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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
La città partenopea nelle immagini di Riccardo Carbone
ELEGIA PER NAPOLI di Gennaro Malgieri apoli è un luogo dell’anima. Comunque la si consideri non lascia indiffetatta nonostante le ferite che hanno martoriato il suo corpo e sulle quali gli unguenNegli renti. Oggi non meno di ieri. È come una donna il cui fascino non sfioti non alleviano i dolori. Eppure è un miracolo la sua vitalità che la rende imrisce mai, nonostante gli anni passino inesorabilmente e un depermeabile alle offese che quotidianamente le vengono arrecate. Ed è un scatti del stino non proprio benevolo si accanisca su di lei. Ha l’aria peccato che il lungo lamento a cui si abbandona non venga ascoltagrande fotoreporter stanca, ma è ancora seducente. Cerca di nascondere le rughe to da chi pure dice di non poter fare a meno di lei. È commodel “Mattino”, quarant’anni che la segnano, ma non ci riesce e s’immalinconisce. Il vente la sofferenza di Napoli, elemento della sua Bellezza, Tempo, però, è un «grande scultore», come diceva ma, paradossalmente, anticamera di un Inferno che di storia (1930-1970) diventano ci si ostina a nascondere. Marguerite Yourcenar, e s’incarica di renderla il racconto di un luogo dell’anima, in bilico attraente comunque, proprio come quelle anime Tra questi due poli si dispiega il sorriso malincoperenne tra Inferno e Bellezza. che non si dissolvono, ma permangono nella memoria nico della città dell’anima attraversata da convulsioni di chi le frequenta, le abita, le accudisce, le ama di un amoche si gettano nel suo mare calmo quando a sera sulla suUn album dei ricordi re passionale, esclusivo, quasi carnale. Napoli risponde con la freperficie si fermano i sogni, i pensieri e le sofferenze le si vorrebche riaccende nesia che si porta dentro dalla notte dei tempi e non delude, neppure be annegare in quelle acque che non sembrano neppure sporche. la speranza adesso che la luce del tramonto la colpisce rendendola un po’più misteriocontinua a pagina 2 sa, rinnovando in chi vi si accosta senza pregiudizi lo scandalo della Bellezza in-
N
9 771827 881301
00206
ISSN 1827-8817
Parola chiave Moderatismo di Franco Ricordi I Massive Attack dettano (ancora) legge di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Un inedito di Daumal, poeta del Grand Jeu di Paquale Di Palmo
I Sessanta in giallo e nero di Orio Caldiron La vendetta di Mihaileanu di Anselma Dell’Olio
Artefiera, il regno del déjà vu di Marco Vallora
napoli
elegia per
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segue dalla prima
me è stato nel passato, può anche essere una spinta formidabile verso la rinascita, il tempo in cui la Bellezza fa nuovamente irruzione nella storia della città e la ricrea come centro propulsore di vita, di arte, di cultura, di dialogo, di incontro. Non fu così che Napoli s’impose nel Mediterraneo e oltre in tempi ormai dimenticati? E non fu questa la rinascita di Napoli, in epoca più recente, dopo l’ultima guerra, per esempio, quando cercava tra le rovine una sua identità che Carbone era pronto a cogliere e a pubblicare suo giornale? L’incredulità dei bambini, la fatica degli uomini, la speranza delle donne, le pietre che si posavano sui luoghi considerati perduti per sempre al cospetto della storia ritornano in queste immagini di un grande reporter che ha saputo interpretare l’intimità dei protagonisti e il carattere di una città il cui avvenire non è certo disegnato da chi non ha dimostrato di amarla.
Un mare ricco di storia, che s’infrange contro scogli sui quali, paradossalmente, la storia sembra essersi fermata. Ed è questo che Napoli non sopporta: essere uscita dalla storia. Ma è proprio così, ci chiediamo increduli dopo averla attraversata in lungo e in largo, esserci estraniati dai monumentali disastri che la popolano, esserci addentrati nelle viuzze della gloria dimenticata, esserci attardati davanti ai tuguri e ai palazzi che descrivono la miseria e la nobiltà di una città nella quale i poveri e i ricchi hanno sempre avuto, almeno fino a quando non è stata invasa dalla plebaglia dei corrotti e dei corruttori con i portafogli gonfi, una straordinaria dignità portata con naturale eleganza, per come potevano portarla l’ignorante e il colto, il derelitto e il borghese, l’«arrangiatore» e l’aristocratico? Sì è così. E vorremmo essere smentiti, ma la fuoriuscita di Napoli dalla storia è un fatto incontestabile che neppure l’amore e la pietà possono negare. La storia, infatti, si è fermata davanti ai disastri urbanistici, alla criminalità che mette a ferro e fuoco la città, alla paura che invade i «bassi» e i quartieri alti, la sporcizia diventata fonte di ricchezza per delinquenti che ignorano la sorpresa di Goethe quando la visitò e la scoprì più linda e seducente e ricca e capricciosa di Parigi.
La storia si è arenata sulla cenere di un sentimento della vita andato in fumo, sui sogni che nessuno insegue più, sulle passioni rattrappitesi a contatto con una materialità indecente contro la quale stanno le lacrime, per chi ancora ne ha, di napoletani rassegnati all’Inferno, ma pur sempre legati all’idea di Bellezza di questa città che nasconde spicchi di Paradiso i quali, tuttavia, non possono restituirle lo spirito che si è nascosto rendendola dolente, ripiegata su se stessa, rabbiosa a volte, rinunciataria al punto di non riconoscere più la sua antica nobiltà racchiusa nelle forme, nelle strutture, nei giardini, nelle dimore, nel canto sottile che si ode tra Posillipo e Mergellina mentre albeggia in primavera e il cielo è una promessa di vita in poche ore destinata a disperdersi. Da qui la stretta al cuore che provocano queste fotografie di Riccardo Carbone (raccolte nel volume Napoli di Riccardo Carbone, Minerva Edizioni, 206 pagine, 29,90 euro, ndr). Non si rischia un infarto, ma soltanto una benefica commozione perché ci restituiscono, sulla soglia dell’Inferno, l’immagine dell’ultima bellezza di Napoli immortalata dall’obiettivo del grande fotografo del Mattino tra il 1930 e il 1970. Non sono soltanto foto per un giornale: guardandole una dopo l’altra costituiscono la trama di un racconto, o forse un romanzo, quello di un’epoca o, più verosimilmente, il reportage di uno speciale osservatore, figlio di una città amata, che ha saputo con la sua macchina fotografica penetrare l’intensa vita di donne e uomini affaccendati attorno alla quotidianità e allo straordinario, alla depressione e alla rinascita. Carbone è riuscito a restituire concretezza ai sentimenti e poesia alla vita minuta; ha saputo cogliere l’eleganza negli sguardi dei bambini, negli assembramenti gioiosi e dolorosi, negli occhi vivi e bellissimi di affascinanti prostitute cui niente era più estraneo della volgarità; ha penetrato con il suo strumento le passioni, le frenesie, gli eccessi della sua gente e ha fermato l’armonia di un mondo per quarantenni sulla pellicola raccontando così quasi la metà di un secolo disperato e sublime, terribile ed entusiasmante, frastornante e leggero come è stato il Novecento. La Napoli di Carbone è così la patria di tutti, se si può dire, nella quale si sintetizzano gli umori di un’epoca che non possiamo ignorare. È così, con quest’opera in bianco e nero, che il fotografo napoletano ci riporta in una dimensione che ci appartiene, a prescindere dal fatto che si sia o meno napoletani, perché descrive la vita in un angolo di mondo depurandola delle scorie dell’apparenza e fermando l’attenzione su elementi immateriali nei quali ognuno potrà riconoscersi, a qualsiasi latitudine, ovunque si trovi. L’attraversamento di una storia come questa fa anche intendere che il dolore, co-
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni
(...) Carbone è rimasto là dove il destino volle che nascesse. Forse per raccontarci un’altra Napoli che se, anche di recente sembra essersi estinta, non è detto che non debba tornare. I tempi e i modi non possiamo prevederli. Ma certo è che rassegnarsi alla sua fine non è in linea con lo spirito dei napoletani i quali, soltanto agli occhi di chi non li conosce, possono apparire poco tenaci e volitivi. Guardate queste fotografie: la voglia di vivere gioiosamente si sposa con la voglia di fare. È un quadretto tanto apollineo che dionisiaco che Carbone ci offre, certamente ben al di là della sua stessa intenzione, riuscendo magnificamente a rappresentare il carattere del napoletano al quale della «napoletanità» rimane molto, nonostante tutto, a cominciare dalla sua lingua, il dialetto. (...) Non manca la «voce» alle fotografie di Carbone che oggi potrebbero essere perfino catalogate come reperti di un passato a cui i napoletani sono particolarmente affezionati, anzi, secondo qualcuno, ne avrebbero una vera e propria «ossessione». Non c’è niente di male... Poiché soltanto amandosi così intensamente i napoletani possono resuscitare quel sentimento della «napoletanità» che dovrebbe essere l’identità della loro città, al punto di farli vivere costantemente in una nostalgia profonda per ciò che non hanno più e vorrebbero avere, almeno coloro i quali hanno la consapevolezza del sogno perduto, dell’incantesimo infranto. (...) È così che sfogliamo l’album di Carbone: con un filo di umanissima speranza, piuttosto che di tristezza, inanellando un’immagine dopo l’altra, rimandi a culture diverse, a sintesi dimenticate, a contaminazioni profondamente vissute. Perché tutto questo ancora è Napoli... È la sacralità mediterranea che ha concepito una città così. Memoria vivente di passaggi emblematici nella cultura di un mare intriso di poesia, di musica, di arte di amore e soprattutto di religione, Napoli è la Bellezza vivente che si tormenta al limitare dell’Inferno su cui è pericolosamente in bilico. Dov’è un altro luogo dell’anima così impregnato di suggestioni e di sacre epifanie? (...) Dopotutto Napoli, per uno di quei disegni indecifrabili del destino, è la città che accolse l’ultimo respiro di Giacomo Leopardi che pure amava la vita e ne conosceva la caducità. Forse non poteva morire altrove. Quel 14 giugno 1837, a Capodimonte, il poeta esalava l’ultimo respiro. Ma poco prima, rivolto all’amico Antonio Ranieri che lo assisteva in compagnia della sorella Paolina, con gli occhi sbarrati disse: «Io non ti veggo più… ci vedo meno… apri quella finestra… fammi vedere la luce…». A giugno il crepuscolo a Napoli dura a lungo. Dalla collina si poteva scorgere ancora il volo delle rondini nel sole che si tuffava nel mare. La luce fu l’ultima cosa che Leopardi chiese. Non poteva essere diversamente. Napoli, oltre che luogo dell’anima, è città della luce, come sanno i poeti e i fotografi. Sopra, alcune foto di Riccardo Carbone. Al centro, Eduardo De Filippo, in una rappresentazione di Pulcinella, e Totò mentre vota
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
(Brano tratto dalla Prefazione al volume Napoli di Riccardo Carbone, 40 anni di storia nelle immagini di un grande fotoreporter napoletano,, Minerva Edizioni)
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MobyDICK
parola chiave
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MODERATISMO iamo profondamente convinti che nel dibattito politico e culturale di questi tempi vi sia una parola che non è stata adeguatamente elaborata: moderatismo. Tutti sappiamo cosa significa essere moderati e conosciamo almeno il senso politico di questo atteggiamento. Ma il significato più profondo del moderatismo, che si potrebbe anche definire liberalismo moderato, sfugge ancora in maniera abbastanza vistosa alla nostra più autentica cognizione. E forse ne possiamo anche ipotizzare un perché: il moderatismo è infatti una realtà e una tendenza costante che, da almeno otto secoli, ha avvicinato e incrementato in Europa la relazione fra politica, religione e cultura: e tuttavia non è ancora stato riconosciuto come tale. Non è stata compresa la fondamentale importanza di questo collante che risulta essenziale alla nostra storia e alla società occidentale. Non che non sia possibile rintracciare le radici del moderatismo anche nel pensiero dell’antichità greca e romana, che passerebbe certo per Platone e Aristotele, Plutarco e Seneca, Cicerone e Virgilio. Ma il problema è analogo a quello denunciato da Dante quando ci presenta le anime del Limbo: la metafora di Dante è tanto più moderna e importante se intesa non in quanto esclusione dal Regno dei Cieli di coloro che sono nati prima di Cristo. È invece la consapevolezza della più autentica problematica del secondo millennio cristiano che già allora risultava evidente: la possibilità di coniugare la logica aristotelica, ovvero la scienza filosofica che aveva sconvolto la cultura europea dell’epoca, con la religione cristiana che si era nel frattempo diffusa nel continente, quindi il necessario dialogo col cristianesimo. E non è un caso che proprio Virgilio, poeta e pensatore moderato per antonomasia, riconosca di essere vissuto «nei tempi degli dei falsi e bugiardi». Il paganesimo avrà pure esercitato una sua cultura moderata, ma ormai essa è stata superata dal primo millennio cristiano. E il proposito dantesco, analogo a quello di San Tommaso, non può che diventare quello di avvicinare l’aristotelismo alla religione cristiana.
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Qui ha inizio la storia del moderatismo europeo. Che non è e non può essere una dottrina, ovvero una ideologia religiosa: è invece l’accettazione del laicismo che si coniuga e convive con il cristianesimo, in una maniera che può e deve essere intesa sia dal laico che dal cristiano. E che risulterà aperta anche all’essenziale dialogo interreligioso, come avviene nel dramma di Lessing Nathan il saggio (dove si incontrano e si legittimano l’ebreo con il musulmano e il cristiano) che non a caso è attinto da una novella del Decameron di Boccaccio. Il confronto con il cristianesimo è essenziale, nel secondo millennio cristiano, come indicano Dante e Boccaccio. Ma tale messaggio, religioso e laico al contempo, continua la sua sedimentazione in tanti altri grandi spiriti del secondo millennio: da Shakespeare a Cal-
La sua fondamentale importanza di collante non è ancora stata riconosciuta, anche se da otto secoli è la tendenza costante che ha incrementato in Europa la relazione tra politica, religione e cultura. È il nuovo esistenzialismo del XXI secolo
Quel dialogo tra laici e cristiani di Franco Ricordi
È l’ideologia del nostro essere o non essere. Il suo proposito è quello di salvare il mondo. Non cambiarlo, ma porsi come il giusto viatico per poter intravedere una salvezza dai totalitarismi che ci hanno investito e che potrebbero ulteriormente farsi strada. Magari rielaborando la politica di De Gasperi e Adenauer deron e Cervantes, da Goethe a Schiller, da Montaigne a Pascal, da Kant a Croce, insieme a tanti altri poeti, letterati, filosofi e artisti che, laici o anche atei come Molière e gli stessi Leopardi e Nietzsche, possono essere considerati padri profondi del moderatismo in quanto dialogo anche se a volte più che mai problematico - con il cristianesimo. Tuttavia nel secolo XX si perviene a una sorta di drammatico ultimatum per la comprensione e l’accettazione di questo lungo e profondo messaggio della cultu-
ra europea: il dialogo fra laici e cristiani si concretizza inevitabilmente nell’accettazione di una realtà superiore che viene messa in crisi soltanto nel Novecento, secolo della distruzione globale e della possibilità del nichilismo effettivo. Questo è oggi il fatale compimento del moderatismo, la consapevolezza soteriologica, il riconoscimento della tragica situazione in cui nonostante tutti gli sforzi dell’umanità a noi precedente ci ritroviamo: la possibilità della fine effettiva dell’avventura umana, ovvero anche di una
sciagura mondiale di proporzioni catastrofiche che potrebbe, anche se non annientarla, comunque compromettere la vita e la società dell’uomo. In tal senso il moderatismo è semplicemente l’ideologia del nostro essere o non essere, come nel bellissimo omonimo libro di Gunther Anders. E il suo proposito, in maniera simile ma anche profondamente contraria a quello di Brecht, è semplicemente quello di salvare il mondo. Non cambiare il mondo, come voleva il poeta di Augsburg, ma molto più drammaticamente cercare di porsi il giusto viatico per poter intravedere la sua salvazione: e non soltanto dalla armi atomiche ovvero dalle possibilità di nuovi orrori e conflitti internazionali; ma anche dalle opportunità connesse delle nuove armi che «non conosciamo», da quelle ambientali a quelle virtuali e spettacolari.
Il moderatismo è in tal senso un nuovo esistenzialismo del XXI secolo, che possiede implicitamente un rimando alla filosofia e alla politica e che le implica entrambe strettamente e reciprocamente l’una verso l’altra. E poco importa se possa essere considerato laico o cristiano, religioso o ateo. Il fatto importante è che sia inteso nella sua determinata concezione in riferimento a un XX secolo di cui non abbiamo ancora maturato adeguatamente un consuntivo: questo è dettato dalla più disincantata visione della nostra «situazione spirituale» come nel pensiero di Jaspers. Il merito della sua filosofia, come ha scritto Galimberti, è anche quello di aver saputo coniugare religione, cultura e politica. E così il suo esistenzialismo, la sua domanda sull’essere, in tal senso analoga a quella di tutti i più grandi filosofi del XX secolo (ma lui soltanto fu politicamente un moderato, a differenza di Heidegger e Sartre) risulta ulteriormente incrementata da questo triplice collante. Jaspers specificava come la filosofia non fosse teologia, l’Essere non è Dio; ma questo non toglie nulla al suo impegno religioso e politico: non a caso Jaspers curò l’introduzione al più importante libro di Hannah Arendt, sua illustre allieva, Le origini del totalitarismo. Jaspers e Arendt sono forse due riferimenti obbligati per una nuova ricognizione del moderatismo: un pensiero tragico, ma che solo in quanto tale si oppone alla quintessenza dei totalitarismi che ci hanno investito e che potrebbero ulteriormente farsi strada. Certo l’Italia e la Germania sono i due paesi europei che meglio possono intendere la quintessenza del moderatismo: dopo la catastrofe della guerra mondiale, la loro ripresa fu dovuta principalmente a un profondo radicamento nel moderatismo che permise di sconfiggere i terrorismi interni. E nel rielaborare la politica di Adenauer e De Gasperi, Moro e La Malfa, non possiamo fare a meno di essere investiti da un pensiero tragico che ci conduce verso una nuova visione del moderatismo internazionale.Tanto più ci rendiamo conto come su tutto ciò sia necessario, come diceva Sartre, riflettere e ulteriormente scrivere: a questo bisognerà «consacrare una nuova opera!».
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cd
musica
I Massive Attack dettano (ancora) legge di Stefano Bianchi hanno inventato loro, il battito elettronico alla moviola. E il trip-hop, a partire dall’anno di grazia 1991 dell’album Blue Lines e di quel gioiello di creatività intitolato Unfinished Sympathy, si è messo a impollinare dub, hiphop, funk e reggae creando ogni volta qualcosa di nuovo e imprevedibile. Sette anni dopo 1000th Window, i Massive Attack di Bristol si rimaterializzano con Heligoland. Robert «3D» Del Naja, che si è intascato il David di Donatello con Herculaneum (brano che accompagna i titoli di coda del film Gomorra, ispirato all’omonimo romanzo di Roberto Saviano) ribadendo la propria «italianità» (il padre è di Napoli), non è più solo. Accanto a lui, ritroviamo Grant «Daddy G» Marshall.Andrew «Mushroom»Vowles, il disc jockey che «modellava» i suoni campionandoli, da tempo non è più della partita. Ma non importa. Bisognava pur ricominciare, dando come sempre l’idea del gruppo duttile e malleabile: come nel ’95, quando trasformarono la plumbea Karmacoma in The Napoli Trip con la partecipazione straordinaria degli Almamegretta. E se fino a ieri, oltre che da «3D» Del Naja, le parti vocali venivano di volta in volta garantite da «ospiti» quali Tricky (quando il trip-hop doveva raggiungere il grado massimo del raggelamento), Neneh Cherry, Tracey Thorn degli Everything But The Girl, Elizabeth Frazer dei Cocteau Twins e Sinéad O’Connor, il nuovo canzoniere si affida chiavi in mano alla bravura di Martina TopleyBird, Hope Sandoval, Tunde Adebimpe dei Tv On The Radio, Guy Garvey degli Elbow, Damon Albarn dei Blur e di Horace Andy, ottimo militante in Protection (’94) e nei succitati Blue Lines e 1000th Window. Non crediate che il nerofumo se lo siano tolto com-
pletamente di dosso, i Massive Attack. Il trip-hop, dentro Heligoland, è ancora più che palpabile e fantasmatico. Eppure, in gran parte delle dieci composizioni, c’è una polpa sonora più vellutata. Una vena di malinconia che stordisce. Pray For Rain, cantata da Tunde Adebimpe e innervata da tastiere e percussioni, affonda ossessivamente nel fango ma lascia intravedere (col respiro degli archi) uno speranzoso spiraglio di luce. Spezzettata e singhiozzante, con qualche pudica incursione nel rock, Babel si affida invece alla voce di Martina Topley-Bird che ritroviamo nella folkeggiante Psyche, fra sonorità circolari che ricordano Philip Glass e la Penguin Cafe Orchestra. Gran giro di basso, torridi fiati e canto reggae (di Horace Andy) per Girl I Love You, mentre Flat Of The Blade (con Guy Garvey) si appalesa rumorista, urticante e sperimentale come Rush Minute, che idealmente si riallaccia alle claustrofobìe dei Radiohead targati Kid A. Morbida, insinuante, citazionista (penso ai Portishead, «trip-hopper» di classe tanto quanto i Massive Attack), Paradise Circus giganteggia nell’interpretazione di Hope Sandoval, mentre a Damon Albarn calza a pennello Saturday Come Slow: avvolgente ballata, che sfiora il «progressive» caro ai Genesis e ai King Crimson. Viceversa, Splitting The Atom e Atlas Air mettono rispettivamente a nudo suoni cantilenanti (con un accenno di soul cibernetico) e una gran voglia di paranoia techno che fa rima coi Chemical Brothers. E il trip-hop, in tutte queste danze da tempi bui, non fa che aggiornarsi e decodificarsi. Lasciandoci intendere, oggi come ieri, che i Massive Attack dettano legge.
L’
in libreria
Massive Attack, Heligoland, Virgin/Emi, 19,50 euro
mondo
riviste
IL RETROPALCO DELL’ARISTON
BASSA FEDELTÀ AD ALTA QUALITÀ
P
erché è stato montato il caso della canzone in dialetto quando nella sua storia il Festival ne ha già presentate tante in napoletano, sardo, veneto, calabrese e triestino? Perché non viene mai comunicato il numero effettivo di chi ha usato il televoto, ma solo le percentuali? Perché Elio e le Storie Tese non hanno vinto il Festival che, come è stato provato, era già loro? Perché i Jalis-
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and simbolo del movimento lo-fi che con loro toccò l’apice negli anni Novanta, i Pavement inaugureranno tra qualche mese il reunion tour (previste due tappe anche a Roma e a Bologna il 24 e 25 maggio). Un’occasione troppo propizia per far mancare il loro personale greatest hits, a dieci anni dallo scioglimento. Intitolata Quarantine The Past, la raccolta sarà sugli scaf-
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Gigi Vesigna accompagna i lettori alla scoperta dei misteri del Festival di Sanremo
In previsione del reunion tour di maggio, i Pavement sono in uscita con il greatest hits
I Musée Mécanique, duo che dà vita allo splendido tecno-vintage di “Hold This Ghost”
se sono stati cancellati dal mondo della musica? A questa e altre domande risponde Gigi Vesigna inVox Populi.Voci di sessant’anni della nostra vita (Excelsior, 656 pagine, 21,50 euro). Vera e propria summa dell’Ariston segreto, quello dell’autore è un gustoso portfolio che riallaccia i fili di sessant’anni di canzonette. Sfilano aneddoti, personaggi e retroscena di un’Italia fiorita e talvolta pungente. Una rassegna della canzone, che nell’astio di molti, e nella curiosità di tutti, ha colorito la storia del paese e l’ha accompagnato con alterne fortune fino a oggi. Piacevole e non privo di punte polemiche,Vesigna ci conduce dietro le quinte del palco più famoso della Penisola.
fali dall’8 marzo, così come è stata votata dai fan che hanno partecipato a un contest apposito. Immancabili i contagiosi riff di Cut your hair, che i vocalizzi indolenti di Stephen Malkmus resero indimenticabile, la rumoristica inconfondibile di Summer Babe, tre accordi sghembi che emanano scintille di personalità, i languori di Hero, la rude armonia di Gold Soundz e Range Life. In bilico tra Crooked Rain Crooked Rain e Slanted & Enchanted, i californiani a bassa fedeltà. Aprite le finestre. Finalmente una boccata d’ossigeno malsana, nell’apollineo inferno del sample-pop.
che disegnano, sul fiume Willamette, una sfumatura del paesaggio malinconico, che si riflette per tutto l’ascolto delle dieci tracce». Freak Out presenta così Sean Ogilvie e Micah Rabwin, duo americano che con il nome di Musée Mécanique ha dato alla luce l’interessante Hold This Ghost. Complice il missaggio onirico di Tucker Martin, che ha puntato forte su questo debutto, l’album suona ricco di venature dream-pop, situandosi all’incrocio tra l’ambient di Eno e i tintinnanti tappeti sonori targati Dream Box.Vorticoso, ma punteggiato di venature intimiste, l’album che Ogilvie e Rabwin hanno concepito suona come un paradossale gorgo tecnologico démodée.
a cura di Francesco Lo Dico
I CARILLON DI SAN FRANCISCO ivendo nella Bay Area in California, i due cantautori hanno sviluppato un’affinità con i videogiochi vintage, con i pianoforti giocattolo e con le stranezze ospitate dal Musée Mécanique del Fisherman’s Wharf di San Francisco. A questo si aggiunge che il quartiere di Portland, che ospita il loro studio - fondamentale fonte di ispirazione dell’album - è costellato di sequoie,
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jazz
zapping
Mick, genio del male NON PERDE IL VIZIO di Bruno Giurato il genio del male, non c’è dubbio. Mick, proprio lui. La lingua, la faccia, le giacche, le gnocche, gli zompi sul paco. Il dandy. Lui Mick, l’idolo dei salotti di New York, lui l’amico del regista diavoligno Kenneth Anger, lui, Mick, la sorella cattiva dell’altra sorella cattiva, Keith. Mick, che forse ha fatto fuori il fondatore Brian. Mick, quello che quando una cartomante volle fargli i tarocchi se ne stette buono buono e poi si mise a cantare un blues del solforoso Robert Johnson, la ammutì. Mick, quello di non giocare con me perché giochi col fuoco. Mick il genio del Capitale (das Kapital), pure: da quando ha preso in mano il management del gruppo, a metà degli anni Settanta, i Rolling Stones si sono trasformati da buco nero economico che manco l’Alitalia, in formidabili produttori di soldi. E ancora lui, Mick, quello che ha avuto l’idea geniale da ragazzino, studente di economia. Imparare la musica blues, quella dei negri più sfigati che modulavano il dolore in riti mesti, quella dei predicatori che nelle chiese del Sud cantavano meglio di James Brown, e usarne il tiro ritmico e africano per sfuculiare i giovani bianchi più arrapati, put it there/ it feels so good. Non più rito e temperanza, ma liberazione senza soddisfazione (I can’t get no...), sesso, droga, rock ’n roll (e das Kapital). E adesso lui proprio lui, in una bella intervista alla Stampa, risponde così. «Marx diceva che il capitalismo è la cosa che fa diventare aria tutte le cose del passato, le evapora». E, di grazia e disgrazia, chi è stato a portare questo meccanismo nel business, a evaporare il blues e a farne montagne di quattrini? È stato lui, Mick. Ne avevamo il sospetto, ma ora è una certezza. Il diavolo chiagne e fotte.
È
teatro
Piano solo per Chopin e Vivaldi di Adriano Mazzoletti a origini antiche l’interpretazione di pagine sinfoniche e liriche da parte di musicisti di jazz. Già negli anni Venti le prime jazz band, soprattutto italiane, erano solite eseguire «l’opera jazzata», come si era soliti dire all’epoca. Sinfonie dalle Opere di Verdi, Rossini o Puccini oppure arie dalle Operette di Franz Léhar o Virgilio Ranzato in «arrangiamenti» sincopati per orchestre di ottodieci elementi era prassi abituale. L’orchestra che più di altre utilizzava questo repertorio era la Mediolana Band di Milano che nel 1927 incise Il fox delle Lanterne dall’operetta Cin Cin Là. Negli stessi anni il pianista francese Clément Doucet incise per Columbia e Salabert libere riduzioni da pagine di Chopin, Liszt, Grieg e Wagner, con i titoli Chopinata, Hungaria, Griegiana, Wagneria, Insoldina. Quando i massimi esponenti del jazz iniziarono a esibirsi in Europa, i musicisti italiani ed europei modificarono radicalmente il loro repertorio, ispirati da altre fonti. Armstrong, Ellington, Fats Waller,Teddy Wilson divennero riferimenti obbligati. Solo dopo trent’anni, il pianista francese Jacques Louissier con il contrabbassista Pierre Michelot e il batterista Christian Garros diede vita a un trio che si affermò nell’interpretazione jazzistica di preludi, fughe, cantate, toccate, partite, arie di Bach. Nel 1965 un altro pianista francese, Raymond Fol, pubblicò una versione jazzistica delle Quattro stagioni di Vivaldi nell’esecuzione di un’orchestra di cui facevano parte anche esponenti del jazz nero americano: Johnny Griffin, Jimmy Woode, Art Taylor. Oggi che la nuova «patria» del jazz sembra essere l’Europa, due musicisti italiani hanno recentemente pubblicato alcuRiccardo Arrighini
H
ni dischi in cui opere di Scarlatti, Chopin e Vivaldi sono state rivisitate dagli eccellenti pianisti, Enrico Pieranunzi e Riccardo Arrighini. Del primo e del suo disco dedicato a Domenico Scarlatti abbiamo già detto in questa stessa rubrica, di Arrighini ne parliamo ora per segnalare le sue due ultime produzioni, Chopin in Jazz e Vivaldi Jazz. Le quattro stagioni. Dopo aver pubblicato L’anima jazz di Puccini, in cui Arrighini scopre «l’anima jazz» del grande compositore toscano, ecco Chopin e Vivaldi. Del primo, non risulta che altri pianisti abbiano affrontato su disco notturni e valzer con linguaggio jazz, del secondo è spontaneo il paragone fra Arrighini e Raymond Fol, ma nel caso specifico, il quarantenne pianista di Viareggio esegue l’opera del compositore veneziano al pianoforte, mentre Fol ha utilizzato un complesso di undici strumentisti. Arrighini con questi suoi ultimi lavori dimostra qualità di grande strumentista, improvvisatore delicato e incisivo che in modo perfetto, forse più di chiunque altro, fonde mirabilmente musica classica e jazz, riuscendo a inserire con grande naturalezza, ad esempio nella Ballata in Sol minore opera 23 n.1, «blue note» e lontane reminiscenze di piano stride. L’estro, la fantasia, l’interpretazione sempre originale, innovativa e personale, la preparazione tecnica eccellente, fanno di Riccardo Arrighini uno dei migliori e più versatili pianisti sulla scena jazzistica internazionale. Due dischi importanti che consigliamo sia ad appassionati di jazz, che di musica accademica. Riccardo Arrighini, piano solo, Chopin in Jazz; Vivaldi in Jazz. Le quattro stagioni, www.riccardoarrighini.net
Se Pulcinella va a braccetto con Obama
di Diana Del Monte hi si ostina, dunque, a dare una definizione a Pulcinella, o prende una sola di quelle rappresentazioni e arbitrariamente la innalza a canone, o, cercando il comune tra il particolare, il costante tra il vario, c’è il rischio che non gli resti in mano altro che un nome e un vestito» (Benedetto Croce). Pulcinella è maschera e ombra, corpo e figura, è definito e indefinibile, tragico e comico, colto eppure popolare. La natura complessa e profonda di questa espressione dell’essenza partenopea ha impegnato critici e intellettuali di primo livello, come Benedetto Croce, appunto, ma anche Anton Giulio Bragaglia, Ettore Massarese, Franco Carmelo Greco, solo per citarne alcuni. Nonostante ciò, la spinta propulsiva e irriverente della maschera più nota al mondo non si è ancora esaurita, al contrario, la sua riscoperta, insieme a quella di tutta la tradizione della Commedia dell’Arte, da parte del
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teatro novecentesco ha spalancato le porte alle più diverse riflessioni e connessioni con e sulla contemporaneità. L’attualità di questa figura archetipica del teatro d’attore è ora al centro di un progetto promosso da La Soffitta, centro di promozione teatrale dell’Università di Bologna, che dall’8 all’11 febbraio propone una serie di spettacoli, incontri e seminari, riuniti sotto il titolo Aspettando Pulcinella. Un viaggio alla scoperta del panora-
ma contemporaneo di prassi e poetiche riguardanti la maschera scenica guidati da alcuni importanti docenti: Claudia Contin, Antonio Fava, Eleonora Fuser, Vanda Monaco Westertåhl, Eugenio Ravo, Marco Sgrosso e dal grande artigiano Donato Sartori. La sua immagine, con il riconoscibilissimo profilo dal naso adunco e gli occhi tondi, come di un piccolo pulcino, è, infatti, un richiamo all’arte della manifattura delle maschere, utensili scenici il cui valore va ben oltre il semplice rapporto utilitaristico con l’oggetto; la maschera, dunque, strumento da mestierante che il teatro novecentesco ha riscoperto in tutta la sua artigianalità, sarà al centro di una tavola rotonda pratica a cui parteciperanno tutti gli artisti coinvolti nel progetto bolognese. Il primo appuntamento con gli spettacoli, invece, è lunedì 8 con La prima volta di Pulcinella in cui un attore, Giusep-
pe Esposito Migliaccio, mette per la prima volta la maschera; un nuovo sguardo dietro la schermatura trasformerà ancora una volta la maschera di Pulcinella? Come? Ma Pulcinella è, nell’immaginario collettivo, soprattutto un particolare modo di rapportarsi alla realtà quotidiana; è colui che, attraverso le pieghe della sua maschera grottesca, rivela le verità più imbarazzanti e scomode. Nell’Ottocento, il re dei pulcinella Antonio Petito, con la sua rappresentazione capovolse il valore di buffoneria in testimonianza, trasformando la macchietta in un arguto spirito critico che puntava lo sguardo sulla realtà a lui contemporanea. Di questa stessa chiave di lettura si avvale lo spettacolo di Fabio Acca e Vanda Monaco Westertåhl (10/02), in cui la maschera della tradizione napoletana incontra le figure odierne del nostro immaginario collettivo quali Barack Obama, Pier Paolo Pasolini piuttosto che Patty Pravo. Una nuova, ennesima trasformazione per Pulcinella che da maschera popolare diventa maschera «pop».
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narrativa
örg esce dal carcere dopo ventitré anni. Ad aspettarlo c’è Christiane, la sorella. Lui vuole a tutti i costi guidare la macchina, per sentirsi vivo, per soddisfare una curiosità a lungo maturata in prigione: piccoli gesti dietro l’ansia della libertà. Christiane decide, come sempre, per lui: lo porta in una sua casa di campagna, che divide con Margarete, e lì attendono l’arrivo dei vecchi «compagni». Jörg è «il grande terrorista», colui che dopo delitti, assalti alle banche e alle ambasciate, teorizzazioni sullo sfruttamento da parte di una società marcia e quindi da punire, ora cammina impacciato, non controlla appieno la sua gestualità. La sorella ha pensato che un improvviso tuffo tra vecchi amici gli possa fare bene. In realtà tutti gli ospiti (nella casa di campagna sono in undici) vogliono sapere della sua detenzione, dei primi atti di ribellismo armato, della tentazione al pentimento e al rimorso, visto che molti «compagni di lotta» o si sono inginocchiati dinanzi al crocefisso o hanno fatto carriera. Jörg si sente assediato, anche sessualmente per colpa di una ragazza che dichiara di voler «collezionare» un eroe tra le sue conquiste. L’uomo rimugina ciò che ha accompagnato il tempo della prigionia: chi è stato ad avvisare la polizia dando indicazioni precise su dove si nascondeva? L’imputato numero uno è un ex compagno ora giornalista di successo. Ma in realtà è innocente. Il rapporto tra l’individuo e la società da cambiare, anche con le armi in mano, non inizia e non si risolve in un contesto meramente ideologico. Qui sta la novità narrativa dell’autore di questo romanzo, Bernhard Schlink, noto ai lettori italiani di A voce alta (da cui è stato tratto il film The reader). Dietro a scelte così radicali e violente come il terrorismo c’è un groviglio psicologico che non va mai trascurato. Nel caso di Jörg, allevato praticamente dalla sorella, l’amore fraterno sfiora l’incesto e comunque dà continue svolte all’esistenza di entrambi. Sarà infatti lei a essere la vera «colpevole» della delazione che farà rinchiudere l’uomo, per cercare in tutti i modi di proteggerlo. L’ha fatto per amore, come anche per amore ha riversato in lui, in modo tipicamente materno, le grandi aspettative di vita. La stessa cosa vale per altri protagonisti: un giornalista che non ha risolto il rapporto con l’anziana madre e non ha fatto i conti intimi con il padre; un ex simpatiz-
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libri
zante della lotta armata che ammette tra sé e sé l’ambiguità della propria coscienza e del proprio eros guardando la figlia adolescente, adorata e seducente. Questo senza accantonare - e sarebbe un grave errore - la sfera pubblica del terrorismo. Jörg non s’è mai pentito, è un irriducibile, dichiarerà che «la lotta continua»: espressione che fa rabbrividire noi italiani per l’arroganza infantile (ma non sempre: sarebbe giustificatorio, in qualche maniera) di chi ha guidato l’omonimo gruppo, e per le campagne stampa di marchio nazista fatte contro il commissario Luigi Calabresi. L’autore descrive acutamente la deriva in cui si è arenata l’onda eversiva, a tal punto che si delira a proposito di un’eventuale alleanza con Al Qaeda, salvo riflettere sul fatto che i musulmani fondamentalisti in realtà odiano, e vogliono distruggere, la nostra società, mentre la sinistra ultraradicale ha l’«alibi» di volerla migliore. Sui costi umani dell’operazione gli ex del partito armato tedesco (Raf) s’interrogano ma non provano unanime profondo cordoglio per le vittime innocenti, «danni collaterali» visto che permane la convinzione di essere stati «in guerra». Malinconico è il finale di questo romanzo che, come in A voce alta, scava nel passato scandalosamente ingombrante della Germania: prima carnefice di milioni di ebrei e dissidenti, poi sul punto di infiammare la società col terrorismo come se tutte le istituzioni «colpevoli» fossero altrettanti Hitler da eliminare. Una ospite durante il weekend nella casa di campagna scrive di Jan, un terrorista che riuscì astutamente a sfuggire all’arresto fingendosi cadavere. Sul taccuino della donna si ricostruisce e s’inventa un epilogo probabile, adombrando una tragica resurrezione di un uomo che si sente finalmente libero, emotivamente e sentimentalmente, di fare tutto, anche di amare una donna senza «il romanticismo sdolcinato».Tutto sulla carta? No: tutto è anche, se non soprattutto, nella testa di chi intende ricostruire un periodo particolare. Ciò che non è sulla carta è la decadenza fisica di Jörg, che accetterà un lavoro qualsiasi mentre le autorità tedesche pongono fine a rancori e al redde rationem legale, in parte ridicolizzando i falsi eroi di una falsa e fortemente utopica società.
La resa dei conti in un weekend
di Pier Mario Fasanotti
Bernhard Schlink, Il fine settimana, Garzanti, 206 pagine, 16,60 euro
riletture
Elena e Vittorio, un ritratto oltre le ideologie di Angelo Crespi rdinare un amaro Montenegro al bar suscita ben poche riminiscenze storiche a meno di non essere un incallito monarchico sopravvissuto a mezzo secolo di democrazia. Eppure c’è stato un tempo in cui anche l’Italia aveva la sua bella Corte e una regina, come Elena, poteva ispirare il nome di un digestivo. Il «marketing» dell’epoca, attratto dall’esotismo, d’altronde aveva dovuto abbandonare, dopo la sconfitta di Adua, i sogni d’Africa e anche un piccolo paese sulle sponde dell’Adriatico poteva bastare a far vendere. Prima di entrare nella vita italiana, Elena però fece la sua prima comparsa a Corte nella forma allusiva dei pettegolezzi mormorati dietro i ventagli, sussurrati sotto i baffi all’Umberto. La notizia di un possibile matrimonio del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, con una
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sconosciuta montenegrina era però stata presa come una boutade. Il primo incontro tra i due principi avvenne a Venezia nel 1895, in occasione dell’esposizione internazionale d’arte moderna, ma l’occasione «galeotta» fu a Mosca durante l’incoronazione dello zar Nicola II.Tutto andò per il verso giusto e, sbocciato l’amore, rimanevano le ultime questioni, tra cui quella spinosa della conversione di Elena al cattolicesimo. Vittorio sbarcò in Montenegro nell’agosto del 1896 e giunse in carrozza a Cettigne scortato dai «perianizi», le guardie personali di Nicola. La capitale, 2.500 abitanti, era composta da un’unica strada tra la chiesetta ortodossa e la casa del Gaspodaro chiamata «bigliarda» in onore di un bigliardo fatto portare ai tempi di Danilo I: era senza gabinetto e le greggi vi pascolavano tranquillamente fin sulla soglia. Nikita comunque era attivo sulla scena internazionale specie
con lo zar che vedeva in quello staterello l’avanguardia slava verso l’Occidente. La diffidenza verso l’unione con una casata «squattrinata» che stravolgeva i difficoltosi equilibri politici in ogni caso cresceva e venne perfettamente sintetizzata in un articolo pungente di Edoardo Scarfoglio su Il Mattino di Napoli dal titolo: «Le nozze coi fichi secchi». Gli italiani in compenso accettarono di buon grado le modeste origini di Elena. Le nozze si celebrarono il 24 ottobre 1896 a Roma in Santa Maria degli Angioli. Iniziava così la lunga avventura di Elena e diVittorio, che di lì a poco sarebbe diventato re, in seguito all’assassinio del padre, Umberto I. Un episodio, questo, che decretava la fine dell’epoca poetica della monarchia italiana alimentata dal «romanticismo» postunitario. Con i due nuovi sovrani, i loro modi borghesi e il regime di Giolitti, come disse bene Prezzolini, «la prosa entrava nella storia ita-
liana». Di questo cambiamento narra Elena e Vittorio (Luni Editrice) che contiene un volume del 1950 dello scomparso Giovanni Artieri (Il tempo della Regina) e un saggio di Paolo Cacace sulla politica estera del Re Vittorio Emanuele II: un tomo da rileggere prima che le imminenti celebrazioni per i 150 dell’Unità sommergano tutto della solita retorica patri-o-antipratriottarda. Gli avvenimenti più importanti e drammatici della prima metà del Novecento, in questo bel libro trovabile solo dai remainder sono filtrati attraverso le biografie dei sovrani che riuscirono a dare una forte impronta al costume italiano. Dalla prima guerra mondiale, passando per le ombre del Ventennio fascista, fino all’abdicazione e al successivo esilio, i due autori seguono il percorso umano, tormentato e difficile, contribuendo a una rappresentazione storica scevra di condizionamenti ideologici.
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6 febbraio 2010 • pagina 7
miti
Prima di Apollo fu Dioniso... parola di Kerényi di Riccardo Paradisi arl Kerényi moriva nel 1973 ad Ascona, in Svizzera, esule dal dopoguerra dall’Ungheria. Dalla sua patria lo aveva cacciato lo spietato Lukács, volenteroso poliziotto dell’ortodossia marxista. Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, che ora Adelphi ripubblica in una seconda edizione, veniva pubblicato postumo nel 1976. È l’opera centrale del mitografo ungherese perché centrale è la figura di Dioniso nella mentalità e nella cultura greca. Un saggio poderoso, denso, imponente che nell’interpretazione di Dioniso sconvolse la traccia storica tradizionale, l’origi-
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filosofia
ne del dio della Tracia. «Egli - scriveva il compianto Elemire Zolla poteva ricondurre tutto il mondo dionisiaco alle origini minoiche della civiltà greca. Dal secondo millennio a.C. Dioniso era stato vivo! Rappresentava il terrore ebbro e creatore. Dal terrore panico nasce lo Stato diceva Platone, dall’anarchia micidiale nasce il bisogno di coesione e di unità». In questa pulsione al caos e all’ordine, polarità radicale intuita dal Nietzsche della Nascita della tragedia, riposa la dynamis e l’anima palpitante della classicità greca. A Delfi, luogo in cui il dio Apollo aveva ucciso il mostro Pitone, rappresentazione probabile di una divinità ctonia, il culto di
Dioniso è attestato nel V sec. Ma Dioniso abitava già da prima la Grecia. Karl Kerényi dimostra appunto come il culto di Dioniso precedette addirittura quello di Apollo in base a considerazioni sui calendari religiosi e un nutrito repertorio di fonti letterarie. Solo Dioniso esiste: noi e il nostro mondo siamo un’apparenza mendace. Un’intuizione abissale. Il punto di vista di Kerényi è quello dello storico e contemporaneamente quello del pensiero rigoroso, un pensare cioè differenziato sulle realtà concrete della vita umana. Ma i greci ammette Kerényi non hanno mai espresso sul loro Dioniso pensieri come quelli espressi dallo storico delle
religioni. «Certo per loro era più facile, poiché essi possedevano nel mito e nell’immagine, nella visione e nella rammemorazione del culto, l’essenza di Dioniso nella sua piena espressione. Non avevano bisogno, come accade a noi, di cercare una formulazione intellettuale destinata comunque a restare imperfetta». Eppure Kerényi ha la grazia e la sapienza di ridare vita a Dioniso e al pensiero incantato degli antichi che ne percepivano la presenza nel mondo. L’essere lui stesso il farsi e disfarsi del mondo. Karl Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, 518 pagine, 22,00 euro
La “geografia della mente” disegnata da Hume di Giancristiano Desiderio ul mercato editoriale esistono non poche collane dedicate a studi monografici sui filosofi, ma la collana «Pensatori» della Carocci editore si segnala particolarmente per rigore e chiarezza, completezza e agilità. Al momento sono stati pubblicati circa una decina di titoli dedicati ai filosofi più rappresentativi del pensiero occidentale - i Presocratici, prima di tutto, poi Platone, Plotino, Husserl, Heidegger, Jonas, Croce - e il risultato non è solo quello di fornire un’introduzione generale all’opera del filosofo e un capitolo del più grande libro della storia della filosofia, ma uno studio accurato che, al di là della critica letteraria e accademica, tende a rendere vivo quell’autore, a farlo suonare come suona un ta-
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saggi
sto del pianoforte. Tra i libri usciti c’è quello dedicato al più noto e più importante filosofo inglese, Hume, che forse non è però così noto come si crede. Il libro è scritto da Federico Laudisa che insegna Logica e Filosofia della scienza e che della sua materia d’insegnamento fa tesoro nel libro. L’immagine tradizionale che si ha della figura di Hume è quella dello scettico. Anzi, dello scettico per eccellenza. Lo studio accurato di Laudisa non viene di certo a cancellare questa immagine - e pur volendo non si potrebbe - ma senz’altro offre un significato più preciso e ragionato dello scetticismo di David Hume. Ciò che emerge è uno scetticismo che non è fine a se stesso ma, per così dire, funzionale alla natura umana. Da buon empirista - e Hume lo si potrebbe anche definire un empirista critico - il filosofo inglese nutre un’idea
della conoscenza umana limitata, ben circoscritta, e attraverso il tentativo di costruzione di una scienza della natura umana rende possibile disegnare una mappa delle conoscenze possibili o una geografia della mente. La differenza tra verità di ragione e verità di fatto rappresenta «luoghi» fondamentali di questa geografia mentale che dall’epoca di Hume giungerà direttamente al XX secolo e tuttora sono al centro dell’interesse filosofico.Quando Hume morì, nel 1776, il giorno del suo funerale accadde questo curioso episodio. Il feretro uscì dalla abitazione di St. David Street e dalla folla si udì una voce: «Era un ateo!». Ma un’altra subito rispose: «Comunque, era un uomo onesto!». La sua onestà - l’unica vera onestà umana - fu l’onestà intellettuale. Ecco perché i suoi pensieri sulla imprendibile natura umana, che pur dobbiamo sforzarci di pensare, sono per noi ancora oggi arricchenti. Federico Laudisa, Hume, Carocci, 144 pagine, 13,00 euro
oberto Bolaño, scrittore cileno prematuramente scomparso, alla domanda sul paese di appartenenza risponde: «Sono latinoamericano». E prosegue a proposito di patria: «La mia unica patria sono i miei due figli. E forse, ma in secondo piano, alcuni istanti, alcune strade, alcuni volti o scene o libri che sono dentro di me e che un giorno dimenticherò, che è la cosa migliore che si possa fare con la patria». L’Adelphi ha raccolto considerazioni, riflessioni, appunti e recensioni di questo scrittore, e il risultato è un libro da tenere sul comodino, per consultarlo, ma senza fretta visto che in ogni pagina ci sono
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Il saggio in forma di dialogo Sulla religione di Arthur Schopenhauer (Piano B. edizioni, 99 pagine, 12,00 euro) affronta il nodo irrisolto del rapporto tra fede religiosa e razionalità. L’una nega l’altra. Perché, dice il filosofo, l’umanità cresce oltre la religione, così come un bambino, crescendo, diventa troppo grande per il suo vestito. E non c’è niente da fare: il vestito si strappa. Fede e sapere non vanno d’accordo nello stesso cervello. Essi stanno come lupo e pecora nella stessa gabbia: e il sapere è il lupo che minaccia di divorare il suo vicino. Osserviamo come nella sua agonia mortale la religione si aggrappi alla morale per essere considerata la madre, ma è una speranza vana. La conclusione di Schopenauer è pessimista: «Soltanto in modo indiretto e con l’aiuto di misure prese con molto anticipo, si può favorire la fede, ossia prepararle un buon terreno, dove possa prosperare: un simile terreno è l’ignoranza». Un profilo sintetico
e informato dell’imperatore normanno svevo Federico II (1194-1250), una delle figure più discusse del medioevo europeo: questo si propone lo studio di Hubert Houben Federico II (Il Mulino, 208 pagine, 12,50 euro). La prima parte del libro è dedicata alla storia politica di Federico, segnata dalla lotta con il papato e i comuni; la seconda si occupa dell’uomo, della sua sfera famigliare, dei suoi interessi filosofici e scientifici e del suo entourage, di cui facevano parte anche studiosi ebraici e arabi. La terza parte segue la formazione del mito di Federico attraverso i secoli fino ai giorni nostri.
Un aeroporto
Roberto Bolaño e le abiezioni della politica di Mario Donati
altre letture
spunti per andare lontano, nel fuori o nel nostro dentro. A proposito degli amici, scrive che questi possono avere «la sagoma di un dinosauro che attraversa una palude e che non possiamo afferrare né chiamare né avvertire di nulla. Sono strani gli amici: scompaiono. Sono molto strani: a volte, dopo anni ricompaiono, e anche se molti non hanno più niente da dire, alcuni invece qualcosa da dire ce l’hanno e lo dicono». Fa una precisazione: «Uno è preparato all’amicizia, non agli amici». Una parola che lo affascina è «abietto», e la applica alla politica, a quella che ha commesso delitti, singoli e di massa. Circa il suo paese, stravolto da una dittatura orrenda, dichiara: «Qui la sinistra ha commesso cri-
mini verbali (specialità della sinistra latinoamericana), crimini morali, e probabilmente ha ucciso delle persone». Ma non ha mai torturato, «non ha mai avuto il tempo di creare il suo male, non ha avuto il tempo di creare i suoi campi di lavoro forzato». Chiedere perdono, come qualcuno fa? Non sarebbe male, dice Bolaño, a patto che lo facciano tutti, «che lo facciano anche per la sfilza di bugie che i loro padri e i loro nonni hanno raccontato e che loro stessi sono pronti a continuare a raccontare, per le cose che hanno tenuto nascoste e per le pugnalate a tradimento». Quando fantastica fa «quel che in genere fanno tutti: perdo la testa e penso di essere immortale. Non voglio dire letterariamente immortale…
questo può pensarlo solo un imbecille… semmai letteralmente immortale, come lo pensano i bambini e i bravi cittadini che non si sono ancora ammalati. Per fortuna, o per disgrazia, ogni attacco di ottimismo ha un inizio e una fine. Se non avesse fine si trasformerebbe in vocazione politica». E, in quel luogo, è in agguato un peccato enorme: plagiare, «anche se i plagiari, oggigiorno, non vengono impiccati. Ricevono, anzi, sovvenzioni, premi, cariche pubbliche e, nel migliore dei casi finiscono nella lista dei best seller e diventano opinion leaders. Che brutta espressione: opinion leaders». Roberto Bolaño, Tra parentesi, Adelphi, 368 pagine, 29,00 euro
internazionale dove passa un fiume di persone con un bagaglio non solo di valigie ma anche delle esperienze più diverse. Facce senza identità in uno spazio che è un limbo. In questa terra di nessuno ha trascorso la sua vita lavorativa lo spazzino Salvador Fuensanta. È un cantastorie dei nostri giorni, uno che, mentre sei in attesa di imbarcarti per l’India, ti racconta di un tale, amico suo, che era andato sulle rive del Gange in cerca di pace. Il vecchio Salvador è la voce narrante del Club dei desideri impossibili (Guanda, 183 pagine, 15,00 euro), il romanzo di Alberto Torres Blandina che Luis Sepulveda definisce una festa per gli amanti della buona letteratura. a cura di Riccardo Paradisi
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anniversari
IL 6 FEBBRAIO 1970 USCIVA “INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO” CHE OTTENNE DOPO POCHI MESI IL PREMIO OSCAR COME MIGLIOR FILM STRANIERO. IL DECENNIO CHE LO AVEVA PRECEDUTO FU QUELLO IN CUI SI CONSUMARONO TUTTE LE DIFFIDENZE NEI CONFRONTI DI UN GENERE FINO A POCO TEMPO PRIMA TENUTO A DISTANZA DAL CINEMA D’AUTORE. CON GLI ESITI PIÙ DIVERSI, DA ANTONIONI A VICARIO, DA ARGENTO A LIZZANI, DA MONTALDO A DAMIANI…
I Sessanta in giallo e nero di Orio Caldiron a detection è una forma di esperienza. La vita, senza esplorazione, è vegetativa. Anche gli animali investigano continuamente il loro ambiente, lo fiutano, ne prendono le misure. Del resto, cosa non è investigazione? La storiografia, l’archeologia, l’antropologia, la scienza lo sono. Cos’è Freud se non un Dupin del sesso? Siamo tutti Dupin o Sherlock Holmes e la nostra conoscenza procede a tentoni indizio dopo indizio». Questo clamoroso elogio dell’indagine non è la dichiarazione programmatica di un giallista della carta stampata, ma la sorprendente affermazione di un grande artigiano del nostro cinema come Elio Petri. Quarant’anni fa, il 6 febbraio 1970, esce il dissacrante Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, destinato a ottenere di lì a pochi mesi l’Oscar per il miglior film straniero. Ma non c’è alcuna esagerazione nel ricordare che più gradito e congeniale è stato il Premio Edgar Allan Poe per la migliore sceneggiatura mystery attribuito allo stesso film dai giallisti americani, autori che da grande consumatore di letteratura poliziesca aveva sempre amato, da cui il regista romano viene inaspettatamente riconosciuto come uno di loro. Il decennio degli anni Sessanta segna l’affermazione di massa del giallo, la generalizzazione del
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autori che non esitano a servirsi spregiudicatamente dei moduli della narrativa poliziesca all’interno delle loro opere quando non passano armi e bagagli al giallo o al nero. Il giallo vince? Il giallo vince e perde. Sì, perché la sua trionfante onnipresenza al cinema, nei fumetti, in televisione, non solo non attenua la forbice tra cinema d’autore e cinema di genere, arte e confezione, pratiche alte e pratiche basse, ma sembra in qualche misura esasperarla sottolineando le contrapposizioni e le incomunicabilità. Quando Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, 1961) e Michelangelo Antonioni (Blow up, 1967) lavorano direttamente sulla detection, sul percorso narrativo dell’indagine, si misurano con un modello epistemologico che è alla base della narrativa poliziesca, incentrata sulla dialettica tra verità e apparenza. Bernardo Bertolucci (Il conformista, 1970) studia da vicino l’istituzione-polizia, mette in scena la messinscena poliziesca, i suoi meccanismi, i suoi riti. Ma il genere continua a essere altrove, si viene definendo con la fertile attività di Mario Bava (da Sei donne per l’assassino, 1964 a Diabolik 1968), di Umberto Lenzi (Così dolce… così perversa, 1969), di Lucio Fulci (Una sull’altra, 1969), di Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo, 1969). Non serve riscoprire ancora una volta le
Più che il massimo riconoscimento di Hollywood, Elio Petri apprezzò per il suo film il Premio Edgar Allan Poe per la migliore sceneggiatura “mystery”. Nessuno come lui aveva intuito le risorse della spy story paradigma indiziario che è a monte dell’intero genere e insieme la banalizzazione dei suoi tipici moduli narrativi.
Sospesi tra i sopralluoghi incerti ma germinativi dei Cinquanta e l’esplosione poliziottesca dei Settanta, i Sessanta italiani sono gli anni del superamento della pregiudiziale. Si consumano le ultime diffidenze nei confronti di un genere fino a poco tempo prima tenuto a distanza dal cinema d’autore, aristocraticamente preoccupato di non mescolarsi con i generi popolari. Si moltiplicano le conversioni degli
straordinarie qualità compositive del cinema di Bava, né la sua capacità di iscriversi nel territorio di formazione del giallo italiano a cui sembra suggerire una sorta di scenografia audiovisiva del segno dell’artificio. Come non serve ribadire la forza di rottura con cui sin dal suo esordio Argento - con Fulci, protagonista del decennio successivo - traumatizza il genere prima di risolverlo nell’horror. Il cinema degli autori riconosciuti e quello dei generi misconosciuti sono due universi contrapposti e inconciliabili, a cui corrispondono milizie critiche e schiera-
menti politico-culturali ormai consolidati e irreversibili. Se pensiamo ai registi che scavalcano la contrapposizione, non possiamo trascurare Giulio Questi (La morte ha fatto l’uovo, 1968) che destabilizza dall’interno le convenzioni del racconto, sottoponendole allo choc di una autorialità delirante e visionaria. Non vanno dimenticati neppure i tentativi di spiazzare la penalizzante seriosità dell’epoca ricorrendo alle armi affilate dell’ironia, della parodia, del pastiche. Sono molti a provarci - da Duccio Tessari (Kiss kiss… bang bang, 1966) a Michele Lupo (Troppo per vivere, poco per morire, 1967) - pochi a riuscirci come Marco Vicario (Sette uomini d’oro, 1965) che, sbeffeggiando il tema ricorrente del colpo grosso scientificamente predisposto in ogni suo aspetto con tutto un arsenale di strampalate diavolerie tecnologiche, mette a punto un remunerativo archetipo, uno di quei film che sembrano facili da imitare e invece non lo sono per niente. Almeno uno bisogna mettercelo, almeno un luccicante lingotto d’oro ci vuole nel regesto in giallo e in nero dell’Italia del boom. Certo, assieme allo scenario ormai canonico della città, palcoscenico degli incubi e delle violenze metropolitane da consegnare al poliziottesco degli anni Settanta che ne farà una sorta di rutilante videogame.
L’identikit dell’assassino va dal tipico serial killer, con tanto di coazione a ripetere, ai banditi incappucciati di via Montenapoleone, passando attraverso l’impermeabile svolazzante sulle alture di Montelepre. La vittima è una donna bellissima inguantata di nero, strangolata in una esibizione di superiore abilità manuale o, pugnalata in un profluvio di effetti da macelleria splatter. L’ostentazione voyeristica, lo scandalo visivo fa tutt’uno con il clic implacabile del fotografo non ancora inghiottito dalla camera oscura, risucchiato dall’ossessione dell’ingrandimento. Chissà, forse basta rivedere Blow up o Diabolik o magari tutte e due, per fare l’inventario dell’immaginario d’epoca, delle mutazioni di una iconosfera datata e attuale, divertente e insopportabile, futile e seriosa, pop e kitsch, in cui tutto è così vero e insieme così falso, smaltato come una superficie laccata, artificiale come un manufatto, iperrealistico come un fumetto ridisegnato da Roy Lichtenstein o una fotografia moltiplicata da Andy Warhol. La contrapposizione è anche un territorio di frontiera. La tentazione di attraversarla può venire da entrambe le parti, in un polverone di sconfinamenti, cecchini e frontalier. Luigi Comenicini e Alberto Lattuada, nonostante l’apparente estraneità al genere, moltiplicano gli incontri, con curiose sintonie e divaricazioni. Entrambi, con Il commissario (1962) e Il mafioso (1962) incentrati su Alberto Sordi, lavorano sul corpo comico del grande mattatore nel tentativo di far coincidere giallo e commedia, di arrivare al giallo attraverso le ambiguità e gli strabismi della commedia.
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Sopra e a lato, alcune scene del film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”. A destra, il regista Elio Petri con i protagonisti Florinda Bolkan e Gian Maria Volonté; “Diabolik” di Mario Bava e David Hemmings in “Blow Up” di Michelangelo Antonioni. Sotto alcune locandine del decennio 1960-70 Se Il commissario resta un’occasione mancata, Il mafioso è una sorta di anti-commedia, di svelamento-capovolgimento della commedia (all’italiana). Mentre Comencini colpisce nel segno con Senza sapere niente di lei (1969), un intenso ritratto femminile che coagula l’analisi di costume in mystery, Lattuada rincorre con Fraülein Doktor (1969), una curiosa retrodatazione colta della spy-story.
Si muovono su posizioni decisamente più partecipi Carlo Lizzani (Banditi a Milano, 1968) e Damiano Damiani (Il giorno della civetta, 1968), autori certamente non omologabili ma in qualche modo contigui nella solidità della loro tenuta professionale, nella efficace disinvoltura con cui si sono venuti misurando con le caratteristiche istituzionali del cinema-spettacolo. Occorre appena ricordare che i risultati sono spesso di rilievo, confermati da un grande successo di pubblico, com’è il caso di Banditi a Milano e Il giorno della civetta, tra i titoli più caratteristici e riconoscibili dell’intero decennio. Se per Florestano Vancini (La banda Casaroli, 1962) l’incontro con il genere non modifica il suo percorso d’autore, più complesso è il caso di Giuliano Montaldo che, dopo un ritratto al vetriolo del neocapitalismo montante di ambientazione tutta nazionale (Una bella grinta, 1965), non esita a congedarsi dal cinema d’autore per firmare due impeccabili gangster-movie, in cui è esplicita la forza impressiva del cinema americano (Ad ogni costo, 1967, e Gli intoccabili, 1968). Sarebbe del resto impossibile negare che in tutto il periodo il cinema americano sia il punto di riferimento più o meno consapevole, il modello
in nulla la sua capacità di penetrazione, ma si è venuta stemperando in uno scenario plurale in cui non ha più il ruolo esclusivo e totalizzante che aveva avuto per decenni. Non si può dimenticare che è l’epoca del «bondismo» trionfante, dello strepitoso successo dell’agente segreto con licenza di uccidere (e di amare), che rimbalza di imitazione in imitazione in una serie pressoché infinita di film improbabili e approssimativi di infimo livello. Non diversamente avviene in edicola con l’uscita a pioggia dei fumetti neri, in una ossessiva e standardizzata ripetizione di formule e stilemi che veniva forzando i codici culturali pre-contestazione. Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare il ruolo che ha avuto da un lato la fioritura di spy-story d’imitazione e dall’altro il successo dei fumetti neri. Sia i film di spionaggio che i fumetti neri contribuiscono a sprovincializzare la scena italiana imponendo la forza delirante, esagerata, ossessiva, dell’immaginario. Non si allude tanto alla trasgressione sessuale che pur ha il suo peso, ma a un più ampio allargamento di confini, allo sdoganamento dell’altrove. La spy-story internazionalizza la città, moltiplica gli scenari urbani, familiarizza il pubblico italiano con Londra, NewYork, Los Angeles, Hong-Kong, ma allo stesso tempo introduce la dimensione del futuribile tecnologico, della possibilità dell’impossibile. Il fumetto nero supera gli spazi angusti in cui si muove con l’improbabilità delle imprese criminali, la moltiplicazione delle performance sessuali, la ripetitività degli eccessi visivi. Se ritorniamo a Elio Petri, è innegabile che si stagli in tutto l’arco dei Sessanta come
Non si può negare che quando il “detective movie” si affermò nell’Italia del boom il punto di riferimento fosse il cinema americano. Del resto era l’epoca dello strepitoso successo di James Bond, l’agente segreto con licenza di uccidere drammaturgico e imprenditoriale di una cinematografia che ha sempre fatto i conti con i generi e lo spettacolo, riuscendo al tempo stesso a sintonizzarsi con il tessuto sociale e comportamentistico di un paese pronto a riconoscersi nell’immaginario di celluloide. Si tratta di una lunga sedimentazione, che agisce in modo diverso nelle diverse generazioni e nei diversi registi, intrecciandosi con altre componenti formative, dalla lezione del neorealismo a quella del fotoromanzo. Negli anni Sessanta la forza del modello non sembra aver perso
l’autore che più degli altri ha saputo intuire le risorse del giallo italiano, coniugando genere e autorialità, rigore espressivo e spettacolo. Sin dall’esordio con L’assassino (1961) mette in scena gli ingredienti canonici dell’indagine, la polizia e la città, la vittima e l’assassino, l’innocente e il colpevole. A ciascuno il suo (1967), ispirato all’omonimo romanzo di Sciascia, racconta la claustrofobia del feudo, svela l’intreccio di
sesso e denaro, che sta dietro il mistero italiano, un mistero senza soluzione. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ripropone il rapporto paradigmatico tra la detection e il delitto, va a fondo del meccanismo poliziesco come meccanismo del potere, consegnandoci l’indimenticabile, lucidissima, radiografia di una allucinazione, di una singolare discesa agli inferi, in cui si scontrano tabù e trasgressione.
Cinema straniato, metallico, luminescente, il cinema di Petri sembra metabolizzare il modello dell’inchiesta di ascendenza neorealista in una rappresentazione fortemente ibridata, in cui le sottolineature espressioniste, le impennate grottesche, le pulsioni oniriche sfondano il tracciato narrativo fino a coagularsi nella forza dirompente della metafora. Nessuno ha saputo come lui prefigurare l’attuale fortuna del giallo italiano al cinema e in libreria. La convinzione che il poliziesco faccia tutt’uno con l’attitudine a raccontare la realtà del paese, sia l’osservatorio privilegiato in grado di penetrare nelle contraddizioni nazionali, lo strumento più accuminato per arrivare al cuore nero della società, viene dal suo cinema.
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Quelli di Zelig maestri di comicità di Pier Mario Fasanotti hi ha la fortuna di conoscere le lingue e ha avuto l’occasione di seguire spettacoli comici stranieri non può, onestamente, che convenire che noi italiani siamo bravissimi. Bravissimi a prenderci in giro, a cogliere l’assurdità del vivere quotidiano, a imitare gli altri, a caricaturizzare tutto e tutti. Zelig, su Canale 5 il martedì (tornato da tre settimane) ne è la prova. È il cabaret televisivo meglio riuscito, al confronto del quale vari tentativi, come Colorado, fanno cattiva figura. C’è un capocomico di eccellenza, un bravo attore che è Claudio Bisio. E poi c’è Vanessa Incontrada, di straripante e spontanea simpatia, con una risata contagiosa, fine e bella, per fortuna lontana da modelli anoressici e fintamente sofisticati (il peggio del palcoscenico). I due dialogano e ridono, a volte ripetendo gag straviste: accuse a lui per non aver capelli, accuse a lei per la sua gioiosa (e studiatissima) ignoranza o goffaggine. Poi la car-
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rellata di comici, vecchi e nuovi. Quel che potrebbe essere indicato come novità è la frequenza del mimo nell’umorismo. A volte i cosiddetti dialoghisti sono costretti a riproporre sketch che sanno di televisione ai suoi albori. Salvo eccezioni, ovviamente. Il pur acuto Gene Gnocchi ci è apparso ingessato, prigioniero del personaggio di emiliano stralunato, incapace di oltrepassare la linea della battuta scontata, pur divertente. Da tenere in conto è anche l’influenza del dialetto: l’emiliano-romagnolo la fa da padrone per la semplice ragione che contiene in sé una gioia di vivere tutta sua. Chi viene da Bologna o da Ravenna dà la salutare sensazione di divertirsi, e quindi diverte gli altri. Non da meno la versatile Teresa Mannino, palermitana senza dubbio il comico-donna oggi più dotato - anche se le sue scenette ricalcano i luoghi comuni che vogliono sempre così differenti i settentrionali dai meridionali. Lei prende in giro entrambi, co-
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me canzona le donne maldestre, distratte al volante, tutto sommato logiche nel loro allegro disordine mentale, lontane miglia e miglia dalla seriosità -involontariamente ed efficacemente comica degli uomini che tutto vorrebbero sapere e insegnare. Le tematiche sono fermamente ancorate - e questo vale per tutti - alla vita di tutti i giorni. C’è il comico romano che narra il surrealismo della Ztl (Zona a Traffico Limitato) della Capitale, i sotterfugi dei furbacchioni nemici degli ausiliari del traffico e delle telecamere. Roma come labirinto di asfalto e di latta, dove sopravvive chi sfodera una battuta, uno sfottò, un rimedio fantasiosissimo in barba al codice della strada. La politica si riduce a imitazione di voci e tic, a sberleffo, ma soprattutto a critica martellante contro l’idiozia burocratica, che è e sarà sempre fonte inesauribile di baruffe e invettive da cabaret. Il vivere moderno, con tecnologia incorporata, offre lo spunto per descrivere la nostalgia sgangherata degli ormai obsoleti servizi Telecom, quando a spiegarti (sic!) certe cose c’era una voce vera e non un nastro registrato che ti
games
AFORISMI MADE IN TWITTER
rimanda a frenetiche digitazioni. Il quotidiano diventa eterno, e peggiore, se visto da un uomo che viene dal 2030. Il testimone del nostro futuro ci parla di centri commerciali che hanno ingoiato le città, di parcheggi che si muovono «come continenti», ci informa che in quel decennio «il ponte sullo Stretto c’è», o perlomeno ci sono solo 22 pilastri, così come ci sono ancora i messinesi che però si chiamano ormai «messimale». Compare poi uno spilungone che fa il dee-jay: sintesi dell’ignoranza giovanile, che più abissale di così si muore. Zelig ha molte pause pubblicitarie. Si muovono anch’esse sul filone della sopportata quotidianità e ci rispecchiano. Magari messi male per inquinamento, corruzione, malaffare, sudditanza mafiosa, ma in grado di ridere e far ridere. Meglio questo tipo di comicità di quella «impegnata» in stile Serena Dandini (Parla con me, Rai 3), diventata prevedibile come le contraddizioni del nostro governo, cinguettante principalmente con se stessa e con suoi amici di vecchia guardia, fatti passare, magari, come esseri culturalmente superiori.
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SFIZI REVISIONISTI
IL DON CHISCIOTTE PERDUTO
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e vuoi essere un intellettuale devi glorificare Mike Bongiorno post-mortem e demolire Salinger a cadavere ancora tiepido». O ancora: «Non è disordinato, semplicemente crede nelle potenzialità dell’entropia: se mette ordine qua ne risentirà un altro punto dell’universo». I nuovi La Rochefoucauld da social network sono su Twitterpedia, sito che raccoglie aforismi e
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ome i predecessori, Europa Universalis volume terzo, conferma il titolo come uno dei più avvincenti alla voce stategici. Basato su eventi storici che abbracciano cinque secoli, dal Quindicesimo al Diciannovesimo, il game trova grande interesse nella determinazione di vere e proprie ucronie. Il giocatore può in sintesi porsi alla testa di una nazione, e alterare il corso della storia
er me il cinema deve stimolare il pubblico a pensare in modo diverso. C’è chi lo fa creando scandalo, a me interessa cambiare lentamente il punto di vista, fare innervosire il pubblico, farlo preoccupare al punto da chiedersi “ma cosa sta succedendo”?». Terry Gilliam non ha mai rinunciato a un’idea filmica stravagante e sofisticata, e attraverso il suo sguardo distor-
Un sito raccoglie le frasi più argute o più sciocche tratte dalle pagine del social network
“Europa Universalis” permette di porsi alla testa di una nazione e di riscrivere la storia
“Lost in La Mancha” è il diario di lavorazione del film che Gilliam non riuscì mai a terminare
imperdibili castronerie tratte da autentici status pubblicati dagli utenti. Frizzanti o caustici, smielati o patetici, i messaggini formato antologia regalano parecchi minuti di ilarità, e qualche lampo di saggezza. «Tutti ne parlano male - dice MateMar - ma Explorer ogni tanto serve. Ad esempio, a scuola, mentre caricava una pagina ho corretto un sacco di compiti». Per chi si appassiona alla cosa, la collaborazione è aperta: basta creare uno screenshot della perla individuata, e in men che non si dica l’uomo entrerà nel club dei twitteristi più notevoli. Gli autoreferenziali se la diano a gambe, però: è vietato autocitarsi, e bisogna confidare nel buon gusto altrui.
fidando sulle sue capacità di condottiero. Molta parte della propria gloria si gioca al tavolo delle decisioni. Occorre adottare posizioni nette per poi saperne sopportare le conseguenze, o sfruttare i vantaggi a proprio favore. Grafica non eccelsa, ma coinvolgimento elevato. È possibile costruire la propria ascesa nei quadri di potere, e poi cesellare la propria forma di governo tra oppositori, consiglieri invadenti e confidenti saggi. Corredato da mappe e buone informazioni storiche, è manna per revisionisti e appassionati di fantastoria.
cente sono sfilate figure tipiche dell’immaginario letterario. Molte, tranne quella di Don Chisciotte della Mancia. Iniziate le riprese nel 2000, il film dedicato all’eroe di Cervantes non vide mai la luce in seguito a un’impressionante serie di sventure. Di quell’esperienza resta tanto rammarico, e il documentario Lost in La Mancha. Girato da Keith Fulton e Louis Pepe, che arrivarono sul set otto settimane prima delle riprese, il diario è la vivace testimonianza del lento naufragare del progetto. Quello che doveva essere il classico backstage di un film, tramortito da eventi atmosferici e da una sottile aura di maledizione, diventa la traccia fossile di un’opera mai nata.
a cura di Francesco Lo Dico
«P
cinema di Anselma Dell’Olio hissà perché, ma nemmeno per sbaglio riusciamo a fare piccoli, grandi film dai costi contenuti come An Education, scoperto a Sundance. Tratto da un racconto di formazione autobiografico della giornalista inglese Lynn Barber, accoglie l’ineguagliabile consiglio/metafora yankee per chi ha fretta di affermarsi con un contributo «originale»: Make a better mousetrap. Non scervellarti a inventare chissà quale diavoleria mai pensata prima: prendi una semplice trappola per topi e migliorala. An Education è la sempiterna storia della giovane carina, vispa e impaziente di abbandonare la grigia esistenza da studentessa e figlia e iniziare la «vera vita» da adulta. Incontra un uomo più grande, affascinante, navigato e impara lezioni preziose e penose non disponibili nelle aule scolastiche. Jenny (Carey Mulligan) è una sedicenne che vive nel tranquillo sobborgo di Twickenham fuori Londra, suona il violoncello e studia in una scuola per signorine nella speranza di entrare a Oxford. I genitori middle class (Alfred Molina e Cara Seymour) sognano l’ascesa sociale della figlia attraverso una laurea prestigiosa. È il 1961, la Swinging London è ancora in incubazione, e ci sono gli strascichi del dopoguerra. I sogni della ragazza girano più che intorno allo studente timido e goffo che la corteggia, dalle parti delle chansons di Juliette Greco, l’esistenzialismo, la vie de bohéme della Rive Gauche, e una vita colta, anticonformista e sofisticata lontana dai perbenismi e dalle restrizioni dei bravi genitori conservatori e pochissimo mondani. Un giorno, alla fermata dell’autobus con il suo violoncello sotto una pioggia torrenziale, un bell’uomo in un’auto favolosa le offre un passaggio. Anticipa la diffidenza della ragazza, offrendo di portare lo strumento mentre lei segue a piedi. Dopo pochi metri Jenny è zuppa e decide di fidarsi. Sale in macchina e David (Peter Saarsgard) la incanta parlando della musica classica e facendo balenare la possibilità di una vita più ampia e gloriosa oltre i confini di Twickenham.
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Per portarla al concerto deve prima ottenere il consenso del severissimo padre; Molina è superbo nel ruolo di un padre protettivo e provinciale, pronto a essere sedotto esattamente come la figlia dal mellifluo, elegante David, tanto da perdonargli non soltanto di essere ebreo, ma pure di avere il doppio degli anni della figlia. L’agio con cui il colto bon vivant va e viene dal centro di Londra, i ristoranti e i teatri che frequenta, il name-dropping letterario («C.S. Lewis era mio professore a Oxford. Siamo buoni amici») per tranquillizzare la famiglia sulle sue intenzioni, lo rapiscono. Intravede per la figlia la promozione tra i ranghi della «gente che conta» che vuole per lei. Gli concede di portarsela («Con mia zia che farà da chaperon» mente David) in giro per feste, cene, gite e weekend a Parigi. Sin dalla sua apparizione intuiamo che il tipo è troppo perfetto per essere vero. David ha come intimi e soci Danny e Helen, una coppia di amici di mondo (Dominic Cooper e Rosamund Pike); Helen aiuta Jenny a trasformarsi in cigno soigné, Danny le parla di quadri e romanzi d’autore, e insieme vanno nei night glamour a sorseggiare ottimo champagne. Ma né la coppia chic né David sembrano avere una bussola morale che funzioni. Jenny è
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La vendetta di Mihaileanu
e l’emancipazione di Jenny
“Il concerto”, del regista di “Train de vie”, è una satira sulla Russia comunista di un ebreo rumeno perseguitato dal regime: di una comicità tragica e irresistibile. “An Education”, scoperto al Sundance, è un esempio di come si possano fare grandi film con pochi soldi l’invidia delle compagne di scuola, e la sua premurosa insegnante di letteratura (Olivia Williams) e la severa preside (ben tornata Emma Thompson) sono allarmate dalla sua crescente spregiudicatezza e dal suo disinteresse per gli studi. La fretta di emanciparsi dei ragazzi è universale, come lo sono le delusioni d’amore. Carey Mulligan è una scoperta e si scommette su una nomination all’Oscar per lei. Sarsgaard è un seduttore sincero e marpione, solare e viscido; un perfetto amalgama di luci e ombre, e se il finale è un tantino confezionato, non rende meno godibile il film. La sceneggiatura è di Nick Hornby (About a Boy, High Fidelity) che ha scoperto il racconto sulla rivista letteraria Granta e l’ha portato ad Amanda Posey, sua moglie e una produttrice
del film. Nepotismo e raccomandazioni vanno benissimo se i risultati sono di questo livello. La regista è la danese Lone Scherfig, autrice del graziosissimo Italiano per principianti.
Radu Mihaileanu è l’autore di Train de vie, una buffa e gioiosa fiaba su una comunità di ebrei dell’Europa centrale in fuga dall’Olocausto su un finto treno di deportazione, completo di nazisti travestiti. Era un salutare e assai divertente antidoto al bizzarro premio Oscar La vita è bella. Ora il regista, rumeno rifugiatosi a Parigi nell’era Cesausescu, torna con un altro film su una truffa che si vendica della Storia, Il concerto. Andrei Filipov era un giovane prodigio all’apice del successo come direttore d’orchestra al Bolshoi
di Mosca all’epoca di Breznev; ricevuto l’ordine di licenziare gli orchestrali ebrei, si rifiuta di farlo. Cade in disgrazia insieme con i suoi musicisti; solo che invece di essere cacciato è retrocesso a custode, bidello, uomo di fatica del Bolshoi. Una sera tardi mentre rassetta l’ufficio del direttore, il fax si mette a ruttare: è un invito urgente per il Bolshoi al Théatre du Chatelet. Il direttore parigino Duplessis (François Berléand) chiede un favore, sostituire un’altra orchestra che ha dato forfait all’ultimo momento: si va in scena tra due settimane. Il desiderio di rivalsa di Andrei per le umiliazioni subite e lo struggente sogno di riunire i suoi musicisti per suonare ancora una volta insieme infiamma il suo cervello e la sua fantasia. Folgorato dall’idea di un ultimo, trionfante ritorno in scena, ordisce un complotto. Finge di essere il legittimo destinatario del fax, s’impegna con Duplessis per la data, e poi chiama a raccolta i suoi ex collaboratori, tra cui il suo miglior amico Sasha, violoncellista (Dmitri Nazarov); tutti ridotti a sbarcare il lunario alla buona: autisti, violinisti tzigani, meccanici. Insieme suoneranno il Concerto N. 35 di Tchaikovsky, il suo cavallo di battaglia. Il falso direttore (Alexei Guskov) negozia con Parigi per avere come solista la violinista Anne-Marie Jacquet, la luminosa e brava Mélanie Laurent (la bionda ebrea di Bastardi senza gloria). Intorno alla sua nascita c’è un mistero: è stata cresciuta dalla donna che le fa da agente; sulle sue origini c’è un segreto. Solo organizzare il viaggio dell’intera combriccola raffazzonata, radunata all’impronta, con passaporti falsi compilati all’ultimo momento all’aeroporto, è un’impresa titanica e improbabile che dà luogo a scene esilaranti. È la Russia satirizzata da un ebreo rumeno perseguitato da un regime comunista, costretto a cambiare il nome ebreo, Buchman, in Mihaileanu. È divino l’impresario Ivan (Valery Barinov), comunista irredento che ama la musica sopra ogni cosa (partito a parte) e sentirsi importante; adora che gli ripetano che il concerto non avrà luogo senza di lui. La sua visita alla sede del Partito comunista francese, la riunione degli sparuti fedeli e i discorsi appassionati quanto ammuffiti hanno una tragica comicità irresistibile.Al Festival di Roma, il pubblico è impazzito per il film.
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poesia
Il grande gioco del veggente Daumal di Pasquale Di Palmo a poesia di René Daumal (Boulzicourt 1908 - Parigi 1944), di cui si offre in questa sede la versione di un testo inedito in italiano, si configura come un caso atipico rispetto ai canoni letterari impostisi a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Conosciuto soprattutto come autore del romanzo postumo Il monte analogo, resoconto dell’eccentrico apprendistato del protagonista, impegnato con alcuni amici alpinisti nella singolare scoperta di una vetta più alta dell’Himalaya, Daumal pubblicò in vita una sola raccolta poetica, apparsa nel 1936 ed emblematica sin dal titolo: Il Contro-Cielo. La lirica di Daumal si rapporta alle sperimentazioni di quegli anni come un’esperienza isolata ma fortemente caratterizzata, in virtù delle notevoli accensioni visionarie che la accomunano a quella dell’amico e sodale Roger Gilbert-Lecomte che con Daumal condivise il progetto dapprima del gruppo dei Simplistes e poi della rivista Le Grand Jeu, di cui uscirono soltanto tre numeri, tra la fine del 1928 e il 1930. Gli intellettuali che gravitavano intorno a quella rivista (bisogna perlomeno ricordare il pittore Josef Sima) si proponevano di recuperare, prendendo spunto dalle suggestioni derivanti dalla lezione antiaccademica di Breton e dei surrealisti, gli assiomi scaturiti dalle teorie di Rimbaud secondo cui «il poeta deve farsi veggente». L’atteggiamento dissidente nei confronti del dogmatismo ideologico che imperversava nella seconda fase del surrealismo, portò Breton a sconfessare il loro operato (il pretesto era quello di «usare costantemente la parola Dio»), dal momento che le differenze sia tematiche sia stilistiche tra le due poetiche risultavano troppo evidenti.
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PRELIMINARI Muri e tombe, le parole cadono sui morti, i cavalli addentano i morsi e le nuvole scoppiano di fatica che il mio respiro ingrassa. Corpo glorioso, sì, ma prima sporcizia e gonfiore, l’ingordo che non può più mangiare perché il mio fuoco l’ha morso scrollerà la sua pelle increspata. L’ascesso nasconde un uccello ed ecco, io ho insegnato a sufficienza, venite, malati o soufflé di patate, uscirete infine da casa mia coperti da tutte le vostre verruche perché soltanto l’osso secco è sempre giovane. René Daumal da Il Contro-Cielo (primo stato) (Traduzione di Pasquale Di Palmo)
Se nel surrealismo imperversa la tecnica della «scrittura automatica» che raggiunge i suoi esiti più rilevanti con l’opera di Robert Desnos e René Crevel, i poeti del Grand Jeu attribuiscono molta dignità ai Poteri della parola, come recita il titolo di un altro libro postumo di Daumal, e relegano le pratiche derivate da alcune direttive di Breton ai margini delle loro investigazioni. Al di là delle considerazioni di carattere esegetico, le liriche di Daumal si segnalano soprattutto per quella vocazione all’autenticità che contrassegna lo stesso itinerario spirituale dell’autore del Monte analogo. In tal senso i suoi versi, come quelli di Gilbert-Lecomte, conservano un alone di enigmaticità non esente da venature di humour nero. Da tale singolare commistione erompe un’affabulazione impervia, ricca di mitologemi e calembours, anche se quanto mai distante dalla teorizzazione degli accostamenti analogici casuali propugnata da Breton, sulla falsariga della scoperta del pensiero freudiano. A differenza di certe soluzioni tipiche della poesia surrealista, non si avverte infatti alcuna gratuità nell’afflato visionario di Daumal, dove la tensione derivante da un procedimento metaforico rigoroso non disdegna il recupero di una cantabilità «facile» né le occasioni per manifestarsi in maniera accorata e lineare, come nella splendida seconda quartina della poesia intitolata La nausea di essere: «Non sono
venuto al mondo/ per combattere la mia ombra,/ né per ritrovare un giorno i miei pugni/ beccati dai fagiani».
Se delle corrispondenze possono essere rilevate tra i poeti del Grand Jeu e i surrealisti, queste non possono che orientarsi lungo il versante che accomuna alcuni autori «irregolari» che operano ai margini del surrealismo o che sono stati espulsi dal movimento per le loro prese di posizione considerate inaccettabili ed «eretiche». In questo senso l’esperienza variegata di Artaud - la cui figura è ventilata nel personaggio di Antonin, le fou che compare nel dossier preparatorio del romanzo La gran bevuta, edito nel 1938 da Gallimard - presenta parecchie analogie con quella di Daumal, a cominciare dall’interesse che entrambi nutrirono nei confronti di varie dottrine esoteriche e cabalistiche (si pensi, come per la magia, alla suddivisione daumaliana della poesia in «bianca» e «nera»), filtrato dalla frequentazione con il lavoro di decrittazione di simboli e archetipi compiuto da René Guénon. D’altronde negli scritti di Daumal, tesi a esplorare ciò che apparentemente risulta indecifrabile, è acclarata l’influenza dell’opera messianica di Georges I. Gurdjieff, conosciuta attraverso l’intermediazione di un artista anomalo come Alexandre de Salzmann che, non a caso, costituirà il modello per il personaggio del Padre Sogol, il capo-spedizione del Monte analogo. Si comprende allora l’interesse manifestato per le dottrine religiose orientali, sfociato nello studio del sanscrito e nella traduzione di importanti testi sacri come le Upanishad, il Pañca-Tantra, il Nâtya-çâstra o la Bhagavad-gîtâ. Il linguaggio rappresenta dunque lo strumento attraverso il quale si può descrivere un processo interiore complesso e venato di misticismo. Nella premessa scritta per La gran bevuta, Daumal significativamente osserva: «Se il linguaggio non esprime con precisione che un’intensità media del pensiero, è perché la media dell’umanità pensa con quel grado di intensità; è a quell’intensità che acconsente, è a quel grado di precisione che aderisce. Se non riusciamo a farci capire chiaramente, non è lo strumento che dobbiamo accusare». La speculazione daumaliana, manifestatasi negli scritti dal più marcato andamento saggistico e narrativo, sembra nelle poesie disgregarsi per lasciar posto a un flusso verbale che a tratti assume dimensioni torrenziali e che solo di rado conosce la lapidarietà dell’aforisma, l’essenzialità dell’epigramma. Le folgorazioni che provengono da un simile dettato rappresentano l’unica possibilità di esorcizzare il tema della morte che attraversa la poetica di Daumal come un «vento di malattia», presagendo la fine dell’autore, spentosi appena trentaseienne a Parigi, devastato dalla tubercolosi, dopo una giovinezza spesa all’insegna della precarietà e dell’indigenza. Alla stessa età, precedendolo soltanto di una manciata di mesi, era scomparso il grande amico Gilbert-Lecomte, a cui era stato dedicato Il Contro-Cielo. Gli «angeli ingangati», come li aveva definiti Roger Vailland, si erano infine ritrovati.
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il club di calliope SERA DI LATO Gloria per noi sollevati da terra, per i nostri grembiuli identici sognatori, per le vene che furono marea, voce di gioia e di soccorso, voce spartita in milligrammi e in assemblea, braccio distese all’infinito sulla croce: qualcuno ha afferrato quella pietra, ha aperto la sua mano, l’ha scagliata tra i fosfori e gli azzurri si è scatenata la magia di un’altra età gloria in excelsis quel dormitorio senza finestre, quella muta essenza che attraversa il lenzuolo e il suo minuscolo terrapieno, una macchia sul pigiama. Milo De Angelis
UN POPOLO DI POETI In un’alba, sentito silenzio divenire onda, mani adorare la notte, folla inseguire l’ombra, partita in cerca d’amore fallita di dolore, l’occhio silente nel ricordo corpi, mani e culle di fianchi in mezzo l’oceano in mezzo l’Africa in mezzo tutto il presente vertigine spirale il tempo e poi per sempre niente.
Antonella Panarello
LE LUNE DI EYLAU E I BAI DI RE GIOACCHINO in libreria
di Loretto Rafanelli
i rimane certamente sorpresi, dopo aver letto questo libretto di Achille Di Giacomo, di sapere che l’autore ha scritto solo due piccole raccolte giovanili, quindi a 79 anni questo lavoro in versi (Poemetto per il Re di Napoli, La Mongolfiera Editrice, Strenna Irfea 2010). Si rimane sorpresi perché questo poema sembra il risultato creativo di un poeta collaudato, tanto è misurato e articolato il linguaggio (dice Dante Maffia nella bella introduzione: «Di Giacomo conosce il peso delle parole e le adopera senza sprecarle, con un timbro che evita di sfociare nelle musica esteriore…»), tanta è ben disposta la trama, tanto è geniale il passo e forte la tenuta, tanta è fine la sua lirica. E poco c’entra che Di Giacomo sia stato un
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re (Whitman è stato detto, ma si può solo in parte concordare). Originalità apparentemente caotica e senza il filo della sintesi, in verità questo poemetto è ancorato rigidamente a un disegno che lo scrittore non disperde mai: quello del racconto di una lunga esperienza di vita. E di questa esperienza Di Giacomo mette insieme numerosi pezzi: l’amore, lo sradicamento dalla propria terra vissuto come una condanna e insieme come una destinale necessità da accettare («Manda via le cose belle/ perché sono lontane»; «Abbiamo lasciato le api vedove,/ il miele dei fichi alle tarantole,/ le figliole con le mani tese/ come foglie di vite…»), la sospesa fissità dei luoghi («Marta, corrono le piogge/ i colombi vestono le penne/ di nerofumo,/ è vicino
“Poemetto per il Re di Napoli” di Achille Di Giacomo appare come il risultato creativo di un poeta collaudato, originale e ancorato al racconto di una lunga esperienza di vita giornalista di cronache letterarie, ma pure di politica internazionale (da annoverare una intervista sul Muro di Berlino a Willy Brandt nel 1961) e d’inchiesta (sul banditismo sardo, sulla mala romana, ecc.); qui si avverte poco il discorrere giornalistico, di più si scorgono semmai le numerose letture che l’autore ha fatto, seppure il procedere del poeta prenda strade originali, e pochi siano i riferimenti poetici da menziona-
l’inverno di Milano»), i rimasugli flebili di una storia antica, ormai accantonata («Riposano lontani/ nelle lune di Eylau/ i nitriti dei bai di re Gioacchino./ Le gru portano il buio/ prima che scenda sera»). Ed è il suo, ci pare di poter pronosticare, un racconto in fieri, che potrà consegnare altri interessanti risultati. E se siamo fuori dagli schemi delle stagioni, nel sicuro valore di una poesia, l’età è solo un insulso dettaglio.
Tremulo dardo nel cielo sale elenca novanta verticali troni lanciati tra torri prive di scale Urla e doni
Dardo Francesco Aresco
Ho dimenticato il verso d’amore quello che non viene a me, il tempo dell’addio mi spia e mi viene incontro come una ferita, io sono qui che aspetto il vento nella mattina senza sapere nulla solo un volto mi specchia il canto.
Franca Margelli
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
aul Valery ha scritto una pagina memorabile e perfida, ma imprescindibile, «contro» i musei, per lui pretenziosi e molesti, che s’autorizzano arbitrariamente, e cemeterialmente, ad accostare ad libitum quadri e opere di stili, dimensioni e sentimenti diversissimi, quasi fossero tombe incompatibili e cannibali l’un l’altra, che uccidono qualsiasi libido d’arte autentica. Probabilmente, come Baudelaire e Diderot, era abituato alla visita sfiancante dei Salons, che erano però kermesse stagionali di vanità anche dilettante, assai diverse dall’attuale obbligo, iper-mensile e iper-mercantile, di queste mille fiere d’arte (un frullato di miart-artefiera-mint-artissima che non smette più...). Abominio dell’idea d’un’arte degradata a mercato. Basta entrare alla bolognese Artefiera, alle soglie di questa caenna sterminata, su e giù per le scale mobili, alla Tatì (costretti a far opera di convenevoli e pubblic relations, tra i ferrosi tapis roulants e i salenti e discendenti, come in un video-gioco accelerato!) basta, per sentirsi stringere il cuore o peggio: ma ci sarà il tempo e la testa e la tempra per visitare tutte queste lande rettangolar-desolate, quel castrum rettilineo e pezzato di promesse e variopinti bollini, quegli appezzamenti incantati, gremiti di olii-acrilici-video-bronzi-celluloidiplastiche e di nuovo olii, in una ronde diabolica e insensata... ma soprattutto, c’è davvero bisogno di tutto questo kilometraggio stipato e molteplicantesi di opere, per sopravvivere degnamente? Di questa fame-esubero illimitato di pezzuli di sovrastruttura, per dimostrare a se stessi e al mondo d’amare davvero l’arte, mentre qui davvero confina tutto con la nausea, l’eccesso, l’insensato? Non è una critica specifica a Artefiera, beninteso, ma è proprio la vista tangibile e a perdifiato dell’eccesso innaturale d’arte, appositamente prefabbricata, che ti aggredisce, che dovrebbe in realtà sgomentarci: ma non avremo sbagliato tutto, in questa nostra società, che non ha più tempo di pensarsi e che si limita a fibrillare,moltiplicandosi esponenzialmente, l’arte come avvertimento? Non è in fondo un segno preoccupante di malasanità del mondo e di realtà malvissuta, tutta questa produzione industriale, e in fondo in-sentita, e imbandita, come un catering estetico, che ci aspetta al varco e ci vorrebbe, non tanto sedurre, quanto adescare? Certo, tutti ci andiamo, alle fiere, magari con progressiva ritrosia e resistenza, che peggiora, con gli anni, in decadenza, dell’arte e l’età via via più artritica dei visitatori (incominciano a comparire le prime carrozzine da paralitici dell’abitudine,
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arti
da dipendenti della droga consumisticartistica, che accolgono tristamente vecchi collezionisti che sono stati brillanti antan, e ora, sospinti da badanti di colore, si sollevano un attimo per annusare ancora la verità d’una firma e fare il colpaccio). Visitatori magari pure «professionali» e smagati, come nel nostro caso: che però ogni tanto ricascano nella trappola. Ma a pensarci bene, non è forse un errore, un vero gesto di collaborazionismo distratto, farci così complici d’un simile sistema perpetuo di commercializzazione dell’istinto artistico «deviato», e remissivi, ogni volta, nell’accettare di ri-entrare in questo tunnel innaturale e un po’perverso di proposte incolonnate, per non dire accatastate? Certo, c’è ancora chi conosce l’arte dell’accrochage e del fren dell’appendiabito, ma come sempre, questo succede con rare gallerie, soprattutto italiane, bisogna riconoscerlo. Tipo la sempre misurata Galleria dello Scudo di Verona, che questa volta affianca, tra Mattiacci e Gastini, un bellissimo Scialoja a un originale Gastone Novelli giovane che già pare Scialoja, oppure la Amedeo Porro di Milano, che si sfila dai suoi abituali tuttoFontana, Melotti e Morandi, per schierare un magnifico Gnoli, ritratto franchista d’un torero imbambolato, nella sua poltrona da sendentario. Oppure la Narciso di Torino, che offre un insolito ed efficacissimo confronto-contrappunto verde-ramarro, tra bellissimi Sutherland boschivo-vegetali e stralunate maschere della Melanesia. E alla fine funzionano soltanto quelle gallerie, che senza pedanteria, proseguono nel loro lavoro di scavo e di specializzazione: la Jannone, con i suoi disegni di architettura (che belli davvero gli schizzi arroventati di Aldo Rossi, tra cui un San Carlone visionario), Tucci Russo con il consueto recupero di pezzi rari di Arte Povera (Paolini sempre aux anges) o ancora la sempre sorprendente Galleria del’Incisione di Brescia, che schiera sofisticati Schlichter, Grosz e altri maestri intorno alla Nuova Oggettività. Certo, siamo nell’ambito del ripescaggio, perché il deludente di queste fiere è verificare tangibilmente come ben poco nasca di nuovo e siamo sempre nell’ambito della clonazione. E se ti capita di sentire qualcosa che ti si smuove dentro, ahimè finisci di riconoscere da lontano che ogni volta ad attirarti è il consueto grande Afro o la Accardi, Louise Nevelson o la Bourgeois, Melotti o Manzoni, Marino Marini o Kentridge o Cornell. Che importa davvero se ancora vendono, questi “Santiago Martin stand, dal momento che hanno già venduto El Viti” (1966) l’anima al déjà vu? di Domenico Gnoli
Artefiera il regno del déjà vu di Marco Vallora
autostorie
In capo al mondo su un vecchio “rottame” di Paolo Malagodi ra gli svariati libri che narrano di avventurosi viaggi in automobile, non c’è davvero che l’imbarazzo della scelta. In un lungo elenco, che parte con la pubblicazione nel 1908 del reportage di Luigi Barzini sul raid Pechino-Parigi; portato a termine il 10 agosto 1907, dall’Itala condotta dal principe Scipione Borghese e dopo un itinerario di quasi 16 mila chilometri, in lande impervie e su dissestate strade. Impresa che non ha mai cessato, per un intero secolo, di stimolare l’emulazione di quell’avventura ma su percorsi di solito all’incontrario. Con partenza dall’Europa, ponendo la capitale cinese quale meta e come, ancora di recente, è avvenuto a due amici trentenni di Bari, nell’idea di arrivare dall’Italia alla Cina su una piccola Fiat 500,
T
per di più costruita nel 1973 e con anzianità pari a quella degli intrepidi viaggiatori. Una scelta che, nel giro dei conoscenti, diviene subito oggetto di increduli commenti sulla possibilità di «andare in capo al mondo con un vecchio rottame». Nondimeno, la scelta della veterana 500 è legata all’esiguità del budget e confortata dai vantaggi di «un’auto leggera, facile da riparare e che non avrebbe mai fatto gola a nessun ladro. E poi con una macchina così piccola, progettata per ben altro tipo di strade e distanze, un viaggio come quello avrebbe assunto un carattere tutto diverso, una sorta di sfida o di scommessa. Anche trovare le migliaia di euro necessarie non sarebbe stato più un problema: gli sponsor avrebbero fatto la coda per appiccicare i marchi sulla 500». Questo almeno in speranze destinate presto a dissolversi e
come racconta Danilo Elia, ideatore del raid, nelle pagine introduttive del piacevole resoconto (La bizzarra impresa, Cda e Vivalda editori, 296 pagine, 18,00 euro) di un viaggio rimasto sino all’ultimo in forse. A causa di «un coro di silenzi, tra cui quello inspiegabile di mamma Fiat. Eravamo convinti che a Torino si sarebbero affrettati a sponsorizzarci: la 500 era pur sempre la macchina che aveva fatto la storia della Fiat, un vero e proprio simbolo per la casa automobilistica e per tutta l’Italia». Dopo settimane di sofferta attesa, finalmente arriva la risposta e la veterana 500 viene portata presso un’officina Fiat di Bari, per rifare il motore e per i dovuti controlli meccanici. Così, la sera del 15 aprile 2006, la macchina viene corredata di portapacchi, con ruote di scorta e taniche della benzina, oltre a pezzi di ricambio e ai pochi bagagli
personali. Con successivo trasferimento di mille chilometri, la prima destinazione è Torino per una partenza ufficiale che avviene dopo aver applicato sulla vettura le decalcomanie pubblicitarie e quelle che indicano in Pechino la meta del lungo viaggio in 500. Svoltosi per quasi 16 mila chilometri, al pari dell’Itala nel 1907, in più di tre mesi e a una media oraria di non oltre trenta chilometri, sulle malandate strade di Ucraina, Kazakistan e Russia; in lunghe tappe costellate da alcuni inconvenienti meccanici e dai frequenti controlli della polizia, che in più di un’occasione accusa, per le loro fotografie, di spionaggio i due italiani. Dall’estremità siberiana di Vladivostok la 500 viene, infine, caricata su una nave mercantile per raggiungere il porto cinese di Tientsin e da qui Pechino, felice coronamento della «bizzarra impresa».
MobyDICK
moda
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A caccia di cocotte in cerca di sensualità di Roselina Salemi ovevamo aspettacelo, prima o poi, che la moda, stanca di saccheggiare il solito repertorio, le Grace, le Audrey, le Jackie , tirasse fuori dal cilindro un nuovo coniglio. È successo. Alle sfilate dell’Haute Couture di Parigi, (dal 25 al 27 gennaio) l’ispirazione di Givenchy è arrivata nientedimeno da Renato Zero. Non solo perché il direttore creativo, Riccardo Tisci, è stato, o forse è ancora, nell’anima, un «sorcino», ma perché le scandalose tutine di piume e paillettes, portate da un uomo, con dichiarata ambiguità, vanno benissimo per le donne: basta aggiungere una scollatura. L’erotismo inizio anni Settanta è ancora saccheggiabile con le sue Emmanuelle, con Histoire d’O e le ballerine del Crazy Horse, purché alleggerite da un pizzico di ironia. Le desiderabili ragazze portano fantasiose gonne dai lunghi spacchi e giocano con acconciature che ricordano le orecchie di Minnie (o di Topolino). E come sempre, nel caso dell’Alta Moda, potremmo raccontare i pizzi intarsiati, le giacchette con migliaia di perline nere cucite sopra, effetto uova di caviale, il plexiglass sui cappelli, la pellicola di vinile sopra lo smoking. Ma quello che viene fuori, nel tripudio di fastosi sperperi, dalla Cenerentola al Ballo di Maurizio Galante (150 metri di organza), alla lolita di Chanel, confezionata dentro corti abiti pastello bordati d’argento, dall’amazzone chic di John Galliano, bistrata e armata di frustino, con cappello a cilindro e redingote su gonne rigonfie e plissettate, alla Donna Luna di Giorgio Armani, un ghiacciaio scintillante di sfumature madreperla, diafana e opalescente (vietata l’abbronzatura), meravigliosa come l’aurora boreale, è una ricerca esasperata
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architettura
della sensualità. In qualche caso, l’esibizione di una femminilità sfrontata alla Cougar City. Meglio, è ovvio, se accompagnata da una scandalosa ricchezza. Chi compra? Le prinarabe: cipesse hanno consegnato 300-500 mila euro a Givenchy per avere il loro sogno da Mille e una notte. Le regine: Paola di Liegi ha un buonissimo sconto da Armani, Rania di Giordania paga, ma riceve anche qualche regalo da Re Giorgio. Normale scambio di cortesie tra sovrani. Chi compra? Le mogli dei nuovi miliardari cinesi e le spose che non badano a spese (un Armani Privè, tra i 70 e 100 mila euro, è perfetto per un matrimonio romantico). Le attrici (ma tante vivono di prestiti). E poi, le cocotte d’alto bordo, che sono un segmento emergente, e hanno tanto da scegliere. Lo suggerisce (sempre con ironia), il titolo della collezione di Bruno Frisoni per Roger Vivier (Ma cocotte, «La mia sgualdrinella»), borsette e scarpe dove si trova di tutto: piume, sete, coralli e coccodrilli. Lo dimostra il grande ritorno della lingerie Worth, il marchio preferito dalla contessa di Castiglione e dalla Bella Otero. Otto corsetti, rivisti da Giovanni Bedin, a metà fra la guepière e il miniabito, con piume e nastri, fanno riflettere sulle occasioni che possono renderli indispensabili. Come nella parabola di Histoire d’O, il castellozzo di Roissy dove la tormentata protagonista ha imparato il piacere del dolore, è diventato un bordello.
Non demolite la “casa evolutiva” di Piano!
Italia è un paese dove raramente si intraprendono demolizioni: predomina sempre la volontà di conservare, nella tacita istanza di un’immobilità perenne. E quando anche si volessero demolire edifici di nessun pregio e interesse, non manca mai un comitato di oppositori dell’iniziativa. Paolo Belardi, ingegnere di talento e professore dell’università di Perugia, segnala che a Bastia Umbra invece si rischia una scelta controcorrente (e, per una volta, ingiustificata): sono infatti minacciati di demolizione alcuni edifici sperimentali progettati da Renzo Piano e dall’ingegnere irlandese, suo sodale fino alla morte prematura, Peter Rice, due assoluti protagonisti dell’architettura del Novecento. Piano, il più celebre e acclamato architetto italiano, vincitore del Pritzker, il nobel per l’architettura, nel 1998 e Peter Rice (1935-92), straordinario ingegnere strutturista, ideatore delle soluzioni costruttive di alcuni capolavori, come il Centre Pompidou di Parigi, con Piano, la Sidney Opera House di Utzon, e la Piramide del Louvre di Pei, con il celebre studio Arup di Londra. Piano e Rice, progettarono per la
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di Marzia Marandola ditta «Vibrocemento Perugia» uno straordinario prototipo di unità abitativa d’emergenza, funzionale a ospitare nel 1976 i terremotati del Friuli Venezia Giulia. A distanza di circa tre anni dalla sua edificazione, il prototipo venne modificato e trasformato in un modulo abitativo sociale, a Corciano, dove corredate di aree verdi comuni, le unità residenziali vennero destinate a ospitare una nuova forma di struttura ospedaliera psichiatrica. Quindi oltre a una sperimentazione architettonica il modello si qualifica anche come innovativo strumento per l’approc-
cio, post-legge Basaglia, alla cura dei disturbi psichiatrici. Il modulo abitativo è impostato su una pianta rettangolare dove le pareti dei lati lunghi sono portanti, mentre una delle pareti corte, tamponata con una vetrata a intelaiatura metallica, può muoversi scorrendo su binari. Questo meccanismo permette quindi di modificare lo spazio interno, passando da una superficie interna di 50 mq fino a uno spazio di ben 120 mq. Il modello abitativo è definito da Piano (come testimonia un vecchia intervista pubblicata in rete, nel sito di YouTube) «casa evolutiva», proprio perché può essere modificata e crescere di dimensione e perché si può cominciare ad abitarla, in emergenze, anche quando ha un livello basico di finitura e poi, vivendola, si può continuare a lavorare per completarla. Gli impianti sono tutti a vista così da poter essere costruiti in contemporanea con le strutture, e facilmente rimovibili in caso di guasto. Questa struttura, che potrebbe essere utile anche nella ricostruzione dell’Aquila o di Haiti, rischia di scomparire per distrazione e ignoranza degli addetti ai lavori e degli organismi preposti.
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fantasy
i sono voluti trent’anni, ma finalmente Adelphi ha concluso la pubblicazione della trilogia che pone Mervyn Peake insieme a Eddison e Tolkien fra coloro che hanno fatto raggiungere nel Novecento alla letteratura fantastica un alto livello letterario e, quindi, a essere apprezzata dalla critica «ufficiale», oltre che dai lettori. Almeno nei paesi di lingua inglese, perché qui da noi Peake è stato penalizzato dal tempo infinito necessario per una sua completa traduzione (leggere i suoi libri a distanza di anni e decenni non gli ha giovato), mentre Eddison ha avuto la sfortuna di una pessima edizione italiana e una ancora peggiore traduzione (al che Adelphi potrebbe farvi un pensierino, visto che si è presa come compito quello di rivalutare autori bistrattati o caduti nell’oblio). Così come fra un po’potrebbe anche pensare di riunire in un unico volume i tre romanzi di Peake per dar modo, grazie anche a un minimo apparato critico-interpretativo, di gustare appieno questo capolavoro. Che è formato da Titus Groan del 1946 (Titus di Gormenghast, Adelphi 1981), Gormenghast del 1950 (Gormenghast, Adelphi 2005) e Titus Alone del 1959 poi uscito nel 1970 in una nuova edizione controllata e integrata confrontando i taccuini originali dell’autore da Langdon Jones, scrittore di fantascienza e appassionato conoscitore di Peake e della sua trilogia (ed è questa versione che viene pubblicata ora: Via da Gormenghast, Adelphi 2009). Tempo fa circolò la voce che Peake, nell’ultimo periodo della sua vita, avesse preparato una scaletta per un quarto volume della serie, Titus 4, seguito di Titus Alone, ma non se ne è mai avuta conferma: di recente però si è saputo che la moglie Meave (cui è dedicato il terzo romanzo) la riprese nel 1970 scrivendo Titus Awakes di cui è stato rintracciato il dattiloscritto che vari editori adesso si contendono.
MobyDICK
ai confini della realtà cosa di brutale; qualcosa di dolce, qualcosa di vero solo a metà; qualcosa che è un sogno solo a metà, metà del suo cuore: metà di se stesso». Attenzione: sparita l’infanzia. Tito da adolescente è diventato adulto, ma deve mettere alla prova sé stesso nell’Altrove, al di là del fiume. Un Altrove che è il nostro mondo assai più caotico del castello e in cui affronterà personaggi infidi e malvagi, situazioni grottesche e laide, dove farà esperienze terribili e negative, dove conoscerà odio ma anche amore. E alla fine non potendone più decide di tornare a Gormenghast della cui esistenza nessuno crede, ma ormai ha fatto tutte le esperienze possibili, è un altro: «Infanzia e ribellione… disobbedienza e sfida; il viaggio; le avventure, e adesso non era più un ragazzo - ma un uomo». Il corsivo è di Peake e spiega tutto. Parte dunque alla ventura e dopo un viaggio aereo si paracaduta a terra e continua a piedi. La sua ricerca dura mesi sin a che non s’imbatte in una roccia che crede di riconoscere. Ma sì, dietro di essa, se la supererà, di certo vi saranno le torri di Gormenghast, la sua casa che esisteva veramente, checché avessero pensato i suoi nuovi amici dell’Altra Parte.
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Perché questa trilogia è così importante per la narrativa dell’Immaginario, pur essendo tanto diversa, ad esempio, dai capolavori di Eddison e Tolkien? Intanto perché, dal punto di vista letterario e strutturale è diversissima da quella dei due autori citati. Peake invece di un’opera corale sia dal punto di vista dell’ambientazione che dei personaggi, ha scelto di scrivere un’opera imperniata su un solo luogo (il castello di Gormeghast) e praticamente un solo personaggio (il princi-
Gormenghast andata e ritorno di Gianfranco de Turris golare luogo, il castello; il secondo narra la vita di Tito; il terzo racconta le sue avventure una volta che ha deciso di uscire da Gormenghast e di affrontare il mondo esterno. È chiarissimo, al di là del fascino della scrittura, dalla forza evocativa delle descrizioni, del sottile e inquietante filo fantastico-orrorifico che percorre tutta la storia, che Peake (forse pensando a lui
li: alla fine, avuta la meglio sul suo lato negativo affrontato direttamente, è possibile mettersi alla prova andando incontro al mondo (la società) che ci circonda solo con se stessi (da qui il titolo originale). Lo si capisce chiaramente nelle prime pagine di questo Via da Gormenghast (ma non sarebbe stato meglio Lontano da Gormenghast?).Tito supera un fiume
Tito torna a Gormenghast, dunque, col fardello delle sue nuove esperienze? Troppo facile, troppo semplice, ed ecco il colpo di genio di Peake: Tito non gira intorno alla roccia e non imbocca la caverna che lo avrebbe ricondotto alla sua magione, perché prova «un senso di pericolo incombente»: «Tito riconobbe, a posteriori, di aver raggiunto un nuovo livello, di cui prima era consapevole solo a metà. Un senso di maturità, quasi di appagamento. Non aveva più bisogno di una casa, perché portava la sua Gormenghast dentro di sé. Tutto ciò che aveva cercato era vivo dentro di lui. Era cresciuto. Un uomo aveva trovato ciò che un ragazzo era partito per cercare, e lo aveva trovato vivendo». Ecco dunque concluso l’iter psicologico e spirituale di Tito: è diventato ormai un adulto «vivendo» e dentro di sé possiede la sua Gormenghast ideale, punto di riferimento per la sua vita futura. Ideale, perché il locus conclusus del suo castello grande come un mondo non era più quello di una volta: i riti veri erano diventati rituali privi di senso, il suo ordine immutabile era diventato un caos del quale stavano approfittando le entità negative nascoste nelle viscere del castello, la vita era diventata una non-vita, lo
Dopo trent’anni si conclude la pubblicazione della trilogiacapolavoro di Mervyn Peake, fondamentale, al pari delle opere di Tolkien e Eddison, per la narrativa dell’immaginario. Imperniata solo su un luogo, è il romanzo di formazione del giovane Tito dentro e fuori se stesso pe ereditario Tito). E scrivere da un punto di vista così ristretto è già di per sé un atto di coraggio. In secondo luogo, perché il suo è un vero e proprio bildungsroman, la storia della formazione personale del giovane Tito che si trova in un posto che non ha contatti con l’esterno e non li vuole avere, che vive chiuso in sé, autosufficiente. La prima parte della trilogia è imperniata sulla descrizione di questo sin-
stesso) ha voluto raccontare una vicenda interiore, la vicenda di un’anima che deve affrontare i terrori e le paure che si annidano nei sotterranei della sua magione soffocata da ritualità immutabili, deve vincerle e una volta vinte deve cercare l’affermazione di se stesso proiettandosi all’esterno. Gormenghast è evidentemente l’Io chiuso in sé stesso e prigioniero di formalismi una volta validi ma oggi inuti-
- oltrepassare le acque è da sempre un segno iniziatico: «Sparito il profilo della sua casa grande come una montagna. Spariti quel mondo lacerato e le sue torri. Sparito il labirinto che nutriva i suoi sogni. Sparito il rituale, che era il suo midollo e insieme la sua rovina. Sparita l’infanzia. Sparito tutto (…) Sa soltanto che si è lasciato dietro, dall’altra parte dell’orizzonte, qualcosa di caotico; qual-
spirito era fuggito da quelle sale, corridoi, armature, torri di guardia, la vera tradizione era morta sostituita da un suo vuoto simulacro. Questo il motivo per cui Tito oltrepassa il fiume alla ricerca di qualcosa d’altro. E questo il motivo per cui esce alla ventura. Ma adesso tutto ciò che aveva cercato era vivo dentro di lui… Un grande trilogia fantastica, un grande romanzo di formazione.