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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
L’ITALIA
Quattro film di casa nostra
DI MUCCINO & CO. di Anselma Dell’Olio uscito Baciami ancora di Gabriele Muccino, quarto dei film italiani lasciato per Simone (Adriano Giannini); il marito lo disprezza in quanto attore «d’autore» arrivati nell’anno nuovo. È il seguito del popolarissimo e ancor più perché occupa il suo letto e a lui si è affezionata la “Baciami disoccupato, sua bambina Sveva. Pierfrancesco Favino è semplicemente meraviL’ultimo bacio, storie di trentenni in crisi, renitenti alle responancora” è quasi glioso nella parte ben scritta e insidiosa di Marco, l’iracondo, trasabilità e all’impegno professionale e famigliare dell’età dito e innamorato marito di Veronica. È la classica coppia adulta. Dieci anni dopo, i Peter Pan ormai quarantenni sono perfetto. La scelta di Diritti sempre amici che si ritrovano per discutere il loro «disenza alcuna inclinazione per i figli fino ai trentacinque su Marzabotto è rispettabile. Virzì sorientamento generazionale e trovare il codice anni, poi scoprono di volerli e se non arrivano risi avvale di due grandi interpreti (Ramazzotti schiano di naufragare nella frustrazione. Paod’accesso all’animo femminile» (Muccino in lo (Claudio Santamaria) è borderline schizofreconferenza stampa). L’irrefrenabile desiderio di e Mastandrea) e Verdone nico (e qualcosa di più) e innamorato di Livia (Sabrilibertà e spensieratezza del primo film si è trasforsa farsi voler bene. Ma la rinascita na Impacciatore), l’ex moglie di Adriano (Giorgio Pasotmato nella dura conta dei propri fallimenti. Il fedifrago ti), padre latitante da sempre e appena uscito da due anni di coatto e pubblicitario Carlo (Stefano Accorsi) vive con Anna del cinema italiano carcere per traffico di cocaina. (Francesca Valtorta), una ventenne adorante, ma il fallimento del si fa attendere suo matrimonio pesa; Giulia (Vittoria Puccini, che sostituisce molto becontinua a pagina 2 ne Giovanna Mezzogiorno) dopo il tradimento di Carlo nel primo film, lo ha
È
9 771827 881301
00130
ISSN 1827-8817
Parola chiave Sobrietà di Gennaro Malgieri Vampire Weekend, bulimici, non omologati di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Yves Bonnefoy e la certezza dura della pietra di Roberto Mussapi
Quei ragazzacci di Villa Diodati di Mario Bernardi Guardi Audiolibro, una storia che inizia da Omero di Riccardo Paradisi
Riflessioni in margine a Bacon e Caravaggio di Marco Vallora
l’italia di muccino
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segue dalla prima
zonette d’epoca sparse nel film sono una classica scorciatoia registica per commuovere con struggenti amarcord il pubblico. Funziona sempre, come si può evincere dalla caterva di trenta e lode della quasi totalità dei critici. Potrebbe chiamarsi Canta che ti passa la storia d’amore tormentata tra Bruno, figlio depresso (Valerio Mastandrea) e Anna (Micaela Ramazzotti), la mamma sfiziosa, frivola e un po’ zoccola. Durante le molte crisi, fughe, cacciate di casa della donna con i bambini (il marito è poliziotto gelosissimo e manesco) senza sapere dove poggeranno la testa, li fa cantare e si torna tutti allegri. La storia si alterna tra l’infanzia e la giovinezza di Bruno e sua sorella (Claudia Pandolfi) negli anni Settanta (scene color caramello) e il presente (meno appetitoso). Bruno, professore di letteratura a Milano, è richiamato nella natia Livorno per l’aggravarsi della malattia di Anna (da anziana è Stefania Sandrelli). È un quarantenne sofferente, a caccia perenne di farmaci per lenire il dolore di vivere. Se la sorella lo tira su dicendo che la mamma è tanto fiera del figlio docente, sospira «sì, in una scuola alberghiera», mentre concupisce la flebo di morfina in camera di Anna, malata terminale di cancro. Ramazzotti e Mastrandrea sono ottimi, le ragioni vere per vedere il film. Non fa niente se per Mastandrea il ruolo dell’eterno sfigato (anche nel superiore Non pensarci di Ravasi) è oramai suo di diritto. Lo fa con autentico talento, e ogni volta gli vogliamo bene. Lo stesso vale per l’impetuosa gnocca di Ramazzotti, un po’ meno per la svampita anziana di Sandrelli. Si cita abbondantemente dalla commedia all’italiana doc: i concorsi di bellezza provinciali, le rotonde sul mare, le corna, la fuoriserie decappottabile e così via. A fine proiezione per la stampa, applausi entusiasti. Si può vedere senza sofferenza; in molti provoca la sventagliata di superlativi sciorinate dai colleghi. A voi la parola.
Ora ha voglia di stabilire un rapporto col figlio abbandonato. È il personaggio più sfigato, malridotto e imbruttito, accolto con calore al suo ritorno nel gruppo. Carlo gli offre ospitalità, Paolo un posto nel suo negozio di oggetti sacri. Fino a un’ora e cinquanta circa il film è ottimo, quasi perfetto: Muccino è un ottimo regista di attori (e non solo) e ha imparato le lezioni del grande cinema popolare americano tranne una: l’asciuttezza della sceneggiatura e il ritmo della conclusione. Ma dura venti minuti di troppo, con un sottofinale via l’altro, azzoppando la piena soddisfazione costruita prima. I valori produttivi, montaggio, fotografia, colonna sonora, costumi e tutto il resto sono di alto livello. È da vedere per la suprema professionalità del prodotto filmico, per Favino e per una Valeria Bruni Tedeschi in stato di grazia nella parte di Adele. (Con menzione speciale per Claudio Santamaria, Adriano Giannini e il viso antico-moderno di Marco Cocci.)
Penultimo film italiano della stagione è L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, premiato due volte al Festival di Roma con il Marc’Aurelio d’Oro del pubblico e quello d’argento (Gran premio della giuria) come miglior film. È il secondo lungometraggio di un autore scoperto con Il vento fa il suo giro, un sorprendente film a basso costo, girato nella Valle Maira, in una delle ultime comunità occitane in Italia, ormai abitato solo da anziani ed ex residenti vacanzieri. Philippe è un ex professore francese dedito alla pastorizia. Costretto ad abbandonare i Pirenei francesi per la costruzione di una centrale nucleare, dopo una lunga ricerca si trasferisce con la moglie e i tre bambini nel paesino. All’inizio la gente è felice di accogliere la nuova famigliola: sembra la speranza di una rinascita per quel luogo ridotto all’ombra di se stesso. Presto, però, grettezze e gelosie prendono il sopravvento, e alla fine i francesi sono cacciati dall’ostilità dei locali. È una storia molto ben raccontata e cattivissima: l’Italia ha festeggiato l’arrivo di una nuova voce interessante in un panorama volonteroso e piuttosto piatto. Il nuovo film racconta l’orrenda strage di Marzabotto, il più grande dei comuni intorno al Monte Sole, dove nel 1944, in rappresaglia per le sortite partigiane, i nazisti massacrarono ottocento persone, in gran parte donne, bambini, neonati e anziani. Furono massacrati in chiesa, nei casolari, ovunque. Diritti ha costruito un film che per i prima novanta minuti presenta la vita ancestrale dei contadini sull’Appennino bolognese nei nove mesi che precedono l’eccidio, gli stessi mesi della gravidanza di Lena (Maya Sansa) che poco tempo prima ha perso un infante. Martina ha otto anni, e per lo choc del fratellino morto ha perso la parola. Gli eventi sono visti con i suoi occhi: l’arrivo di una famiglia bolognese in fuga dai bombardamenti, la visita di un commesso viaggiatore che forse è una spia fascista, i soldati tedeschi che vengono dai contadini a comprare uova e vino, i partigiani che con i loro successi provocano la feroce, sanguinosa vendetta nazista. Il regista si distanzia dalla forte emozionalità dell’eccidio finale con riprese e scene pacate, poetiche, riflessive e piuttosto fredde. Non è una scelta indegna ma il ritratto di vita rurale e famigliare senza tensione narrativa in proprio, rende angosciante e quasi insopportabile l’attesa per la carneficina che sappiamo in arrivo sin dall’inizio.
Carlo Verdone è autore, regista, attore e comico e gli si vuol bene. Lietta Tornabuoni lo ama pure ma pensa che dovrebbe fare un po’ meno parti in commedia. A Io, loro e Lara ha dato quattro stelle, pur sussurrando «qualcosa… non funziona nell’impalcatura della storia». Noi condividiamo la riserva più del voto. Il film è apprezzabile, ma se gli si dà il 30 e lode, cosa resta per Tarantino, Scorsese, Spielberg? Verdone è un sacerdote missionario in Africa, che dopo dieci anni a servire i diseredati è in crisi di fede. Torna a casa per una pausa di riflessione e incappa in vari drammi famigliari: la nipote adolescente punk «emo», tutta piercing e musi per lo strazio di vivere, la sorella psicologa isterica (Anna Bonaiuti) e il fratello cocainomane, in tutti gli stati perché il papà vedovo ha sposato la badante moldava (Olga Balan); le giovani africane del suo villaggio, arrivate nella capitale si vendono ai cigli delle strade, ed è insidiato da un’assistente sociale (Angela Finocchiaro) che lo crede la reincarnazione dell’adorato marito defunto. Don Carlo è stravolto dall’impatto con la disdicevole «Italia d’oggi», e si stenta a credere che abbia passato anni a combattere pestilenze, carestie, miseria indicibile e selvagge guerre tribali nel continente nero. Lara (Laura Chiatti) è la figlia ragazza-madre della badante morta prima di spillare tutti i soldi al militare in pensione. Verdone cura molto il personaggio di Lara, e la Chiatti e gli altri attori ce la mettono tutta, ma Giallini a parte, non si riesce mai a credere in loro né a calarsi nelle loro vicende. Più che personaggi sono un insieme d tic, nevrosi, e nel caso di Lara, di espedienti per sbarcare il lunario. «Brillanti» ma mai credibili. (Baarìa non è nemmeno entrato tra i finalisti all’Oscar. La rinascita del cinema italiano si fa attendere).
La prima cosa bella di Paolo Virzì (scritto con Francesco Piccolo e Francesco Bruni) ha la furbizia nel titolo, dalla canzone di Nicola Di Bari del 1970 cantata qui da Malika Ayane. Le diverse can-
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
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MobyDICK
parola chiave
assavo anni fa davanti a una masseria del Mezzogiorno, nelle immediate vicinanze del mio paese nel cuore del Sannio. Mi soffermai davanti al cancello a osservare la vita che si svolgeva nell’ampio cortile davanti alla casa colonica, attirato più dalle grida dei bambini che dalla curiosità stessa per un mondo che mi era diventato estraneo da tanto tempo. Quel mondo contadino, rappresentato da una famigliola gaia abbastanza da interessarmi in tempi segnati da facce preoccupate quando non ostili, risvegliò in me una nostalgia difficile da descrivere perché forse non più avvezzo a forme di vita talmente semplici da sembrarmi elementari. In un attimo fui catapultato in una dimensione che pure era stata la mia tanti decenni fa, intessuta di forme vitali apparentemente povere, ma quanto ricche di umanità e di sincerità. Il mio occhio si posò sulla tavola che una donna minuta stava imbandendo, sul capofamiglia che con cura appoggiava il fiasco con il vino sulla tovaglia coloratissima e gaia, sui tre bambini che s’affrettavano al desco lasciando sull’aia una malandata bicicletta, una bambolina e un secchio contenente non so che cosa. Al momento di affettare la pagnotta di pane, secondo un rito arcaico che vuole la si appoggi al petto e con il coltello la si divida a metà, il contadino mi vide e mi riconobbe, precipitandosi verso di me, invitandomi al suo frugale pranzo. Veramente mi sequestrò, ma mai sequestro di persona fu più dolce perché dettato dal cuore. Cercai di sottrarmi, ma non ci fu verso, a meno di non voler offendere quella famiglia che davvero non meritava uno sgarbo. Non dirò la commozione e il piacere che mi assalirono trovandomi finalmente al centro di una famiglia come non se ne vedono tante e soprattutto avvolto dalla spontaneità dell’accoglienza e dalla bontà di cibi talmente semplici da riconoscere in ciascuno i naturali ingredienti con cui erano stati cucinati e conditi.Veniva tutto dallo loro campagna, mi disse la gentile signora ancora giovane anche se un poco sfiorita dalla fatica: non provò neppure a giustificarsi per il suo abbigliamento pittosto approssimativo, ricordandomi solo che da quelle parti io sapevo come ci si vestiva in casa dopo una mattinata trascorsa a sfaccendare.
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Avrei voluto chiedere a padre, madre e figli se erano felici, ma non ne ebbi il coraggio.Vidi come assaporavano quelle pietanze antiche, come addentavano quei frutti succosi e profumati appena colti dagli alberi che facevano corona alla casa colonica, con quanto gusto si dissetavano (i genitori, naturalmente) con quel vino che aveva il colore ambrato e era fresco di cantina. Non domandai, durante l’improvvisata colazione, da dove venivano quei prodotti squisiti che a trovarli altrove era un’impresa. I miei ospiti prevennero la domanda rassicurandomi sulla loro genuinità certificata dal fatto che tutto ciò che era finito nel mio piatto era stato preparato da loro, da loro conservato e cucinato, proprio come si faceva una volta, come facevano i miei
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SOBRIETÀ È il contrario dell’effimero, è sostanza della vita, eleganza dello spirito che si manifesta nelle piccole cose, rifiuto delle lusinghe della felicità posticcia fondata sulle nevrosi. Una condizione sempre più anelata nell’opulento e progredito mondo occidentale
Oltre la prigionia della modernità di Gennaro Malgieri
Essere o avere? Il tempo di una scelta a lungo rimandata è scaduto. È indispensabile ridiventare uomini dopo essere stati marionette consapevoli nel mondo dei lustrini e dell’ossequio falso. Nel tempo della ricchezza di pochi e della miseria dei più è un imperativo al quale non si può più sfuggire nonni e le mie zie e mia madre quando ero bambino, come mi ricordò il rubizzo vignaiolo che si disse onorato di avermi alla sua mensa. L’onore, naturalmente, era tutto mio. Soprattutto per il regalo che mi era caduto tra le braccia in quel pomeriggio assolato: la riscoperta della sobrietà. Di un modo di vivere del quale avverto sempre più impellente il bisogno e talvolta riesco a soddisfarlo, ma resta episodico per adesso. Eppure è una ricerca che ormai sta contagiando milioni di persone nel progredito e opulento mondo occidentale, forse perché l’accaparramento dei beni, del superfluo, dell’inessenziale si sta manifestando per quello che è: un fasti-
dio. E si vorrebbe invece esaudire un impulso diffuso, nelle «classi alte» soprattutto: abbracciare una vita semplice e soddisfacente, fatta di pochi condizionamenti, segnata dal raccoglimento, dal ripudio dei meccani che rendono l’esistenza insopportabile, dalla riconciliazione con la natura, con le stagioni, con l’esplicitazione di una vocazione che ci si è portata nell’anima e non la si è potuta esprimere come si sarebbe voluto. Incontro manager, professionisti affermati, intellettuali e politici di successo che, radiosamente quasi sempre, mi comunicano la loro decisione di farla finita con la prigionia della modernità, di volersi ritagliare gli spazi che si sono nega-
ti per anni, di impegnarsi finalmente negli amori e nelle passioni che hanno meschinamente dovuto nascondere a se stessi.Vogliono, insomma, riprendersi la vita. E dal momento che possono permetterselo, ricominciare daccapo, magari a dipingere, a scrivere, a restaurare, a rilegare libri, a coltivare l’orto, a spolverare quel vecchio strumento musicale che tanto avrebbero voluto portarsi in giro per il mondo. Sobrietà è il contrario di effimero. È sostanza della vita. È stile, eleganza dello spirito umano che si manifesta nelle piccole cose, è ricongiungersi alla fatica senza fatica (la definizione dell’ozio - insuperata - dei romani), è amarsi e amare con il garbo e la naturalezza insite nel sentimento stesso. E poi tanto altro che ognuno può scoprire vivendo al di fuori (non contro) il sistema delle convenzioni inutili, della depredazione dei bisogni altrui, sottraendosi all’egoismo. Sobrietà è la caratteristica del nobile che non esibisce ciò che ha perché lo ha guadagnato o ereditato come patrimonio spirituale prima che materiale; è appropriarsi delle proprie radici; è espellere le lusinghe della felicità posticcia proposta dai modelli di vita incentrati sull’espansionismo delle proprie nevrosi. Certo, non mi ci volle un contadino meridionale con la sua famiglia per convincermi di tutto ciò. Ma fu edificante assistere al dispiegarsi di una trance de vie nel bel mezzo di un cammino che non avrebbe previsto ostacoli. Sapevo che per salvarmi dalla noia della ripetitività avrei avuto bisogno di ancoraggi saldi, a tavola, a letto, allo scrittoio, con un mondo vero che sto cercando, come milioni di altri esseri umani, di agguantare. Un vantaggio su tanti altri io ce l’ho: quel mondo lo conosco, sono stato educato a esso, e non l’ho mai dimenticato. Soltanto l’ho messo un po’ da parte, senza sapere perché. Il volgere dell’inverno della vita, quando ancora però l’ultimo freddo è lontano, fa scoprire a chi è dotato di sensibilità coltivate comunque per tutto il lungo percorso che i valori perenni sono tanto più soddisfacenti di un viaggio nel fantastico e opulento nulla delle suggestioni che dovrebbero incarcerarti e seppellirti sotto gli inutili gadget della modernità.
Non è necessario diventare santi per scoprire il piacere della sobrietà. È indispensabile ridiventare uomini dopo essere stati a lungo marionette consapevoli nel mondo dei lustrini e dell’ossequio falso. Ho davanti a me il mondo di quando ero bambino. Senza frigorifero, senza televisione, senza giocattoli spettacolari, senza comfort inutili, senza riscaldamenti diffusi: stavo bene. Non voglio davvero privarmi della vita comoda, naturalmente. Ma vorrei che essa si coniugasse con l’intangibilità del mio patrimonio spirituale racchiuso nella materialità delle cose semplicemente utili. Nel tempo della ricchezza di pochi e della miseria dei più è un imperativo al quale non si può sfuggire quello della ricerca della sobrietà. Non per altro se non per salvarci, non soltanto l’anima naturalmente. Essere o avere? Il tempo di una scelta rimandata a lungo è scaduto.
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cd
musica
Vampire Weekend bulimici, non omologati di Stefano Bianchi doro i gruppi che mi prendono sonoramente per i fondelli. Lo dico: viva le band non omologate. Quelle che saltano di palo in frasca, partono pop e poi sinfoneggiano, fanno le orecchiabili ma basta un decibel in più per farsi metal. E via così, ripensando a Talking Heads (prima punkfunk, poi afro & postmoderni), XTC (spremuta di post punk, filastrocche pop, reggae-rock), Split Enz (humour e melodramma; glam e tardo progressive), Tubes (hard rock, funk, elettronica). E se mi concentrassi un po’di più, me ne verrebbero in mente altre di formazioni che dopotutto sono figlie del tagliente, geniale metamorfismo di Frank Zappa. Ogni disco è una sorpresa (e spesso un capolavoro) se a suonarlo sono musicisti/fuorilegge così. Apparentemente senza un filo logico, in realtà ben decisi a cogliere il loro centro di gravità permanente. E voglio aggiungere, all’intrepida pattuglia, i newyorkesi Vampire Weekend. Il nome, che deriva da un cortometraggio amatoriale girato dal cantante Ezra Koenig (trama: il protagonista, accusato di aver spedito orde di vampiri a Cape Cod, nel Massachusetts, si dà precipitosamente alla fuga) mi fa pensare a chi vampirizza il talento altrui. Magari di domenica, quando in pochi se ne accorgono e c’è più gusto ad affondare i canini. Dopo
A
essersi conosciuto alla Columbia University, il quartetto (oltre a Koenig, che è anche chitarrista, ci sono il tastierista Rostam Batmanglij, il bassista Chris Baio e il batterista Christopher Tomson) ha sbarcato il lunario via Stereogum, blog per buongustai del pop indipendente, sviscerando le influenze musicali: dall’africana alla cameristica, passando per il rock e la caraibica. E quando nel 2008 è uscito Vampire Weekend, il gruppo era già apparso a botta sicura sulla copertina della rivista Spin e si era esibito al Dave Letter-
in libreria
man Show e a Later with Jools Holland, spettacoli tivù al top dell’anticonformismo. Bei biglietti da visita, per gli autori di un brano intitolato Cape Cod Kwassa Kwassa che sparigliando le carte avevano definito il loro genere Upper West Side Soweto. Dicono e non dicono, i vampiri. Ma quando si mettono a suonare, fermi tutti: qui c’è una musica sfuggente, concentrica, imprevedibile. Che s’è trasformata in Contra: riferimento ai gruppi armati controrivoluzionari nati in Nicaragua per combattere il gover-
no sandinista, ma più semplicemente abbreviazione di contrary. Cioè, i Vampire Weekend suonano al contrario dell’abitudine, del già sentito, dell’etichetta. Succhiano a destra e a manca (questo è poco ma sicuro) per poi allineare Bollywood, afro, calypso e technopop nei pochi minuti a disposizione di Horchata. E scommetto che gongolano, se gli fai notare che White Sky e California English sono la copia carbone di Graceland di Paul Simon. È un miscuglio multietnico e multicolor, quello di Ezra & Co., che si toglie lo sfizio di spremere ska, morsi ritmici alla Talking Heads e una voce da Ray Davies periodo Kinks (Holiday); accelerare e rallentare fra ritmi marziali e minuetti (Run); iniziare robotico come i Devo ma poi darci dentro col punk (Cousins); frullare funk, rock da stadio e dance (Giving Up The Gun); sintonizzarsi sul reggae di Toots and the Maytals e tornare a Bollywood pizzicando chitarre africane (Diplomat’s Son). Di tutto e di più. Bulimico, forse, ma assolutamente geniale. Come le due ballate in scaletta, Taxi Cab e I Think Ur A Contra: dolci, catartiche. Se la non omologazione suona così, che gusto farsi prendere per i fondelli. Vampire Weekend, Contra, XL Recordings/Spin-Go!, 16,90 euro
mondo
riviste
CARMEN, STORIA DI UN’ANTI-DIVA
GLI SCORPIONS AL PASSO D’ADDIO
Q
uando esordì sul palco dell’Ariston, più che un debutto fu una conferma. Quella giovane un po’ sgraziata, che cantava in modo stridente un Amore di plastica, ci sapeva fare. Lei, cresciuta a pane e Janis Joplin, nel fiorito agone sanremese ci stava già stretta. Quattordici anni di carriera dopo, Carmen Consoli è ormai iscritta di diritto al ristrettissimo club del cantautorato
«N
on abbiamo avuto tutto, perché il mondo sta cambiando. E quando questo accade pensi di aver fatto qualcosa di grande, ma era solo grande in quel momento; il tempo però ci offre molte possibilità, sta a noi trovarle. Quando ti ritroverai di nuovo al centro dell’attenzione saprai se stai suonando in un contesto unico. Te ne renderai conto e penserai: sì, stiamo facendo di nuo-
«H
Elena Raugei del “Mucchio” a colloquio con la Consoli: parabola di un’artista a tutto tondo
Rudolf Schenker annuncia lo scioglimento della band tedesca: prima un album e un tour
Su “Rockstar” uno degli aspetti più fecondi dell’era mp3: la preziosa riproduzione casuale
femminile nostrano. Background musicale squisito, curiosità intellettuale, animus pugnandi da siciliana ribelle e discreto carico traumatico infantile, hanno fatto le fortune di una performer che ha in spregio i lamentosi ghegheghè nostrali, ed è in grado di coniugare autentica tradizione popolare a lirismo decadente. A raccontarcene la parabola, la brillante Elena Raugei del Mucchio in Carmen Consoli, fedele a me stessa (Arcana, 256 pagine, 17,50 euro). Un lungo intimo colloquio, arricchito da materiali inediti, che restituisce il piacere delicato della confessione e annichilisce d’un colpo le sussiegose corbellerie della musica prossima Ventura.
vo la storia. Questo è il segreto, mai perdere la voglia, cercare di creare sempre un momento speciale. Non ripeterti mai». Fondatore degli Scorpions, Rudolf Schenker è sempre stato un chitarrista dalle idee molto chiare. Ormai superata la soglia dei sessant’anni insieme a Meine, di cui quarantacinque dedicati al gruppo di Hannover, per i padri di Wind of change è il tempo dei saluti. Un addio in grande stile. Un ultimo lavoro, Sting of the tail, in uscita a marzo. Poi due anni in tour a partire dal maggio 2010. Uscita di scena sì, ma lenta e trionfale.
Un viaggio tra le tonnellate di musica che gli appassionati accumulano sul pc, che spesso riserva gradevoli sorprese decise dal caso. Il mensile propone brani come Ashes dei Kt Tunstall (gradevole blues acustico che non è tra le hit del gruppo), o Jenny Don’t Be Hasty, una delle (molte) idee buone che animano These streets dell’italo-scozzese Paolo Nutini. E poi si pone il caso di classici misconosciuti comeYou do something to me di Paul Weller o di gemme minimaliste, tanta voce e poco altro, come la spoglia Long line of pain di Amos Lee. L’era degli mp3, insieme alla vastità e all’inconoscibilità, regala al collezionista più navigato il brivido della (ri)scoperta.
a cura di Francesco Lo Dico
I MAGICI LABIRINTI DEL RANDOM ai presente quando imposti la funzione “random” sul tuo lettore mp3 e d’improvviso, frugando fra le duemila canzoni che in qualche modo ci hai infilato, ne arriva una che cattura l’attenzione in modo totale, anche se non è famosa, non è un singolo, non ha un video girato da un regista celeberrimo?». È questa la stuzzicante premessa da cui parte lo speciale di rockstar.
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classica
zapping
Sul playback seguiamo L’ESEMPIO DI PECHINO di Bruno Giurato on pensavamo di doverlo dire e lo diciamo a voce bassa bassa: qui più si va avanti e più vien da pensare che i cinesi ci salveranno. E non è solo il fatto che il governo cinese è rimasto l’ultimo a opporsi (insieme a Cuba) al «maiosmo digitale» di internet (il virgolettato non è nostro né di qualche sporco luddista, ma di Jaron Lanier, celebrato santone americano della tecnologia che ha scritto un libro resipiscente dal titolo We are not a gadget). Il fatto ha invece a che vedere col nostro orticello musicale. Perché in Cina, per dirne una, il playback è proibito dal ministero della Cultura. I cantanti devono cantare, altrimenti multa. Due cantanti cinesi, Yin Youcan e Fang Ziyuan, rischiano una sanzione pari a 7400 sterline e due anni di interdizione dai palchi della Repubblica Popolare per aver utilizzato il playback durante uno show tenuto nel corso dello scorso anno. E questo è un magnifico esempio che vorremmo subito importare in Italia. Avete presente i superospiti sanremesi che arrivano sul palco dell’Ariston, sorridono a mezza bocca per qualche spiritosaggine del conduttore e poi fanno la canzone in playback? Ecco vorremmo vederli alla fine dello spettacolo con intorno quattro gendarmi, con i pennacchi e con le armi, che gli ammollano una multa salatissima. Avete presente le popstar italiane che si presentano in concerto con tre musicisti e una ventina di tracce preregistrate a rinforzare la minestra? Multa, multa, multa. Sarebbe altamente educativo, altamente bello e ci toglierebbe dai piedi una legione di produttori fighi e di musicisti incompetenti. Insomma, se si passa dal sogno hippie della musica-immagine alla pratica medievale del premere corde, tasti e percuotere pelli, la parola d’ordine non è più «sognando California» ma «sperando in Pechino».
N
Due talenti per “Il trovatore” di Jacopo Pellegrini
ue talenti in un colpo solo, ecco una lieta sorpresa. Forse, sarebbe meglio dire conferma: già a fine 2008 erano giunte notizie dal Veneto di un direttore e di un soprano fuori del comune, scesi in campo per Aida. Squadra che vince non si cambia. Ecco dunque, al Verdi di Padova, ripresentarsi per Il trovatore Omer Weir Wellber e Kristin Lewis. È quegli un israeliano men che trentenne, assistente di Daniel Barenboim, in procinto - a quanto si dice - di subentrare a Lorin Maazel quale direttore stabile al Palau Reina Sofia diValencia: gesto bello, a volte compiaciuto di sé nel tracciare ampie arcate, ma efficace e preciso; più che nell’evidenza della griglia ritmica (la tensione del discorso tende semmai a calare negli snodi e nei passi di raccordo), la prerogativa di questo giovane musicista sta nel respiro profondo e naturale del legato, nell’abilità a delineare e sostenere le arcate melodiche. Il primo paragone che viene in mente è Thomas Schippers nelle sue giornate di grazia. Accenti e coloriti strumentali sono seguiti al millimetro, ma sempre in funzione del canto; la dialettica lento/veloce nello stacco dei tempi risulta accentuata, senza tuttavia eccedere in un senso o nell’altro, sempre anzi preservando la fluidità di motivi e disegni (nell’Atto II, l’andamento danzante, quasi addolcito, di «Un momento può involarmi»; la coda della cabaletta del Conte, tutta sottovoce; il passo leggero e incisivo di «Dunque gli estinti lasciano»; la seconda scena del IV, introspettiva e vibrante). E tutto questo emerge chiaramente, a dispetto d’un’orchestra e d’un coro volonterosi e nulla più. Il trovatore di solito passa per un’opera bellissima ma dallo sguardo rivolto all’indietro. In realtà, con essa Verdi realizza il progetto più unico che raro, almeno in Italia, di un’opera-ballata narrativa (genere letterario molto frequentato in epoca romantica, ricco anche di esiti musicali, specie nelle regioni germaniche), in cui assume un rilievo inusitato la «parola scenica», quella - diceva il compositore - che scolpisce e rende chiara l’azione. Ciò che ancora manca a Wellber è per l’appunto una padronanza della lingua e dello stile tale da ottenere dai suoi collaboratori canori codesta flagran-
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za verbale e drammatica. Mentre la Lewis, voce fenomenale per mordente ed estensione (osa - caso rarissimo - il re bem. sovracuto facoltativo in «D’amor sull’ali rosee»), difetta nell’articolazione del testo e nell’omogeneità dei registri (troppo petto in basso). L’encomiabile attenzione a colori e sfumature di un baritono sottodimensionato per la parte (Vitalij Bilij), un giovane basso ricco di talenti (Roberto Tagliavini); il resto è silenzio. Col funzionale impianto scenico, le pagine di un libro ligneo sfogliate a vista a ogni cambio di quadro, Denis Krief (responsabile in toto dell’allestimento) mostra di aver compreso l’essenza drammaturgica dell’opera. Purtroppo, la regia maccusa, accanto a momenti indovinati, vuoti incongruenze distrazioni. Un altro talento, di quelli conclamati, conti-
nua (meno male!) a dare prova di sé: Hans Werner Henze offre alla romana Accademia di S. Cecilia (che gliel’ha commissionata) Opfergang (Immolazione), sorta di cantata drammatica per due solisti (il Fuggiasco, basso - Tomlinson, - e il Cane, tenore - Bostridge), pianoforte concertante e un’orchestra da camera arricchita da un sostanzioso nucleo di percussioni (direttore e solista alla tastiera, Antonio Pappano). Un velo caliginoso, oscuro, fatale si stende su tutta la pagina, quarantacinque minuti in cui violenze e ripiegamenti, sempre micidiali, fanno pensare a un Berg riletto in chiave infera (con qualche spunto da Weill nelle battute dei poliziotti). Nel rilievo degli strumenti a percussione, nel lirismo straziato di certi declamati-ariosi del tenore rivive la lezione del I Atto della recente Phaedra, laddove la matericità della parte pianistica rimanda al grande Henze di Tristan.
jazz
I migliori? Cercateli nell’ex “periferia” di Adriano Mazzoletti hi afferma che il jazz non gode più di buona salute dovrebbe andare a consultare Down Beat, la più antica e prestigiosa rivista che si occupa di questa musica da settantasette anni. Nel numero di gennaio, vengono elencati i dischi pubblicati nei primi dieci anni di questo terzo millennio che hanno ricevuto ben cinque stelle, il massimo di quanto i recensori possono attribuire a ciascun disco. In dieci anni ben 110 dischi sono stati giudicati autentici capolavori, quasi uno al mese. Dunque epoca straordinaria questa in cui viviamo! Grandi musicisti, capolavori assoluti. In verità nei primi dieci anni di questo secolo non ci eravamo accorti che il jazz americano fosse così ricco di talenti. Anche perché negli oltre cento dischi a cinque stelle non appaiono musicisti europei né tanto meno italiani. Sorge allora immediatamente il dubbio che la
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critica americana sia troppo di manica larga. Scorrendo le due pagine della rivista fitta di titoli e anni di pubblicazione ecco che l’arcano viene immediatamente svelato. La metà dei dischi sono riedizioni di incisioni del secolo precedente, Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Goodman, John Coltrane, Miles Davis, Dizzy Gillespie, Nat «King» Cole, Dave Brubeck, Errol Garner, Charlie Christian, Lester Young, Jelly Roll Morton, Anita O’Day, Sarah Vaughan, Dinah Washington. Leggendo con attenzione vengono alla luce nuove sorprese. Cinque stelle, sono state attribuite fra il 2002 e il 2007, a eccellenti musicisti e complessi che con il jazz autentico poco o nulla hanno avuto a che fare. L’orchestra cubana di Benny Moré con incisioni realizzate fra il 1953 e il ’60, il gruppo rock di San Francisco, Sly and the Family Stone, il cantautore canadese Neil Young, o il cantante Paul Simon che tanto
successo ebbe con il collega Art Garfunkel nell’interpretazione di brani folk. Preso da un senso di frustrazione vedevo l’elenco assottigliarsi sempre più e le uniche incisioni importanti realizzate tutte nei primi anni del nuovo secolo. Chi giura sulla pessima salute del jazz forse non ha tutti i torti, se si riferisce al jazz americano. Oggi infatti, la maggioranza dei giovani musicisti di colore è protesa verso altre musiche, il Rap, ad esempio. Se fino a qualche anno fa lo sguardo di tutti, musicisti e appassionati era rivolto al di là dell’Atlantico da dove provenivano nuovi stili, nuovi musicisti, nuove idee, oggi la nostra attenzione deve essere indirizzata verso il vecchio continente e soprattutto verso la nostra piccola penisola che per molti, moltissimi anni, è stata considerata la più inaccessibile periferia del jazz.
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narrativa
libri
Milano, Inferno (storia di un emigrato calabrese) di Maria Pia Ammirati al più visionario e metafisico scrittore del Novecento, Tommaso Landolfi, mutua il titolo del suo ultimo romanzo il poeta Dante Maffia, Milano non esiste. Un travaso, o passaggio, per arrivare a un libro di matrice post industriale che richiama la scrittura di Paolo Volponi, la sua discesa agli inferi, nell’inferno delle fabbriche del Nord dove i termini ricorrenti sono alienazione e fatica. La fabbrica di oggi descritta da Dante Maffia non fa eccezione ai canoni, ma ricalca i personaggi e in particolare il protagonista in un crescendo ossessivo che avrà risvolti patologici con un finale aperto e interpretabile. Maffia è uno scrittore calabrese che ha sempre tenuto in gran conto la sua meridionalità, sia linguistica che più ampiamente culturale. In Milano non esiste mette in gioco un calabrese alle soglie della pensione (mancano due anni e 5 mesi alla fine del rapporto di lavoro), che in un vortice di depressione-incomprensione, e fatica, avvia un processo di deterioramento dei rapporti con il mondo che lo circonda. Un logorroico monologo imperniato su una lingua impastata, un idioletto, darà la misura al lettore della crescente ansia del protagonista, la difficoltà a gestire una fase dell’esistenza, ma anche la ristrettezza culturale di un uomo che sembra aver vissuto in apnea per quasi quarant’anni. In questo personaggio, di cui scopriremo a malapena i tratti somatici, si affonda invece nel pensiero, essendo la materia trattata il rovello e l’odio di un emigrante verso il paese che l’ha accolto e sfamato. Ecco quindi Milano e la fabbrica, due simulacri, due simboli. Dal ristretto punto di vista del protagonista Milano si incarna in un corpo in cancrena, di cui sente e annusa, come una bestia, il puzzo.
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Arrivato a Milano si suppone alla fine degli anni Sessanta, quest’uomo, che sposa una ragazza milanese, fa sei figli, compra una casetta nella periferia, di tanto in tanto va a cena fuori con i suoi paesani a mangiare soppressata e olive, vive il sogno di tornare in Calabria appena entrato in pensione. Ma è un sogno strabico perché non è una scelta solitaria, è una scelta che prevede una sorta di esodo di tutta la famiglia. Per portare a termine l’esodo il protagonista accumula un rancore sordo verso Milano, una città che viene personificata per detrazione: il grigiore atmosferico, l’inquinamento ambientale, il cattivo carattere degli abitanti. Un giudizio che non corrisponde alla vita dei figli e della moglie, per i quali Milano rappresenta il benessere, il lavoro e l’opportunità. Tanto più la famiglia è coesa e integrata nella vita milanese, tanto più il protagonista alimenta la rabbia e il desiderio di fuga. Arrivati alla pensione scopriremo cosa sarà di quest’uomo buono e rozzo che porta in sé una verità assoluta, e una mancanza di senso critico e autonomia. Basti pensare che per la morte in fabbrica di alcuni operai è lui stesso a temere il padrone e la partecipazione allo sciopero. O leggere uno scambio di battute con la figlia per connotare il personaggio: «“Milano non è un inferno, come dici”, m’ha buttato in faccia Carolina, la più piccola “è una città meravigliosa e piena di sorprese”. Quali sono le sorprese, quelle che si vedono nei caseggiati vicini pieni di rumeni, polacchi e filippini? Quelle dell’inquinamento dell’aria?». Un personaggio a tutto tondo colto nel pieno del dramma esistenziale. Dante Maffia, Milano non esiste, Hacca, 202 pagine, 12,00 euro
riletture
Da Puskin a Majakovskij, le rivelazioni di Poggioli di Leone Piccioni na bella strenna natalizia ha fornito l’editore Einaudi ai suoi lettori riproponendo il magnifico libro di Renato Poggioli Il fiore del verso russo. Si tratta di una edizione fuori commercio riservata ai clienti dell’organizzazione rateale. Renato Poggioli (1907-1963) stampò presso Einaudi nel ’49 questo libro dichiarando: «Noi crediamo che avrà per il pubblico italiano il sapore di una rivelazione». E se allora fu una rivelazione oggi rappresenta una grande nuova scoperta. Centocinquanta pagine tra introduzione e note, seicento pagine con le traduzioni. Sono presenti tutti i grandi poeti russi del periodo da Puskin a Blok, da Ivanov a Gumilöëv, dalla Achmatova, a Mandel’stam, da Majakovskij a Esenin fino a Pasternak e a Lermontov. Sul grande poeta Mandel’stam, certo tra i maggiori del Novecento,
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Poggioli scrive: «Nella capacità di riconoscere le virtualità fantastiche e mitiche d’un soggetto culturale e d’un tema erudito, Mandel’stam non ha altri rivali nella lirica russa all’infuori di Ivanov… Mandel’stam ha una certa predilezione per l’ellenismo ma non così esclusiva come quella di Ivanov: a ogni modo proietta le sue ricostruzioni filologiche e archeologiche in una atmosfera d’ironia, quasi le collocasse nella luce fredda e astratta d’un museo»… Per Mandel’stam «il compito della sua generazione poetica era quello d’introdurre nella poesia “quello stile gotico che Bach aveva introdotto nella musica”». A proposito di Majakovskij Poggioli sottolinea la sua capacità di mantenere in difficile e instabile equilibrio il momento passionale e il momento artistico. «Nella sua poesia - prosegue Poggioli - v’è un primo momento, che è quello della irruzione e della eruzione, del pathos esuberante
vulcanico frenetico. Ma succede immediatamente la fase del congelamento, della solidificazione della stasi e dell’inerzia della materia». Poggioli emigrò negli Stati Uniti dove coprì una cattedra universitaria nel ’38. Aveva pubblicato da Carabba un’antologia intitolata La violetta notturna (’33); nel ’39 un libro di saggi pubblicato da Parenti e intitolato Pietra di paragone. Scrive opere anche in inglese e torna con un libro italiano intitolato Teoria dell’arte d’avanguardia (Il Mulino 1962), l’anno prima di morire. Ma a Firenze Poggioli (1907) non fu solo: si trovò accanto Carlo Bo (1911), Mario Luzi (1914), Tommaso Landolfi (1908), Oreste Macrì (1913): Bo ispanista ed esperto di letteratura francese pubblicò per primo le traduzioni di Garcia Lorca, Luzi francesista si occupò di Mauriac e altri scrittori francesi; Landolfi (1908) slavista, Macrì (1913) ispanista,Traverso grande conoscitore della letteratura te-
desca (Rilke, per esempio e Hölderlin): tutti praticamente coetanei. Fu un gruppo di studenti e laureati sicuramente di avanguardia e di grande cultura contemporanea nel periodo fiorentino degli anni Trenta che, con una ondata di freschezza d’ispirazione e di cultura faceva un po’ parte a sé pur nel famoso ritrovo delle «Giubbe rosse». Poggioli poteva essere considerato, pur se nato con poco anticipo sugli altri, un conduttore. (Devo indicare due lacune nei testi di consultazione più abituali che non fanno onore a chi le ha adempiute. Renato Poggioli anche se figura nel Dizionario della Letteratura Italiana del ‘900 a cura di Asor Rosa è completamente assente dalle colonne della Garzantina della Letteratura Italiana; Leone Traverso, poi, non è nemmeno nomimato né da una parte né dall’altra anche se insieme al suo lavoro filologico sulla letteratura tedesca fu traduttore dei grandi tragici greci).
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diari
Quando Parigi era “vecchia e senza vitalità” di Gabriella Mecucci anlio Brosio è stato un illustre diplomatico italiano. Di origine torinese, liberale gobettiano, prese parte all’antifascismo e alla Resistenza. Oggi il Centro di Ricerca e documentazione Luigi Einaudi ha deciso di pubblicare i suoi diari: da Mosca, da Londra, da Washington, e, ora, da Parigi (1961-1964), a cura di Umberto Gentiloni Silveri. Brosio prende servizio a rue de Verenne nel giugno del 1961. È molto interessante la sua prima notazione sulla Francia: «Parigi è spenta, vecchia e non ha la vitalità dell’Italia». Rapportata all’oggi sembra quasi incredibile, eppure allora un intellettuale di prim’ordine come
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società
Brosio vedeva il nostro paese molto più dinamico. E aveva ragione: eravamo nel periodo del boom economico, dei grandi successi della cinematografia italiana, mentre la Francia camminava ancora sul vulcano algerino. L’ambasciatore Brosio ha una spiccata simpatia per De Gaulle. Ammira l’antifascista, il grande pilota della Francia nelle situazioni difficili: capace di tirarla fuori dal pantano algerino. Quando però il presidente della Repubblica francese rischia di rompere gli equilibri fra i due blocchi, con le sue posizioni che sfiorano in alcuni momenti l’antiamericanismo, allora Brosio diventa più cauto nel suo giudizio. L’essere un ammiratore di De Gaulle all’epoca, non lo rendeva
sempre amato nel mondo politico italiano dove i giudizi erano diversi e alcuni assai severi: non solo quelli della sinistra, ma anche quelli di un moderato come Ugo la Malfa. Ci sono poi le valutazioni preoccupate dell’ambasciatore sulle intenzioni aggressive dell’Unione Sovietica, in particolare riferiti alla crisi di Cuba. E un’attenzione all’elezione di Montini al soglio di Pietro che «suggerisce una cauta speranza». C’è poi tutto il versante legato all’Europa in cui Brosio appare preoccupato per «la sua costruzione politica». Con la piena «la consapevolezza che la questione di Berlino spacchi gli alleati» e l’indicazione cauta ma continua verso una soluzione che porti l’ex capitale tedesca tutta intera nella Germa-
nia di Bonn. Particolarmente interessanti sono infine i giudizi sugli uomini politici italiani di punta: il preferito è Attilio Piccioni che definisce «sempre sereno ed equlibrato», mentre vede Fanfani e Colombo come i piloti che ancoreranno l’Italia nell’alleanza di centro-sinistra, e Brosio non nasconde la sua preferenza per un rapporto privilegiato fra Dc e forze di natura liberale. Un diario quello dell’ambasciatore molto interessante perché con occhio pacato osserva le vicende europee e quelle italiane senza cedere mai alle mode e ai luoghi comuni. Manlio Brosio, Diari di Parigi 1961-1964, il Mulino, 502 pagine, 40,00 euro
Teenager: storia segreta di un’invenzione di Giancristiano Desiderio è una frase di John Lennon posta in esergo all’introduzione di questo libro di Jon Savage - che, in realtà, non è l’autore del libro perché si tratta di un libro collettaneo - che ha come titolo un concetto che sulle prime potrebbe apparire strano e addirittura contraddittorio: L’invenzione dei giovani. La frase dello di John Lennon, che risale al 1966, suona così: «Nell’immaginario di tutti l’America era il grande paese della giovinezza. In America c’erano i teenager; altrove soltanto la gente qualsiasi». Forse, oggi le cose sono un po’ cambiate, ma la sostanza è rimasta ancora questa indicata più di quarant’anni fa da Lennon: quando si pensa all’America si pensa al «grande paese della giovinezza». Ecco perché non bisogna mai andare in America: per
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conservare questa illusione, almeno questa. Ma cosa significa che i giovani sono stati «inventati»? I giovani non sono inventati per natura? Per diventare adulti non bisogna per forza passare per l’unica strada esistente: la giovinezza? Eppure, le cose non sono state sempre così. Il libro di Jon Savage, così ricco di interventi, di saggi, di ricostruzioni, ci aiuta a capire come la giovinezza - l’adolescenza, i teenager - siano un’invenzione storica abbastanza recente. Nel 1944 gli americani cominciarono a usare questa parola - teenager - per designare la categoria dei giovani che andava dai 14 anni ai 18. Fin da subito si trattò di un termine specifico del marketing, usato da pubblicitari e produttori, che rispecchiava la nuova tangibile capacità di spesa degli adolescenti: «Il fatto che per la prima volta i giovani fossero diventati un target significava anche
che erano diventati un gruppo anagrafico distinto, con rituali, diritti ed esigenze propri». Inizia da qui la cosiddetta «cultura giovanile». Però, il libro di Savage, che pur essendo uno studio e una ricerca storica e sociale si legge come un vero libro di storia, se non addirittura come un romanzo storico, non inizia con la fine della seconda guerra mondiale, bensì dalla fine dell’Ottocento e, in particolare, con il 1875, con gli scritti autobiografici di Marie Bashkirtseff e Jesse Pomeroy. La grande cavalcata storica tra Ottocento e Novecento racconta quasi una «storia segreta»: i teenager e la cultura giovanile non nascono improvvisamente, come un fungo, nel 1944, ma c’è un lungo processo di incubazione che affonda le sue radici nella cultura romantica dell’Ottocento (e che, per certi versi, è ancora la nostra cultura). La storia di questa «storia segreta» è, appunto, l’invenzione dei giovani: il tentativo di concettualizzare, definire e controllare l’adolescenza. Jon Savage, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, 494 pagine, 30,00 euro
La logica scivolosa dell’anima secondo Musil di Pier Mario Fasanotti crive Paola Capriolo nella prefazione: «Questi racconti ci appaiono a volte quasi brutali nel loro affrontare in modo esplicito gli abissi e le“tentazioni”dell’eros». Cinque racconti di Robert Musil, al mondo intero noto per il romanzo-fiume L’uomo senza qualità. Il grande scrittore affronta il groviglio dei sentimenti che scuote la vita di un essere umano. Come lui stesso disse, ci parla della «logica scivolosa dell’anima». Una prosa superba che anticipa quell’aurea di ambiguità in cui si immerse Schnitzler con Doppio sogno. Conturbante, anche perché i confini intimi appaiono confusi e
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sempre tremolanti, è il racconto intitolato La portoghese. Siamo tra Bressanone e Trento, in terra aspra e cupa. Ed è lì che il barone Delle Catene (in certi documenti chiamato Von Ketten) conduce la sposa portoghese, seguendo il costume locale che consigliava ai signori delle montagne di trovare moglie in luoghi lontani. «Il castello torreggiava fosco» racconta Musil, ma non scoraggia la donna mediterranea «stanca del mare color viola». Il barone è guerriero, ha conti in sospeso con il vescovo di Trento e per undici anni, dimenticando il focolare e la morbidezza di chi ha sposato, si mescola con la plebaglia guerresca. Avrà due figli: ammirano il padre ma più ancora
la fama che lo circonda. Delle Catene segue un destino familiare, il desiderio forte è la conquista e non la pace dopo la guerra: non saprebbe come gestirla, non amando la gioia, l’ordine, la casa. Un uomo tutta potenza muscolare e inquieto nella mente, un uomo dal quale non possono che uscire «azioni silenziose». Egli agisce d’istinto, non riflette se non per continuare ad agire, nella buona e cattiva sorte. La portoghese, adusa a pratiche che sfiorano sortilegio, vaga spesso nei boschi, senza peraltro portare a casa alcunché. Il barone, vittorioso per la morte del nemico «che sa pregare Dio», torna a casa ma è punto da un insetto. Inizia una sfibrante malattia, che è torpore, an-
nebbiamento, debolezza. Tra gli ospiti del castello c’è un conterraneo della donna, l’unica persona che porta in quelle terre l’odore del mare e «discorsi vivaci». Musil trasforma e deforma la gelosia del barone in un travaglio complesso. Delle Catene, una sera, vedrà «le due ombre confondersi in una». La febbre cala, ma a essa subentra la ferocia. Fruga nelle stanze della moglie per accoltellare l’ospite, ma non lo trova. L’epilogo riassume il continuo trasformarsi delle cose, secondo un incantesimo che è proprio non solo dei sogni ma anche delle persone e del loro agire. Robert Musil, Tre donne, Einaudi, 212 pagine, 19,00 euro
altre letture Pubblicato alla fine del 1945 Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista di Mario Luciolli (Le lettere, 268 pagine, 24,00 euro) è stato il primo tentativo di ricostruzione storica della politica estera del fascismo. Un libro scritto con un equilibrio che ne ha reso le conclusioni ancora valide a distanza di tanti decenni. Particolarmente attenta è l’analisi del periodo 19381943, durante il quale l’autore potè direttamente seguire dal Gabinetto del ministro genesi e svolgimento degli eventi internazionali. Secondo l’autore, la politica estera di Mussolini si giostrò in un’alternanza di gesti bellicosi e di conati di pace e si avviò lentamente ma inesorabilmente verso l’isolamento in nome dell’antinternazionalismo. Gli uomini d’affari e le aziende devono sviluppare strategie competitive per sopravvivere e individuare opportunità di collaborazione per ampliare i mercati. I politici devono organizzare una campagna strategica per venire eletti e stabilire strategie legislative per mettere in atto le loro idee. Gli allenatori preparano strategie che i giocatori dovranno eseguire in campo. I genitori che cercano di educare i loro figli dovrebbero quantomeno diventare degli strateghi dilettanti. L’arte della strategia si estende a ogni ambito della vita professionale e non. Avinash Dixit e Barry Nalebuff in L’arte della strategia (Corbaccio, 525 pagine, 22,00 euro) spiegano in cosa consiste l’arte di negoziare, di interpretare e rivelare informazioni, di mettersi nei panni della controparte. Insomma di vivere strategicamente. Clint Eastwood è considerato il più classico dei registi statunitensi contemporanei. Il suo cinema ha affrontato storie e generi tipicamente americani dando luogo a un universo narrativo e tematico più complesso di quanto l’apparente semplicità dello stile e un gusto classico del racconto possano far pensare. Dentro la storia di un paese, dentro il suo immaginario, dentro le sue contraddizioni. Clint Eastwood, collettanea di saggi sul grande regista americano curato da Giulia Calduccio (Marsilio, 172 pagine,12,00 euro) accompagna il lettore in un viaggio affascinante nella mente di un autentico anticonformista della cultura contemporanea. a cura di Riccardo Paradisi
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ALLE SOGLIE DELL'800 L'ITALIA NON È SOLTANTO “IL PAESE DOVE FIORISCONO I LIMONI” MA ANCHE LA PATRIA DELL'ARCHETIPO DI DRACULA. CIOÈ DEL “VAMPIRO” DI JOHN WILLIAM POLIDORI (DA BIENTINA, PISA), LO SCRITTORE ANGLO-TOSCANO CHE NEI PRESSI DI GINEVRA PARTECIPÒ ALLA FAMIGERATA “NOTTE DEGLI SPETTRI” INSIEME CON BYRON, SHELLEY E SUA MOGLIE MARY. I CUI ESITI SONO ANCORA OGGI TANGIBILI (ANCHE SE EDULCORATI) NELLA SAGA DI “TWILIGHT”…
letteratura
Quei ragazzacci di Villa Diodati
entre Moonlight spopola tra le fanciulle in fiore alla cerca di un «bel tenebroso» fuggente e suggente (sì, ma con juicio) da accogliere tra le candide e morbide braccia; e mentre chi ha abbondantemente varcato il mezzo secolo rimpiange (magari senza dirlo in giro per non far la figura del trucido razzista) i bei tempi in cui la terapia antivampiro era affidata a reste d’aglio e paletti di frassino: insomma, mentre il cinema, con la maliosa, struggente storia di Edward e Bella, sguazza tra sangue, sensi e sentimenti, anche la letteratura fa la sua parte. Così arriva in libreria La filosofia di Twilight (a cura di Rebecca Housel e J. Jeremy Wisnewski, Fazi, 250 pagine, 18,00 euro), un raccolta di studi in cui, facendo riferimento alla fortunatissima saga di Stephenie Meyer, si discetta di amore e morte, immortalità e libero arbitrio, violenza e compassione, desidero e astinenza, eroi byroniani e femministe, licantropi e vampiri (da quelli serial killer a quelli «vegetariani»), con vivaci incursioni nel mondo del mito, della letteratura e della religione (tanto per dire, Stephenie Meyer è mormone: c’entra qualcosa la sua religione personale con la filosofia di Twilight?Vi illumina in proposito Marc E. Shaw nel suo saggio Per la forza di Bella. Stephenie Meyer, i vampiri e i mormoni, op. cit., pp. 235-244).
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Per la serie «vampiri e altri orrori», ma con bel contrassegno tricolore, si può leggere, con brividi di goduria, Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele (a cura di Claudio Gallo e Fabrizio Foni, introduzione di Luca Crovi,Aragno, 539 pagine, 38,00 euro) che è una vera e propria miniera di ammiccanti scoperte. Dunque: alle soglie dell’Ottocento, l’Italia non è soltanto «il paese dove fioriscono i limoni», dove «splendono arance d’oro nel verde fogliame» e dove «tranquillo è il mirto, sereno l’alloro», cantato dall’entusiasta Goethe nella celeberrima lirica Sehnsucht, ma è anche il paese del mistero, «il luogo dove si aggiravano in mezzo alle rovine di templi e anfiteatri creature da incubo come fantasmi, vampiri e briganti» (Crovi), la terra dove la luce del sole sprofondava in cupi notturni abitati da mostri di tutti i generi, e che già avevano eccitato la fantasia di Horace Walpole (Il castello di Otranto, 1764) e di Ann Radcliffe (Romanzo si-
vincialissimo complesso di inferiorità nei confronti della produzione libraria o cinematografica straniera (soprattutto inglese e americana) e ci siamo accorti di valere qualcosa anche nel campo del fantastico e del nero che più nero non si può.Tanto è vero che è diventato «di culto» un film come I tre volti della paura di Mario Bava (1963) e qualcuno ha scoperto che La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati (1976) è un piccolo capolavoro. Insomma, sul meraviglioso e il mostruoso nessuno ha da insegnarci nulla. E nemmeno sui vampiri perché, ben prima del Dracula dell’inglese Bram Stoker (1897) c’è Il Vampiro dell’anglo-italiano, per essere ancor più precisi dell’anglo-toscano, John William Polidori, apparso nel 1819 sul New Monthly Magazine e ora riproposto dalla Studio Tesi (a cura di Giovanna Franci e Rosella Mangaroni, con un’introduzione di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, 154 pagine, 8,90 euro).
di Mario Bernardi Guardi ciliano, 1790 e L’Italiano o il confessionale dei Penitenti Neri, 1797). E non dimentichiamo che in tanti racconti di Ernst Theodor Hoffmann - Il signor Formica, La principessa Brambilla, Dogi e dogaresse ecc. - incanti, misteri e magie trovano nel Belpaese (da incubo!) la loro terra d’elezione. Così, i tanti scrittori di casa nostra, che tra gli inizi dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento (l’arco di tempo preso in considerazione dai curatori dell’Antologia), si sono cimentati col fantastico e l’orrifico avevano abbondante materia cui attingere (si veda in proposito anche Enciclopedia fantastica italiana.Ventisette racconti da Leopardi a Moravia, a cura di Lucio D’Arcangelo, introduzione
Prima di parlare di John, però, bisogna parlare di papà Gaetano. Anzi, prima ancora bisogna parlare del luogo d’origine di questi italiani anglicizzati. E cioè di Bientina, in quel di Pisa. Un paese dove si mescolano memorie etrusche e granducali e dove tutti gli anni, a metà maggio, per la festa patronale di SanValentino (un martire della romanità cristiana, che non ha nulla a che fare colValentino degli innamorati), il parroco, che ha tanto di autorizzazione, non solo benedice chi soffre di epilessia, ma, a colpi di esorcismo, libera i «posseduti». E cioè gli assatanati, gli indemoniati, i vampirizzati. Bene, in questo paese che vede l’Angelo di Dio contendere fieramente col Signore delle Tenebre (prima l’esorcismo era pubblico, si svolgeva in chiesa, davanti agli occhi dei fedeli, tra le grida degli indemoniati, i vade retro del sacerdote e la morbosa curiosità del pubblico; adesso è tutto all’insegna della riservatezza ed è in canonica che l’esorcista fa a cazzotti con i dèmoni, privando le folle di un terribile e discutibile spettacolo che però irrobustiva la fede), nasce, nel 1763, Gaetano Polidori, da una stirpe di medici con ambizioni letterarie. Sin da ragazzo, si immerge nella lettura e scrive: ma solo molto tardi, a ottant’anni compiuti, darà alle stampe le
Fu Byron a lanciare la sfida: entro un tempo brevissimo ciascuno doveva produrre un racconto terrificante. Poi tirò fuori il suo incompiuto “Giaour”, dove un vampiro appariva fugacemente. E Polidori non si fece sfuggire l’occasione... di Fausto Gianfranceschi, Mondadori, 1993). E lo fecero con indubbia maestrìa non solo perché avevano ben digerito i modelli stranieri che abbiamo citato e tanti altri ancora (Byron, Schiller, Poe, Dumas, Stevenson, Verne ecc.), ma perché con i più variegati spettri erano in naturale sodalizio. E lo si vede bene leggendo i racconti di Alessandro Sauli, Emilio De Marchi, Emilio Salgari, Jarro, Francesco Mastriani, Carolina Invernizio, Matilde Serao, Giustino L. Ferri, Salvatore Di Giacomo, che sono alcune tra le «firme» dell’Antologia. E che tardivamente scopriamo perché solo da un paio di decenni abbiamo superato il pro-
sue pagine (cfr. Gaetano Polidori, Opere scelte, a cura di Edoardo Carlotti, con un saggio di Roberto Tessari, Ed. Giardini, 1994). A cui non fanno certo difetto l’odore di zolfo, i visionari empiti preromantici alla Ossian, le atmosfere pregne di pathos mortuario, le sinistre magioni, l’enfasi declamatoria, il gusto un po’kitsch. Comunque, anche se Gaetano rivela un grande interesse per la narrativa gotica (tra l’altro, traducendo in italiano Il castello di Otranto già menzionato), non sono tanto i vampiri letterari a comparire nella sua vita, quanto un uomo in
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carne e ossa ma con qualche «vampiresco» tratto: niente meno cheVittorio Alfieri. Gaetano Polidori aveva ventidue anni e stava studiando giurisprudenza a Pisa, quando fu assunto come segretario dall’Astigiano che cercava un giovane, preferibilmente senese o pisano, che leggesse e copiasse i suoi manoscritti, correggendo anche errori e trasandatezze sintattiche e lessicali. Così Gaetano segue l’insigne tragediografo in Alsazia, sulle orme della contessa d’Albany, e qui hanno inizio le dolenti note. Infatti, non solo l’Alfieri si atteggia a eroe, titano, superuomo, vate della morale e della libertà, senza esserne all’altezza, ma si mostra sprezzante nei confronti del suo segretario e spesso lo maltratta. Anni dopo, Polidori dedicherà al Conte, «superbo al pari del Satana di Milton», delle note che hanno il sapore della vendetta tardiva, ricordando mille episodi in cui il Conte dette sfogo alla propria incontrollabile collera, prendendosela con chi non si poteva difendere (un cocchiere, un ragazzo del popolo, un servitore). Ma è a John William - uno dei figli di Gaetano, che si è trasferito a Londra dopo aver lasciato il servizio presso l’Alfieri e si è qui sposato con Ann Mary Pierce - che toccherà un padrone davvero satanico.
Giovane di grande ingegno, John ha frequentato le università di Firenze e di Pisa, e si è laureato in medicina a Edimburgo, appena diciannovenne. Studioso, non c’è dubbio, ma anche «bello e dannato». E cioè un tipo inquieto ed errabondo, privo di freni morali e in perpetua cerca di «anime pèrse» con cui stringere sodalizio. È così che diventa medico personale, poi segretario e probabilmente amante del satanista Lord George Byron che per gli amori particolari doveva avere una predilezione, se è vero che aveva avuto una relazione incestuosa con la sorellastra Augusta, completa di «figlio della colpa». Se Gaetano non guardava certo con compiacimento a certi tratti malvagi dell’Alfieri, il gossip biografico e massmediatico vuole che John - suicida per debiti di gioco nell’agosto del 1821 - gareggiasse in perversità col bel George. E con Percy Shelley, dolcissimo poeta, ma anche gran frequentatore dell’occulto, con annessi e connessi
Dall’alto, in senso orario: John William Polidori, Lord Byron, Mary e P.B. Shelley, Boris Karloff in “Frankenstein”, i protagonisti della saga di “Twilight”, le copertine del “Vampiro” in edizione italiana e inglese
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dèmoni e meraviglie dal profilo luciferino. I tre si trovano insieme nella famigerata «notte degli spettri» - ovviamente «buia e tempestosa» -, da datarsi con probabilità al 16 giugno 1816 (16-6-16: la «Bestia» esulta!). La cornice è quella di Villa Diodati nei pressi di Ginevra. Della tenebrosa compagnia «fanno parte anche due signore: Claire Clermont, da poco incinta di Lord Byron, e Mary, sorellastra di Claire e già madre di un piccolo Shelley, per il momento nota come figlia di Mary Wollstonecraft, che era stata la prima scrittrice femminista, e di William Godwin, il più giacobino tra i pensatori d’Inghilterra» (Giovanna Franci e Rosella Mangaroni: «Antefatto: dove si parla di nobili autori, di poco nobili contese, di un beffatore beffato e di un vampiro-dandy di sfolgorante carriera», in John William Polidori, op. cit., p. 18). Che cosa fecero quella notte da tregenda gli «scolaretti di Satana»? Ken Russell, nel suo Gothic, ha fatto propria la vulgata sull’argomento: in quella sorta di peccaminosa «famiglia allargata», nei meandri di quell’infernale notturno, nascono il Frankestein della Shelley e l’archetipo di Dracula, vale a dire il polidoriano Vampyre. Di sicuro fu Byron a lanciare la sfida: «entro un tempo brevissimo ciascuno avrebbe dovuto prodursi in un racconto terrificante». L’immaginario dei presenti si scatenò in una serie di proposte, facendo un gran chias-
so che finì con l’innervosire George, il quale alla fine si diresse verso uno scaffale, ne trasse il suo racconto Giaour in cui un vampiro faceva una fugace apparizione, lo mostrò agli amici e impose il tema decisivo: i vampiri.
Inventando sul momento «una storia che parlava di un personaggio misterioso, di un viaggio in terre lontane e di situazioni inesplicabili». E poco tempo dopo le dette un primo abbozzo, leggendone un frammento agli amici. Ma poi non portò a termine il racconto. Lo avrebbe fatto, invece, John che, licenziato proprio quell’anno dal suo bizzoso padrone (ma anche lui non scherzava, ombroso e invidioso com’era), avrebbe trasformato il frammento byroniano nel compiuto Vampyre pisano. All’inizio, si badi bene, il racconto fu attribuito a George: lo stesso Goethe, che nel Braut von Korinth aveva dato corpo a macabre leggende, ci credette e giudicò la storia bellissima. Ma, come documentato dalle due curatrici di questa nuova edizione polidoriana, Byron smentì seccamente di avere qualcosa a che fare con quel Vampiro. L’immagine del ribelle al di là del bene e del male gli piaceva, ma Lord Ruthven - il protagonista del racconto polidoriano - quanto a perfidia esagerava. Poi, il rancoroso John lo aveva con ogni evidenza modellato su di lui, e
“Vampyre” (oggi ripubblicato da Studio Tesi) fu attribuito al poeta inglese. Ma lui smentì seccamente, non solo per i suoi controversi rapporti con il vero autore, ma anche perché trovava eccessiva la perfidia del protagonista interpretare la parte del non-morto che ora fa il killer, ora sugge il sangue alla fanciulle proprio non gli andava giù. In ogni caso, i ragazzacci di Villa Diodati, al di là del diverso rango assegnato loro dalle storie letterarie, non furono davvero gratificati da una «bella morte». John, come abbiamo accennato, si uccise a causa di debiti di gioco e lo fece con l’acido prussico, dopo aver dettato un epitaffio in cui si proclamava discendente da Polidoro, nobile e infelice eroe virgiliano. Shelley morì annegato in un naufragio al largo di La Spezia nel 1822; Byron, due anni dopo, in Grecia, divorato da una febbre reumatica che si era trasformata in meningite. Mary Shelley vivrà fino al 1851, in compagnia dei suoi fantasmi, del suo Frankenstein e dei suoi miti di un uomo originariamente buono, ma poi corrotto dalla società e dalle smanie prometeiche della scienza (ma non c’era una vocazione «prometeica» anche nei suoi vecchi amici?). E, per finire, qualche «curiosità». Frances Mary Polidori, sorella di John, sposerà l’esoterista e dantista Gabriele Rossetti e sarà madre di Dante Gabriel, poeta, pittore e fondatore della Confraternita Preraffaelita. Ancora: Dante Gabriel, a Londra, dimorerà nel sobborgo di Chelsea, vicino alla casa di Bram Stoker, il papà di Dracula.
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n principio la letteratura era narrazione. Forma di racconto orale, da bocca a orecchio. Nella narrazione si svolgeva un atto rituale profondo, di reincantamento del mondo. Il narratore di storie creava un tempo parallelo, un tempo mitico, consentiva l’uscita dal tempo ordinario. Suscitava un’atmosfera, disegnava un perimetro che era quello della dimensione sospesa dove la psiche di chi ascolta le storie viene liberata e rigenerata. La lettura visiva, quella fondata sul testo, arriva più tardi, quando si diffondono prima la scrittura e poi la stampa e l’atto del leggere diventa più personale, individuale, silenzioso. Una premessa per dire che il progressivo diffondesi degli audiolibri è un ritorno alla fruizione originaria della narrazione. Un mercato in espansione, soprattutto in Gran Bretagna, in Germania, in Francia e in Scandinavia. Se in Italia insomma sono ancora in pochi a investire su questo tipo di mercato, presente ma ancora embrionale, in Europa il giro d’affari legato agli audiolibri continua a crescere, del 20 per cento all’anno. L’Inghilterra e la Germania sono le due nazioni che hanno il più grande mercato di audiolibri di tutta l’Unione Europea. Nel solo Regno Unito, la British Audio Book Publishing Association può vantare un record di vendite: nel 2006 ha infatti guadagnato 71,4 milioni di sterline mentre in Germania l’indotto è superiore a 100 milioni di euro. Mercati quello inglese e tedesco che diventano addirittura a rischio saturazione. E gli editori di questi paesi corrono ai ripari, cercando l’apertura ai paesi dell’Est dove però gli audiolibri vengono in genere ancora riservati alle persone con problemi di handicap visivo.
I
Come già accaduto nei paesi dove hanno conquistato la loro fetta di mercato, anche da noi la produzione di audiolibri andrà comunque sempre di più ad affiancarsi a quella editoriale tradizionale, spingendo magari l’ascoltatore alla lettura del libro appena «sentito», oppure andando incontro a chi vorrà sentirsi raccontare vicende lette sino a quel momento solo su carta. A conti fatti - dicono gli osservatori dei fenomeni editoriali - un efficace strumento a supporto dell’attività promozionale delle case editrici. In un’epoca fatta prevalentemente di immagini, sembra così iniziare a farsi largo uno spazio finalmente dedicato all’ascolto. La nuova tecnologia ha favorito comunque in generale la crescita del mercato europeo degli audiolibri. Internet ha semplificato la vita agli editori e ai consumatori. Ci sono audiolibri e audiolibri però. Perché un audiolibro può essere realizzato in molti modi. Il modo sicuramente più interessante è quello con cui realizza questo prodotto Claudio Carini che diffonde la sua opera con le edizioni «Recitar leggendo audiolibri». È il modo più interessante non perché sia il più originale - ci sono audiolibri realizzati addirittura con software di sintesi vocale - ma perché è quello più tradizionale, più rigoroso, più filologico, più rispettoso verso l’opera che viene affrontata.Attore di prosa dal 1973 Carlo Carini non è un letto-
Audiolibri
libri
Un fenomeno in espansione che ha radici antiche
una storia che inizia da Omero di Riccardo Paradisi co meno di un anno di lavoro per la sua realizzaizone e anche per il Canzoniere di Petrarca la lavorazione è stata molto lunga e ricca di ripensamenti e correzioni.
C’è un ritorno alla fruizione originaria della letteratura: oggi un supporto tecnologico moderno ripropone un’abitudine che viene dal passato. Così l’attore Claudio Carini, editore e voce dei più grandi classici, spiega com’è possibile “suonare un testo” re occasionale dei classici che presenta nella sua collana; da anni Carini porta infatti nei teatri spettacoli e recitals dedicati ai grandi classici della letteratura: Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Coleridge, Omero, Platone. Non solo. Carini ha dato vita a numerosi progetti e rassegne di lettura a voce. Ha fondato «Recitar leggendo» nel 2004 e nei grandi classici in cd che ha interpretato ha immesso l’anima della recitazione: un’intepretazione la sua che restituisce la forza evocativa della grande arte narrativa. Nelle sue edizioni presenta i più grandi classici della narrativa nazionale e internazionale: dai poemi omerici alla Divina Commedia, dal Decameron al Piacere di Gabriele D’Annunzio, da Senilità di Italo Svevo a Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, dal Cavaliere inesistente di Italo Calvino al Canzoniere di Francesco Petrarca. «Dietro questa mia attività ini-
ziata nel 2004 - dice Carini - ci sono oltre trent’anni di attività teatrale come attore di prosa che ha privilegiato fin da subito l’universo del suono e della parola rispetto a quello del gesto e dell’azione, eseguendo centinaia di letture di grandi classici nei teatri e soprattutto nelle scuole di ogni ordine e grado. Ecco quindi le radici della mia linea editoriale prevalentemente dedicata ai grandi classici». Un tratto fortemente personale tanto che i cd delle varie opere sono tutti registrati da Carini stesso. Un lavoro considerevole: soprattutto gli audiolibri in versi sono quelli che richiedono una maggior cura nella realizzazione. La Divina Commedia nella sua edizione integrale ha richiesto po-
Ma è utile seguire ancora quello che dice Carini a proposito del valore della lettura a voce alta di questi capolavori. «Dobbiamo renderci conto che la lettura ad alta voce non è l’ultima trovata del Ventunesimo secolo per la gioia di ascoltatori, attori ed editori, ma affonda le sue radici nel passato»: è esattamente quello che si diceva all’inizio. «Proviamo a pensare a Omero, - riflette giustamente Carini - la sua professione non era quella dello scrittore ma quella del cantore. Iliade e Odissea venivano dette e tramandate ad alta voce ma anche in tempi più vicini tutto ciò che è stato scritto in endecasillabi è stato pensato per la lettura ad alta voce. Pensiamo all’Orlando furioso, alla Gerusalemme liberata, alla stessa Divina Commedia. Insomma l’audiolibro non è altro che un supporto tecnologico moderno che ripropone un’abitudine di ascolto che viene da un passato e che oggi si sta perdendo irrimediabilmente, circondati come siamo da un mondo fatto prevalentemente di immagini». Ecco che invece l’ascolto di un’opera è anche una forma di rieducazione all’ascolto e all’immaginazione anche perché «il pensiero pur nella sua natura silenziosa prende forma attraverso i suoni delle parole. La parola pronunciata diventa fisica, sensoriale: è voce, suono. In questo modo si eleva dal semplice stato di macchia d’inchiostro sulla carta per diventare evento sonoro, musica». A sostegno di questa efficace riflessione di Carini c’è anche quella di Daniel Pennac: «Strana scomparsa quella della lettura ad alta voce. Non si ha più diritto di mettersi parole in bocca prima di ficcarsele in testa? Niente più orecchie? Niente più musica? Niente più saliva? Parole senza più gusto? Forse che Flaubert non se l’è urlata fino a farsi scoppiare i timpani la sua Bovary?». Per questo Carini preferisce dire di «suonare un testo» più che di leggerlo. E i testi che Chiarini legge effettivamente suonano con la loro musica originaria animati con la voce potente, coltivata, sapiente dell’attore che interpreta il testo dandogli vita mantenendo però un’impersonalità attiva, una partecipazione al testo la sua senza però l’inquinamento della prevaricazione soggettiva. Ha ragione chi parla di un fatto artistico a se stante a proposito delle sue opere. Perché riportare in vita il suono di certe opere è un’opera d’arte in sé.
video Barbareschi Sciock MobyDICK
tv
l’elemento in più è quello umano (a parte Corona) di Pier Mario Fasanotti
web
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circa venti minuti dall’inizio dello spettacolo, una giovane donna seduta in mezzo al pubblico fa una domanda a Luca Barbareschi: «Scusi, ma lo stipendio di parlamentare non le bastava?». Domanda, ovviamente, prevista dal copione. Spunto, per l’onorevole-attore, per spiegare le dodici puntate del suo nuovo intrattenimento serale (Barbareschi Sciock, ore 21 su La7). Risposta, pronunciata con un tono sincero e credibile: «Ho sempre amato il mio lavoro. Mi diverte. O tutti i parlamentari smettono di fare il proprio lavoro oppure ognuno è libero di farlo». Lo show è di quelli soliti, salvo per la disinvoltura e la brillantezza (sia pure mischiata da un certo istrionismo, immancabile del resto) del conduttore e ideatore. Ma bisogna riconoscere a Barbareschi di aver tenuto conto che gli anni sono passati, che anche la tv invecchia. Allora ha costruito uno spettacolo «cross-mediatico», parolone in apparenza criptico che però è facile da decifrare: durante lo show su un grande schermo compaiono i commenti in diretta. Quindi il pubblico, come si suol dire, interagisce, anche se marginalmente (altrimenti non si potrebbe fare, sarebbe una noiosissima assemblea). Parimenti Barbareschi mette in onda filmati, estratti dalla televisione nazionale e internazionale, dalla pubblicità e daYouTube. Un salto in avanti, indubbiamente. È la commistione, che nella realtà quotidiana dei consumatori di immagini e parole, esiste già. Dicevo tuttavia che lo schema è «il solito». Ospiti, domande e risposte, una band musicale (stavolta pugliese: omaggio alla moda che esalta questa regione) che fa stacchi, ballerine (originali e, meno male, poco veline). L’elemento in più è sempre quello umano: Barbareschi, pur con concessioni al gigionismo teatrale, sa tenere il timone, non fa domande banali, è capace di sorridere e far sorridere. Peccato che la scelta degli ospiti sia stata, nella prima puntata, di-
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games
TUTTI I FILE VENGONO AL PETTINE
IL VERO DERBY? FIFA CONTRO PES
e un clic maldestro vi ha sottratto all’affetto dei vostri file più cari, niente paura. La soluzione si chiama Recuva, utility freeware che ripristina documenti cancellati per tragico errore o proditoriamente assassinati da qualche virus in vena di sabotaggio. Utile nel rovistare il cestino di Windows, o persino hard-disk che sono stati riformattati, il programma si mo-
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“Recuva” è un’utility freeware che consente il recupero di documenti perduti o cancellati stra efficace anche nel recupero da periferiche rimovibili, schede di memoria, fotocamere digitali e lettori mp3. Per niente ingombrante, e dotato di indicazioni di utilizzo molto chiare, Recuva può essere lanciato alla ricerca di file specifici singoli, o gruppi di file suddivisi per settori (file audio, video, documenti di testo, immagini). In aggiunta, il programma è del tutto gratuito e consente la definitiva cancellazione di quei file che invece devono restare perduti per sempre. Disponibile per Windows, ha un’interfaccia molto semplice, ed è assortito da una vasta gamma di lingue. Il vostro pagliaio non è mai stato così pieno di aghi.
scutibile. Ha invitato il pugile Mike Tyson (ma quanti soldi sono stati spesi per farlo venire in Italia visto che è uno che chiede un dollaro per ogni gesto che fa?). Francamente un’apparizione noiosa, troppo lunga e scontata. Si è andati dall’orecchio morsicato del pugile-avversario alle origini sociali (povertà), dal riformatorio con un grande maestro italo-americano, fino alla sua conversione all’islam, che pare gli abbia dato stabilità emotiva e sociale. A Tyson è stato chiesto di commentare le immagini del crollo delle Torri gemelle di NewYork. La risposta non è stata stupida: «Certi islamici non rappresentano l’intero islam, come Buscetta non rappresenta l’intera Italia». Lo spettacolo è passato da un inizio frizzante a un seguito volutamente e forzatamente frizzante, con una Serena Autieri nei panni della bella che aspira a essere anche cattiva (o «zoccola», come si è autodefinita). Poi è arrivata la parentesi che ha concesso molto al cattivo gusto con l’entrata in scena di Fabrizio Corona, super tatuato, aria tra il risentito e l’arrogante. Di più non voglio dire, a rischio di querele: del personaggio ho un’opinione negativamente precisa. In quel contesto Corona, affamato di avventure, pure quelle carcerarie, ha spiegato la sua «ribellione» alle istituzioni: «Non credo e non rispetto la società italiana». Battuta contro le tasse (ma che novità!) e la frase «ora mi prendo le mie rivincite» (dopo l’assoluzione al tribunale di Potenza). Il fotoreporter - pardon l’imprenditore, come ha specificato lui, accigliato - e l’attore-parlamentare sono entrati in una vasca. Una gag, che poco, anzi nulla, ha aggiunto alla trama dello spettacolo. La presenza di Corona è stata marchiata da scritte sullo schermo elettronico, probabilmente invenzione o comunque interpretazione del pensiero di gran parte del pubblico: «bastardo», «paraculo», «tossico». Insomma, Barbareschi intendeva andare controcorrente. Ma in quale fiume? Nello stesso in cui Corona nuota a proprio agio, dicendo le stesse cose, a se stesso (in primis) e a tutti. Somma questo e somma l’altro, la comparsata è stata penosa. Oltreché inutile. Speriamo nelle altre puntate. Anche perché abbiamo visto pochi giorni prima su Rai 2 (Palco e contropalco) brani teatrali in cui Luca Barbareschi mostra tutta la sua bravura.
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I VOLTI DI BAGHDAD
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a un paio di mesi, tra gli appassionati della console si consuma una sfida nella sfida. Da un parte i sostenitori di Pes 2010, dall’altra i fan del nuovo Fifa. Mai come quest’anno, complici i netti passi avanti del game Ea, il dilemma si presenta complesso. E se gli habitué di Pro Evolution esaltano la giocabilità quasi arcade del loro titolo, fatta di rapidità, colpi spettacolari e grafi-
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Gli appassionati della console si dividono: amanti del calcio spettacolo contro realisti
Balsamo e Scialotti raccontano i civili iracheni in un teso reportage fuori dalla retorica tv
ca minuziosa, gli amanti di Fifa 2010 sottolineano invece il realismo della Electronic Arts, improntato su una fisica del pallone rigorosa, sugli equilibri precari che influenzano le giocate, e una maggiore fatica nel mettere a segno l’assist giusto o la combinazione vincente. Una disputa che mette in campo due opposte filosofie ludiche: l’una, volta alla spettacolarità, che fa del ritmo e della ripetitività fonte di divertimento. L’altra, quella faticosamente elaborata dal nuovo Fifa, incentrata su lacrime e sudore. In console come sul rettangolo di gioco.
sone che sono le vere vittime di una guerra». Mario Balsamo racconta così l’origine di Sotto il cielo di Baghdad, bel documentario italiano di cui è regista insieme a Stefano Scialotti. Finalista del premio Libero Bizzarri, il reportage realizzato dai due è uno spaccato di guerra, che non si indirizza su di essa, ma su quanti la subiscono. Quelli che nei notiziari vengono definiti «civili»: bambini, donne, anziani costretti a rivisitare usi e costumi, sospesi tra il bisogno di normalità e il terrore della fine. Un racconto corale, che più delle bombe e degli assalti, sa restituire alla tribù mediatica, l’autentico portata di un conflitto armato che va oltre la retorica del bon ton televisivo.
a cura di Francesco Lo Dico
iamo andati a Baghdad prima di quest´ultima guerra. Ci siamo andati perché volevamo renderci conto di che faccia avessero gli iracheni. Di quale vita conducessero. Di cosa pensassero. Di come sopravvivessero dopo dodici anni di embargo. Siamo andati a Baghdad perché i media non ci hanno mai mostrato che volto abbia la gente di Baghdad. Cioè di quelle per-
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poesia
Bonnefoy e la certezza dura della pietra di Roberto Mussapi na storia straordinaria, affiorante come da un mito, da un sogno d’infanzia che ritorna in età adulta, o da un vecchio film in bianco e nero all’improvviso rammemorato guardando altro, magari alla televisione… Un’immagine che scatena la pienezza simbolica di un ricordo, pochi precisi dettagli, tutta la potenza simbolica, ma non i contorni esatti della storia. Un prodigioso esempio del modo poetico di Yves Bonnefoy, storie cosmologiche immerse nel divenire quotidiano, che mentre appare già svanisce. E, unica certezza, unica cosa vera, e dura, che resiste al tempo, la pietra. Non una lapide in un muro, ma una pietra, una forra, un assoluto che il piede, passando, spingerà sempre più in basso. In basso cioè lontano dal cielo, certo, ma verso il profondo della terra, il luogo dell’incandescente maturazione della realtà che poi affiora sulla superficie del mondo. E su tutto la disperata invocazione leopardiana, di un poeta, Bonnefoy, che ha supremamente tradotto Leopardi in francese: «Comprenderai che sogni, che speranze… ?». Da Movimento e immobilità di Douve, uscito nel 1953, esordio leggendario nella poesia del secondo Novecento, da quel potente debutto, la poesia di Yves Bonnefoy pare progressivamente distendersi, abbandonando la dura conflittualità interna del primo libro per un più fluviale manifestarsi del suo dinamismo, configurandosi nel suo insieme come un canto magico e sfaccettato, pensiero alchemicamente tramutato in immagini che, nella loro nitida perlustrazione del mondo, si diramano da un nucleo arcaico, elementare. Perché mette in scena gli elementi primi: il fuoco della Fenice, della conoscenza, della visione, l’aria dei tanti voli enigmatici e delle terrazze sospese come occidentali tappeti volanti sul mondo, l’acqua dei fiumi, dei canali e dei fossati che cingono le città murate, l’acqua che genera, specchia e segna la soglia, la terra nei suoi due frutti, la creta che la mano dell’uomo plasma e la natura vegetale, il folto delle ombre, la zona linfatica del mistero dell’essere. Cerva smarrita o in corsa nel bosco, fiumi dove si specchiano i voli degli uccelli, pietra su cui il tempo sancisce le fondamenta genetiche della parola.
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UNA PIETRA Ha voluto che la stele dove incidere i pochi segni che tentassero di dire ciò che è stato fosse solo una di quelle pietre che rotolavano sotto i suoi piedi quando ancora bambino discendeva i declivi di una forra che ha amato. Segni, indiscernibili da quei marchi che rendono, per esempio, ogni pietra come la lastra di arenaria, unica e insieme identica a ogni altra. E questa pietra sua, perché rotoli in quella forra che significò per lui ogni bellezza, ogni verità. Eccola, in fondo, accanto al torrente, tra altre pietre. Se ce ne è una la noterai, passando? Comprenderai che sogni, che speranze, queste parole di lingue di altri mondi, si leggono, lì, nelle tracce che lì hanno lasciato il gelo, la pioggia, la folgore? Tu premerai col piede questo assoluto ancora più in basso. Yves Bonnefoy (Traduzione di Roberto Mussapi)
Se la poesia di Yves Bonnefoy è anche un lungo racconto, è il racconto della cosmica conflittualità degli elementi, che lascia a lato la sfera della psiche: Bonnefoy non indaga il mondo psicologico e sentimentale dell’uomo, ma le forze che gli corrispondono nella natura naturans, nelle energie primordiali, nelle fibre e nel volto del pianeta. È subito, radicalmente oltre il radicalismo nichilista in cui sfocia l’estenuato quanto esasperato antropocentrismo della letteratura della crisi: oltre, insomma alla grande messa in scena psicologistica e solipsistica delle ultime epopee della letteratura borghese, gli incubi di Kafka, le visioni autogene di Proust, i deliri meccanicistici dell’Ulisse di Joyce. I grandi poeti del Novecento, vincendo la tendenza radicalmente smitizzante del secolo, creano naturalmente una loro mitologia: la Torre, l’Alchimia, Bisanzio in Yeats, la Creta e l’Onda e la Scogliera in Thomas, la Terra Desolata e la Rinascita nell’acqua in Eliot, i Fiumi in Ungaretti, il Fuoco della metamorfosi e l’Asce-
sa celeste in Luzi, per fermarsi agli esempi più celebri. Analogamente Bonnefoy propone un proprio mondo di miti rifatti vivi: la rivoluzione copernicana e l’età di Galileo, Roma barocca e il teatro di Shakespeare dove nella stoffa dei sogni sono tramate storie perse, una continua presenza di esseri, creature nitide e impalpabili che appaiono e scompaiono come nel bosco del Sogno shakespeariano, la presenza corrente e inafferrabile dell’acqua e, per contrasto e anche salvezza, la certezza dura della pietra, il luogo del persistere… Nel cuore della battaglia ma estraneo al suo strepito, vale a dire al suo silenzio, Bonnefoy assume e capovolge un’età i crisi facendone propri gli elementi agonici, ma nello stesso tempo nutrendoli per una felice, continuamente riuscita, rigenerazione. Se Bonnefoy è uno dei grandi poeti del Novecento e del Duemila insieme (perché dei due secoli e millenni comprende e affronta lo spirito espresso e latente), è anche probabilmente il maggior intellettuale europeo vivente. La sua poesia è anche un lungo racconto, è il racconto della cosmica conflittualità degli elementi, che lascia a lato la sfera della psiche: Bonnefoy non indaga il mondo psicologico e sentimentale dell’uomo, ma le forze che gli corrispondono nella natura naturata e naturans, nelle energie primordiali, nelle fibre e nel volto del mondo.
Bonnefoy, il traduttore di Shakespeare, il traduttore del teatro del mondo, ha curato un dizionario dei miti (Dictionaires des mythologies et des religions des sociétés traditionelles et du monde antique), e un’opera del genere sta al teatro shakespeariano come l’altra faccia della medaglia, o, meglio, come lo scheletro sta al corpo. L’amore per l’arte, che si esprime in saggi memorabili, rivela l’attenzione del poeta a quel movimento con cui l’uomo esce dalla condizione primitiva del conflitto che lo agita sigillando una forma, replicando un gesto di creazione avvenuto in origine e offuscato nella memoria dalle nebbie delle ere. Partito da studi logici e matematici, passato a quella diversa indagine del reale che è la poesia («scienza nutrita di stupori», secondo una memorabile definizione di Piero Bigongiari), Bonnefoy si rivela come uno dei pochi poeti occidentali che, al termine del secolo della crisi, delle avanguardie, dell’ansia, affida alla ricerca poetica una missione conoscitiva profonda, non consolatoria, non laterale, non ancillare, chiedendole di interrogare non i sintomi di un disagio ma la realtà del mondo. Realtà che sfugge, secondo la fondamentale lettura di Starobinski: «Non è di una dimensione d’immaginario che Bonnefoy prova la necessità per salvaguardare il fuoco necessario alla vita, ma di una realtà semplice, piena, portatrice di senso, di una terra, dirà con insistenza». Dalla rivoluzione galileiana in poi il mondo è stato progressivamente sottratto alla sfera religiosa e sottomesso alla legge del numero. Desacralizzata la realtà, che un tempo obbediva a una pulsante anima mundi, il sacro si è confinato nello spazio interiore, e la poesia, rinserrata in quell’ambito, ha iniziato a interrogarlo, preparandosi a ritornare nel mondo, a recuperare la realtà.
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il club di calliope Tutto il mio pensare è nel guardarti: le mani aperte in crepe come zolle di una terra assetata, la vergogna che cuce ruvida una gioia folle sugli occhi asciutti, ai piedi scalpitanti, tra le cieche fessure dove i lutti si avvinghiano a una sempre nuova nascita. Ma ottuso e sterile il mio corpo al tuo riannoda il mezzogiorno: entrambi sanno che cresce l’euforia sullo sgomento. Tutto il tuo guardare è nel pensarmi vivo e morto in un unico momento.
UN POPOLO DI POETI Siamo dentro questo soffio Di fede in una vena d'amore, Siamo nella spiaggia del sole, Nel velo di luce, Un canto dolce che giunge Col vento di questa stagione, E ci fa stare vicini Insieme tra le verdi colline Che vediamo dal treno, Nella piana di pace c'è la speranza Che tutto ora non si fermi.
Mary Donci
Matteo Marchesini
NELLE STANZE SEGRETE DEI GIORNI in libreria
di Nicola Vacca ella poesia si sente il bisogno di una parola «chiara» che sappia enunciare l’autenticità di quello che accade. Troppo spesso l’ego del poeta prevale su ciò che scrive, finendo per raccontare troppo di sé e poco della vita, l’unico motivo per cui vale la pena scrivere versi. Silvia Venuti con Oltre il quotidiano (Moretti & Vitali, 109 pagine, 11,00 euro) ci regala una sincera e semplice lirica dell’esperienza scritta con le parole che ogni giorno ci diciamo. La poetessa scruta nella profondità delle cose, ma è attenta al loro significato quando annota sul suo taccuino i giorni che scorrono attraverso la sua poesia. In presa diretta con gli «strapiombi del sentire» l’oggi appare
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pace». Davanti al nulla dell’«alfabeto della vita», la Venuti non rinuncia agli occhi interiori dell’anima per scoprire sotto la cenere dell’inverno freddo il risveglio possibile, che il presente con le sue perdite sembra negare. La sua poesia ha una fisicità sconvolgente, perché avverte la precarietà delle cose, sente il disagio dell’inadeguatezza e dell’irrisolto, ma fa sempre i conti con la vita, mettendo nero su bianco la piccola storia del quotidiano nella quale siamo tutti coinvolti. «Mi rimane della vita/ un frammento di specchio/ entro cui guardo i miei sogni./ Come me, mai nessuno prima,/ mai nessuno dopo./ La mia unicità,/ come le foglie, gli uccelli e i fiori,/ è forza per essere senza esempi/ e sensi
È una poesia dell’esperienza quella di Silvia Venuti, di cui esce la raccolta “Oltre il quotidiano”. Una parola chiara, tesa all’enunciazione di quello che ci accade per quello che è: una contraddizione tra il compiuto e l’incompiuto. Si comincia dalla fatica di vivere ogni giorno a cercare il senso di tutto. Tutto deve accadere e non bisogna mai smettere di fare i conti con il groviglio dell’esistere che nasconde sempre una ricchezza oltre le sue sembianze reali. Consapevole del travaglio del mondo, Silvia Venuti supera il conosciuto e scrive senza barare: «Se la vita ha un senso/ dipende da chi la vive». A cuore aperto, la poetessa afferma che dietro l’inganno del vuoto c’è sempre l’incapacità di essere noi stessi (né nel chiedere/ né nel dare). Per sconfiggere il nulla, l’imperfetto e l’incompiuto «basterebbe alzare lo sguardo un po’oltre/ sopra il proprio bisogno/ per osare la
di colpa./ Siamo così lontani dalla perfezione/ come da Dio». Il verso è netto e ben scandito (come osserva giustamente Giorgio Bàrberi Squarotti nella postfazione), e non ci sarebbe da aggiungere altro davanti a questa pagina di poesia pura che racconta con essenzialità cristallina le ragioni della vita e le sue ferite, che entra nelle stanze segrete dei giorni nei quali consumiamo spesso gli affanni, senza chiedere conto all’anima di quella parte senza tempo che potrebbe metterci in simbiosi con il creato. Non facciamo sicuramente un torto a Silvia Venuti, se le diciamo che la sua poesia fa bene al cuore, e che accettiamo la sua sfida di «trovare sempre/modi diversi d’amare la vita/ dolore dopo dolore».
Nascono le onde nel lume che mi accompagna, sul metallo che mi specchia un ricordo, nel taglio della luna, nel verde del cielo, la forgia che modella il tempo, che specchia le sere sul viso degli anni.
Simone Velli
Spalanco la porta e vedo scale e scale fiumi di pietra, e vaga quella donna senza nome spossata mentre invano scruta, e lo sguardo fissato con collezione di lacrime sovrasta il monte del vento, armati di freddi giacigli spalma il tempo il suo campione di ansie, la via è stadera e silenzi.
Piero Rinaldini
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
Bacon-Caravaggio un cheek to cheek
impossibile di Marco Vallora
ontinuano a giunger mail entusiastiche sulla partecipazione-monstre del pubblico al match Bacon-Caravaggio, nonostante le entrate contingentate alla Borghese: e ci mancherebbe (non si sputa su un piatto così ricco)! Ma sarebbe curioso conoscere il parere schietto di questi 195 mila intervenuti alla mostra appena conclusa, perché qualche perplessità nel mondo critico s’è avvertita (magari sottovoce, per diplomazia) e io pure confesso che non ho voluto guastare la festa, con una sostanziale opinione contraria. Ritegno: non soltanto perché la mostra l’hanno organizzata persone amiche e valenti, ma perché, senz’ipocrisia, uno può anche riconoscere e apprezzare l’alea d’una scommessa così ardita e sontuosa, ed esser grato alla convergenza davvero sorprendente d’opere autorevoli, persin troppo (addirittura la Madonna dei Pellegrini in pellegrinaggio, via dalla sua nicchia chiesastica!) ma poi, alle prove dei risultati, il responso è no, proprio «non c’azzecca» (giudizio ovviamente personale). Né credo che in queste ore i due pittori abbian troppo sofferto, per questo allontanamento, anzi. Giusto provarci, dunque, molto meno perseverare, nell’entusiasmo. Del resto persino le schede a muro, ben redatte, ma non sempre convincenti, qualche dubbio già lo insinuavano. Ed è curioso che si portasse a prova paradossale del confronto, proprio il fatto che Bacon, assai sedotto dall’arte antica, da Gruenewald a Michelangelo (come ha ben dimostrato Luigi Ficacci, uno dei complici di quest’operazione) da Duerer a Velazquez, non abbia mai dimostrato simpatia per Caravaggio. E ci sarà pure una ragione, che «fisicamente» del resto si respira, in questo rapporto di convivenza che non quaglia, nemmeno a contrasto. Non è una posizione retriva, la nostra: ben vengano i confronti antico-moderno, per carità, anche se oggi se ne abusa, con cedimenti (vedi pure la mostra di Corot) da décorateurs alla Saint-Laurent, arte tribale+Mondrian+Renoir. Qui è ovvio, che tutto è pensato e calcolato, come dimostra il denso catalogo Motta. Ma il
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arti
rischio, e lo si vede soprattutto nei deludenti saggi anglosassoni, è che il vero confronto si bruci in un parallelismo biografico e superficiale: scapestrato con scapestrato, omofilo con omofilo, tanghero con tanghero. Si legga Stephens: «Molti degli elementi in comune sono assolutamente evidenti. La vita d’entrambi fu anticonvenzionale, licenziosa e violenta».Ahi, parallelismo rischioso e di sola superficie, che certo dev’aver fatto scattare la trappola espositiva. Poi, hai voglia a trovare altre ragioni, più sotterranee, la dialettica non manca, ma buon occhio non mente. I saggisti italiani son ben più capziosi e loici, ma si legga per esempio il profondo e ragionato saggio di Ficacci. A nostro parere è impressionante, ma tutte le tesi che porta, citando Venturi, Longhi, Argan, sembran contraddire l’assunto, creando vieppiù jato, tra i due pittori: incolmabile. E poi basta guardarli (se il puro-visibilismo ha ancora un minimo d’autorevolezza istintiva, in un’occasione così stretta, di cheek to cheek danzante). Uno, Caravaggio, per quanto dinamico e pulsante, è tutto catafratto in se stesso, chiuso in quelle «pose» folgoranti, di cui ha parlato Venturi, e per cui Longhi ha addirittura disturbato la metafora moderna dello spot. Ogni linea dinamica converge verso un centro ottico, abissale, che condensa e pietrifica.Tanto Bacon è invece centrifugo e disfatto, sfugge così, cinematograficamente, eizensteinianamente, al fuoco folgorato d’una fluente s-vita, intrattenibile. Che ha talvolta bisogno d’una gabbia esteriore, citata, per contenere quel disfacimento d’anatomie, per ghermire il fotogramma che esplode. Basterebbe questo a renderli incompatibili: non è solo il burrone del tempo a renderli nemici, nelle forme e nel sentire, ma è che son due tipi junghiani opposti, ed è difficile impedirli di boxare rabbiosi nelle nostre pupille, disturbandosi a vicenda. Certo, «il solo modo per comprendere l’arte antica è quello di farla partecipare alla vita artistica nostra», aveva proposto Lionello Venturi, in un ben preciso momento storico. Ma non si può oggi altrettanto costringer Bacon a partecipare a un mondo antico, che non sente suo: quello della compattezza anatomico-muscolare, della fonte di luce fissa («lume d’una fenesthra sola») mentre il chiarore invasivo di Bacon è luce diffusa e ghiaccia di neon, senza fonte agguantabile. Appunto: Caravaggio «provava» i suoi tableaux vivants nel riflesso d’uno specchio nero, perché tutto convergesse in un fuoco. Bacon usa gli specchi vuoti, ed esige vetri, sulle sue tele, per accogliere il mondo che passa: per sciogliere nell’acido le forme. Bacon rifiutava di vedere dal vivo il Papa Innocenzo diVelazquez (che ha così straordinariamente ingravidato, nella sua pittura) perché odiava i contatti. E lo obblighiamo a convivere, coniugalmente, con Caravaggio? Che «nominava» le cose, dixit Argan. Bacon le sbattezza. E ringhia: perché quella perfezione magnifica, lo irrita. È solo altra pittura.
diario culinario
Il vero sushi (puro e duro) si mangia a San Lorenzo di Francesco Capozza erto che a Roma mancano i giapponesi puri e duri. Oh, di giapponesi ce ne sono, per carità. Meno che nelle altre capitali europee, certo, ma ce ne sono. Anzi, c’è pure la scelta: abbiamo il giapponese bas de gamme, quello per studenti s’intende, che costa poco ed è proporzionalmente (poco) buono, poi ci sono quelli più recenti, col kaiten (quel nastro che trasporta fin sotto al vostro naso i piattini di sushi e di qualsiasi altra cosa), e poi ci sono tutte quelle derive che hanno a che vedere con barconi di legno e con i californian rolls e derivati, quei maki snaturati secondo la moda americana, pieni di salse unte, quelli che un giapponese piuttosto preferirebbe un bel harakiri (che non è un drink a base di saké e di liquore di cocco). E poi
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ci sono i giap in versione take away (con fettine di pesce che vi aspettavano pazientemente, dal mattino, sotto i neon del negozio) e infine, terrore di ogni gastronomo occidentale o asiatico che sia, ci sono i locali giapponesi di design, quelli dove se proprio vi va di lusso troverete, a mo’ di decorazione sui vostri sushi, delle uova di pesce di tutti i colori (verde fluorescente incluso). Il gusto, in questi casi, è un optional abbondantemente trascurabile. È anche doveroso segnalare che qui, nella meravigliosa città di Roma, la sorte di qualsiasi sushi restaurant degno di questo nome è seriamente compromessa a priori poiché proprio qui la gente si ostina a pensare che può, anzi deve mangiare del buon pesce a poco costo. Beh, il buon pesce costa, e visto che ci tenete proprio a mangiarlo crudo (certe mode non passano mai), sarebbe meglio lasciar per-
dere certi preconcetti. Detto tutto questo, un sushi romano serio l’avevamo già trovato, si chiama Hasekura e sta in Via dei Serpenti. Ora ne abbiamo trovato un altro. Si chiama Sushi Ko ed è in Via degli Irpini, una strada tutta «sanpietrinata» a San Lorenzo, senza marciapiedi e nemmeno insegne e dove le macchine passano solo per parcheggiarci. Sushi Ko non è un ristorante ma un circolo culturale. Anzi è, aggiungiamo, un circolo dedicato alla cultura del pesce in salsa giapponese. Cioè senza salse. Poche balle quindi, ma dei sushi e dei sashimi. Proprio a esagerare potete chiedere una ciotola di miso con cubettini di tofu, o una tempura. E basta. Come si entra da Sushi Ko si avverte l’odore del pesce. Non è quell’odore di mare, di scoglio, di alghe e d’idrocarburi che si sente davanti alle mostre di certi ristoranti del centro, no. Questo qui è il
profumo pulito, etereo e penetrante della di polpa di pesce, di quella linfa che si appiccica al coltello quando si taglia. Un menu essenziale, un bancone, una decina di tavolini, il tutto in un locale piccolino ma curato. Un viaggio in Giappone, pardon, a San Lorenzo, per scoprire come può essere buono il sushi, quando il riso è preparato nel modo giusto (né troppo appiccicoso, né slegato, né indigesto); quando la proporzione fra pesce e riso è equilibrata e il pesce tagliato al momento, a fettine piuttosto spesse, morbide e voluttuose, con una punta di wasabi che non è invadente ma ne sfuma appena appena il sapore; quando la salsa di soia che accompagna il tutto non è quella salatissima e densa che troppo spesso s’incontra.
Sushi Ko, Via degli Irpini 8, Roma, tel. 06 44340948
MobyDICK
30 gennaio 2010 • pagina 15
teatro
Giocando senza barare al gioco della vita
a vita in fondo è un gioco scandito da tappe obbligatorie. Due uguali per tutti: la nascita e la morte. Le altre libere, ma non troppo. A meno di essere degli outsider. Poi, quando meno te lo aspetti Game over, fine del gioco. Ilaria Gelmi e Elisa Turco Liveri propongono la loro personale riflessione partendo proprio da qui. C’è chi gioca per vizio e chi per perdere tempo, chi lo fa da solo e chi in compagnia, chi studia per anni e chi si affida alla fortuna. Ci sono i giochi di ruolo e quelli di società. Ognuno ha le sue regole: in alcuni vince chi totalizza il maggior numero di obbiettivi, in altri chi per primo raggiunge il traguardo, ma anche chi mangia l’altro. Per tutti, si sa, il tempo è aguzzino. Scorre implacabile, consuma secondi, macera i giorni, li riduce in pappetta per restituirci come ricevuta del loro effettivo trascorrere rughe e pieghe indesiderate. La maggior parte di noi spende altro tempo prezioso (oltre a un sacco di soldi of course) per cercare di fermarlo e limitarne i danni. Tempo speso male, lasciato colare senza guadagno. Tempo incastrato, schiacciato, compresso tra un obbiettivo e l’altro di un gioco più grande di noi. Uno spreco di vita che non può fluire libera, un frenetico tip tap cadenzato dal battito cardiaco. Svariate le fonti d’ispirazione dichiarate che hanno condotto alla scrittura: Foucault, Borges, Beckett, Carrol, Hende… per
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di Enrica Rosso arrivare alla creazione di un linguaggio personale che ha l’andamento ondivago delle emozioni. Si susseguono frammenti, si tracciano ipotesi di percorsi, si cominciano mille giochi che a mano a mano introducono personaggi appena abbozzati. Scuse tangibili per governare la storia e continuare a giocare anche se le regole sono sempre più restrittive: «…non si può uscire dal cortile, non si può uscire dalla stanza, non si può uscire dal quadrato». Ma il tempo incalza e bisogna passare al livello superiore. Segnali sonori indicano che bisogna fare in fretta e bene. Per ricostruire visivamente la gabbia scenica
le due autrici-interpreti, gessetto alla mano, delimitano il palco in quadrati concentrici e vi si incarnano pedine di opposte fazioni, identiche nella voglia di guadagnarsi la vita. Cinquanta minuti in cui tutto è permesso tranne barare. Vince chi ha più riserve fantastiche, chi non molla e non si fa inghiottire dalla routine. Il trucco in fondo è sempre lo stesso: non svendere a nessun costo neanche un nanosecondo della propria unica, irripetibile esistenza, irrigidendosi in un ruolo dato per scontato che offusca la visione d’insieme e toglie lucidità. Ben consci però che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Formatesi in tempi diversi, ma con percorsi che raccontano per ognuna di loro la necessità di trovare una struttura in cui corpo e voce siano entrambi fortemente protagonisti, le due autrici si sono scelte definitivamente l’anno scorso. Solidamente complici si danno con slancio, a turno vittima o carnefice, di gioco in gioco, fino alla fine. Game over è il loro primo esperimento prodotto dall’Atelier del Meta-teatro nell’ambito di un progetto di appoggio ai giovani. Comunque, se conosci le regole e stai al gioco ce la fai. E magari sei tra i fortunati che ripassando dal via ritirano un bel po’ di soldini.
archeologia
Game over di e con Ilaria Gelmi e Elisa Turco Liveri, Roma, Atelier del Meta-teatro fino al 31 gennaio, Info: 06 5814723 www.ateliermetateatro
Tre secoli di Splendore alla corte dei Ming
el 1368, il contadino Zhu di Rossella Fabiani Yuanzhang libera la Cina dal giogo mongolo. Sceglie per sé le sue due spose. Corone recuperate presi nel complesso cimiteriale delle il nome di Hongwu e dà il via durante uno scavo archeologico. Tra il Tombe Ming, situato nel distretto di all’epopea dinastica dei Ming. Tre se- 1956 e il 1958, infatti, il governo della Changping, una cinquantina di chilocoli che passano alla storia come il Se- Repubblica Popolare promosse l’e- metri a nord-ovest di Pechino. Il monucondo Rinascimento del Celeste Impe- splorazione di uno dei mausolei com- mento funerario prescelto, oggi conoro e che ora rivivono in una sciuto con il nome di Dingling grande mostra allestita a (Sepolcro Sotterraneo), è una Treviso fino al 9 maggio. Alcostruzione grandiosa, che si la Casa dei Carraresi, nella sviluppa su oltre mille metri città veneta, entra in scena la quadrati, e che offrì agli scodinastia Ming (il cui ideopritori uno spettacolo straorgramma significa Splendodinario. Superata una serie di re), che salita al potere nel monumentali porte di marmo, 1368, diede alla Cina 16 imarcheologi e operai ebbero daperatori che regnarono per vanti agli occhi una visione 276 anni. In poco meno di tre paragonabile a quella della secoli si succedono persocamera funeraria di Tutankhanaggi che lasciano segni immon: centinaia e centinaia di portanti del proprio regno, oggetti (in tutto furono recufra i quali spicca la creazioperati più di 4 mila reperti) e ne della Città Proibita di Pegli imponenti sarcofagi della chino, alla quale la mostra I famiglia regnante. Il tutto in segreti della Città Proibita. uno stato di conservazione ecMatteo Ricci alla corte dei cellente. All’indomani del reMing rende omaggio e di cui cupero, dell’inventariazione e costituisce uno dei capitoli dei necessari interventi di repiù importanti. stauro, il corredo funerario è Oltre ai ritratti dei 16 impestato dichiarato bene di interatori Ming, protette da una resse nazionale e in parte teca di cristallo sono esposte esposto nel museo-caveau realizzato all’interno dello le corone imperiali di Wanli stesso complesso cimiteriale (tredicesimo imperatore dei Ming. E, perché le corone Ming, al potere dal 1572 al abbandonassero temporanea1620), e di Xiaojing, una delL’imperatore Wanli al potere dal 1572 al 1620
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mente la loro «casa» è stato necessario il pronunciamento del Consiglio di Stato cinese che, in via del tutto eccezionale, ne ha autorizzato la trasferta. Mai prima d’ora, infatti, le corone di Wanli e Xiaojing avevano abbandonato il museo-caveau del Sepolcro Sotterraneo. La corona di Wanli è in filigrana d’oro, mentre quella di Xiaojing unisce materiali diversi: oltre all’oro, ci sono perle (più di 5 mila), pietre preziose e persino inserti di piume di martin pescatore. Entrambe lasciano abbacinati. Poco oltre le corone, troneggiano alcune porcellane Ming, una delle produzioni più celebri di tutto l’artigianato cinese che, una volta svelata agli occidentali, divenne una vera e propria febbre: possedere uno di quei vasi dipinti di blu fu l’imperativo di tanti collezionisti. Accanto a questi tesori, c’è anche quello della produzione artistica, in particolare della pittura: le opere esposte sono una base preziosa per lo studio dei costumi della società dell’epoca. Sbalorditivo il modello in scala 1:200 della Città Proibita realizzato in legno di paulonia che riproduce l’ambiente cosmico creato per la famiglia imperiale. E dopo corone gioielli e stoviglie preziose, la mostra accenna alla straordinaria avventura di Matteo Ricci, gesuita maceratese che, con l’intento di convertire al cristianesimo l’Imperatore della Cina, giunse nel Celeste Impero nel 1582.
pagina 16 • 30 gennaio 2010
i misteri dell’universo
ontinuiamo qui, dopo il precedente articolo (vedi Mobydick del 5 dicembre 2009, ndr), nella presentazione di studiosi medioevali del mondo islamico, importanti in particolare per i contributi nel campo astronomico. Sempre tagliando i lunghi nomi, Al Battani, in Occidente Albatenius, nacque verso l’850 ad Harran, luogo associato ad Abramo, antichissima città dell’attuale Turchia meridionale, la Carrhae dei Romani, dove l’arrogante e ricchissimo generale romano Crasso fu sconfitto dai Parti. Morì vicino a Samarra in Iraq ottantenne, età a quei tempi inusuale e segno che la pratica dello studio aiuta a vivere a lungo, come la pratica di arti quali il canto… Fu il maggiore astronomo del suo tempo. Aveva ereditato l’interesse per il cielo dalla famiglia, appartenente a una setta dedita all’osservazione delle stelle. Le sue scoperte lo qualificano superiore a Tolomeo, e anche a Copernico per quanto riguarda la tecnica di determinazione del moto solare (in questo forse facilitato dall’operare a una latitudine inferiore). Aveva sviluppato una strumentazione senza confronti al suo tempo che gli permise di determinare le orbite dei pianeti con una precisione mai vista. Determinò la lunghezza dell’anno in 365.2405 giorni, che rispetto a quella nota ora di 365.2422 ha un errore inferiore al decimillesimo. Stimò l’obliquità dell’asse di rotazione sul piano eclittico (dove giace l’orbita terrestre) in 23°35’contro la stima attuale di 23°30’. Produsse un catalogo di 500 stelle, riferite all’anno 880, apprezzato da Keplero e Galileo. La sua opera principale, Kitab al-Zij, fu tradotta dopo un paio di secoli in latino come De scientia stellarum, e fu fondamentale riferimento in Occidente sino al Cinquecento.
MobyDICK
ai confini della realtà tali (e chi scrive accoppiando moto di rotazione e di rivoluzione è arrivato a una spiegazione di quella possibile inversione dei punti in cui il sole sorge e cala, citata da Erodoto e Pomponio Mela, ma vedasi anche il Corano, Sura 70, verso 40, dove Allah è glorificato come Signore degli Oriente e degli Occidenti).
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Passiamo ora a uno studioso da porre ai primissimi posti della cultura umana, per la vastità e la profondità dei suoi contributi, ovvero, onorandolo con il suo nome completo, Abu Rayhan Muhammad Ibn Ahmad al Biruni. Kamal Salibi, grande storico del mondo arabo del secolo passato, mi ha scritto in una email che da giovane lesse gran parte di questo autore, restandone affascinato dalla vastità delle sue conoscenze. Al Biruni nacque anche lui nella regione del Kwarizm, nel 973, e morì non lontano dagli ottanta a Ghazna, in Afghanistan. Ghazna città di grande cultura, dove la biblioteca di una moschea verso il 1930 ha restituito uno dei libri più antichi dell’umanità, il Libro del giusto, citato nel Pentateuco e perduto da un paio di millenni.Al Biruni fu autore di circa 150 opere, alcune di vaste dimensioni, su temi come poesia, geografia, medicina, storia, cronologia, viaggi, linguistica e soprattutto astrologia e astronomia.Viaggiò molto (studiare e viaggiare sono il compito dell’uomo, ha detto il sufi Gabriele Mandel), visse una ventina di anni in India, imparando sanscrito e varie lingue locali e impegnandosi per preservare la cultura di quel grande paese. Specialista di algebra, geometria e trigonometria, determinò il raggio della terra con una precisione che in Occidente si raggiunse dopo molti secoli. Fu il primo ad analizzare il moto di rotazione della terra, problema sino ad allora ignorato da tutti gli astronomi occidentali e orien-
Passiamo a Ibn Sina, il nome arabo di colui noto in Occidente come Avicenna, nato nel 980 presso Buchara e morto sui sessanta anni. Fu studioso anche lui enciclopedico come Al Biruni, aggiungendo anche lo studio della musica, da lui considerata sempre come parte della matematica! Grande viaggiatore, pubblicò un centinaio di libri e fu specialmente famoso per il lavoro nel campo medico. Ma anche in astronomia ottenne risultati di grande rilievo, come l’aver stabilito che Venere si muove fra Sole e Terra; e in fisica introdusse due idee usualmente attribuite a fisici occidentali assai più tardi, ovvero che la luce sia costituita da particelle speciali provenienti dalla sorgente luminosa (ecco i fotoni di Einstein!) e che abbia una velocità finita. Concludiamo con Ulugh Beg, nipote
I fotoni di Einstein? Li ha scoperti
Avicenna di Emilio Spedicato
Molte scoperte sono attribuite a fisici occidentali, ma spesso la paternità va riconosciuta a grandi studiosi arabi dell’antichità. Come Al Battani (che produsse un catalogo di 500 stelle apprezzato anche da Galileo), Al Biruni (che determinò il raggio della terra), Ulugh Beg (che usava straordinarie strumentazioni) e Ibn Sina...
Dall’alto, in senso orario: un ritratto di Avicenna, Ulugh Beg, Al Biruni e Al Battani. A fianco, l’eclisse di Luna immaginata da Al Biruni
di Timur o Tamerlano, lontano nipote anche di Gengis Khan, due conquistatori di vaste terre attraverso guerre fra le più sanguinose della storia umana. Nacque nel 1394 a Sultanieh, città fra Tehran e Tabriz, ora in malinconico abbandono, dove chi scrive ha raccolto un frammento delle minipiastrelle in ceramica blu che adornavano la moschea in rovina e che cadono al suolo… Morì a 56 anni ucciso da un figlio fanatico. Non interessato a ulteriore espansione dell’impero costruito da Timur, si dedicò agli studi, aprendo due importanti università a Buchara e Samarcanda, e inaugurando a Samarcanda nel 1428 uno straordinario osservatorio astronomico dotato di strumentazione speciale. L’osservatorio fu distrutto dal figlio, ma un dipendente riuscì a salvare il catalogo di stelle che ne contava circa mille. Gli scavi iniziati da non molto potrebbero scoprire altri documenti. *** Nel suo viaggio verso Pechino, Matteo Ricci si fermò al palazzo imperiale di Nanchino, giudicato assai più bello di quello di Pechino. Ricci nel suo diario scrive di avervi trovato un globo celeste in bronzo di grandi dimensioni portato dai Mongoli, presumibilmente al tempo di Khubilai Khan, e di avervi notato uno strano errore di sei gradi nella latitudine di Nanchino. Sappiamo che gli Ismaeliti erano anch’essi studiosi e che ad Alamut avevano una grande biblioteca, bruciata quando la rocca cadde, salvo alcuni libri che furono salvati dal governatore persiano Ata Malik Al-Juvaini. Forse che Alamut avesse anche un osservatorio e che quel globo provenisse da lì? E forse che il globo si riferisse al tempo citato nella Bibbia in cui la Terra ebbe un’oscillazione nell’asse che Velikovsky ha stimato proprio in sei gradi?