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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
L’ISLAM di Pier Mario Fasanotti
ietro il bourqa ci sono occhi che non vediamo. Ma quegli oggi bucano il velo e spesso guardano lontano. Certamente più lontano degli occhi maschili dell’islam, che fanno così fatica a indurci a pensare che ci siano uomini in grado di distinguersi dal truce e barbuto potere che nei paesi a regime teocratico e dittatoriale maltratta le donne e soffoca ogni anelito di libertà. E anche quella civiltà, non necessariamente di stampo euro-americano o caricatura dell’Occidente, che ha formato la cultura di certe nazioni di credo maomettano come l’Iran, imbavagliata dai vari Khomeini. Tre anni fa una donna colta, intelligente e coraggiosa come Azar Nafisi, espulsa dall’Università di Teheran, ha usato la parola contro la dittatura. Dimostrando come la letteratura può essere più efficace di una dimostrazione in piazza (che tarda a esserci, peraltro). Dimostrando che nell’islam la vera speranza di democrazia sono le donne. Quelle donne - come ella stessa ha raccontato in Leggere Lolita a Teheran (Adelphi) - che si riuniscono in un appartamento,
Dalla Nafisi alla Durrani, da Dalia Sofer a Marjane Satrapi… Il germe della democrazia nelle opere delle scrittrici musulmane
SALVATO DALLE DONNE
si spogliamo delle corazze di stoffa scura che servono a castigare pubblicamente l’essenza e la forma della femminilità, e si mettono a leggere i classici della tradizione occidentale, senza per questo dimenticare certi grandi della letteratura persiana, come Omar Khayyam, un ateo che predicava in versi la provvisorietà dell’esistenza e indicava nell’amore il grande rimedio all’angoscia, come Hafez che se la prendeva contro l’ipocrisia e le squallide contraddizioni del clero locale, come Rumi per il quale poca importanza aveva il luogo della preghiera, fosse la moschea o la chiesa o la sinagoga. Perché c’è Lolita nel titolo del best seller dell’iraniana Nafisi? Gli ottusi censori di Teheran hanno pensato al sesso. Perché a questo, per comodità o malizia o patologia, pensano sempre. Miopia: Humbert, il protagonista maschile del romanzo di Nabokov, è un uomo che non tiene in nessun conto l’individualità della ragazza di cui s’invaghisce. Nabokov descrive, e assai bene, l’atto di imporre i
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La dimora dell’anima di Gennaro Malgieri 9 771827 881301
ISSN 1827-8817 80126
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Napoli vista dalla Parrella di Maria Pia Ammirati
NELLE PAGINE DI POESIA
La discrezione di Dante e il senso della carità di Filippo La Porta
La cacciata di Poggioli di Mauro Canali L’America amara dei Savages di Anselma Dell’Olio
Omaggio a Toti Scialoja di Marco Vallora
l’Islam salvato dalle
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Il debutto di Tahmima Anam è già un caso editoriale di Roberta Scorranese n debutto stupefacente». «Un libro da cui è difficile staccarsi». Insomma, quello che si dice un caso editoriale, stando alle principali testate anglosassoni. Ma chi è questa Tahmima Anam, nata a Dacca (Bangladesh) nel 1975, cresciuta in America e ormai da anni a Londra, che con il suo romanzo The Golden Age (in pubblicazione per Garzanti con il titolo I giorni dell’amore e della guerra) sta conquistando classifiche e critici? Figlia di un famoso editore, laurea in antropologia, specializzazione in scrittura creativa, occhio attento alla sensibilità occidentale, una capacità di aderire all’emotività dei lettori. Ecco gli ingredienti di un successo da tempo annunciato. Nella moltitudine di scrittrici originarie di paesi islamici, questa
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segue dalla prima propri sogni e i propri desideri (in quel caso sessuali). Humbert, spiega la Nafisi, «rappresenta la classica mentalità del tiranno ed è la metafora di tutti gli ayatollah che impongono la propria visione del mondo, il proprio delirio personale a un intero paese». L’attuale leader dell’Iran non è diverso. Ecco perché contro di lui è così potente l’arma che Nabokov si augurava fosse impugnata da tutti: l’immaginazione. Dopo Leggere Lolita a Teheran altri libri di narrativa di donne musulmane fanno conoscere i paesi islamici oltre gli schemi riduttivi dentro i quali spesso li ingabbiamo e oltre la cortina oscurantista di chi, col pretesto di un rossetto, dello sguardo fiero, della gioia di comunicare anche con gli uomini, punisce la donna individuando in essa il diavolo, o il germe della democrazia: di pensiero e di costumi. Sono le donne a scrivere, sono loro che possono salvare una non trascurabile parte del mondo legata alla lugubre ideologia della morte e della censura, nazioni dove tutti paiono colpevoli e come tali trattati, come ai tempi del nazismo e dello stalinismo. Sono coraggiose, certo. E
donne
giovane donna tenta la carta del Bangladesh, forse non a caso. È un paese in fibrillazione, scosso da conflitti continui e da un po’ di tempo indicato da fonti geopolitiche come una probabile nuova culla dell’estremismo musulmano. Il suo romanzo gioca sulla doppia mutilazione di una madre: siamo nel 1959, delta del Gange, Pakistan orientale, quando Rehana perde l’affidamento dei suoi figli, per poi ritrovarli di nuovo negli anni Settanta e rischiare ancora una volta di vederseli strappare dalla guerra di indipendenza del Bangladesh, invaso dall’esercito pakistano occidentale. In mezzo, due guerre: quella politico-religiosa di un Paese e quella di una madre che fatica a trovare un’identità di donna e genitrice, tra futuro e tradizione. Le intricate vicende politiche e ideologiche di questa regione (da secoli divisa tra induismo, buddismo e islam) si riflettono nelle abitudini della sua gente. I contrasti tra musulmani e indu, acuiti dopo la conquista dell’indipendenza dall’India nel ’47, diventano vere e proprie microguerre. In Bengala, per esempio, il prodotto agricolo più redditizio, la iuta, veniva coltivato nella zona orientale, a maggioranza musulmana, ma lavorato ed esportato a Calcutta, nella zona occidentale, una città a maggioranza indu. Nel 1971, la proclamazione dell’indipendenza del Bangladesh, l’invasione dell’esercito pakistano e la fine di tante vite. Rehana si ritrova priva di un mondo: la lingua, i costumi, i figli, l’idea stessa di famiglia. La sua lingua, il bengali, sembra perdere senso di colpo, sopraffatta dall’urdu. I suoi dei si allontanano. E lasciano il posto a un nuovo spirito religioso, fortemente politicizzato, lontano dal calore di un paradiso in terra a lungo sperato. Sta qui, forse, la chiave del successo di Tahmima Anam e di molte altre autrici originarie di paesi islamici: l’emozionalizzazione dei conflitti, la capacità di piegare la storia e farla aderire alle vite dei protagonisti, farla vibrare di una corda personalissima, individuale, irripetibile.
sono anche intelligenti perché evitano piagnistei e vittimismi e si concentrano sulla narrazione. Ma soprattutto sono tanto, tanto acute, perché fiutano il mercato editoriale e una cosa l’hanno capita molto bene: le scrittrici provenienti da paesi musulmani vendono. E molto. Sia che raccontino le censure di Teheran, sia che imbastiscano un dramma familiare in Bangladesh. Se, fino agli anni Ottanta, erano gli uomini (pochi però) a raccontare la condizione della donna nei paesi musulmani, come Salman Rushdie, oggi sono loro stesse, le donne, a parlare. Ci sono quelle che hanno scelto di andare a vivere altrove e da questo altrove raccontarsi, come Azar Nafisi, ci sono quelle che si ribellano apertamente e scrivono per esempio Schiava di mio marito (Mondadori), come Themina Durrani. E ci sono quelle che, con sagacia tutta occidentale, puntano a un riscatto molto più alto: diventare scrittrici conosciute in tutto il mondo. Come Tahmima Anam: nata in Bangladesh, vissuta in America e residente a Londra, ha deciso di diventare più famosa di Khaled Hosseini, il celebratissimo autore del Cacciatore di aquiloni (Piemme). A fine febbraio
Garzanti pubblicherà I giorni dell’amore e della guerra, titolo che richiama la migliore tradizione editoriale occidentale per una storia a prova di classifica: le vicissitudini di una madre che lotta per non perdere i figli nella tragedia della guerra indo-pakistana. Anche qui entrano in scena due aquiloni, di hosseiniana memoria, bene auguranti nella (annunciata) scalata delle top ten. Negli ambienti della critica anglosassone la trentatreenne Anam è già un caso editoriale. Come Dalia Sofer: il suo La città delle rose (in Italia in uscita per Piemme) è stato definito dal New York Times «uno dei romanzi più significativi del 2007». Ci sono poi quelle che accusano apertamente i regimi islamici, come la scomparsa Nuha al-Radi, che nel suo Gente di Baghdad (Sperling & Kupfer) racconta una quotidianità irachena massacrata dalla guerra e dall’embargo. E quelle che, per farlo, usano l’umorismo dissacrante, come l’iraniana Marjane Satrapi, la quale con Persepolis ha raccontato la sua Teheran spietata e opprimente a fumetti. Più veemenza nelle parole di Irshad Manji, musulmana nata nel 1968 in Uganda e cresciuta in Canada. Ha scritto Quando abbiamo
smesso di pensare? (Guanda), una specie di pamphlet in cui decostruisce le posizioni più estremiste dell’islam e prova a tracciare una linea «progressista», riferendosi anche a fatti autobiografici. E Hayat Sharara, scrittrice e docente universitaria, si è uccisa insieme a una delle sue figlie, dopo aver terminato un romanzo che Saddam Hussein, all’epoca del regime, non avrebbe mai fatto pubblicare. Il riscatto delle donne musulmane è anche questo: dedicare una vita alle parole. È appena uscito da Mondadori Le ragazze di Riyjad di Rajaaa Al-Sanea. L’autrice, che vive in America, non ha difficoltà ad ammettere di essersi ispirata al serial televisivo Sex and city. Racconta di quattro donne, nate dal mondo reale e non dalla pura immaginazione. L’editore Neri Pozza farà uscire tra poco Gli altri di Siba Al-Harez (uno pseudonimo), la quale racconta l’amore ai tempi del colera integralista e della rivoluzione mediatica di Internet. Un intreccio di «amore empio» e di «guerra santa». Un giornale arabo diffuso a Londra ha scritto: «È il libro più discusso che sia venuto fuori in questi anni non solo nel paese saudita, ma nell’intero mondo arabo».
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di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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DESERTO a verità è desolata. Essa si rivela nella solitudine. Perciò negli spazi angusti, affollati è più facile imbattersi nella menzogna. Le città imprigionano la luce; il deserto la libera. E qui l’anima vaga negli infiniti spazi, battuti dal vento, senza incontrare resistenze, lacerando il velo del pericolo, diventando corporea. La fisicità si purifica davanti all’incanto dell’ignoto e si annulla compenetrandosi nell’Infinito possibile e percepibile. La poesia di sabbia e di pietra che si para davanti, fino a dove arriva lo sguardo, si scrive nel cuore dove l’Assoluto celebra il suo rito. E si svela il tormento che ci assedia quotidianamente: l’assenza della purezza. Di contro, nelle sabbie del Sahara o di Atacama, ai due poli opposti della Terra, l’incanto dell’essenziale, la seduzione della forma geometricamente perfetta, la pulizia di una creazione intoccabile perché rischiosa si fondono nella raccolta di immagini primigenie custodite inconsapevolmente dentro di noi. Nel deserto finalmente sappiamo vedere, riacquistiamo la vista perduta. Nello Zarathustra si legge: «Da sempre i veridici, gli spiriti liberi, hanno abitato il deserto, ne sono stati i signori». E non era la nostalgia d’infinito che faceva capolino nei pensieri di Nietzsche solcando il suo piccolo regno di Silvaplana. Piuttosto la consapevole appartenenza a un modo altro, neppure sfiorato, del quale il deserto è la metafora poetica e religiosa. Un tempio senza barriere. Lo aveva compreso Erodoto, lo hanno saputo da sempre gli arabi. E tra l’uno e gli altri, i Padri del deserto, mistici inarravibili, ne hanno fatto tra il Terzo e il Quinto secolo dopo Cristo, la loro dimora, patria di spiriti vaganti alla ricerca dell’Incommensurabile, del Misericordioso. Spingendo lo sguardo nel cielo più luminoso che è dato vedere, i Padri incontrarono Dio e vissero il deserto, da eremiti o da cenobiti, al solo scopo di esaltarsi nella mortificazione della carne, riconoscendo l’essenziale e praticando, tra le pietre, uno spiritualismo esaltato ed esaltante, fuori misura secondo alcuni, cui si deve la costruzione del cristianesimo eroico, esemplare, imitabile. I Detti tramandati sono opera del deserto e soltanto là potevano fiorire. Il coraggio li faceva affrontare l’ignoto sapendo che il deserto poteva essere il loro sepolcro, ma non prima di aver provato la grandezza della solitudine e l’abbandono dei pregiudizi. Non so se ancora oggi il deserto richiami atmosfere metafisiche di questo genere. Nella migliore delle ipotesi, forse, è una sfida per avventurieri alla ricerca di emozioni forti. E neppure si avvedono di profanarlo con le loro spericolate gimcane tra sassi che conservano memorie di civiltà che li hanno lambiti quando non vi si sono sporadicamente insediate: torri di fango e mattoni, cittadelle di pietre e di paglia, fortezze come avamposti a difesa da pericoli percepiti come imminenti e attesi da un tempo che sfiora l’eternità, testimoniano la longevità del Sahara, da Dakhla, ai margi-
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Metafora poetica e religiosa, è un luogo che noi civilizzati abbiamo dimenticato
La dimora dell’anima di Gennaro Malgieri ni dell’Atlantico, a Dakhlia, oasi egiziana, in prossimità di altri deserti e, dunque, di altre storie. Quando Heinrich Barth attraversò il Messaq e si fermò sconcertato davanti all’«Apollo garamantico» comprese immediatamente che lì la civilizzazione greco-mediterranea aveva lanciato la sua sfida all’ignoto e aveva conquistato le anime di quei popoli, come aveva constatato molti secoli prima Erodoto. Se la mano dell’uomo aveva inciso, con levità, il suo richiamo a un dio nelle pietre sahariane,
valenza religiosa, l’intrinseco misticismo che lo pervade, la cui manifestazione crudele, scarnificata è soltanto l’apparenza sotto la quale c’è ben altro. Per esempio, un sentimento di immedesimazione con il creato che noi, i civilizzati, abbiamo perduto. Lawrence d’Arabia, nel 1921, scrisse l’introduzione allo straordinario libro di Charles M. Doughty, Arabia deserta, «reportage» di un giovane medico e poeta inglese che nel 1876 intraprese un lungo e avventuroso viaggio nei luoghi preclusi a
Ogni aurora è preghiera e ogni tramonto ringraziamento. Nel Sahara, a Dakhla o ai margini dell’Atlantico si compie l’immedesimazione con il creato. E si torna a riconoscere la sacralità della persona… vuole ben dire che lo spirito non conosce confini e vaga e si posa là dove vuole, preferibilmente nelle aree più desolate dove il contatto con la divinità è più naturale, più semplice, immediato. Il deserto è una regione sacra. E quando si dice che cresce dentro di noi per significare l’inaridimento di vite vissute male, si bestemmia. Magari crescesse in ogni essere umano: le menti e i cuori sarebbero meno frastornati. Chi ha conosciuto bene il deserto, ne ha apprezzato, appunto, la
un europeo. In quell’introduzione leggiamo: «La religione del deserto è un retaggio. L’arabo non le attribuisce grande valore… Raggiunge questa intensa sublimazione di se stesso in Dio chiudendo gli occhi al mondo e a tutte le complesse possibilità latenti nel suo animo, che soltanto la ricchezza o la tentazione potrebbero portare allo scoperto… Per l’arabo del deserto non c’è gioia maggiore della rinuncia volontaria.Trova il piacere nell’abnegazione, nel
sacrificio, nell’autocontrollo… Il suo deserto diventa una ghiacciaia spirituale, in cui si conserva in eterno intatta ma mai migliorata l’unicità di Dio». Ma c’è una «intimità» che il deserto preser va, per quanto possa sembrare inverosimile. In esso si sistemano gli amori impossibili, quelli che non si possono vivere e si affidano al cielo sahariano. Ma tra le dune dalle forme femminili, a ridosso di contrafforti battuti da venti impetuosi che lasciano rose di pietra una volta passati, ho anche incontrato tanto di quell’amore possibile in un popolo che al deserto ha affidato la sua sopravvivenza, da restare incantati. I saharawi, scacciati alla loro terra, vagano nel deserto algerino come pellegrini stanchi, ma gonfi di speranza, dopo quasi trent’anni di esilio, portando con dignità la loro tragedia che il mondo non vuol vedere. Tra quella gente dolente e orgogliosa, accolto dal sorriso dei bambini e dagli occhi dolcissimi di giovani donne che mi offrivano tè e datteri, ho avuto la percezione di che cosa vuol dire nutrire un senso profondo dell’appartenenza, riconoscere le proprie radici, rivendicare la dignità di una scelta difficile. Mentre mi veniva incontro un bambino, lacero ma sorridente, mi rafforzavo nell’idea che al riconoscimento della sacralità della persona non vi è alternativa se si vuole sfuggire alla tentazione demoniaca di far valere una qualsivoglia«volontà di potenza» a detrimento dei valori primari. E tutto questo in un angolo di uno sterminato deserto, dove arrivava il suono lacerante di un oud accompagnato da un darbuka, mentre un griot raccontava storie saharawi che commuovevano la piccola, dolcissima dottoressa in attesa, davanti al suo improbabile ospedalino, di un altro bambino ammalato che sapeva di non poter curare. Il deserto è l’amore di tutti quegli occhi e di tutte quelle musiche e di tutte quelle grida e di tutte quelle bandiere senza patria. Dove ogni aurora è preghiera e ogni tramonto ringraziamento.
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musica
rock
Omaggio a Genova
la superba (da Tenco ai New Trolls) di Stefano Bianchi a swingato e jazzato. Intonato ritornelli vintage (Ti parlerò d’amor, Il pinguino innamorato…) e ghermito la musica sacra. Si è data al pop e alle avanguardie; ai temi dei musical di Broadway e all’etnomusica. Nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio, ha cantato i lieder ebraici attingendo al repertorio yiddish. Ogni volta che sale su un palcoscenico, o incide un disco, Antonella Ruggiero si merita solo tre parole: grazie di esistere. Formulate, prima di lei, a Mina, Billie Holiday, Ella Fitzgerald. A quelle poche voci, in buona sostanza, capaci d’osare l’inosabile. Di innamorarsi della musica e poi sfidarla. Come la sua, di voce. Abbagliante e chiaroscurale, intensa e soffusa. Incapsulata negli anni Settanta, fino all’89, dentro l’elegante commercialità dei Matia Bazar. E poi Libera, in senso catartico, come il titolo del primo album solista datato ’96, di fondersi al ritmo dell’Occidente e al suono dell’antico Oriente. Dopo avere approcciato tutte le musiche possibili, Antonella Ruggiero è tornata nella natìa Genova: per rendere omaggio (vocalmente, spiritualmente) a Fabrizio De André, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Ivano Fossati, i New Trolls. Per misurarsi con 14 perle cantautorali senza tempo: inclusa Ma se ghe pensu, classico della tradizione genovese. Il titolo del cd Genova, la superba - svela rivisitazioni (non semplici cover: molto di più) che alla complessità «futuristica» dell’elettronica sposano la leggerezza degli archi e il soffice ritmo di basso, chitarra e batteria. Su questi arrangiamenti, la Ruggiero distilla i celebrati versi cantautorali facendosi, lei stessa, voce/strumento.
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Nel brano d’apertura (Ho veduto: musica dei New Trolls e parole di De André), si confronta coi campionamenti elettronici del californiano Robert Rich giostrando caldi cromatismi vocali alla Annie Lennox. Ed è irresistibile, Antonella, tanto nel difficile quanto nell’apparentemente facile: ossia quando affronta il repertorio di Luigi Tenco (Un giorno dopo l’altro; Guarda se io) nobilitandone, ammaliante, le introspezioni; e quando rilegge Bruno Lauzi pedinando spensierata gli archi sbarazzini (L’ufficio in riva al mare) e assecondando i ricami «drum & bass» di Ritornerai. Poi, è tutto un viavai di paradisiaci stupori e atmosfere che ci riportano a Vacanze romane (Luna nuova sul Fuji-yama; È vero: entrambe griffate Umberto Bindi); magie rétro, pensando magari al Trio Lescano (La gatta di Gino Paoli); blitz nella musica etnica (Anime salve: De André/Fossati); riavvolgimenti rapidi al Progressive anni Settanta (Una miniera, dei New Trolls) e, se vogliamo, all’essenzialità rock di Daniel Lanois (Andrò ancora: New Trolls/De André). Ma se ghe pensu, in chiusura del disco, scandisce con la pura sintesi di chitarra e voce lo struggimento dell’emigrante. Genova a parte, la preziosa nudità dell’arrangiamento sarebbe piaciuta alla regina del fado, Amalia Rodrigues. Antonella Ruggiero, Genova, la superba, Libera/Edel, 20,90 euro
in libreria
mondo
riviste
POETICA DELLA DANZA
CANZONI AL TELEFONO
RARITÀ PER EMERGENCY
hi pensa che la danza contemporanea non sia una forma d’arte, alzi la mano. Da Pina Bausch in poi, i dubbi su questa evidenza dovrebbero essere del tutto fugati. Per chi volesse comunque saperne di più e affinare il giudizio Poetique de la danse contemporaine. La suite di Laurence Louppe (edito da Contredanse nella Collana La Pensée du Mouvement) è la lettura consigliata. Appena presentato a
a musica di Napster approda in Italia sui telefoni cellulari, sui computer e saranno i clienti di Tim a poter scaricare per primi tutti i brani disponibili nel catalogo della più grande community musicale del mondo. Il nuovo servizio «Napster Mobile», frutto dell’accordo siglato fra Telecom Italia ed Ericsson, consentirà infatti di accedere a oltre 5 milioni di
ei negozi di dischi dal primo febbraio, la rivista Rockstar segnala l’uscita di Canzoni per loro, una compilation nata dalla sensibilità di musicisti celebri come Jovanotti, Daniele Silvestri e Eugenio Bennato. Molte delle diciassette tracce che compongono l’album sono ispirate infatti all’iniziativa di Emergency «Adotta un disegno». Su proposta degli stessi cantautori,
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“La Suite” di Laurence Louppe propone un’altra visione di un’arte ancora considerata minore Parigi in occasione del festival On y danse XIVe, il volume prosegue il lavoro inziato dall’autrice nel suo primo libro, Poetique de la danse contemporaine, in cui venivano condensati gli elementi teorici più significativi delle correnti artistiche della danza del Ventesimo secolo. Questa nuova opera si concentra sugli ultimi quindici anni, periodo multiforme e attraente, raccontandoli attraverso una serie di opere scelte in base alla loro rappresentatività e proponendo un parallelo con le correnti filosofiche e artistiche contemporanee. Un’altra visione della danza, non più intesa soltanto come piacevole intrattenimento.
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Con cinque milioni di brani la Napster approda sui cellulari degli italiani. Con Napster Mobile brani. Accessibile dall’area Internet del portale mobile Tim, permetterà l’acquisto della musica internazionale effettuando il download dei brani con un’opzione che permetterà di salvare la musica, oltre che sui telefonini, anche sul pc. Dal portale «Napster Mobile» si potranno inoltre scaricare loghi e suonerie per personalizzare i propri cellulari. Sviluppata congiuntamente da Napster ed Ericsson, la piattaforma Napster Mobile fa parte del bouquet degli Hosting Services Ericsson, che permettono agli operatori di telecomunicazioni di sviluppare servizi personalizzati per la propria clientela.
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Rockstar: Jovanotti, Battiato & Co. aderiscono con un cd ad “Adotta un disegno” i disegni di alcuni bambini ricoverati negli ospedali dell’associazione umanitaria, sono stati tradotti in brani musicali inediti, ma non mancano artisti come Franco Battiato e Vinicio Capossela che hanno voluto regalare alla tracklist rarità o registrazioni inedite. L’album è «un incontro fatto di affetto e conoscenza», scrive Vauro, «che ha portato musicisti, autori e cantanti a scegliere di creare o donare i brani raccolti in questo cd». Prodotto dalla Fandango, e distribuito dalla Edel, i proventi dell’iniziativa saranno devoluti a Emergency. Maggiori informazioni su rockstar.it.
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zapping
classica
Il rock italiano? Ricorda IL COW BOY DI GALLARATE
Il grand-opéra di Nixon in Cina
di Bruno Giurato Il rock italiano è simpatico perché sempre raccoglie i mille fiori del provincialismo. Sin dalle origini: il ciuffo di Little Tony a chi somigliava? A Elvis ça va sans dire. E la banda di Bobby Solo? A Bill Haley, naturale. E via così, fino alle riprese dei Cure in salsa fiorentina degli anni Ottanta e oltre. Già da un po’ a chi scrive capita di frequentare i concerti dei nuovi gruppi italiani. È un brulicare di simpatia (e di provincialismo). Sempre di moda le tribute band, gente che rifà The dark side of the moon del Pink Floyd, meglio dei Pink Floyd veri, o i Beatles in giacchetta e cravattina da baronetto, o il blues del Texas con le chitarre d’annata e il cappellaccio. Il mio barista nel dopolavoro suona la batteria in una tribute band dei Moltely Crue, gruppo dimenticato non fosse per le prestazioni hard di uno dei membri con Pamela Anderson, finite su internet. Poi c’è la Musica indipendente (a medio tasso di incazzatura) che si direbbe originale e invece è l’apoteosi della simpatia di provincia. Per esempio il gruppo di Caserta. A sentirli colpiscono per le loro atmosfere depressivo-londinesi, come se in Campania la eeriness sgorgasse dalle mozzarelle. Il gruppo palermitano che sembra i Radiohead, e senza panino c’a meuza, il gruppo romano che s’inchina a Miles Davis, quello friulano che regge le sorti del Reggae, treccine e cannone d’ordinanza. Quando li sento viene in mente la scena di un film di Celentano: in una fattoria incontra un cow boy tutto bardato che arrostisce una bistecca al camino. Gli domanda: «Sei del Texas?». E quello: «No, di Gallarate». Il Molleggiato conclude: «Simpatico. Ma scemo».
di Jacopo Pellegrini ra i ricordi della mia infanzia, un posto di rilievo spetta alle lunghe ore estive della canicola dedicate, invece che al sonno, alla lettura: dei libri di casa uno in particolare mi divertiva, una cronaca della storia mondiale recente illustrata da Alberto Fremura, il principe dei vignettisti liberal-conservatori. Una delle sue tavole ritraeva Richard Nixon nel tentativo di scalare il monte della storia arrampicandosi su vari spunzoni, le tappe miliari della sua presidenza: il viaggio sulla Luna, quello nella Cina di Mao, la guerra del Vietnam, lo scandalo Watergate. Mi ha sorpreso, a distanza di tanti anni, trovarle elencate tutte quante salvo, si capisce, l’ultima - nel libretto di Nixon in China. L’opera di John Adams, che s’ispira alla visita compiuta dalla coppia presidenziale americana nella Republica popolare (febbraio 1972), vide la luce a Houston nell’87, ed è finalmente approdata in Italia per iniziativa dell’Arena di Verona, che l’ha allestita nella sua sede invernale, il Teatro Filarmonico. I personaggi storici, grazie all’abilissima versificazione in distici della Goodman (più ancora delle rime si ammira l’arguzia delle assonanze), acquistano il valore di emblemi umani ed etici: la demagogia umanitaristico-patriottica di Nixon (baritono, Jeremy Huw Williams), attento soprattutto al valore mediatico dell’avvenimento, la tensione filosofica che maschera una lucida spietatezza in Mao (tenore, il bravo Daniel Norman), le bieche trame di un Kissinger nerissimo (basso, Rod Nelman), l’orientale rassegnata saggezza di Chou En-lai (baritono, Roberto Perlas Gomez, il più debole). Se gli uomini dominano il primo atto, le signore emergono al secondo: Pat Nixon (soprano lirico, Suzan Hanson), colla sua empatia affettiva di stampo materno (bene ha fatto il regista Peter Pawlik a sottolinearla, attribuendole il potere di addormentare il coro dei cinesi con una semplice carezza: una delle scene più belle di uno spettacolo sobrio, poetico e insieme ironico), e Chiang Ch’ing (soprano leggero, Yu So-Yung), che trasfonde il proprio dogmatismo rivoluzionario in vocalizzi algidi e taglienti. Nell’ultimo quadro cogliamo l’intimità disarmata delle coppie riunite, i potenti-bambini cullati dalle
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mogli in un clima malinconico di festa sfatta, tra camerieri che sparecchiano e fondi di bicchieri da scolare (ci pensa Pat). L’impianto drammaturgico di Nixon in China segue il modello del grand-opéra francese ottocentesco, soggetto storico, intermezzo danzato (la trama del quale si rifà a un vero balletto di madame Mao), numeri chiusi per i solisti inseriti in grandi tableaux scenici; Adams vi profonde una vena parodistica graffiante e, insieme, una decisiva abilità nel cogliere l’essenza dei personaggi attraverso la scrittura vocale (i cantanti sono amplificati): in un tessuto melodico per lo più diatonico si distinguono l’ottuso schematismo ritmico del coro e delle tre irresistibili segretarie di Mao, il falsetto minaccioso del capo cinese, i borborigmi di Kissinger, l’estroversione da musical di Nixon, il fluido cantare di Pat, e di Chiang, come detto, l’isterico volteggiare sul pentagramma. Nel frattempo, in orchestra scorrono impassibili i disegni brevi e ripetitivi caratteristici della minimal music: al voluto effetto straniante subentra talvolta un velo di sonnolenza, sebbene la strumentazione da big band offra sovente squisitezze indubbie. Qualcuna al Filarmonico è andata perduta, ma non per colpa del direttore Andreas Mitisek, abilissimo nel districare il groviglio ritmico (sincopi, binario contro ternario) e nel lasciar affiorare certe pennellate armoniche tra Debussy e Puccini (la sesta non risolta alla chiusa) frammezzo alla costante, scandita accordalità. Nixon in China, Verona, Teatro Filarmonico
jazz
Aspettando il ritorno dei Saxes Machine di Adriano Mazzoletti l 16 aprile, al Conservatorio di Santa Cecilia di via dei Greci a Roma, sarà festeggiato il trentesimo anniversario dei Saxes Machine, primo importante complesso italiano formato da soli sassofoni. Saranno il batterista e leader del gruppo Bruno Biriaco e il sassofonista Gianni Oddi, a presentare la nuova edizione dei Saxes Machine. Occasione interessante per ascoltare Filiberto Palermini, Andrea Pace, Simone Salsa e Marco Guidoletti che rileggeranno gli stessi arrangiamenti scritti da Bruno Biriaco per il gruppo originale costituito nel gennaio 1978. Di quel gruppo così interessante rimangono un disco, una serie di registrazioni radiofoniche e televisive e la partecipazione a diversi importanti festival europei. Forse non molto per un complesso, di grande importanza, di cui ancor oggi si parla quando si deve ricostruire la storia del
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jazz italiano degli anni fra i Settanta e gli Ottanta. Anni molto particolari per il jazz di casa nostra, dove la «tradizione» non era vista di buon occhio dalla critica dell’epoca. Bruno Biriaco, musicista di ventinove anni, appena uscito dall’avventura del Perigeo, prima formazione italiana di jazz-rock, decise di formare un nuovo gruppo. Assunse in blocco la sezione sassofoni dell’orchestra Rai e chiese anche a due degli ex-Perigeo, il pianista Franco D’Andrea e il contrab-
bassista Giovanni Tommaso di far parte di quel nuovo complesso che, a differenza dei molti altri attivi negli anni Settanta, si ispirava al jazz classico piuttosto che a quello dell’avanguardia. Per questa ragione riscossero ampi consensi da parte del pubblico. Era la prima volta che in Italia si ascoltavano cinque sassofoni e sezione ritmica. Quando poi i sassofoni erano della classe di Baldo Maestri, uno dei migliori leader di sezione, del suo
allievo prediletto Gianni Oddi, di Salvatore Genovese, Beppe Carrieri, Carlo Metallo, il risultato non poteva essere che mirabile. Coadiuvati da Franco D’Andrea, Tommaso e Biriaco che per sei anni avevano costituito la sezione ritmica regolare dei concerti jazz radiofonici, nel corso dei quali avevano accompagnato alcuni fra i più grandi solisti del mondo, suscitando anche l’invidia di qualche collega meno dotato, quel gruppo risultava assai simile a una piccola grande orchestra senza ottoni. Idea interessante e originale perché i Supersax americani precedenti di qualche anno utilizzavano nel loro organico anche un solista di tromba. Fra due mesi riascolteremo i nuovi Saxes Machine nel loro vecchio repertorio, Giants Steps di John Coltrane, The Flight of Belphagor di Enrico Pieranunzi e gli altri tutti arrangiati da Bruno Biriaco. Occasione da non mancare.
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libri
narrativa
Napoli uno spazio bianco tra vita e morte di Maria Pia Ammirati iletta oggi la polemica che nel 1953 accompagnò l’uscita del Mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, ha qualcosa di inquietante e di tragico. L’accusa di aver scritto un libro «contro Napoli» costò alla scrittrice una mutilazione (così fu vissuta dalla Ortese), il suo volontario e definitivo allontanamento dall’amata città. Il mare segnò sicuramente uno spartiacque tra gli scrittori della tradizione napoletana come Serao, Viviani, De Filippo e quelli dell’antinapoletanità. Uno sguardo diverso su una città in bilico tra morte e rinascita che andava dai toni pietistici all’oleografico, dal naturalismo volgare fino alla presa d’atto del malessere, nel quale i nuovi scrittori a partire dalla Ortese si sono calati. Calarsi nel vero, conta oggi una nutrita schiera di giovani scrittori così densa da pesare persino in ter-
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mini quantitativi sul resto della geografia letteraria italiana: Saviano, Lanzetta, Longo, Parrella i nomi più importanti tra gli altri. Valeria Parrella è una scrittrice di 34 anni, alla sua terza opera importante che ha già con i primi due libri fatto il pieno di premi e d’interesse da parte della critica. Con quest’ultimo libro, Lo spazio bianco, esce allo scoperto non solo sulla materia scabrosa dei vicoli, dove ancora sembra regnare una specie di disperazione ontologica (che ha maestri in Ortese e Rea), ma su come trattare una lingua complessa che ha sì il pregio di stare attaccata alle cose, ma è dura al lavoro di cesello. La Parrella è riuscita nell’impresa di passare da un dialetto mimetico e espressionista dei primi libri, a una lingua contaminata ma più pura, densa ma senza cedimenti folcloristici. E il pregio di questo libro è prima di tutto linguistico, giacché la storia è commovente ma esile,
forte nella sua drammaticità individuale, ma lirica nella scelta del soggetto e del punto di vista. E per essere concreti ne diamo un resoconto: Maria è un’insegnante (colta e preparata) delle famose scuole serali; è una donna sola e svagata che aspetta un figlio da un uomo «transitorio». La nascita prematura della bambina, Irene, getta la protagonista in una sorta di limbo, un non-tempo dove il nascere e il morire si confondono. Maria sconfina in un tempo/spazio sospeso, quello dell’attesa dove la realtà arriva come percezione frammentata attraverso «personaggi di contorno». Sono figure minori, ma sono il filtro per arrivare al cuore di una città sempre più lontana dalla vita normale, sempre più morente. Valeria Parrella, Lo spazio bianco, Einaudi, 112 pagine, 14,80 euro
riletture
Non c’è libertà senza diversità. Parola di Humboldt di Giancristiano Desiderio l Saggio sulla libertà di John Stuart Mill è un classico del pensiero liberale. Tuttavia, la fiducia nell’individuo e nella sua connaturata libertà e la critica a ogni sistema statalista, socialista e comunista non avrebbero preso la forma che conosciamo se Stuart Mill non fosse stato felicemente influenzato da Wihelm von Humboldt. Come fare per rileggere le Idee di questo originale e colto filosofo tedesco? Non è cosa facile (a meno che non si vada in biblioteca) rintracciare l’Antologia degli scritti politici di Humboldt pubblicata nell’ormai lontanissimo 1961 da Il Mulino. Più semplice è procurarsi un’altra antologia, da poco pubblicata
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dalla Utet nella collana economica «Classici del pensiero»: Scritti filosofici. In questa ampia raccolta di scritti di Humboldt si può leggere anche Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato che composto nel 1792, ma pubblicato integralmente soltanto postumo nel 1851, è a tutti gli effetti un classico del pensiero liberale. Quale l’idea centrale del saggio? Per Humboldt lo Stato è un «male necessario». Dello Stato non si può fare a meno, pena il dissolvimento della convivenza civile, tuttavia lo Stato è e resta «un male» che rappresenta un pericolo per gli uomini in quanto tende ad allargarsi e a soffocare gli spazi di autonomia individuale. Ecco perché l’azione dello Stato deve
essere limitata. Il suo scopo è garantire la sicurezza dei cittadini. Non può andare oltre. È questo il punto su cui Humboldt batte e ribatte: tutto ciò che va oltre la sicurezza e riguarda lo sviluppo fisico, economico, intellettuale e morale degli uomini non è di competenza dello Stato ma dei singoli. «Il libero operare dei membri della nazione - scrive Humboldt - è in effetti ciò che tutela tutti quei beni per desiderio dei quali gli uomini entrano in società. La costituzione statale vera e propria è, rispetto a quel rapporto che ne è il fine, in posizione subordinata; e la si sceglie sempre come un mezzo necessario e, essendo sempre connessa con restrizioni della libertà, come un male necessario».
Nel saggio di Humboldt c’è un senso concretissimo della libertà individuale non solo come fine, ma anche come mezzo. Deve essere stata questa naturale sensibilità o predisposizione a cogliere la libertà umana a colpire John Stuart Mill. Del resto, il modo con cui Humboldt lega libertà e diversità, fino a sostenere che senza diversità non ci sarebbe vera libertà, è per noi stessi attuale e prezioso. Il contemporaneo di Hegel vede nel progresso della civiltà e della tecnica una minaccia alla differenziazione dei gusti e delle opinioni: l’omogeneizzazione è nemica della creatività e, di conseguenza, della libertà di pensiero e azione. Un motivo in più per rileggere oggi le Idee di Wihelm von Humboldt.
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filosofia
L’essere non è, se volta le spalle al mondo di Renato Cristin a riflessione filosofica, da Parmenide ad Aristotele, da Tommaso a Heidegger, si è sempre caratterizzata soprattutto come meditazione sull’essere, come ontologia. A essa, considerandola non come una disciplina, ma come il campo autentico della filosofia, Constantin Noica dedicò un lavoro monumentale, completato nel 1980 e ora tradotto in italiano. Riflettere sull’ontologia significa meditare sul fondamento nella sua fondamentalità: dinanzi alla frase «il gesso è bianco», chiunque pensa al gesso o al bianco, mentre il filosofo pensa all’«è». L’essere non va concepito come permanenza e immutabilità, ma va compreso nel suo interno divenire, come affermava Platone. Contro la staticità, Noica si pone all’ascolto delle «pulsazioni» dell’essere, presentandoci la
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sequenza dell’essere in generale, del divenire delle cose nella loro legge individuale, dell’essere di seconda istanza («l’elemento»), dell’essere in sé che ingloba essere e divenire («la divenienza»). Ma l’essere va pensato in simbiosi con il mondo, a partire dal sé individuale nella sua libertà e nel suo rapporto vitale con gli altri. La presenza del discorso ontologico è l’indizio dell’autenticità dell’esistenza storica: «l’ontologia è scomparsa dalla cultura dell’uomo ogni volta che questi ha voltato le spalle al mondo», e se l’uomo europeo non vuole sparire nei gorghi dell’indistinto, deve ripensare l’ontologia. Insieme a Eliade e Cioran, Noica (19091987) è uno dei massimi esponenti della cultura rumena. Decise di rimanere in patria nonostante l’avvento del regime comunista, dal quale fu, dal 1949 al 1958, condannato al confino e, dal ’58 al ’64,
incarcerato. Subì la confisca delle sue proprietà e finì la sua vita nel villaggio di Paltinis, dove si era ritirato dal 1975 (su questo esilio si leggano le pagine pubblicate dal suo allievo Gabriel Liiceanu nel Diario di Paltinis). L’isolamento e la riservatezza della sua esistenza, insieme alla tenace noncuranza verso la persecuzione del regime, fanno di Noica una figura tanto luminosa quanto coraggiosa nel panorama filosofico contemporaneo. Constantin Noica, Tra ttato di o ntol ogia, Edizioni ETS, 265 pagine, 20,00 euro
politica
Perché non possiamo dirci anarchici di Riccardo Paradisi realisti politici, da Machiavelli a Carl Schmitt, hanno chiarito una volta per tutte, e con una certa brutalità, che la politica non è un pranzo di gala: contano le idee in questa dimensione certo, ma ancora di più contano e pesano gli interessi in campo e la forza degli attori in gioco. Ecco la dimostrazione, direbbe a questo punto l’antipolitico o l’anarchico tout court, che la politica e le organizzazione cui dà vita questa funzione, sono frutti dell’arbitrio, impronte tangibili della più insopportabile ingiustizia, l’architettura compiuta della pratica della sottomissione degli uomini. Ma a parte il fatto, come diceva il buon vecchio Lord Chesterfield, che non c’è stamberga dove non vigano rapporti di potere e una gerarchia di
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ruoli e di forze, se le cose fossero così semplici non si capisce perché gli uomini continuino a preferire l’ordine politico al caos. E soprattutto perché, pur tendendo nel pensiero e nelle intenzioni, a fare economia di arbitrio nei sistemi che li governano quanto più sia possibile, gli stessi uomini continuino ad affidarsi a sistemi che limitano, in vario grado, le libertà individuali per garantire la libertà di tutti. Davide Tarizzo in Giochi di potere viaggia per più di 190 pagine dentro la psicologia politica umana cercando di venire a capo di quale sia la molla che determina questa scelta costante, cercando la natura dell’obbedienza al potere politico. Perché gli uomini obbediscono, si chiede Tarizzo, e a chi, in fondo, prestano obbedienza? Le risposta non è né univoca né semplice: l’obbedienza può infatti basarsi sulla paura o al contrario sulla convinzione,
sulla convenienza o sulla persuasione. Da qui la possibilità di distinguere i diversi regimi politici (dal più autoritario al più autorevole) ma anche le diverse psicologie umane e come esse reagiscono ai mutamenti sociali. Sta di fatto che dalla paura e dall’insicurezza, dalla convinzione diffusa che l’uomo sia per l’uomo un lupo, nascono e prosperano regimi autoritari e tirannici. Carl Schmitt poneva la questione su basi diverse: l’uomo è per l’uomo un uomo. Solo che realisticamente aggiungeva, non è una soluzione, ma solo l’inizio del nostro problema. Perché Schmitt sapeva, e ce lo ha insegnato, che nell’uomo c’è nobiltà ma non è una creatura buona per natura. Davide Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, Laterza, 188 pagine, 18,00 euro
economia
I dubbi di Shapiro sul Welfare di Alberto Mingardi l dibattito sulle «teorie della giustizia» ha tenuto banco nella filosofia politica degli ultimi trent’anni. È quindi legittimo sospettare che non sia rimasto granché da dire. È un sospetto che Daniel Shapiro smentisce con un libro davvero originale: Is the Welfare State Justified?. Shapiro, professore associato di filosofia all’Università del West Virginia, unisce alla sensibilità per le questioni teoriche un interesse per il reale funzionamento delle istituzioni. La sua traiettoria intellettuale spiega in parte le ragioni del libro. Da giovane, Shapiro era un «liberal» a tutto tondo: e pertanto generalmente scettico sull’intrusione dello Stato nella
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sfera delle libertà personali, quanto convinto della bontà dell’intervento pubblico nell’economia. Dopo aver compreso «come funzionano i mercati», Shapiro è virato verso posizioni libertarie - ha cominciato cioè a ritenere illegittimo e dannoso l’operato dello Stato, anche in ambito economico. Di qui, il sospetto che i suoi colleghi «liberal» sostanzialmente non comprendano quali risultati effettivamente sortiscono le istituzioni a favore delle quali si schierano. La sfida di Is the Welfare State Justified? è suggestiva: dimostrare, all’interno della stessa cornice dell’egualitarismo contemporaneo, che lo Stato sociale non serve allo scopo. Chiuso il volume, Shapiro lascia al lettore «liberal» due alternative. Lo scenario più ottimista per i sostenito-
ri del welfare così com’è, è il seguente: le istituzioni dello Stato sociale sono ingiuste, sappiamo che vi sono alternative migliori (basate almeno in parte sul libero mercato), ma siccome non siamo sicuri di poter organizzare una transizione che non leda ulteriormente taluni principi di giustizia, dobbiamo andarci coi piedi di piombo. Lo scenario peggiore è che lo Stato sociale è ingiusto, ci sono alternative migliori e la transizione è possibile. Il che significherebbe che il matrimonio fra egualitarismo e socialdemocrazia non s’aveva proprio da fare. Daniel Shapiro, Is the Welfare State Justified?, Cambridge University Press, 324 pagine, 27,99 dollari
altre letture Elisabetta I: «La
peculiare sfortuna di questa donna fu quella di avere cattivi ministri, dal momento che pur essendo lei malvagia di suo, non avrebbe potuto commettere danni di così vaste proporzioni, se questi uomini vili e dissoluti non fossero stati conniventi e non l’avessero incoraggiata nei suoi crimini». Il giudizio - lo direste mai? - è di un’adolescente Jane Austen, che per fratelli e compagni di studio si divertì a comporre una Storia d’Inghilterra dal Regno di Enrico IV alla morte di Carlo I (a cura di Franco Venturi, La vita felice, Milano 2007, 105 pagine, 8,50 euro). Opera, come dichiarato dall’autrice, di «uno storico parziale, prevenuto e ignorante» e quasi del tutto priva di date, che si offre alla lettura lieve, «come uno scambio di confidenze».
Il volto del Cristo
risorto, così come l’aveva dipinto Piero della Francesca nella sua Resurrezione conservata a Sansepolcro, campeggia realissimo sulla copertina. E in effetti, nessun Gesù sembra a noi più vicino di quello. (Nonostante Ottone Rosai, anche lui autore di una tellurica Crocifissione, avesse da eccepire, in termini molto toscani, su quanto un volto si potesse ritenere «somigliante» al Figlio di Dio). Il volto di Gesù di Flavio Caroli (Mondadori, 112 pagine 17,00 euro) è un viaggio, attraverso i millenni, nell’iconografia cristiana, sempre frutto dell’immaginazione umana: dall’antichità all’arte contemporanea.
In Cina lo si usava come un rimedio. I taoisti lo celebravano come un elisir d’immortalità. I buddisti giapponesi svilupparono un vero e proprio corpo di pratiche rituali intorno a lui. Fino all’incontro, per certi versi fatale, con la cultura occidentale che se ne appropriò con metodi non proprio urbani. Stiamo parlando del tè, a cui Beatrice Hohenegger ha dedicato un documentatissimo studio che non si ferma ai miti delle origini e alla storia della sua diffusione, ma che svela le delizie di questa bevanda attraverso leggende familiari, porcellane ideate per gustarla, la descrizione di tea-houses o soffermandosi sull’importanza dell’acqua per la sua infusione. Liquid Jade. The Story of Tea from East to West, St. Martin’s Press, New York, 320 pagine. In attesa di leggerlo anche in italiano…
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il caso
LA VICENDA DELL’INTELLETTUALE ITALIANO, FIGURA DI SPICCO NEGLI STATI UNITI CHE FU “ESPULSO” DALLA EINAUDI PERCHÉ NON ALLINEATO. LE PRESSIONI DI TOGLIATTI, IL RUOLO DI PAVESE
La cacciata di Poggioli di Mauro Canali ei giorni 25, 26, 27 ottobre dello scorso anno si è tenuto negli Usa un convegno sulla figura di Renato Poggioli. Anche se si trattava di un intellettuale italiano di grande spicco, l’evento in Italia è passato del tutto inosservato. La stampa italiana ha continuato a ignorare Poggioli, come lo aveva ignorato per tutto il secondo scorcio del secolo scorso. Il convegno americano ha avuto carattere itinerante, con le tre sessioni tenute rispettivamente alla University of Massachusetts Amherst, alla Brown di e a Harvard. Providence L’attenzione dedicatagli da queste tre prestigiose Università spiega già di per sé l’importanza che Poggioli ha e ha avuto negli Stati Uniti. Grande cultore di slavistica, la sua notorietà ai piani alti della cultura americana fu sanzionata da Saul Bellow che trovò il modo di citarlo in Herzog. La sua maggiore opera, La Teoria dell’arte d’avanguardia, The theory of the avant-garde è tuttora considerato negli Stati Uniti un testo fondamentale per gli studi di comparatistica e teoria letteraria, mentre in Italia non è più stampato dal 1962, e ingiustamente ignorato dal circuito degli studi accademici. I motivi di questa damnatio memoriae sono da ricercare nella sua complessa biografia politica e intellettuale. Renato Poggioli fu tra quegli intellettuali antifascisti che si videro costretti a emigrare verso la fine degli anni Trenta, quando il regime fascista, all’approssimarsi della guerra, decise di inasprire il controllo politico al proprio interno. Con la ulteriore restrizione di spazio per l’attività intellettuale, fu giocoforza per non pochi andare a respirare aria più libera nei paesi che la garantivano. Gli Stati Uniti furono la meta di molti di questi intellettuali, e Poggioli fu tra questi. La sua partenza fu dettata da motivi di prudenza, poiché sapeva
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bene che il regime fascista aveva preso a esercitare su di lui un certo controllo a causa delle frequentazioni con alcuni ambienti intellettuali di Firenze non del tutto allineati ai dettami del regime. Grazie al paper presentata al convegno di ottobre del 2007 da Laurent Béghin, ora sappiamo di più sulle origini del suo interesse per la letteratura slava, sulle influenze esercitate sui suoi studi da Ettore Lo Gatto, nel corso degli anni Venti, quando erano apparse alcune sue traduzioni di poeti russi e bulgari, tra i quali Essenin. Nel 1929 si era laureato in letteratura russa, e da allora aveva preso a viaggiare nei paesi dell’Europa orientale. Nel 1931 fu a Praga, prima per seguire alcuni corsi alla Charles University e poi nella veste di segretario dell’Istituto italiano di Cultura. Fu durante il lungo soggiorno nella capitale cecoslovacca che egli potè affinare in modo decisivo la sua conoscenza della letteratura slava, tanto che nel 1933-34 gli venne affidato dall’Università di Firenze l’insegnamento di Letteratura russa. Terminato il suo anno accademico, Poggioli, che aveva nel frattempo sposato Renata Nordio, preferì tuttavia tornare con la moglie a Praga, per poi trasferirsi con lei dal 1935 al 1938 in Polonia, prima a Vilnus e poi a Varsavia. Nella seconda metà degli anni Trenta, ormai affermato studioso di slavistica, Poggioli venne chiamato a collaborare con le più prestigiose riviste letterarie. Suoi scritti apparvero su Pan, Il Convivio, Nuova Antologia, Solaria e Letteratura. Poggioli si trovava nel pieno della sua maturità intellettuale, quando la situazione politica europea prese a precipitare rapidamente verso la guerra. Le drammatiche vicende politiche del 1938, l’Anschluss con l’annessione dell’Austria alla Germania, che preludeva, come era facile comprendere, a una grave crisi euro-
pea, lo convinse della necessità di abbandonare l’Italia e di raggiungere gli Stati Uniti. Poggioli probabilmente s’era reso anche conto di essere entrato ormai in qualche modo nel mirino delle strutture repressive del regime. Al convegno dell’ottobre scorso, nella giornata inaugurale la figlia di Poggioli, Sylvia, ha fornito a quest’ultimo riguardo ulteriori elementi, raccontando che ad attirare l’attenzione del regime sui genitori, era stata Eva Kuhn, la vedova di Giovanni Amendola, la quale aveva incontrato i Poggioli in Polonia, e i due, fidandosi della vedova di un martire antifascista, le avevano manifestato la loro avversione per il regime. Secondo la versione fornita dalla figlia di Poggioli, Eva Kuhn, che aspirava al posto occupato da Renato Poggioli di lettore di Italiano presso l’Università di Varsavia, avrebbe inguaiato il giovane riferendo a Marinetti i sentimenti antifascisti manifestati dai due Poggioli. Da Marinetti alla polizia politica il passo era stato breve. Anche se in quella circostanza i due giovani l’avevano fatta franca, per la copertura che aveva garantito loro un amico giornalista, corrispondente da Varsavia della Agenzia Stefani, Renato appena gli si offrì l’occasione non esitò a espatriare. Renato e sua moglie giunsero negli Stati Uniti nell’estate del 1938. Ad aiutarli a emigrare era stata Luisa Nordio, una sorella della moglie, membro di Giustizia e Libertà e collaboratrice di Salvemini. Dopo un breve periodo di insegnamento trascorso allo Smith College di Northampton, nei primi mesi del 1939 venne chiamato a insegnare nella prestigiosa Brown University, dove rimane fino al 1946, per poi trasferirsi definitivamente a Harvard. Arrivò negli Usa nel 1938, e si legò molto presto agli ambienti politici antifascisti che ruotavano attorno a Salvemini. Fu, nel settembre del
1939, tra i fondatori della Mazzini Society, l’organizzazione che intendeva raccogliere l’esule antifascismo democratico d’oltreoceano. Ma, prima di questa esperienza, era stato, dal 1939 al 1942, tra i fondatori e tra i più convinti attivisti della Mazzini Society. Egli, da Providence, agiva in stretta relazione con Salvemini, che risiedeva allora a Boston. I due parteciparo-
no intensamente al dibattito che agitò la breve esistenza della Mazzini Society occupando posizioni critiche verso la presidenza di Max Ascoli, e contrarie a chi intendeva trasformare i caratteri originari della Mazzini Society, la quale, a dire di Poggioli e Salvemini, doveva rimanere una organizzazione di esuli italiani, e non uno strumento della politica
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periodo in cui il pellegrinaggio politico in Urss da parte di intellettuali organici al Pci, seguiti generalmente da reportages pubblicati dalla stampa comunista dove si esaltavano le conquiste dei lavoratori e la libertà di cui essi godevano in quello che veniva letteralmente definito il «paradiso dei lavoratori», era assai difficile che una casa editrice come Einaudi, dove il comitato di redazione era costituito per tre quarti da intellettuali legati al Pci, potesse pubblicare il lavoro di Poggioli, Il fiore del verso russo, in cui non solo erano presenti tutti poeti che erano o erano stati in rotta col regime sovietico, qualcuno anche rinchiuso nei gulag, ma era accompagnato da un commento di Poggioli molto esplicito sulla persecuzione degli intellettuali in Urss. Della pubblicazione del libro era stato incaricato Cesare Pavese. Nel convegno dell’ottobre 2007, Roberto Ludovico, uno studioso che era già intervenuto sulla questione dei rapporti Poggioli-Pavese in un precedente convegno, ha presentato una relazione con la quale viene approfondita l’analisi
In alto, Leonardo Huzlev tra Italo Calvino e Giulio Einaudi, ritratto anche nella foto a destra. Nel tondo, Palmiro Togliatti. A sinistra, Cesare Pavese
americana. Le sue posizioni di opposizione al fascismo si accompagnarono a quelle altrettanto nette manifestate nei confronti del comunismo. Poggioli rimase sempre fedele allo spirito della originaria Mazzini Society, la piccola organizzazione a cui egli aveva dato vita, insieme a Salvemini, LionelloVenturi e altri esuli nel settembre del 1939, con un programma orientato contro tutti i totalitarismi e per la difesa dei valori liberali affermatisi nel Risorgimento e calpestati dal fascismo. Alla primavera del 1946 risale la fondazione, insieme all’amico fraterno Luigi Berti, della rivista Inventario, con la quale Poggioli intendeva partecipare al moto di rinnovamento culturale e politico dell’Italia uscita dalle rovine della guerra e dal ventennio fascista. Egli aveva riannodato i legami con il mondo intellettuale italiano e, in particolare, con quello fiorentino. Ma l’impegno culturale di Poggioli rivolto verso l’Italia non intendeva limitarsi alla pubblicazione della rivista. Egli si proponeva alle case editrici italiane come un mediatore culturale fra Italia e Stati Uniti allo
scopo di far conoscere in Italia scrittori americani e negli Stati Uniti scrittori italiani. Lo scoppio della guerra fredda gli creò le prime difficoltà. L’egemonia che il partito comunista italiano esercitava sulla cultura del dopoguerra ebbe immediate ripercussioni anche sull’attività culturale di Poggioli. Furono soprattutto le case editrici più vicine al partito di
Togliatti a manifestare imbarazzo nei confronti della collaborazione di Poggioli. Con Einaudi la vicenda assume i contorni grotteschi di una attività persecutoria verso un intellettuale non schierato la cui unica colpa era stata quella di essere un liberale e di aver manifestato nei suoi trascorsi politici avversione per tutti i regimi totalitari, comunismo incluso. In un
del carteggio intercorso tra lo scrittore piemontese e Poggioli, sia i contenuti «eretici» del lavoro Il fiore del verso russo, uscito poi nel 1949 con una prefazione dello stesso editore Einaudi, il quale prudentemente metteva le mani avanti, prevedendo una reazione dei vertici comunisti, sia il lavoro successivo, Teoria dell’arte d’avanguardia, che non vide mai la luce, poiché questa volta ebbero successo le pressioni esercitate da Togliatti in persona sui suoi «chierici», presenti in maggioranza negli organismi decisionali della Einaudi. La Teoria vedrà la luce solo nel 1962 con la casa editrice Il Mulino. Naturalmente la posizione di punta nella bocciatura del lavoro spettò a Pavese, il quale con una imbarazzatissima lettera a Poggioli rendeva noto che la pubblicazione del suo lavoro avrebbe provocato non solo una crisi interna alla Einaudi con le dimissioni di importanti intellettuali comunisti ma si sarebbe ripercossa nei rapporti tra la casa editrice e il Pci. Gravi sono i dettagli che emergono riguardo agli strascichi che ebbe la pubblicazione del Fiore del verso russo. Il gruppo di intellettuali della Einaudi
che espresse giudizi sull’opera ormai stampata era costituito da Carlo Muscetta, Antonio Giolitti, Natalia Ginzburg, Francesco Jovine, Felice Balbo e Cesare Pavese. Erano tutti intellettuali organici col partito comunista. Muscetta lo definì «sostanzialmente schifoso», mentre Giolitti, che tentò di far giungere il libro a Togliatti, in quel momento in viaggio, si scontrò con uno dei collaboratori più stretti del Migliore nella politica culturale, e cioè Felice Platone, che addirittura rimase «disgustato» dalla lettura del Fiore. Giolitti tuttavia concordava con Platone, commentando che «in coscienza» non sa «dargli torto». L’unica che prese le distanze da questa sorta di Tribunale del popolo istituito alla Einaudi, è Natalia Ginzburg, la quale definì il Fiore un «bellissimo volume», e si raccomandò a Francesco Jovine affinché fosse lui a recensirlo, a garanzia di un trattamento meno duro di quello che il libro avrebbe avuto se fosse finito nelle mani di un fanatico militante della causa. Come racconta in un suo lavoro Luisa Mangoni, la reazione di Togliatti fu durissima. Egli minacciò la casa editrice d’interrompere la pubblicazione in atto dei suoi scritti. A questo punto la casa editrice decise di sospendere la pubblicazione del secondo libro, La teoria dell’arte d’avanguardia, e della comunicazione a Poggioli venne incaricato Pavese. La reazione di Poggioli non si fa attendere e alle sue proteste, che, come riferisce Roberto Ludovico, si basavano sull’indipendenza dell’arte, in forza della quale egli non si sentiva né rosso né nero, Pavese replicava con un’altra lettera in data 16 febbraio 1950, con la quale gli comunicava il definitivo accantonamento del suo lavoro. Poi, con alcune osservazioni tra l’ironico e il risentito ci offre un quadro illuminante sulla condizione di asservimento della cultura al partito comunista. Pavese scrive: «Badi, però, che il Suo rifiuto - «né rosso né nero» - significa attualmente in Italia «sospeso tra cielo e terra», «né dentro né fuori», «né vestito né ignudo» - insomma una situazione quale soltanto Bertoldo seppe sostenere e con una facezia dopo tutto. In Italia, ripeto, non so altrove». La corrispondenza assunse toni ancora più aspri, fino a quando Pavese non si decise ad ammettere che era stato il Pci a mettere il veto sul nome di Poggioli, che, nel frattempo, la stampa comunista aveva preso a indicarlo come un agente al soldo degli Stati Uniti. Alla luce del «caso Poggioli» appaiono risibili i tentativi passati di non pochi studiosi di far apparire il precedente «caso Vittorini» e la chiusura del suo Politecnico un incidente di percorso della politica culturale di Togliatti e del Pci. Il caso Poggioli riferisce di una assoluta e convinta sudditanza di estesi settori della cultura italiana a Zdanov e all’Urss.
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tv di Pier Mario Fasanotti ermane la difficoltà di costruire telefilm polizieschi sul modello americano, insuperabile. Prendiamo per esempio Ris - Delitti imperfetti, in onda il giovedì su Canale 5. L’impianto è sostanzialmente scattante e coerente, gli attori, pur non ancora svincolati dal canone teatrale, scivolano di rado - e quando avviene è per colpa del copione - nel tragico-burlesco. In ogni caso s’avvertono differenze con i prodotti made in Usa come Criminal Minds, Cold Cases, Csi (con triplice sfondo cambia: New York, Miami e Las Vegas). Lo scenario è Parma, sede appunto del nucleo scientificamente più avanzato dei Carabinieri. Quelli che buttano alle spalle l’intuito alla Maigret o alla tenente Colombo per confidare interamente sulla tecnologia. Dopo il delitto di Cogne (lì c’era il Ris vero, e qualche pasticcio lo ha combinato) tutti ormai sanno che le tracce infinitesimali di sangue si possono vedere con il Luminol. La Parma color mattone viene spesso fatta vedere dall’alto, come la New York dei detective che sanno tutto anche sui movimenti dell’anima (esperti comportamentali che camminano ormai su una laurea o due). Il duro non manca: è il capitano Venturi (Lorenzo Flaherty), accento romanesco, aria perennemente sofferta che attenua (o esalta?) la consapevolezza narcisistica d’essere un «bell’Antonio», ombroso alla Brancati. Un po’ troppo tribolata la sua faccia greco-romana a dire il vero, altalenante tra l’esigenza della disciplina di gruppo e la cocciutaggine dell’investigatore solitario. Niente sfugge a quella squadra in camice bianco: s’avrebbe quasi la voglia di credere che nella realtà sia davvero sempre così. Nell’episodio intitolato «Il peso della tradizione» il soggettista Pietro Valsecchi si rifà all’attualità più recente: una ragazza pakistana che vive a Torino (mai un accento sabaudo, così come a Parma mai quello emiliano!) è oppressa dal padre tradizionalista che la vorrebbe sposa a un conterraneo e invece la vede scappare di casa. Lei muore. Più analisi che intuizioni, prove con manichini sul colpo infertole da mano mancina, esame di fibre asiatiche e così via. Il colpevole sta partendo dalla Malpensa. E qui lo scivolone, in ossequio all’esigenza di far scattare il meccanismo «arrivano i nostri» o meglio di inserire un po’di movida nell’intelaiatura narrativa (ben montata, peraltro). Corsa in macchina alla Malpensa, entrata nell’aeroporto senza sapere dove parte l’aereo per Karachi. Non bastava una telefonata alla polizia aeroportuale? Manco per idea, ci voleva l’azione (sgangherata) a tutti i costi. A New York si telefona, prima.
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Ris Parma Il poliziesco viene meglio “made in Usa” (nonostante gli sforzi) web
UN MEC PER LA RETE
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a Commissione europea ha fatto sapere di voler formare un mercato unico dei contenuti online per favorire i cittadini nell’utilizzo dei contenuti della rete. Il piano, secondo la Commissione, incentiverà le società di telecomunicazioni a divulgare «una sempre maggiore mole di contenuti, liberi di essere visionati da un numero sempre crescente di persone».
La Commissione europea vuole formare un mercato unico dei contenuti online L’adozione di un mercato unico, inoltre, migliorerebbe la competizione nei settori come musica, giochi e cinema, «con relativo aumento delle entrate». Viviane Reding, commissario Ue per la Società dell’Informazione, ha dichiarato come allo stato attuale «vi sia una mancanza di chiarezza nelle leggi per la protezione del diritto d’autore, che genera dibattiti fra le parti interessate». Proprio per questo la Commissione ha delineato quattro punti fondamentali «per una svolta europea»: disponibilità dei contenuti creativi, diffusione delle licenze multiterritoriali, trasparenza dei sistemi, controllo della pirateria.
games
NELLO SPAZIO CON MASS EFFECT
G
uerre Stellari, senza i protagonisti di Guerre Stellari. Potrebbe essere questa una sintesi efficace per descrivere l’ambientazione di Mass Effect, l’ultimo action-rpg prodotto per Xbox 360 dalla Bioware, la software house diventata celebre con Baldur’s Gate, Jade Empire e Knights of the Old Republic (prodotto con licenza Star Wars). Miscelando molto bene le parti
È una vera delizia per qualsiasi amante della fantascienza classica. Con licenza Star Wars d’azione con quelle più complesse da «gioco di ruolo», Mass Effect è una vera delizia per qualsiasi amante della fantascienza classica. Si naviga nelle profondità dell’universo, fino ai margini delle galassie più remote, inseguendo un plot in cui il ruolo del giocatore è quantomeno impegnativo: salvare le sorti dell’umanità. I pianeti da esplorare sono migliaia. E in ognuno è possibile scoprire nuove forme di vita aliena, risorse preziose, civiltà scomparse e tecnologie misteriose. Il tutto, naturalmente, tenendo d’occhio il complesso sistema che gestisce le statistiche del personaggio, come in ogni rpg che si rispetti. Galattico.
dvd
IL NOWHERE DI HAYNES-DYLAN
P
aladino dei diseredati, menestrello dolente e più spesso rabbioso, rockstar consumata dallo stesso sistema che ha combattuto. In quarant’anni di carriera, Bob Dylan ha sempre schivato i biografi e a caccia di deduzioni facili. La sua è una di quelle esistenze che viaggiano veloci, come pietre scalciate dalle traiettorie imprevedibili. Le stesse inseguite da
Non delude “Io non sono qui” dopo l’entusiasmante apparizione sul grande schermo Todd Haynes in Io non sono qui, da poco uscito in dvd dopo l’entusiasmante apparizione a Venezia. Mockumentary in apparenza sfilacciato, il lavoro del regista di Velvet Goldmine è in realtà un autentico caleidoscopio di immagini e suoni, regolato da soluzioni di racconto originali e un montaggio evocativo di un periodo, gli anni Settanta, votato al caos. Di volta in volta interpretato da sei alias, tra cui spiccano Cate Blanchett e il compianto Heath Ledger, Robert Zimmerman si è detto molto soddisfatto. Forse Bob non è del tutto qui, ma il film di Haynes, per un paio d’ore buone, ne trattiene lo spirito.
cinema
MobyDICK
2 febbraio 2008 • pagina 11
America amara Dai Savages a “Into the Wild” di Anselma Dell’Olio endy e Jon Savage sono due fratelli quarantenni, abbandonati da ragazzi prima dal padre violento ed egoista, e poi dalla madre, uscita una sera e mai più rientrata. Questo il retroterra, la premessa di un film che in originale si chiama The Savages, un nome di famiglia che può anche essere letto come «i selvaggi». Wendy e Jon (i nomi di battesimo alludono ai bambini Darling, compagni di Peter Pan) saranno costretti a una convivenza insolita, al confronto con ferite famigliari mai rimarginate e con le loro vite irrisolte, quando scoprono che il padre è in piena demenza senile e senza più dimora, sfrattato dai figli della sua convivente appena morta che lo ospitava, ansiosi di vendere la comoda villetta. Tamara Jenkins è la geniale autrice di La famiglia Savage, maestra nel catturare il bizzarro, surreale umorismo di cui sono intrisi gli incidenti di percorso dei rapporti umani. Gli eventi che danno l’avvio alla commedia che segue l’accidentata e tardiva «formazione» di due vecchi ragazzi alle soglie della m e z za’età
W
sua attività fisica è limitata allo spostamento dei libri che coprono ogni superficie della sua casa, e appena si cimenta in una partita di tennis è colpito da un torcicollo mostruoso. Docente di letteratura in un’università di provincia, lascia che la fidanzata polacca con visto scaduto torni in patria perché troppo
mento dialoghi sono ottimi, cosa sempre più rara. Fate attenzione alla colonna sonora: le canzoni fanno da sottile e
regie precedenti, grazie a un’immedesimazione quasi mistica con l’Eroe. Se Penn è noto per il fervore politico e l’assenza d’ironia (sostiene Dennis «Ho visto un Ufo» Kucinich, il candidato pacifista della looney left per le presidenziali americane), McCandless (l’emergente Emile Hirsch) disprezza l’auto nuova che i suoi gli regalano per la laurea, taglia i rapporti con loro, regala i suoi risparmi a Oxfam e brucia i documenti. Si sente un «viaggiare estetico», contento di fare lavori occasionali per finanziare il suo pellegrinaggio verso l’Alaska, terra di riscatto. Sulla sua strada, fa una serie d’incontri rivelatori del suo carattere e dell’affetto protettivo che suscita negli estranei. Un’ex-hippie (la fantastica C a t h e r i n e Keener) ascolta il suo sfogo contro l’ipocrisia e il materialismo dei genitori, e risponde: «Sembri un ragazzo molto amato. Sii giusto». P e n n esalta i l
avvengono a Sun City, una comunità per anziani agiati. Sarebbe criminale rovinarvi il gusto di scoprire la vita degli abitanti e i loro surreali passatempi e divertimenti, dall’ora di ginnastica seduti agli spettacoli musicali e le coreografie di gruppo. La geometrica perfezione e pulizia del quartiere, le macchinette elettriche da golf che sostituiscono le macchine, tutto sembra artifizio copiato allo scenografo di Truman Show, e che invece realmente esiste e prospera in Arizona. Wendy, commediografa frustrata, vive di lavori precari a New York con la sua gatta Genghis e un ficus ed è in perfetta forma fisica. (Quando le chiedono se è sposata, ribatte: «No, il mio fidanzato è sposato»). Jon ha la trippa rotonda: la
sfiduciato per sposarla. Chiunque abbia affrontato la decadenza e non autosufficienza di un genitore, si troverà sballottato tra fitte di dolore e risate liberatorie di fronte a un’opera tanto realistica quanto esilarante: le decisioni penose, i rancori mai sopiti, i devastanti sensi di colpa nel disporre di un anziano inerme nel modo più conveniente per se stessi. È quel raro film tanto zeppo di scene e battute sublimi e sorprendenti da richiedere una seconda visione per apprezzarle tutte a dovere. Laura Linney è nominata per l’Oscar (come la sceneggiatura), ma perché non pure lo stupefacente Jon di Phillip Seymour Hoffman e il padre perfettamente credibile di Phillip Bosco? Pure il doppiaggio e l’adatta-
ironico contrappunto alle scene, una più bella dell’altra. Un solo appunto. Perché i registi pensano che mettere una parrucca scura in testa a una bionda la fa più «vera»? La Linney merita un premio doppio per la bravura nonostante l’animale morente che ha in capo, impossibile da ignorare. ***** Into the Wild è la storia di Christopher McCandless, ventenne di famiglia agiata, un idealista innamorato della natura, di Tolstoj e del sogno di una vita antimaterialista. In questo film elegiaco e coinvolgente, tratto dal libro di Jon Krakauer Nelle terre estreme, Sean Penn supera le cupezze delle sue
suo desiderio d’autosufficienza emersoniana, ma da tutto e da tutti, in senso letterale e integralista. Il suo ingenuo panteismo, l’illimitata fiducia nelle proprie forze e nelle ricchezze naturali di una terra vergine lo inducono a inoltrarsi nella foresta con un fucile e poco altro. E senza una mappa: l’hubris gli costerà cara. Si renderà conto che lo splendore dell’universo è incompleto se non è condiviso con altri essere umani solo quando è troppo tardi. La terribile ironia è che la salvezza era a poche miglia di distanza. Non è la purezza degli ideali che lo sconfigge, ma il delirio d’onnipotenza di un ragazzo amabile e viziato. Da non perdere.
MobyDICK
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poesia
La discrezi di Filippo La Porta
E come a li orbi non approda il sole, l paesaggio è desolato, agrigio. Ci troviamo nella Divina Commedia - XIII Canto del Purgatorio - all’interno della cornice dell’invidia (si tratta del secondo vizio per gravità, dopo la superbia). Gli invidiosi hanno le palpebre cucite con fil di ferro, come si usava fare con i falconi selvaggi già adulti, per poterli addestrare meglio. La pena consiste dunque - contrappasso per contrasto - nel condannare alla cecità proprio chi in vita aveva troppo guardato, con odio e rancore apprensivo, alle esistenze e ai beni altrui. Può anche darsi che l’immaginazione dantesca non sia del tutto esente da impulsi sadici, come gli viene rimproverato, sia pur rispettosamente, nei dipartimenti delle università americane, ma in questo caso il castigo sembra obbligato, se pensiamo all’etimo latino di invidia: invidere = «guardare con ostilità». Dante incontra gli espianti, esclusi dalla luce, con i loro manti dal colore di pietra (colore livido, che metaforicamente richiama il peccato), rivestiti con il «vil cilicio» - un abito pungen-
I
così all’ombre quivi, ond’io parl’ora, luce del ciel di sé largir non vole; chè a tutti un fil di ferro i cigli fora e cuce sì, come a sparvier selvaggio si fa però che queto non dimora. A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto: per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio.
DANTE Divina Commedia, Purg., XIII, vv. 67-75
UN POPOLO DI
ANTARTIDE A TEATRO drammaturgia
drammaturgia poetica non è arte molto praticata nella LLa anostra contemporaneità. Ci si è misurato Mario Luzi (Ipazia, Passione), ma più spesso altri autori si sono soffermati sul
testo poetico intervendo poi su di esso in funzione di una trasposizione teatrale. Il dramma, inteso in senso etimologico, azione cioè descritta poeticamente, appartiene invece appieno all’ispirazione poetica di Roberto Mussapi. Villon, dramma a due voci sul poeta francese, nell’ultima notte in carcere prima dell’esecuzione, e Il testimone ispirato alla vita di Caravaggio già spiegano l’intento dell’autore: «La mia scommessa, che ha altissimi modelli, muove in una direzione in parte differente: mi interessa l’incanto dell’evento, il disorientamento shakespeariano, l’ipnosi della commedia… Quando da ragazzo, iscritto senza esitazioni a Lettere Moderne, convinto di essere poeta e
Con la regia di Giancarlo Cauteruccio, protagonista unico Virginio Gazzolo, dall’8 febbraio a Firenze pieno di speranza di esserlo davvero, frequentavo anche i teatri, gli studi di arte drammatica, recitazione e regia, credevo si trattasse di un diversivo che avevo deciso di permettermi. Invece, scoprii che non si era trattato di un diversivo, ma di un percorso propedeutico: non intendevo diventare attore o regista, lo sapevo benissimo, ma, cosa che non immaginavo, sarei diventato anche drammaturgo, e la palestra del teatro è fondamentale, quanto la lettura dei classici per un cucciolo che aspiri a diventare poeta». Adesso Antartide o dell’immersione nel bianco di Roberto Mussapi debutta al Teatro Studio di Scandicci a Firenze, (l’8 febbraio alle 21,15) con la Compagnia teatrale Krypton diretta da Giancarlo Cauteruccio. Protagonista unico è Virginio Gazzolo, voce narrante che racconta della metaforica conquista del nulla che sa tramutarsi in ritorno e salvezza. Perché Antartide è metafora della condizione e della crisi dell’uomo contemporaneo. Repliche fino al 17 febbraio.
te che tormenta la pelle -, immobili, raccolti dalla parete rocciosa, uno sulla spalla dell’altro (il contrario della loro solitudine in vita). In quel momento, schiacciato dalla compassione, il poeta sente di commuoversi fino alle lacrime: «per li occhi fui di gran dolore munto». Il dolore gli spreme il pianto. Nei versi successivi (vv. 73-75) Dante ci mostra una sua reazione a quella scena, reazione che trovo straordinaria, e che mi sembra non solo sintomo di delicatezza d’animo ma esemplificazione di carità autentica. Vedendo gli invidiosi, che non possono vederlo, Dante prova infatti un senso di rimorso. Non accetta la posizione di superiorità che quella situazione gli conferisce («A me pareva andando fare oltraggio, / veggendo altrui, non essendo veduto:»). La trova ingiusta, arbitraria. Sente in quel modo di «oltraggiare» le anime espianti. Prova un senso di vergogna nel vedere qualcuno che non può vedere lui. Pensa di offenderlo proprio a causa del suo osservatorio privilegiato, violando in ciò
C’è una porta davanti a me.
È di legno di ebano. Si sorregge da sola. Devo entrare?
Il cuore non consiglia. Forse avverte. Ma è condizionato
Il fiume che scorre dentro di essa è sangue. Sto attento a non toccarlo. Potrebbe pulirmi. Non so di chi è. L’aria è tenue. Lo spirito è diverso. La pantomima si avvicina.
L’attraverso. Forse non tradisce. Qui l’aria è apparentemente diversa. Possibile?
Cerco di allontanarmi. C’è una porta davanti a me. È di legno. Di ebano. Si sorregge da sola. Devo entrare?
Chi mangia la carne di un altro si appropria i suoi peccati. La porta potrebbe rigurgitarmi.
L’attraverso. Forse non tradisce.
Mi allontano. La porta rimane sempre alla stessa distanza. Possibile?
Sono di nuovo qui. Il cuore consiglia. La pantomima si avvicina. Addio
La Porta di Stefano Pandolfi
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
MobyDICK
2 febbraio 2008 • pagina 13
one di Dante e il senso della carità la fondamentale uguaglianza creaturale. Si tratta di un modo non moralistico di fondare la morale. Questa non dipende infatti dall’adesione a principi astratti, non obbedisce a imperativi categorici della coscienza, ma nasce dal sentimento, dal fondo umido dell’esistenza (benché illuminato dall’intuizione intellettuale); e coincide con la nostra scelta personale del tutto «ingiustificata» - di far esistere gli altri, la loro irripetibile diversità, e anche quei diritti che nemmeno rivendicano (mentre il superbo sceglie di non far esistere il prossimo). Come sempre nella Commedia una immagine così densa di significati allegorico-simbolici quella degli spiriti degli invidiosi - si impone anche per la sua concreta fisicità: qui l’analogia è tra le anime penitenti - ombre impalpabili, fantasmatiche - e quei poveri mendicanti ciechi che di fronte alle chiese nelle feste sacre chiedono l’elemosina e cercano in tutti i modi di impietosire, con i lamenti e con il loro aspetto. L’immaginazione visionaria si compenetra di un ricordo personale del poeta. Credo che Dante sia non solo
un indiscutibile classico letterario, che qualsiasi canone, per quanto relativista, alternativo, femminista, multietnico, etc., dovrebbe includere, ma soprattutto un maestro capace di parlarci, di interrogarci continuamente e in modo stringente, benché abitiamo un mondo così irriducibilmente diverso dal suo. Proviamo a usare quella immagine e applichiamola al presente. Oggi tutti noi vediamo gli altri senza che possano vederci - attraverso la tv e i media - e non ne proviamo nessuna vergogna. Ogni sera sui nostri teleschermi sfila - accanto ai divi dello spettacolo e ai leader politici - una massa cenciosa, derelitta, che contempliamo con distacco, magari con finta commozione ed esibendo uno sdegno che dura lo spazio del telegiornale. Mi viene in mente una pagina del diario di Albert Camus in America Latina, alla fine degli anni Quaranta. Quando viene invitato a Rio de Janeiro per una conferenza si offrono di accompagnarlo in tour a vedere i poveri delle favelas, anche per rendersi conto personalmente della loro situazione. Eppure lo scrittore francese si rifiuta di farlo
perché sa che soltanto «vedere» quella gente significa «oltraggiarla», violarne l’intimità. Non crede alla falsa pedagogia della pensosa contemplazione dell’orrore né accetta questa «oggettiva» prepotenza morale (cfr. Viaggio in America del Sud, Città aperta). Così lo scrittore giapponese Kenzaburo Oe, premio Nobel nel 1994, ci ricorda che le ragazze di Hiroshima, con il viso devastato da cheloidi, «si sentono umiliate dagli sguardi degli altri, che non hanno il volto deturpato da quelle orribili cicatrici» (cfr. Note su Hiroshima, Alet). A volte occorre abbassare lo sguardo. Rifiutarsi di vedere, come ci suggeriscono quei versi del Purgatorio, con la loro musica trattenuta, malinconica, e con una intensità figurativa che evoca le bolge dell’Inferno. A Dante, nel momento in cui vede «altrui non essendo veduto», sembra di non rispettare qualcosa di profondo, di «sacro», di connaturato al nucleo inviolabile dell’essere umano, e non una semplice regola civica. La sua è una lezione «esistenziale» prima ancora che morale.
il club di calliope
POETI Dove adesso sotto il promontorio
c’è una serra di venti capriate attendo dietro il finestrino svettare l’ultima infestante quel saluto sempre presente come il ricordo
che arriva simile a un fantasma soffiando via la serra di zucchero lasciando il campo aperto e i fiori del cardo che donne emozionate coglievano e piantavano nelle tasche dei grembiuli rosse in viso brune nelle ciocche spostate sulle labbra ridenti ancora di un riso fatto serio quando incontravano la sera prendendo l’abbraccio del compagno con le mani dietro la schiena strette nel fascio di sorprese di speranze. Fantasmi 1
di Enrico Fraccacreta
Le parole s’intrecciano con il richiamo della tortora. Si fa sera. Il monotono canto accompagna il declinare del sole, si fermano i pensieri ai bordi delle inquiete sortite del cuore. La libertà al crepuscolo è un’anima vagante, instancabile danzatrice sulle note sempre uguali della tortora appollaiata sul ramo più alto del cedro. Cosa chiedere di più alle divinità agresti di questa pace breve che si stende sul corpo provato, esausto, ma ancora Tempio d’amore che custodisce ricordi? S’innalzano lente le puerili preghiere, mentre nel cielo l’ultimo volo della tortora consuma lo sguardo notturno.
GENNARO MALGIERI da Le ali del Tempo (Pagine)
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arti
pittura
Immersione nei colori del maestro
Scialoja
di Marco Vallora
no entra nella Galleria del Segno dell’amica Angelica Savinio (una garanzia) per trovare un altro amico caro del pensiero, quale Toti Scialoja e non vorrebbe staccarsi più, vorrebbe saltare in quei magnifici giardini e gradini di segni, mettersi un po’ a riposare, come un nullafacente, e non andarsene più. Ho come l’impressione che il postino vabbè oggi non si chiamano più così che, entrando con me, ha scaricato lettere e pacchetti, anche lui sia rimasto incantato dalla musica sotto-labbra e zanzarosa di Scialoja, e stia ancora qui, senza sapersi staccare, bighellonando.
U
grigio mentale delle nature morte di Braque del 1911, un balsamo grammaticale che addizionando risuscita», frase magnifica che ben sintetizza il suo modo aereo e però incisivo di graffiare la superficie impressa delle sue «carte» (vedere che cosa gli riesce di fare con un poco d’incrostata carta igienica insanguinata). Perché oltre che poeta, Scialoja è stato un magistrale «parlatore» di pittura, come ben dimostra quel capolavoro di libro in progress che è il Giornale di Pittura: forse il miglior testo in assoluto d’un artista che sveli i segreti del suo laboratorio. Allora che rabbia, quando qualche sussiegoso cretino dice ancora: «Sì, Scialoja... ma è così decorativo!». Perché, anche Matisse e in fondo persino Picasso, Mondrian e Duchamp con i suoi ready made, non son forse «decorativi»? E quel nulla assoluto di Schnabel, allora - oppure Jeff Damien Non è vero che il postino suona sempre sta prima mostra, è la breve cronistoria Koons? Sta bene così: noi ci arrestiamo due volte: oggi ha voglia solo di riempir- d’un autodidatta, che a sua volta si alla stazione Scialoja. Sì, possiam anche si di colore. Ed è in sintonia con questa incantava d’altri pittori e li assorbiva e li fare due passi e penetrare come in bella mostra gentile, combinata da «rieseguiva» inventivissimamente nelle sogno nel Tempio babilonese di Barbara Drudi, che prelude a un’altra sue sensibili e sensuose tele. Quasi Gagosian, le porte che si schiudono sulprossima, di Scialoja ma come maestro volesse interpretare uno spartito menta- l’attenti, il body gard con auricolare rea(sappiamo che dalle sue parole sono le, cantare le glorie degli altri, ma in ganiano, il panico di finire in uno show nati all’Accademia artisti come modo personalissimo. La passione mai room di stilista à la page, con l’angoscia Kounellis e Pascali, Nunzio e... tanti, spenta per Morandi, per esempio, nono- d’avere il calzino bucato o le scarpe tanti, non basterebbe lo spazio qui a stante il modello giovanile fosse Van infangate, e dover provare le ultime elencarli, vedremo quali, nel prossimo Gogh (la sua matrice «espressionista», Nike... Twombly? Decisamente meglio, pannello. L’incantava: la sua sciarpa e il mai rinnegata): «il mio modello era Van dell’ultima volta senile, alla Biennale. suo basco, anche in casa, e quel suo Gogh, mitizzato sulle quadricromie». Ma a noi, ci basta anche il Toti. sguardo bleso di cagnone perplesso, (Scialoja è sempre stato attratto dal come un domatore di pulci, diventate a mondo delle impronte e delle lastre). E Omaggio a Toti Scialoja, Galleria del sua sorpresa leoni. Qui, invece, in que- più che Picasso, Braque: «l’argento e il Segno, Roma
autostorie
La 911 Porsche sponsorizza aspiranti scrittori di Paolo Malagodi ella continua ricerca di immagine che, al di là delle solite forme pubblicitarie, ogni brand automobilistico persegue nei più vari modi, non sono infrequenti le iniziative di carattere culturale. Pur nettamente superate, per numero e rilievo, da quelle legate ad attività sportive o a eventi di costume come nel caso, ad esempio, di Alfa Romeo per le sfilate di Milano Moda. Basta, tuttavia, entrare nel dominio della decima musa per osservare che, alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, i divi percorrono il lungomare tra l’Hotel Excelsior e il Palazzo del Cinema a bordo di vetture Lancia. Per una presenza che dal 2006 coinvolge la
N
marca italiana, nel ruolo di partner della rassegna e su un palcoscenico lagunare che ricalca quanto avviene al Festival di Cannes, nella parata alla Croisette delle star su auto Renault. In campo musicale, è Volkswagen a sponsorizzare da un biennio la stagione lirica dell’Arena di Verona; mentre Mercedes sostiene la rassegna internazionale di musica sacra, in programma nelle maggiori basiliche romane. Mentre non mancano incursioni nella musica leggera, con i tour di grandi interpreti che spesso annoverano il supporto di marchi automobilistici e sino al forte ruolo avuto, alcuni anni fa, da Ford in ben sette edizioni del Festival di Sanremo. Va poi notato che la variegata comunicazione dell’auto si appoggia, talvolta, a rassegne teatrali o di arti visive per concludere che, di questi tempi e nel
nostro Paese, solo la letteratura parrebbe immune dalla presenza promozionale delle quattroruote; ma non è così, se si considera che i vertici italiani di un prestigioso brand hanno scelto di dare, proprio a tale filone, un particolare peso. Promuovendo una selezione nazionale per aspiranti scrittori, svolta in diverse città attraverso eliminatorie che mettevano a disposizione dei concorrenti 911 minuti - numero che, non a caso, coincide con quello del più noto modello Porsche - per sviluppare la traccia narrativa prescelta dalla giuria. La partecipazione, libera sino all’ultimo momento, è stata numerosa con una valutazione particolarmente impegnativa per la qualità degli elaborati. Che nelle tre tornate sinora concluse del concorso hanno avuto diversi approcci, per ognuno dei quali è
stata svolta una selezione e con i racconti più meritevoli pubblicati da Porsche in tre volumi: il primo (Giro rapido, letteratura itinerante in 911 minuti, 226 pagine) ispirato al tema del viaggio; il secondo (Tiro rapido, letteratura gialla in 911 minuti, 224 pagine) dedicato al genere «noir»; il terzo (Volo rapido, letteratura creativa in 911 minuti, 152 pagine) nel quale trova spazio la libera immaginazione dei partecipanti. Una triplice antologia che, in tiratura limitata a 911 copie, sino a esaurimento è richiedibile gratuitamente all’indirizzo: attivita.culturali@porsche.it. Permettendo a un fortunato manipolo di godere della singolare iniziativa editoriale targata Porche, che raccoglie la fresca vena di racconti nei quali l’automobile è spesso protagonista.
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2 febbraio 2008 • pagina 15
architettura
Moretti, un grande non abbastanza riconosciuto di Marzia Marandola uigi Moretti, uno dei progettisti più dotati dell’architettura del Novecento, esordisce giovanissimo a Roma, dove è nato nel 1907. La prima parte della sua brillante carriera architettonica si svolge all’ombra del partito fascista di cui è membro attivo ed entusiasta. In questa fase, come responsabile dell’edilizia della Gioventù italiana del Littorio, costruisce alcuni riconosciuti capolavori dell’architettura moderna, prima fra tutti la celebre Accademia della Scherma (1936) al Foro Italico, negli anni Ottanta deturpata per essere adattata ad aula bunker per i processi successivi all’assassinio di Aldo Moro. Dopo una drammatica pausa dovuta alla guerra e alla caduta del fascismo, che gli costò alcuni mesi di carcere a Milano San Vittore, la sua attività progettuale riprende vivacemente fino ad assumere una dimensione internazionale legata alle iniziative della Società generale immobiliare. Tra le opere più significative di questo periodo spicca il complesso residenziale Waterga-
L
te (1961) a Washington e la Tower of Change (1961) di Montreal, che ne siglarono la fama al di là dei confini italiani. Nonostante gli straordinari edifici costruiti a Milano e a Roma, valgano per tutti il formidabile complesso polifunzionale di corso Italia (1949) e le residenze di via Corridoni (1948) a Milano; la palazzina del Girasole (1949), gli uffici Esso (1962) e il villaggio Olimpico (1958) a Roma, l’opera di Moretti non ha goduto di un pieno apprezzamento critico. La sua controversa figura politica e le sue sorprendenti configurazioni formali ne hanno fatto una sorta di «caso» mai pienamente affrontato dalla storiografia. A vent’anni dalla sua morte improvvisa, avvenuta nel 1973, i materiali relativi alla sua attività professionale sono stati depositati all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Si tratta di numerosi schizzi, disegni tecnici, fotografie e plastici oltre che riviste: materiali che consentono finalmente una messa a fuoco della sua produzione e del ruolo che ha svolto nell’architettura italiana e internazionale. In attesa di una
mostra antologica, che è in preparazione, l’archivio ha allestito nelle sale della sede all’Eur a Roma, un’esposizione dei documenti e dei disegni. Un allestimento minimalista, essenziale e programmaticamente didattico, sa sfruttare al meglio la luminosità delle sale dell’archivio e si giova di alcuni filmati d’epoca, appositamente montati, di grande efficacia evocativa. Le stesse caratteristiche guidano l’asciutto catalogo, pubblicato dall’editore Palombi, curato da Luisa Montevecchi con, tra gli altri, un saggio di Peter Eisenman e un’attenta schedatura di Flavia Lorello. Si tratta di un’iniziativa che non ha nessuna ambizione critica, ma che, sulla falsariga di una mostra che Moretti allestì, sulla propria opera, nel 1971 a Madrid, mette a disposizione del più vasto pubblico, bellissime testimonianze grafiche, fotografiche e plastiche dell’opera di un intellettuale discusso e tormentato, di un grande costruttore. Moretti visto da Moretti, Roma, Archivio Centrale dello Stato, piazzale degli Archivi 27, fino al 15 marzo 2008
design
Tripudi d’argento nella reggia del Re Sole di Marina Pinzuti Ansolini ersailles, 1686. Luigi XIV, meglio conosciuto come il Re Sole, si appresta a ricevere l’Amba-
V
sciata del Siam in visita ufficiale; le cronache raccontano come la reggia francese apparisse, allora, nel suo momento culminante di lusso e di sfarzo decorativo. Per l’occasione, il
trono, collocato all’estremità della scintillante Galleria degli Specchi, era circondato da una straordinaria quantità di oggetti in argento. Un secolo prima, un’Infanta di Spagna, futura sposa dell’imperatore di Vienna, aveva portato, nel suo corredo, una tavola in argento cesellato, introducendo così una nuova moda in Europa centrale, ricca, per altro, di miniere di questo metallo. Più tardi, in Francia, Anna d’Austria, predilige l’uso dell’argento per la decorazione del suo appartamento nel Louvre ed è probabilmente da lì che Luigi XIV trae ispirazione per la sua collezione. Durante il corso di venti anni farà eseguire duecento pezzi eccezionali per peso, dimensioni e qualità, disegnati da Charles Le Brun, primo pittore di corte, e realizzati dai più valenti orafi parigini. La Grande Argenterie del Re Sole avrà purtroppo vita breve. Nel 1689, il suo trono, insieme a tavoli, sedie, statue, candelabri d’ogni tipo e dimensione, vasi e bruciaprofumo, parascintille,
piatti, brocche e accessori da toletta dovranno essere fusi e venduti per sostenere la campagna contro la Lega di Augusta. Di tanta meraviglia è rimasto solo, purtroppo, qualche raro disegno, e oggi, grazie a un’iniziativa del Museo di Versailles, la reggia del Re Sole, rivive l’antico splendore per merito di una mostra eccezionale: Quand Versailles était meublé d’argent. Le più importanti corti d’Europa hanno generosamente accolto l’invito di prestare, per l’occasione, la loro argenteria, la stessa realizzata all’epoca per gareggiare in sfarzo e bellezza con quella francese. Per la mise en scène, una star dell’interior design, Jacques Garcia, noto e conteso in tutto il mondo per i suoi interni, fra cui l’hotel Costes e Le Fouquet’s a Parigi. Appassionato collezionista e profondo conoscitore del Grand Siècle, l’architetto ha saputo ricreare la magia dei fasti barocchi, lungo un percorso che si snoda attraverso nove sale che comprendono il Salone d’Ercole, l’Appartamento del Re e la
Galleria degli Specchi. Centocinquanta oggetti del più prezioso design barocco, provenienti principalmente dalla collezione della Reggia di Rosenborg, a Copenaghen, presente nella mostra con settanta pezzi in argento. Il trono danese è accompagnato da uno dei tre magnifici leoni, fatti eseguire, nella seconda metà del 1600 dal sovrano Federico III, ispirato dal quadro di Rubens, Il giudizio di Salomone dove il re dell’Antico Testamento appare, maestoso, circondato da dodici leoni. Altre meraviglie provengono dai Castelli di Windsor, di Maerienburg, di Hoheenzollern; dal Castello di Chatsworth del duca del Devonshire e dal Castello di Forchtenstein della principessa Esterhàzy, nonché dal Castello di Dresda e dal Tesoro del Cremlino di Mosca. Fino al 9 marzo, a Versailles, un evento irripetibile. Quand Versailles était meublé d’argent, Versailles, fino al 9 marzo
MobyDICK
pagina 16 • 2 febbraio 2008
ai confini della realtà
fantasy
La Bussola d’oro e i malintesi sul libero arbitrio di Roberto Genovesi a Bussola d’Oro è stato il film di Natale. Bella storia, ottimi effetti speciali, attori azzeccati, una splendida colonna sonora che vede sovrapporsi ai titoli di coda la voce di una Kate Bush in grandissima forma. Viene naturale quindi andarsi a fare anche un giro su You Tube per curiosare nel mare magnum del materiale multimediale di provenienza ufficiale e ufficiosa dedicato al film. C’è molta roba interessante, ve lo assicuro, soprattutto sul fronte degli user generated contents e cioè dei filmati realizzati dai fan. Ma c’è anche qualcosa di inquietante. Se digitate le parole golden compass christian in sequenza, vi ritrovate una sfilza di commenti e di warning che invitano a disertare le sale, ad allestire roghi e a boicottare comunque e in ogni modo la visione del film e la lettura del ciclo scritto da Philip Pullman da cui è stato tratto. Secondo la vulgata diffusa dalla rete, La Bussola d’Oro sarebbe un film anticri-
L
stiano perché la Chiesa verrebbe rappresentata come una congrega di cattivi che cerca di privare l’uomo del libero arbitrio. Il tutto sarebbe suffragato dalle dichiarazioni di ateismo convinto di cui lo stesso Pullman non fa mistero nel suo sito personale nel quale, tra favole e filastrocche, non si dimentica di attaccare la religione definendola (trovata originale) l’oppio dei popoli. La confusione regna sovrana, da una parte e dall’altra. Provo a fare un po’d’ordine. Intanto i detrattori della Chiesa continuano da secoli a fare confusione tra ciò che questa istituzione fa quotidianamente come struttura secolare e ciò che, attraverso simboli, scritti, figure rappresenta e testimonia su impulso del suo fondatore che, fino a prova contraria, si è fatto perfino mettere in croce per difendere le sue idee. Se mai vi è stata, vi è o vi sarà contraddizione tra alcuni comportamenti clericali (francamente ampiamente condannati dagli ultimi due pontefici) e
le parole del Vangelo, non solo le colpe non possono essere ascritte a chi si è fatto mettere in croce per difenderle ma nemmeno possono essere sminuite per altrui travisamenti o strumentalizzazioni. Dunque è inverosimile che si possa pensare che, di fronte alla visione del film o alla lettura del libro, un cristiano si senta colpito, offeso o vilipeso di fronte a una supposta congrega religiosa, vagamente assimilabile alla gerarchia vaticana, che cerca di limitare le scelte
umane. Un buon cristiano sa, infatti, che due sono i doni principali che ha ricevuto dal giorno della nascita: l’anima e il libero arbitrio. Non li ha ottenuti con il gratta e vinci ma li ha ricevuti come risultato di un sacrificio umano e divino, quello del Golgota. Dunque ben vengano maghi, streghe, bambine dotate di poteri medianici, orsi parlanti e tutti i cavalieri, mercenari, pirati, zigani di questo mondo uniti se l’obiettivo è quello di difendere il libero arbitrio da chi ce
lo vuole togliere. Pullman nel suo sito ripete più volte anatemi contro la religione e contro la Chiesa ma, come mi insegnava il mio vecchio maestro di catechismo, lo Spirito Santo persegue i suoi obiettivi senza chiedere permesso e il nostro autore anglosassone, pur se inconsapevolmente, ne è un fedele servitore anche se crede di esserne nemico giurato. Perché non importa ciò che lui pensi del Vaticano e quanto lo desideri arso tra le fiamme dell’inferno nella sua visione di un tripudio di preti pedofili, corrotti prelati e untuose monache represse. La verità è che parla da cristiano perché quando dice che il libero arbitrio è un bene inestimabile che va difeso anche con la vita, non fa che ripetere l’esperienza di un soldato romano di nome Paolo che un bel giorno ha deciso di gettare via la daga e di diventare uno dei padri della Chiesa. Grazie a una scelta dettata dal libero arbitrio. Ed è questo quel che conta.