nella banda 3.4/3.6 GHz, aveva avuto diversi ostacoli sul percorso, ma era comunque riuscita a essere legittimata grazie alla positiva decisione del Tar, chiamato in causa a decidere su alcuni aspetti giuridici legati alle regole imposte al bando. Il ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, s’è detto soddisfatto per la messa a punto «di una tappa fondamentale», che dovrebbe garantire il diritto all’accesso alla rete come «servizio universale», e che potrebbe così ridurre il divario digitale ancora presente in diverse regioni d’Italia, incrementare la competizione nelle Tlc, e favorire l’innovazione tecnologica.
A
Rock Band mette a disposizione dei giocatori quattro strumenti e un’eclettica playlist sciuti. Rock Band, distribuito da Electronic Arts in collaborazione con Mtv, è stato realizzato da Harmonix, la software house del Massachussets che ci aveva già stupito con giochi che hanno rivoluzionato il rapporto fra musica e videogames. In Rock Band gli «strumenti» sono quattro, tutti rigorosamente inclusi nella pesantissima confezione: chitarra, basso, microfono e batteria. Il concetto di base è lo stesso, ma le combinazioni e il divertimento diventano quasi infiniti, anche grazie a una playlist eclettica, che spazia da Bon Jovi ai Ramones, dai Black Sabbath agli Stone Temple Pilots. Rock on!
dvd
QUEL CHE LA RAI NON SA n un momento in cui la grande musica degli anni Sessanta sembra avere ritrovato un interesse presso vasti strati di pubblico, gli archivi delle televisioni fanno gola a molti. Lo hanno perfettamente capito le emittenti televisive europee che stanno immettendo sul mercato mondiale le registrazioni, in dvd, dei concerti delle grandi firme del jazz.
I
Concerti di Blakey e Miles Davies, ripresi dalla nostra tv pubblica pubblicati senza permesso Superati i problemi relativi ai diritti, ecco i megastores di mezzo mondo, soprattutto quello giapponese, invasi di storiche e appetibili registrazioni che forniscono alle diverse reti tv introiti assai apprezzabili. Anche gli archivi della nostra televisione pubblica sono ricchi di preziosi documenti. Due di questi, il concerto dei Jazz Messengers di Art Blakey al Festival di Sanremo del 23 marzo 1963 e quello milanese dell’11 ottobre 1964 del Quintetto di Miles Davis con Wayne Shorter e Herbie Hancock, ripresi dalle telecamere della Rai, sono stati recentemente pubblicati. Peccato che la Rai non ne sappia nulla.
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poesia
Nella quiete della
ALLA SERA
di Roberto Mussapi
Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me sì cara vieni o sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni,
ella poesia s’incontrano, spesso in forma quasi impercettibile, il mito dell’origine, della luce d’Oriente, e quello del ritorno, il quale passa comunque per il tramonto, l’accesso al buio, attraverso un territorio misterioso come l’acqua dell’Oceano. Andare verso il tramonto significa scendere insieme col sole, insanguinarsi col sole, perché come dicevano i Magi e come credeva Colombo, così si torna a Oriente, così si rinasce. Credo che i maggiori poeti dell’Occidente abbiano sempre vissuto una sorta di continuo tramonto anche al confine con l’incandescenza del sole - pensiamo a Rilke, a Tasso, a John Donne -, abbiano intuito cioè l’idea che il tramonto fosse, in qualche misura, congenito all’uomo occidentale, non una fine definitiva ma un necessario passaggio. Alla sera di Ugo Foscolo è forse la più grande poesia mai scritta sul brivido del tramonto, sul mutamento in atto nella natura e nello spazio interiore dell’uomo, e sull’imminente incombe-
N
e quando dal nervoso aere inquiete tenebre e lunghe all’universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. Ugo Foscolo dai Sonetti
UN POPOLO DI
VOCI DALL’ITALIA DEL ‘900 in libreria
Le voci, il coro è il titolo suggestivo del primo Annuario di poesia che «I Quaderni del Battello Ebbro», che tanto hanno fatto e fanno per la poesia contemporanea, hanno pubblicato di recente presso l’editore Ellerani, a cura di Loretto Rafanelli. L’Annuario rappresenta una indagine approfondita a più voci sulla poesia italiana e in parte straniera dell’ultima parte del Novecento e dà spazio a molte delle voci più significative del complesso percorso poetico italiano e non solo. Dedicato a Luzi e Bigongiari, il fascicolo, strutturato in otto sezioni, contiene quattordici interventi di poeti e numerosi saggi critici. Facciamo nostra la tesi del sintetico profilo della poesia novecentesca di Daniele Piccini, il quale, nel saggio «Il canone e le province», sostiene che avanzando nel secolo si assiste a una crescente difficoltà di formazione di personalità forti, di «classici» riconosciuti. Una lingua personale, una nuova compiutezza espressiva e una felice
Interventi di poeti critici nell’Annuario dei «Quaderni del Battello ebbro» dedicato a Luzi e Bigongiari superiorità rispetto alla semplice comunicazione si riscontrano difficilmente nei giovani, mentre l’innovazione resta un patrimonio dei «grandi vecchi». Segnaliamo due sezioni nelle quali i poeti raccontano direttamente la poesia. La prima consiste in brevi colloqui di Marco Nereo Rotelli con Bigongiari, Luzi, Sanguineti e Spaziani; la seconda, dal titolo «Le voci dei poeti» comprende undici interviste, molte delle quali a esponenti della cosiddetta Quinta generazione. Questi se da un lato si riconoscono come tratto distintivo comune nella lotta all’ideologia politica, dall’altro mostrano posizioni di poetica e di ricerca distanti. Ricordiamo la volontà drammaturgica di Mussapi, il pensiero mito poetico di Conte e la scrittura quasi terapeutica di Magrelli. Mentre per Viviani la poesia impone «l’esperienza della perdita del controllo intellettuale». Per concludere, un rilievo: l’Annuario non ha pretese di completezza, ma avvertiamo due assenze fra le voci dei poeti intervenuti, quelle di Zanzotto, il più sicuro tra i viventi e di Ceni, uno tra i più interessanti e schivi cinquantenni. Giovanni Piccioni
re di un buio che non sarà quello desolato dell’Ade greco o dell’Inferno dantesco, ma quello cullante e magico della notte, il buio in cui esplode l’amore tra Romeo e Giulietta, tra un cespuglio e un balcone, il buio in cui nascono gli incantesimi del Sogno di una notte di mezza estate, la prodigiosa commedia di Shakespeare. Un buio cullante perché culla e ventre del sogno, pacificante perché sinonimo di quiete e riposo, di attesa del nuovo giorno. Anzi, la «fatal quiete» di cui la sera è «imago», immagine perfetta, l’incanto della sera in cui l’aggettivo «fatale» non è sinonimo esclusivo di ferale, come penseremmo noi figli del Novecento, ma anche di incantevole, sovrumano, che prelude al buio, è una sorta di silente, estatica ouverture al viaggio nella notte che solo consente la rinascita del sole, al mattino, la rigenerazione del mondo, la prova di senso e pienezza del tempo che scorre. Per meglio accostare questo sonetto leggendario dobbiamo soffermarci un poco sul capo-
N
oi raccogliamo un’anfora di pace una laguna di miseria. Di’, quale fiaccola stringevi nella mano quando la luna si spense e le stelle tacquero e l’unica notte ti si aggrappò alla gola? Vegliava sugli uomini una campagna d’acqua, noi fummo la gialla civiltà dei morenti, un passo dopo l’altro ci smarrimmo per sempre. di Massimo Baldi *****
Se filacce dopo la burrasca si raccolgono di viscere strappate e si ricuciono le reti del pensiero,
le vele riparate, il sartiame teso di nuovo si procede, l’anima affilata. Il mare calmo non lascia intravedere i danni provocati dalla furia abituale. Solo le rive, coperte d’alghe morte, espongono avvizzite gli emblemi del dolore. Tutto è finito, quotidiano e noto riprende il logorio, anche se dall’abisso sulla pelle affiorano le cicatrici bianche lasciate dagli affondi sanguinari. Allora un’esistenza sola e riparata ridiventa l’unico orizzonte, il faro necessario per tornare a vedere più lontano, puntando la chiglia ricomposta verso il mare. Maestrale di Patrizia Villani
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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26 gennaio 2008 • pagina 13
sera, l’atto liturgico della nostra rinascita lavoro di Foscolo, I sepolcri. Carme, così è definito, ma io preferisco chiamarlo poema, uno dei pochi poemi della letteratura italiana dopo la Gerusalemme di Tasso, ha inizio con immagini di buio e ombra, di chiusura: «all’ombra dei cipressi e dentro l’urne». E immediato, per contrasto, luminosa fonte di vita e energia, il Sole. Il sole fecondante la bella famiglia di erbe e animali, è il potente simbolo vitale contrapposto al buio della morte. Sole e luce, buio e morte. Ma oscurità e sera sono un’altra cosa, in Foscolo, forse la cerniera che complica meravigliosamente l’enigma. Il mito egizio, quindi, orientale rispetto al pantheon grecoromano, e sicuramente metafisico rispetto al regno buio e disperato di Ade, l’oltretomba del mondo classico è presente in tutto il poema, nella sua natura primigenia e quintessenziale di luce, energia e rinascita. La sera è quindi l’atto liturgico in cui il sole s’inabissa nel mare, il fuoco bacia il regno delle acque, la luce si spegne rosseggiando per rinascere. Ciò accade in noi. E l’avvento della sera, nel
sonetto che ora leggiamo, con la cessazione del tormento, non riveste un significato ferale, ma di mistica ricomposizione del tutto. La sera è l’atto liturgico in cui il sole s’inabissa nel mare, il fuoco bacia il regno delle acque, la luce si spegne rosseggiando per rinascere. Ciò accade in noi. Con Foscolo ci inoltriamo nei misteri della notte, gli incanti del buio: il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare con il suo bosco onirico e i capricci dei signori delle fate che influenzano, tramite il sogno, le azioni degli umani, le magiche notti delle poesie per l’infanzia di Stevenson, dove il bambino si addormenta e il suo letto diviene una nave, le ombre del salone dal camino prendono forme di vascelli e guerrieri… E poi gli Inni alla Notte di Novalis, la commozione dell’uomo nella grandiosità trionfale del buio, e le magiche notti genovesi di Campana, e poi il libro supremo, Le mille e una notte, da cui le forze numinose del buio fanno sgorgare il loro canto ininterrotto… E l’usignolo di Keats, il balcone di Giulietta nella incantata notte veronese,
POETI L
a morte illumina la città. Abbiamo atteso invano una nuova alba. La prossima, potrebbe essere l’ultima. Quando tutto finirà dimenticheremo l’orrore che ci ha scortato giorno dopo giorno e potremo guardarci negli occhi. Metteremo a tacere la coscienza per tornare alla vita. Ognuno, al proprio Dio, confesserà e chiederà perdono. Quando questa guerra sarà finita, niente ci potrà far male. di Paolo Lisi
il Tamigi nella notte londinese dei romantici, i presaghi e straordinari notturni di Tasso… E ancora la sera anticipa e propizia, nell’incanto del crepuscolo, le volute notturne della sospensione del tempo, la notte nella sua bellezza serena, piena, svelante: la notte in cui il giovane Jim, nell’Isola del Tesoro, nascosto nel barile delle mele scopre l’ammutinamento, la notte in cui Scrooge, l’avaro londinese dell’immortale Racconto di Natale di Charles Dickens, è frequentato da tre spiriti che ne tramuteranno felicemente il cuore. Notti mistiche ed estatiche, capaci di contrastare altre notti funeste, quella di Dracula, quella tenebrosa degli spalti del castello di Elsinore, dove si propizia e consuma la tragedia di Amleto. E le notti in cui cammina per le vie di Parigi Charles Baudelaire, e quelle veneziane, ebbre e danzanti di Byron… fino alla quiete silente e paradisiaca della notte leopardiana, siderale e assoluta nella sua pace. Lo «spirto guerrier», vale a dire l’agonismo del giorno, il senso di lotta di chi vive nella
luce e nel tempo, sta per incontrare il suo incanto, una quiete non illusoria, ma che farà rinascere in noi il nuovo giorno. Forse chi meglio ha interpretato questo senso estatico di conciliazione tra la sera che scende e l’animo dell’uomo che percepisce l’appropin-
quarsi del buio e del giardino notturno, è stato uno che non ha mai pensato a Foscolo, che io sappia, ma gli assomiglia, anche fisicamente: Tom Waits. You are innocent when you dream, canta in una struggente ninna nanna natalizia: «Sei innocente, quando sogni».
il club di calliope PREGHIERA di Loretto Rafanelli E noi percorreremo la fredda campagna bagnata dagli occhi salati senza dolore, volgeremo la pace delle preghiere nel calice che scorre dalle labbra al cielo, ritorneremo fin lassù, alla duna dell’incanto, lì porgeremo le braccia perché non dobbiamo aprire il mare ma solo conservare le frasi, la speranza, la vita. (da Il tempo dell’attesa, Jaca Book)
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arti
pittura
Con la spada sguainata della nuda pittura di Marco Vallora trani i percorsi dell’arte e delle mode. Ferdinand Holder è un artista, che i veri amici della pittura conoscono bene, e riconoscono a occhi (quasi) chiusi. Basta del resto esser entrati al Kunsthaus di Zurigo (con quegli enormi teleri di storia patria) o, per dire, alla Ludwig di Vienna (poche magistrali «righe» di paesaggio, da non sfigurare accanto al tormentato Schiele vedutista o a Klimt, cui solo in parte s’imparenta, insieme a Cuno Amiet, a Kolo Moser e al padre di Giacometti) per non negargli più una dedizione (quasi) assoluta e una passione fredda, come i suoi solatii ghiacciai alpestri. I brulli orizzonti dei lenti laghi svizzeri, gli azzurri ossigenati delle sue nevi - così lontane da quelle impastate e terrose dei cacciatori Courbet - ne fanno comunque un’icona imprescindibile della Svizzera, tra Segantini e Giacometti, con in più qualcosa del simbolismo francese di Puvis de Chavannes (ma molto, molto più virile).Tanto più che prima di Giacometti, e dell’euro, l’immagine desolata e quasi stereotipa del suo Taglialegna, è stata a lungo simbolo elvetico replicato sulle patrie banconote. Al punto che quel perfido di Orson Welles, che sostenteva la Svizzera non avesse riservato al mondo altro che il cioccolato e il cucù, avrebbe almeno dovuto ricordarsi di Hodler. Celebre e (poco) amato in patria, è in fondo così poco noto al mondo, che la
S
dosatissima mostra in corso al Museo d’Orsay ha fatto gridare al miracolo, quasi fosse una scoperta assoluta. Meglio tardi che mai (tenendo conto che anche in Francia è la sua sola seconda mostra, dopo quella che precedette la sua morte, nel ‘18). E dire che proprio in Francia Hodler era «fuggito», per liberarsi dagli scandali di patria, seguiti al suo gran progetto
«politico» della Battaglia di Morat, e di quei suoi nudi, sani e naturisti (spesso anche provocatoriamente maschili) che la società in cui era nato, bigotta e presbiteriana, non voleva tollerare. Hodler è uno dei tanti artisti che respirarono l’aria magnetica e anarcoide di Monte Verità, dove s’eran dati convegno i moderni «nudisti» dello spirito, come
Laban, Isadora Duncan e DoniolValcroze, grande teorico della danza integralmente nuda. E in tutta la pittura, ritmata e a fregio, di Hodler persiste questo gusto coreografico del gesto calibrato e dell’istantanea bloccata, che fa pensare, prima di Matisse, al gusto rilassato e ribelle d’un’eterna Danza dionisiaca (la danza macabra di tante chiesette svizzere, voltata in cadenza pittorica?). Lui stesso osservava: «il gesto nel movimento del corpo rivela l’anima». Panteista austero e decorativo, Hodler ha sostenuto pure che «l’arte è la natura sognata», aggiungendo sempre qualcosa di mistico e di simbolico ai suoi paesaggi allegorici. Che cosa mi dicono i fiori, è un suo titolo, proprio come un movimento d’una sinfonia di Mahler. Ma forse qui sta il suo «peccato» non modernista nei confronti per esempio di un Cézanne: se questi è stato il narratore insoddisfatto e cartesiano dello scheletro inarrivabile della Natura, Hodler fa della verità naturale un’Allegoria, un sogno appunto. E «sogno», in questa Terrible Epoque, altro che Belle, è anche la morte: che lui ha documentato in modo quasi morboso e inflessibile, dipingendo la vitalità cannibalica del cancro, che gli ha succhiato via ben due mogli, e che lui combatte con la spada sguainata della nuda pittura.
Ferdinand Hodler (1853-1918), Parigi, Museo d’Orsay, fino a febbraio 2008
autostorie
Agnelli, ascesa (e caduta?) di una dinastia di Paolo Malagodi rmai un quinquennio è trascorso da quando - il 24 gennaio 2003 si spense Giovanni Agnelli, ai cui funerali prese parte il 26 gennaio una folla strabocchevole, accalcata da ore sul sagrato del Duomo di Torino e composta da gente della più varia estrazione. Proveniente da ogni dove e accomunata dal desiderio di rendere estremo omaggio a un personaggio di straordinario carisma, non a caso considerato come una sorta di re senza corona, che ha lasciato una forte impronta nella vita nazionale. In particolare dalla chiamata, nel maggio 1966, alla presidenza dell’azienda fondata nel 1899 dal nonno Giovanni Agnelli e che spettò al nipote
O
prediletto condurre in prima persona, durante decenni tutt’altro che semplici per i destini industriali della Fiat. Un fascino dell’«Avvocato» - come veniva popolarmente denominato, per la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1943 a Torino ma senza esercizio della professione forense - che non è mai venuto meno, anche nel corso delle burrascose vicende affrontate dal Lingotto in questi ultimi anni. Grazie all’affiorare di particolari e aneddoti che hanno contribuito, semmai, ad ammantare di ulteriori risvolti la fama di Gianni Agnelli e con invito a riconsiderare la sua vicenda umana. Come è possibile nell’iconografico volume, con introduzione di Henry Kissinger (Gianni Agnelli, Rizzoli, 240 pagine di grande formato, 50,00 euro), che il nipote John Elkann ha sviluppato
dall’idea «nata ricordandolo in famiglia, con gli amici, con i suoi più stretti collaboratori e mettendo insieme immagini, ognuna legata a un periodo, una frase, un consiglio». Le centinaia di scatti in gran parte inediti e i testi, da scritti e interviste dell’Avvocato, ricostruiscono così un poliedrico percorso che si snoda tra gli affetti familiari e la Fiat, la Juventus e la Ferrari, la passione per il mare e lo sci, nonché l’amore per l’arte della «personalità italiana più potente e autorevole - come afferma Henry Kissinger - della sua epoca: uno dei rari esempi di fusione tra mito e realtà». Di taglio diverso e affatto oleografico è, invece, l’interpretazione che dello stesso operato di Gianni Agnelli fa il giornalista francese Pierre De Gasquet. Corrispondente dall’Italia del quotidia-
no economico transalpino Les Echos e che, dopo l’edizione in francese su La dynastie Agnelli, ha visto uscire in italiano (Agnelli, fasti e decadenza di una famiglia, edizioni Piemme, 350 pagine, 17,50 euro) la sua vasta inchiesta sulla dinastia che si è trovata a fare i conti con la morte del patriarca Gianni, proprio nel momento in cui Fiat attraversava una drammatica crisi. Oggi in gran parte risolta per l’operato di Sergio Marchionne, anche se «la cosa più sorprendente - osserva l’autore del libro - è che il cambiamento di rotta non sembra aver prodotto alcun ritorno di prestigio della famiglia. Come se gli eredi Agnelli avessero optato per un ruolo più modesto, di minore visibilità, e come se qualcosa si fosse definitivamente spezzato tra il clan torinese e il Paese».
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architettura
Meraviglie del moderno alla Lateranense di Marzia Marandola lla fine del 2007 è stata inaugurata la nuova biblioteca della Pontificia Università Lateranense di Roma. L’edificio, ideato dallo studio romano degli architetti Jeremy King, Riccardo Roselli e Andrea Ricci, rappresenta per più motivi una sorpresa nel panorama dell’architettura romana e italiana. In primo luogo i progettisti sono giovani di talento, relativamente poco conosciuti, pur avendo costruito, qualche anno fa l’hotel Radisson, un edificio che sorge a pochi passi dalla stazione Termini, dove si segnala per il rigore formale e l’eleganza costruttiva. Essi conducono una ricerca originale e appassionata sulle possibilità espressive che possono nascere dal meditato connubio tra tecnologie moderne e rinnovamento spaziale e distributivo, ossia tipologico. Le loro architetture, estranee ai vezzi delle mode variamente imperanti, dimostrano che si possono costruire opere di qualità, capaci di rinnovare il dialogo tra architettura e città, senza far ricorso
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all’usurato catalogo delle star internazionali. E ancora più sorprendente è che ciò avvenga per iniziativa di committenze private, che operano scelte assai più coraggiose e lungimiranti delle scontate opzioni «internazionali» della pubblica amministrazione, in cerca di facile propaganda. Il nuovo edificio è un ampliamento della biblioteca Pia, fondata da Papa Pio IX, e oggi possiede oltre 600 mila volumi. Inserito alle spalle della basilica di San Giovanni in Laterano, il corpo autonomo della biblioteca si addossa al complesso universitario in luogo di un preesistente passaggio porticato. Alto più di 22 metri, si articola in due volumi: un blocco a pianta quadrangolare per le tre sale di lettura, disposte su rampe avvolgenti un vuoto centrale, e la torre libraria che, su sei piani, custodisce ben 70 mila volumi. Ogni sala di lettura è a doppia altezza, in modo che le corrispondano due piani di scaffali; è dotata di oltre 120 postazioni di studio, che formano un unico corpo materico, integrato con le pedane di mogano che, con una serie di gradoni, riporta-
no in orizzontale il piano inclinato delle rampe. Tre scaffali a parete con le riviste in consultazione, separano le sale di lettura, accessibili al pubblico, dagli scaffali dei libri, riservati esclusivamente al personale. L’immagine esteriore suscita un sorprendente contrasto con lo spazio interno. A un volume esterno compatto e misurato, la cui massiva perentorietà, enfatizzata dal rivestimento in mattoni imposto dalla committenza, è intaccata da tre tagli profondi, si oppone un interno risucchiato dal dinamismo delle sottili rampe a intonaco bianco che, come un nastro leggero, fluttuano intorno al pozzo centrale, inondato dalla luce che fiotta dal lucernario e che filtra dalle asole vetrate che incidono le pareti esterne. Per ottenere questo singolare contrasto, i progettisti hanno fatto ricorso agli arditi sbalzi dei sottilissimi solai in cemento armato, i quali poggiano su una struttura perimetrale di travi-pareti, coadiuvata, all’interno della sala, da sole quattro esili colonne metalliche.
design
Munari, l’artista che seppe restare bambino di Marina Pinzuti Ansolini
’è un piccolo attico in via Vittoria Colonna, a Milano, c’è un tavolo di lavoro ordinatissimo, c’è una piccola collezione di piante in
«C
miniatura alla maniera giapponese. Si tratta della stazione trasmittente dalla quale Munari (….) emette verso il mondo in quantità idee visuali di ogni tipo. Un lavoro dimostrativamente svolto in letizia, un’attività ludica applicata alle cose minimali,
un finto disimpegno per gli oggetti sostanziali, l’esile mania dell’effimero, il mestiere sapiente di un astuto giocoliere.(….). È possibile tutto questo in un mondo, in una realtà fatta tutta di violenza? Munari dice di sì, lavorando a tu per tu con il qui pro quo». Alessandro Mendini, nel 1979, eseguiva questo irrinunciabile ritratto di Bruno Munari, al quale sono state dedicate, durante il 2007, in occasione del centenario della sua nascita, una serie di mostre, in Italia e non solo. L’ultima, promossa dal Comune di Milano sarà ancora per pochi giorni nel bellissimo spazio della Rotonda della Besana. Duecento opere tra oggetti, progetti, grafica, sculture, dipinti e libri, disposte in un percorso non cronologico, ma tematico, descrivono l’incessante attività del designer certamente tra i più importanti del Novecento, unico nel suo genere. Con leggerezza e ironia, insegna a grandi e bambini a osservare il mondo e a scoprire le gran-
di verità dell’arte, senza mai annoiare, senza imporre saggezza e cultura, suscitando sorpresa e sorrisi. Come non sorridere osservando il complicato marchingegno di Agitatore di coda per cani pigri, o di fronte alla Sedia per visite brevissime, con il piano di seduta impossibile; come non rimanere folgorati dai suoi Oli su tela, semplici pezzi di tessuti appesi e macchiati con oli di diverse qualità. Semplicità e ironia rimangono essenziali e vincenti anche nell’impegno rivolto al design industriale. Icona senza tempo, nata nel 1964, la Lampada di maglia Falkland, progettata per Danese, scaturisce idealmente dal connubio di una nassa da pesca e una calza femminile. Mai «arte concettuale» è stata più comprensibile di quella di Bruno Munari.; di fronte alle Macchine inutili del 1933, il maestro non lascia lo spettatore da solo a chiedersi inquieto «cosa sarà?». Egli stesso porge garbatamente gli strumenti per
la comprensione: quelle piccole forme, sospese e collegate tra loro, non sono fornite di un meccanismo interno che dà loro vita e movimento, come una vera macchina utile, bensì hanno bisogno del vento. La loro bellezza consiste nella contemplazione dell’inutile. Nelle Sculture da viaggio, alle quali lavora dagli anni Cinquanta, l’arte scende dal piedistallo, diventa di carta, può essere trasportata in valigia ed essere contemplata di nuovo in qualunque stanza d’albergo. Oltre 100 libri per grandi e bambini, 200 mostre personali e 400 collettive, più di 100 tra oggetti e altro, sono la testimonianza di quella creatività che più di ogni altra rappresenta la teoria enunciata da Pablo Picasso. «Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel restarlo da grandi». Bruno Munari, a cura di Beppe Finessi e Marco Meneguzzo, Silvana Editoriale, 159 pagine, 32,00 euro
MobyDICK
pagina 16 • 26 gennaio 2008
ai confini della realtà
i misteri dell’universo
La terza legge di Keplero? Nuove scoperte la smentiscono di Emilio Spedicato egli ultimi decenni sono state continuamente scoperte nell’intero universo, nella nostra galassia e nel nostro sistema solare oggetti e strutture del tutto non previsti dai modelli correnti: stimolo e sfida per astronomi, astrofisici, fisici e matematici alla ricerca di una spiegazione nell’ambito delle leggi fisiche accettate. Fra le scoperte che hanno fatto riscrivere i libri, quella dei sistemi planetari extrasolari, dove è stata provata l’esistenza di pianeti gioviani o supergioviani molto vicini alla stella, fatto non consentito dalle teorie accettate. E anche il
N
ricalcolo dei tempi di formazione di tali pianeti mediante aggregazione di gas e polvere in una grande nube iniziale, per cui si è passati da una stima di circa 10 milioni di anni a quella, assolutamente clamorosa, di circa un centinaio di anni. Fra gli altri risultati inattesi provenienti sia dalle osservazioni che dall’analisi matematica delle equazioni relative (in questo caso le equazioni della meccanica celeste essenzialmente dovute a Newton), dobbiamo considerare due fatti che stanno attivando numerosi ricercatori impegnati nella loro com-
edizioni
prensione e nella determinazione di eventuali altri fenomeni di questo tipo. Il primo è la scoperta, una decina di anni fa, di un nuovo tipo di orbita a geometria fissa nel problema a tre corpi (prima si conosceva il moto con i tre oggetti allineati, stato tuttavia instabile, e quello dove stanno ai vertici di un triangolo, stato stabile e in pratica sfruttato nella collocazione di satelliti lungo tali vertici, cosiddetti punti lagrangiani). La nuova orbita ha la forma di un 8 e i tre corpi si muovono inseguendosi, con distanze variabili ma senza mai toccarsi. Questa orbita è stata indivi-
duata mediante analisi matematica e per quanto mi risulta non è stata ancora osservata nello spazio. Ancora più stupefacente è la scoperta, frutto di osservazione, di orbite ellittiche sulle quali si muovono due corpi a velocità variabile, violando quindi la terza legge di Keplero per cui su un’orbita (circolare) la velocità dipende solo dalla distanza dalla stella (ma Keplero ha dato equazioni per il problema a due corpi; quando Newton tentò di risolvere il problema a tre corpi del moto lunare rimediò solo un terribile mal di testa). Uno dei corpi insegue l’altro per
un certo tempo, si avvicina, poi rallenta e torna indietro; quindi una specie di moto pendolare dell’uno visto dall’altro. Ebbene, quattro di questi corpi sono stati osservati esistere lungo l’orbita della Terra; uno chiamato 3753 Cruithne e un altro 2002AA29 si avvicinano ogni 95 anni. È possibile che i due oggetti che Omero chiama Fetonte e Lampo fossero di questa classe, nel qual caso ne conseguirebbe che potrebbero raggiungere la Terra e schiantarsi su di essa o esplodere nella sua atmosfera, come abbiamo ipotizzato sia avvenuto al tempo dell’Esodo.
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ROBERT CONQUEST
I DRAGONI DELLA SPERANZA Realtà e illusioni nel corso della storia