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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

SCUSI, PARLA Idioma e costume

ITALIANO? di Pier Mario Fasanotti

itiamo il brano di una lettera che potrebbe essere stata scritta oggi: zione che oggi è più che mai attuale: «Per rimetter davvero in piedi la lingua «Lo Stato d’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l’Italia, e gli itaL’allarme italiana, quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parliani». Queste due frasi sono ricordate da Pietro Trifone in Storia linè antico, a lata e la scritta, che questa può quasi dirsi lingua morguistica dell’Italia disunita (Il Mulino, 190 pagine, 16,00 euro). ta». In questi decenni è aumentata di molto la regola del Trifone, docente all’Università di Roma-due «Tor Vergata», lanciarlo fu già Manzoni. sentito dire, dell’approssimativo. Si parla e si scrive in ci ricorda che prima dell’unità d’Italia la nostra lingua Ma oggi l’impoverimento della modo sbagliato. Capita spesso di leggere lettere «è stata attribuzione pressoché esclusiva di una nostra lingua va sempre più diffondendosi. o mail di professionisti che incappano a ogni ristretta fascia di letterati e, più in generale, riga in errori grossolani. Alcune università si di persone colte; anche questi pochi privilegiaSegno di una malattia degenerativa della son date il compito (meritorio) di istituire corsi di ti dovevano del resto fare continuamente i conti, italiano per i neo-laureati o laureandi. Il brano poco so- vita pubblica? Quello che è certo è nell’uso corrente della lingua, con i vari idiomi locali, che in gioco non c’è solo dominatori indiscussi della comunicazione parlata, così nel pra riportato ci dice che il problema non è nuovo.Tanto è veSettentrione come nel Mezzogiorno». Oggi i «privilegiati» sono ro che a scrivere quella denuncia era Alessandro Manzoni, nel il lessico coloro che sanno che su «qui» non va l’accento, che «qual è» si scrive 1806 all’amico Claude Fauriel. Nel 1821 un altro grande della nostra senza apostrofo. letteratura, Giacomo Leopardi, riassumeva nello Zibaldone una preoccupa-

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Parola chiave Uno di Sergio Valzania White lies: rituali in stile anni 80 di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

L’umanesimo (ironico e indulgente) di Ludovico Ariosto di Francesco Napoli

Leningrado 1964: processo a Brodskij di Pasquale Di Palmo Il vero erede di Umberto D. di Anselma Dell’Olio

Il farsi dell’arte negli scatti di Mulas di Marco Vallora


scusi, parla

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Quei “gaglioffi” sul cammino di San Giacomo hi ha un minimo di curiosità può tuffarsi nell’inaudita ricchezza che sta dietro i modi di dire italiani. Inoltre: se li assommiamo tutti, ci troviamo di fronte all’unione linguistica d’Italia. Aiuta, e diverte, il libro dell’italianista Paola Sorge, Dizionario dei modi di dire della lingua italiana (Newton Compton Editori, 286 pagine, 9,90 euro). Partiamo dal presupposto che ognuno di noi spesso usa una parola o una frase senza conoscerne la derivazione o la storia. Qualche esempio. «Fare fiasco», lo sanno tutti, significa fallire. Già, ma che c’entra il fiasco? Alcuni sostengono che sia stato un comico del Seicento a scegliere come tema della sua rappresentazione teatrale un fiasco. E non ebbe alcun successo. Di qui il significato. Più complessa è l’origine di «a ufo», ossia vivere a spese degli altri. In ebraico efes significa gratuitamente. Ma c’è dell’altro: ufo potrebbe essere l’abbreviazione di Ab urbis fabricam, una scritta posta sui carri che trasportavano il materiale per la fabbrica di San Pietro (ma anche per il Duomo di Milano) che era esente dalle tasse. Sempre in tema di denaro, chi vuole spiegare la difficoltà di arrivare a fine mese dice «sbarcare il lunario». «Sbarcare» ha qui il significato di portare a termine, finire, mentre il «lunario» era il vecchio almanacco che riportava le fasi lunari di tutto l’anno. Per comprendere o fare certe cose si deve avere «sale in zucca». L’espressione ricorda quel tempo in cui le massaie conservavano il sale in zucche vuote essiccate. Ma potrebbe riferirsi anche al sale benedetto che viene posto sul capo del bambino durante il battesimo. L’opposto della prudenza e della perizia è «alla carlona», ossia agire in modo trascurato e frettoloso. Un tempo si diceva «fare le cose alla maniera di Re Carlone», con allusione a Carlomagno che era descritto nei poemi cavallereschi come uomo semplice e alla buona, e di poca precisione. A proposito di certi atteggiamenti conservatori o retrogradi, usiamo la parola «codino». La storia ci racconta che nel Settecento i reazionari furono gli ultimi ad abbandonare l’abitudine di avere sulla nuca la pic-

C

Se la televisione negli anni Cinquanta e Sessanta ha contribuito grandemente alla diffusione dell’idioma italiano, oggi capita che lo stesso mezzo informativo sia fonte di errori, soprattutto quando qualcuno si mette in mente di rincorrere citazioni latine e lo fa sovente in modo ridicolo. Basta dare un’occhiata al programma Blob di Rai 3 per trovarsi dinanzi a un affresco di strafalcioni tristissimi. Significativa l’iniziativa della Rete (Corriere Tv), ogni lunedì alle 15, dove il giornalista Beppe Severgnini, In tre minuti una parola (titolo del programma), spiega con l’ausilio di cartoni animati il significato e l’origine di certi vocaboli. Chissà se Severgnini prenderà in considerazione le parole dialettali. Ce lo chiediamo visto che se una ventina d’anni fa pareva che il regionalismo fosse stato in qualche modo silenziato, oggi assistiamo a una contaminazione dialettale della lingua parlata. Contaminazione pari forse a quella generata dall’inglese. Osserva il professor Trifone che molti dizionari ormai accolgono sia anglicismi sia suoni dialettali. E, in base a un suo personale sondaggio, aggiunge che è innegabile il primato di Roma. Segue Napoli, poi Milano. Ce ne accorgiamo tutti, del resto. Anche nel vedere i «cinepanettoni» o alcuni serial televisivi. Al Nord un tempo era impensabile pronunciare parole come «pennichella» o «abbiocco», «cravattaro», «borgataro», «cazzaro», «pallonaro». Così come nel Centro e nel Meridione si ha oggi la quasi certezza di essere compresi se si dice «gnucco», «ruscare», «sbirulento», tutte parole di provenienza nordica.

Abbiamo poco sopra fatto cenno all’invasione dell’inglese. Lingua che, al pari dell’italiano, spesso è pronunciata in modo ridicolmente approssimativo. Curioso ricordare che negli anni Trenta il giornalista e scrittore Paolo Monelli (famoso il suo romanzo Le scarpe al sole) aveva sulla Gazzetta del Popolo di Torino una rubrica intitolata Una parola al giorno. Poi scrisse per l’editore Hoepli un polemico volumetto intitolato Barbaro dominio (ristampato nel 1942) in cui anno IV - numero 6 - pagina II

italiano?

cola treccia di capelli finti, il codino appunto. Se qualcuno impone al prossimo un accordo svantaggioso abbiamo «il patto leonino». L’espressione venne usata dal giudice romano Lucio Cassio Longino, il quale prendeva a modello di sopruso le favole in cui il leone fa il prepotente. Un approccio più narrativo ai misteri della lingua italiana ci è fornito dallo studioso Federico Roncoroni, autore del saggio in forma descrittiva intitolato Sillabario della memoria (Salani, 292 pagine, 15,00 euro). Una delle parole che purtroppo oggi sbuca sovente dalla cronaca politico-giudiziaria è «gaglioffo». Un modo più morbido per significare delinquente, furbastro, ingannatore. L’origine non è del tutto certa e a questo punto è affascinante percorrere diverse strade storiche. Qualcuno pensa che «gaglioffo» sia l’unione di «gagliardo» e «goffo». Altri insistono su un’origine spagnola. Con gallofa, all’inizio del XIV secolo, si indicava in Spagna il tozzo di pane che si dava ai devoti che s’incamminavano verso San Giacomo di Compostela. Gallofa deriva a sua volta dal latino Galli offa, cioè «il boccone del francese». Siccome la maggior parte dei pellegrini che si avviavano verso Compostela erano francesi, il termine galoffo stava a indicare mendicante, vagabondo. In prediche successive il termine s’accostò a «buono a nulla», «miserabile». Ma un riferimento al denaro lo si ritrova dalla voce gergale «gaglioffa» che significa tasca o borsa: la gajoffa dei dialetti lombardi. Siccome viviamo il tempo degli «strafalcioni», cioè erroracci linguistici, è curioso indagare sulla sua etimologia. Il verbo «strafalciare» significa «camminare a grandi passi, con le gambe divaricate»: per estensione si arriva a poca diligenza, (p.m.f.) a grossolanità.

se la prendeva con le parole straniere usate al posto di quelle italiane. Polemicamente risaliva a Machiavelli che voleva liberare l’Italia dalle oppressioni straniere: «A ognuno puzza questo barbaro dominio». «Esotismi» inutili e snob, scriveva Monelli. Per esempio non gli piaceva spider, preferendo la «due posti». E nemmeno tennis. Però sapeva bene che ci sarebbe stata una sollevazione generale se si fosse proposto l’antiquato «pallacorda». Monelli, sulla scia dell’irredentismo linguistico, accettava di buon grado alcune parole. Come bureau, a patto di non usarlo al posto di scrivania, banco, ufficio. Bureau come burocrazia? Perché no, diceva. Resa totale alla parola goal, anche se un plauso va al mitico Nicolò Carosio, il padre dei commentatori calcistici, che tuonava con il suo «reteee!». Se ci fate caso oggi si usa più rete che goal (o gol, come sbrigativamente si scrive sui giornali).

All’inizio degli anni Settanta fu Pier Paolo Pasolini a lanciare l’allarme sulla lingua italiana. Secondo lo scrittore-regista stava diffondendosi un eloquio scialbo, medio o mediocre, ma soprattutto di sapore tecnologico in omaggio alla realtà industriale di Torino e di Milano. Negli anni Cinquanta si era già posto il problema don Lorenzo Milani, priore di Barbiana e fondatore della scuola per classi non abbienti. Pensava, non a torto, che nelle scuole «borghesi» gli insegnanti si riducevano a essere strumento della classe dominante. I ricchi erano favoriti, i poveri bocciati. La lingua come fattore dominante. Nella rivoluzionaria scuola di Barbiana i poveri potevano riscattare la loro condizione adoperando una lingua nazionale semplice e funzionale, «diversa da quella inutilmente complessa e ricercata della tradizione letteraria, plurisecolare espressione della cultura aristocratica e borghese» (come ci ricordano Valeria Della Valle e Giuseppe Patota in L’italiano, Sperlin&Kupfer editori). A proposito di abusi linguistici e di potere, è da riportare qui il j’accuse di Gustavo Zagrebelsky, alto magistrato e docente di Diritto costituzionale, il quale in un libricino pubblicato dalla Einaudi (Sulla lin-

gua del tempo presente) riassume il degrado lessicale, e non solo: «L’uniformità della lingua, lo spostamento di parole da un contesto all’altro e la loro continua ripetizione sono il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto». Circa l’accennato «spostamento», Zagrebelsky cita la frase «scendere in politica». Un modo di dire mutuato da un registro anomalo, ossia quello religioso (descendi de coelis…), che indica l’idea salvatrice e la missione redentrice di chi, come Berlusconi, è convinto «di abbandonare la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù». Annotazione amara dell’autore: «C’è poco da ridere o anche solo da sorridere. È una cosa seria. È forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i benefattori che si accollano compiti provvidenziali». Noi italiani conosciamo bene l’espressione «uomo della Provvidenza» (Mussolini).

Su questo registro insiste il giallista ed ex magistrato Gianrico Carofiglio (in La manomissione delle parole, Rizzoli), il quale spiega come l’impoverimento linguistico di oggi ricorda pericolosamente quanto avveniva nel Terzo Reich, i cui gerarchi volevano una lingua di «estrema povertà». La ragione è facilmente intuibile: «Perché si fonda su un sistema tirannico pervasivo; perché impone un unico modello di pensiero; perché nella sua limitatezza autoimposta poteva esprimere solo un lato della natura umana». Carofiglio scrive che la lingia «se può muoversi liberamente, è per natura ricca, perché si piega a esprimere, a dire tutte le esigenze, tutti i sentimenti umani: e dunque, come contravveleno, converrà ricordare che - non per pedanteria filologica, ma per autoconservazione - bisogna combattere l’impoverimento della lingua, la sciatteria dell’omologazione, la scomparsa delle parole». Insomma, se le parole «scompaiono» o appaiono in modo errato, è in gioco qualcosa di assai più importante della correttezza (e del piacere) lessicale.


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parola chiave

no, parola poderosa. A un primo sguardo persino arrogante e pretenziosa. Non ce ne sono altre capaci di rappresentare in modo altrettanto diretto e conciso l’idea della completezza e della prevalenza. Detto uno si è detto tutto. A fianco di lui si dubita che possa stare l’altro, se non in una condizione del tutto subalterna. In matematica uno è il signore, il riferimento per l’intero sistema. Tutti i numeri sono composti da lui e gli sono debitori dell’essenza con la quale si manifestano. È il concetto di uno che rende possibile la sequenza dei cardinali, i quali esistono solo per la sua certezza. Per grandi che siano, tutti sono composti solamente di uno. In filosofia l’uno è il sostegno di ogni sistema di pensiero forte, prossimo com’è a trasformarsi nell’unico, per un’assonanza che è difficile immaginare casuale, e a confondersi con l’essere di Parmenide. Se il mondo esiste, come ci sembra, non si capisce perché la sua forma non debba essere unitaria e perfetta, mentre il molteplice e il relativo rimangono relegati alla dimensione delle apparenze.

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Sembra che l’ uno , una volta posto non lasci spazio di pensiero per nient’altro, la sua solitudine diviene proposta, modello. Non sappiamo se si tratti della descrizione sofferente di ogni condizione umana, destinata a risolvere in se stessa i propri problemi di comprensione della realtà, di fede per dirla in un altro modo, o di una proposta di perfezione inattingibile, nella direzione del superuomo, per il quale non a caso Dio è morto. Il dogma cristiano del Dio uno e trino racconta di questa tensione umana, proiezione della natura misteriosa di Dio, di raggiungere la completezza di sé e nello stesso tempo di non perdere la propria, preziosa, dimensione sociale, la rete di rapporti interpersonali che contribuisce in larga parte a definirci. Dall’idea di uno deriva quella di eguaglianza politica. Se tutti sono uno, voto, cittadino, elettore, soggetto, persona che sia, ogni gerarchia viene cancellata, può esistere solo in quanto relativa e provvisoria, le differenze di lignaggio e persino di estrazione sociale devono essere cancellate. Rimosse, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione. La nostra democrazia si fonda sulla fiducia nell’esistenza di un uno insito e trascendente a ciascuno che ci rende uguali e titolari degli stessi diritti, a prezzo di un leggero sbiadirsi della nostra personalità sociale, da ricostruire in ogni occasione, che non consente alla storia di famiglia di stabilire le identità. Non è lecito porre la domanda delle società arcaiche, «Come nasce?», per ricevere informazioni sulla persona di cui si sta parlando. I numeri cardinali ci sono propri, nella loro continuità di uno che si sommano, mentre proviamo diffidenza per quelli ordinali. Non ci sentiamo a nostro agio di fronte alla parola primo e la sequenza che ne segue suscita una percezione di ordine gerarchico dal sapore sorpassato. Uno è però capace di sorprendere. Sfogliando voca-

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UNO Rappresenta l’idea della completezza e della prevalenza. In matematica è il riferimento per l’intero sistema, in politica assicura l’eguaglianza, in filosofia è il sostegno di ogni pensiero forte...

I paradossi di un monarca di Sergio Valzania

Il dogma cristiano del Dio uno e trino racconta la tensione umana, proiezione della natura misteriosa del Creatore, di raggiungere la completezza di sé e nello stesso tempo di non perdere la propria, preziosa, dimensione sociale, la rete di rapporti interpersonali che contribuisce in larga parte a definirci bolari si scopre la natura paradossale della parola, umile e proterva nello stesso tempo, che nella nostra lingua sembra divertirsi a sfuggire a quella che a un primo avviso sembra essere la sua natura costitutiva. Nelle nostre grammatiche uno gioca ruoli diversi. L’Hoepli lo censisce come aggettivo numerale cardinale, sostantivo maschile invariabile, arti-

colo indeterminato e pronome indefinito. In maniera più confusa, forse più consapevole delle difficoltà relative alla definizione della parola, lo Zingarelli arriva ad attribuirgli persino una doppia condizione aggettivale, isolando la formula ormai desueta dell’uno e l’altro seguito da sostantivo. La capacità dell’uno di evadere dalla complessa gabbia nella

quale si tenta di imprigionarlo si manifesta fin dalle forme più semplici. Secondo l’Hoepli «vidi un uomo che correva» è l’esempio più chiaro per spiegare la sua funzione di articolo indeterminato. Lo Zingarelli preferisce fornire al lettore la locuzione «un muro cinge il giardino». La linguistica contemporanea ci suggerisce una tecnica molto efficace per esplorare la funzione grammaticale, all’interno di una frase, dei termini che usiamo. Essa consiste nella sostituzione della parola sotto analisi con altre che una persona di lingua madre riconosce come equivalenti, non a livello di significato ma di ruolo linguistico. Se due parole diverse svolgono lo stesso compito all’interno di una frase si può dedurne con sufficiente grado di sicurezza che esse hanno lo stesso peso grammaticale. Al posto di un sostantivo va un sostantivo, di un verbo un verbo e così via. Nel nostro caso potremmo provare a dire «vidi due uomini che correvano» o «quattro mura cingono il giardino». Non abbiamo problemi a farlo. Sfogliando di nuovo il vocabolario, alle parole due e quattro dovrei trovare la stessa qualificazione grammaticale che in una zona diversa viene attribuita a uno. Invece scopro che in questo caso mi trovo di fronte a due aggettivi. Né due né quattro possono essere articoli, eppure ne hanno appena sostituito uno (che qui funge da pronome)!

L’obbiezione, molto debole, consiste nel dire che l’aggettivo uno è privo di plurale e la lingua si adatta come può, tappando a modo suo i buchi creati dalla storia. Una spiegazione nella quale si sentono molti scricchiolii. Il significato delle nostre locuzioni è infatti della stessa identica forza, la comunicazione individua con precisione il numero delle persone che vidi correre. Anche se avessi visto «alcuni uomini correre» il vocabolario mi avrebbe avvertito della sostituzione di un articolo con un aggettivo, in questo caso con una diminuzione dell’informazione trasportata. Quanti uomini correvano? Questa natura sfuggente di uno, in italiano e con sfumature diverse in altre lingue europee, mi sembra lo riscatti dalla prima impressione, troppo esclusiva e muscolare, che ci ha dato. Pur rimanendo un monarca assoluto presenta la natura scapestrata di quei sovrani che si aggirano travestiti nei mercati, per conoscere di prima mano le opinioni dei sudditi. Un po’ di trucco, il cappello calato, un’ampia sciarpa fanno sì che se qualcuno si domanda chi sia quella persona curiosa delle conversazioni di strada, che ascolta molto e non parla mai, subito si senta rispondere con un’alzata di spalle «Mah, è uno...». Nel senso di pronome indefinito e non di numero cardinale Uno, il Primo, il Re. La nostra lingua si rivela più astuta dei grammatici che la studiano e si diverte a far loro degli scherzi. Se è vero, come crediamo noi moderni, che il linguaggio costituisce la nostra visione del mondo dovremmo stupirci di trovarlo rigoroso, asettico e alla fine noioso.


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Pop

musica

AUGURI A VASCO che non invecchia mai di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi ammettevamo sottovoce, o trent’anni fa, che ci piacevano i Joy Division. Che ci piaceva da matti crogiolarci in quel buco nero del loro post-punk e farci ipnotizzare dal canto catatonico di Ian Curtis. Chissà se i ventenni di oggi lo vogliono ammettere: sì, ci piace un casino farci del male coi White Lies. I quali, due anni fa, sono sbucati fuori dal nulla con To Lose My Life (Perdere la mia vita), disco ultra pessimista per adolescenti depressi che dopo aver raggiunto il primo posto nella classifica inglese ha venduto quasi un milione di copie in tutto il mondo. Con versi del tipo: «Morire o perdere l’amore, questo è l’incubo da cui sto fuggendo. Dobbiamo crescere insieme e morire insieme». Evviva. Il tutto, incoraggiato da un sintetizzatore che flirtava con la chitarra elettrica ricordando i Joy Division (soprattutto) ma anche Echo & The Bunnymen e gli Ultravox. In poche parole, il dark e la new wave degli anni Ottanta riveduti e corretti da tre pischelli di Londra (Harry McVeigh, Charles Cave e Jack Brown) che si sono conosciuti fra i banchi di scuola, hanno iniziato a suonare come Fear of Flying (paura di volare: già promettevano bene) e poi hanno scelto White Lies perché «le bugie raccontate a fin di bene proteggono dalle verità sconvolgenti». Di nero vestiti, furbescamente pallidi, sguardo fisso verso il nulla, i tre dichiararono che «il nero è il colore che si addice di più alla nostra musica, e To Lose My Life esprime un profondo pessimismo che però è solo uno dei lati della nostra personalità». Oggi, il loro look non disdegna il bianco e il grigio e il loro umore tende al variabile, anche se «per noi è inevitabile dar voce a tutto quello che ci circonda, paure incluse», ha

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Jazz

zapping

h già. Vasco ha compiuto 59 anni. Un nuovo disco è in uscita e, a quanto ne dice la critica musicale della Stampa, la novità più grossa è l’assenza del cappellino. Eh già, Vasco non porta più il cappellino, non si difende più dal mondo, sembra di capire, parla di se stesso: «Io resto sempre in bilico/ Più o meno o su... per giù/ Più giù... più su... più giù... più su». Sono parole tratte dal nuovo singolo che è già in rete. Eh già è il titolo. Anche Pierluigi Bersani, quasi conterraneo, fa gli auguri al rocker con queste parole: «Inutile Vasco che tu insista a compiere gli anni, tanto non invecchierai mai». Bersani forse invecchierà, ha già un anno più di Vasco e qualche perfido se l’immagina già, nella natia Bettola, che esce presto nella fredda mattina appenninica, il cappello coperto di galaverna, sottobraccio la smilza Unità di Concita, e aspetta l’apertura della parafarmacia. Eh già. Ma Vasco no, è un classico specialmente per i critici, gli intellettuali, i politici. La sua spericolatezza che fece imbestialire illo tempore Nantas Salvalaggio è un tratto folkloristico. Il suo niccianesimo («ti piace essere come vuoi/ e rispondi solo a te») ha un tratto irresistibilmente simpa, ludico e libero. E poi come dimenticare il video su youTube in cui cantava in chiesa con la chitarra acustica? Una sorta di Peppone che da ragazzo faceva il chierichetto. Perfino i suoi sbotti libidici vagamente satireschi («prendi una mano señorita/ e mettila qua») vengono allegramente solfeggiati dai bambini delle scuole medie, fanno sorridere i genitori. E infine nell’epoca pop restano solo loro, i cantanti a fare da pantheon per questo o quel progetto politico. Meno male che Vasco c’è. Eh già.

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Triste è bello

(ma in stile anni 80) sentenziato Harry McVeigh a proposito di Ritual, il nuovo album prodotto da quell’Alan Moulder che di tormenti rock se ne intende: leggi Smashing Pumpkins, My Bloody Valentine, Nine Inch Nails. «La vita è questa», si è affrettato a precisare il cantante, «così come il mondo che gli ruota attorno». Ma se la teoria del «gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!», copyright Gino Bartali, poteva andar bene al loro debutto nichilista, ripetere a pappagallo la tiritera del pessimismo cosmico non avrebbe giovato a nessuno. Tant’è che i White Lies, oltre a prendere le debite distanze dal movimento dark («Solo ai cinquantenni che vengono ai nostri concerti ricordiamo quel genere di musica») non ci stanno più a far rima con Joy Division. Semmai con Coldplay, nel senso di triste è bello. In effetti, Ritual suona più gothic-

pop e meno disperato di To Lose My Life. E sebbene (il trio non si offenda) la martellante Bigger Than Us e la cantilenante Streetlights tirino ancora in ballo il gruppo di Ian Curtis, e Strangers più Bad Love risultino maestosamente scure, il resto è perfino incoraggiante. Is Love, infatti, parte come avrebbe voluto Jim Morrison per poi approdare a un technopop alla maniera dei Depeche Mode, Power & The Glory si muove in modo decisamente electro e stiloso, Turn The Bells si scopre tribale e percussiva, Come Down punta sull’interferenza elettronica ma poi abbraccia l’orecchiabilità melodica. E se anche Holy Ghost, in più d’un passaggio, ricorda ancora i Depeche Mode, l’avvolgente ed evocativa Peace & Quiet paga pegno ai Tears For Fears. Anni Ottanta, quindi. Spesso e volentieri. Il trio non si (ri)offenda, mica è un peccato. Appuntamento, per l’unico concerto italiano, il 12 marzo all’Estragon di Bologna. White Lies, Ritual, Fiction, 16,99 euro

La storia del blues in quaranta brani cco un disco, anzi un doppio cd che dovrebbe essere accolto con entusiasmo da tutti coloro che si interessano al blues nelle sue diverse forme. È una storia di questa musica in solo quaranta incisioni, ma sono sufficienti per avere un’idea completa dell’evoluzione del blues dagli anni Venti ai giorni nostri. Le quaranta incisioni sono così suddivise: le prime venti dedicate al blues classico o country blues, le altre al blues cosiddetto di Chicago o blues elettrico. Scorrendo i quattordici nomi degli interpreti scelti dai compilatori di questa raccolta, da Mississippi John Hurt a Freddie King, è l’intera storia del blues che scorre sotto i nostri occhi. Quando poi i cd vengono inseriti nel lettore non è solo la storia di questa musica che ascoltiamo, ma anche un mondo straordinario che appare attraverso le voci e i «racconti» di questi poeti dell’America nera. Quando Mississippi John Hurt (1893-1966) canta è il Sud rurale quello che viene raccontato. Le

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di Adriano Mazzoletti «storie» dei contadini raccontano di «debolezze» e di «malocchio», ma anche della famiglia, del lavoro nei campi, del rapporto con il padrone che voleva vedere aumentare il più possibile le loro famiglie, perché ogni figlio in più significava un paio di braccia in più. Mississippi John Hurt ne ebbe quattordici da sua moglie Jesse. Fu scoperto nel 1928, a trentacinque anni e i suoi blues iniziarono a circolare negli Stati Uniti del Sud nelle incisioni vendute solo nei quartieri neri. Più famosi di John Hurt, furono Blind Lemon Jefferson (1897-1929), Leadbelly (1889-1949), Big Bill Broonzy (1893-1958) e Robert Johnson (19121938), morto a ventisei anni. Ma la sua fu notorietà postuma. La celebrità giunse quando i Rolling Stones nel 1969 incisero Love in vain che Johnson aveva lasciato al mondo del blues in una incisione del 20 giugno 1937, un anno prima della sua scomparsa. Il successo degli

Stones stimolò ricercatori e studiosi. Furono scoperti episodi sconosciuti della sua vita trascorsa attraverso piccole taverne, bar, honky tonk, fra Arkansas, Tennessee, Missouri, Illinois,Texas, Kentucky, New York, New Jersey, Mississippi dove morì a Greenwood avvelenato da qualcuno. Gelosia o vendetta? Non lo si saprà mai. Spirò nell’ambulanza che lo stava trasportando all’ospedale. Una storia diversa fu quella di Huddie William Ledbetter, conosciuto nel mondo del blues come Leadbelly, nato nella Jeter Plantation fuori Mooringsport in Louisiana.Venne scoperto, nel 1933, dall’etnomusicologo Alan Lomax mentre era detenuto, con l’accusa di omicidio, nel Louisiana State Penitentiary di Angola. Lomax riuscì a fargli ottenere la grazia e da quel momento iniziò una lunga serie di incisioni per la Library of Congress di Washington. I suoi blues rappresentano l’anello di congiunzione

fra il blues primitivo di Blind Lemon Jefferson e quello più moderno e sofisticato di Josh White. Ma questi due dischi sono ricchi di innumerevoli altri momenti importanti come Sweet Home Chicago, altro blues di Robert Johnson del 1937, inno, quarantatré anni dopo, del film Blues Brothers dove cantava, insieme ad altri big, John Lee Hooker. Qui lo ascoltiamo nella versione originale.

History of the Blues, Acoustic to Electric, Retro Records, due cd


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arti Mostre

è uno strano pregiudizio, che tutti in parte condividiamo. Che se è essenziale vedere una mostra dal vivo, perché se no non ha senso scrivere, senza saggiare davvero la carne dell’opera, la «grana» della voce della pittura (e magari pure dell’installazione) con la fotografia sarebbe un po’tutto diverso - se solo uno ha a disposizione un buon catalogo o qualche soddisfacente risoluzione di scatti, e allora può tranquillamente starsene a casa, a tavolino, a scriverne. E invece no, questa ne è la controprova. Per esempio, abbiamo visto allestire, nei tristi giorni del funerale di Graziella Lonardi, la mostra di Ugo Mulas, a Napoli, con il sensibile curatore Giuliano Sergio e con la volitiva castellana di Villa Pignatelli, Denise Pagano, che ha ricevuto questa nobile e ingombrante eredità di trasformare la villa neoclassica, già sede di mostre storiche, in una viva «Casa della fotografia», soprattutto napoletana. Ricca di archivi, di documenti, voci, seminari, vitalità dell’intelligenza, qual era il sogno «caratteriale» della Lonardi, scomparsa troppo repentinamente, senza vedersi coagulare quell’antico suo sogno. E nemmeno il fiorire di questa prima, emozionante retrospettiva... è troppo funebre il termine, diciamo, assaggio, nell’archivio ancora fecondo di Mulas; che non a caso le è stata dedicata, anche perché incentrata su quella serie di immagini documentali, scattate durante la mostra romana di Vitalità del negativo, fortemente ideata dalla mecenate napoletana. E che difatti sorride ancora, dalla parete, vivissima e leggera, come una ninfa del contemporaneo, cosparsa dei brillantini morbidi del bianco pluribol dell’installazione di Fabio Mauri, lei che non portava gioielli, salvo che quel franco sorriso di aerea nobildonna senza titoli, salvo quello della disponibilità dell’intelligenza. Ecco, anche se uno già possiede il fastoso volume Johan & Levi dedicato agli inediti di Vita-

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Moda

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Opere in fieri

negli scatti di Mulas di Marco Vallora lità del negativo e può pascolarci dentro a piacere e se pure si era in gran parte assistito al frenetico allestimento della stessa in cantiere, rivedere la mostra ultimata e risolta con soluzioni eleganti e suggestive e una intelligente scelta degli interventi scritti del fotografo, dimostra ulteriormente come pure le rassegne di fotografia vadano vissute nel pathos della visita e della partecipazione viva. Che bel-

lo, per esempio, quell’esordio teatrale di Duchamp, il sigaro come un carboncino accademico ormai diventato inutile, che varca il sipario dell’arte passata, schiudendo una tenda fittizia, un po’ in stile Prologo dei Pagliacci, ricordate?: «Disturbo? Io sono il Prologo».Tutto parte di lì, da quel rifiuto del fare-arte, che tra pochi scatti ce lo mostrerà in un giardino americano, alla scacchiera da parco-an-

ziani, lo sguardo interrogativo, di un geniale pensionato del bello estetico. E davvero Mulas lo aveva intuito, senza tanti virgilio ingombranti intorno. «Quando nel ‘64 ho iniziato con Solomon il libro sui pittori americani fui io a insistere per inserire Duchamp, per una certa intuizione che alla base di quello che capitava in quegli anni in America, ci fosse lo zampino di Duchamp. (...) Il suo silenzio costituisce l’equivalente dell’opera… volevo portare Duchamp su un terreno il più possibile indefinito, senza tempo, dove fosse possibile visualizzare l’ambiguità di questo suo non-fare». Perfetto, e le sue immagini lo de-cantano proprio, quel non-tempo indefinito. Intanto vede nascere, proprio dal basso, come una falda acquifera, la Pop Art. Per esempio, alla factory di Warhol, dove scopre con curiosità da fotografo, il tempo immobile dei suoi film, ripensando i suoi rapporti con la pittura e il tempo. Film «come grandi fotografie proiettate, tanto non accadeva nulla, solo che a un certo momento la fotografia veniva come terremotata, in quella assoluta immobilità bastava un battito di ciglia o un deglutire, per dare un senso di movimento». Warhol «riesce sicuramente a mettere in crisi le mie idee sulla fotografia» e anche a fargli cambiare idea sull’arte, dirigendosi sempre più verso la fotografia concettuale e riflessiva di Verifiche, in mostra. Come in sintonia con certe poetiche parallele di Paolini, ormai Mulas fotografa la possibilità nuda, nascente, geometrica dell’arte. Forse suggestionato dal film di Namuth su Pollock, egli fotografa il farsi dell’opera: Rauschenberg che annusa la tela nuda, Lichtenberg che dialoga con un fumetto disegnato, Barnett Newmann che sfrutta il taglio del fotogramma per «firmare»fermare una sua opera all’opera. Opposto alla poetica di Cartier-Bresson, del cacciatore che fulmina l’attimo fuggente egli capisce che un «attimo qualunque può essere detto fotograficamente».

Ugo Mulas. Verifica dell’arte, Napoli, Villa Pignatelli, fino al 28 febbraio, Catalogo Johan & Levi

Dolce vita a Roma con Fernanda Gattinoni lizabeth Taylor non aveva il fisico per il pigiama palazzo. Né l’aveva Sophia Loren con il suo appariscente davanzale. Ma era perfetto per Elsa Martinelli, risposta italiana a Audrey Hepburn. Una che poteva mettere tutto. Severa e paziente nelle prove degli abiti, Audrey affrontava le sedute all’atelier Gattinoni con un thermos di spremuta d’arancia. Ingrid Bergman si faceva accompagnare dai figli: bambini belli e biondissimi che assistevano senza fiatare alle estenuanti prove di mamma (che comprava parecchio: 220 tra gonne, abiti, camicie, cappotti). L’atelier Gattinoni di via Toscana era un posto dove farsi consigliare e coccolare, un confessionale psicanalitico e anche qualcosa di più. Ava Gardner aggredì scompostamente Lucia Bosè, nel salottino prova. Le rovesciò una tazzina di caffé sul cappotto di cammello e fuggì lanciandole insulti impronunciabili per l’epoca. Il motivo era un uomo: Walter Chiari. Anni Cinquanta, anni sognanti di un altro secolo, quando il made in Italy era ancora un’idea, ma le firme c’erano già: Sorelle Fontana, Emilio Pucci, Irene Galitzine, Roberto Capucci, un giovanissimo Valentino. E naturalmente, Fernanda Gattinoni. Le sue creazioni (straordinari i costumi di Natasha-Audrey Hepburn in Guerra e Pace) sono in mostra a Roma fino al 10 marzo al Museo Boncompagni Ludovisi.Titolo dell’operazione nostalgia: Moda e stelle ai tempi della Hollywood sul Tevere. Quando lo star sy-

E

di Roselina Salemi stem viveva a casa nostra: liti, amori, paparazzi e abiti da sposa con strati di pizzo, tulle e perle, donne come torte nuziali viventi e gonne cucite con scandaloso spreco di seta. Quando le signore snob (Ford, Rothschild, Agnelli, Crespi) che viaggiavano tra New York, Parigi, Montecarlo, Roma, Capri e Sankt Moritz, si conoscevano tutte, si scambiavano gli indirizzi degli ate-

lier e si copiavano i vestiti. Andavano molto gli abiti di chiffon drappeggiato alla Lana Turner, l’indecisa che chiedeva lo stesso modello in trenta colori e pretendeva che Fernanda Gattinoni, con tutto lo staff si trasferisse all’hotel Excelsior per le prove. La mostra si apre

con gli abiti del guardaroba privato e i costumi dei film Europa ‘51 (1952) e Fiore di Cactus (1969) realizzati per Ingrid Bergman, prosegue con Lana Turner, i deliziosi abiti della collezione Casanova (1958) appartenuti a Kim Novak e le petites robes noires di Anna Magnani. Vestiti molto simili, abbinati di solito a un cappottino di taffettà. Un aneddoto: erano le 23.30 del 31 dicembre 1959, Nannarella doveva partecipare al veglione organizzato a casa di Totò, ma aveva dormito tutto il giorno e non aveva ritirato l’abito già pronto per lei. L’atelier di via Toscana era ancora aperto (molte le ritardatarie) e quando l’indimenticabile attrice di Roma città aperta urlò sotto le finestre: A sinistra, l’atelier Gattinoni «A Fernà, il vestito!!!», negli anni 50. Sotto, Madame Gattinoni l’accolAudrey Hepburn se sorridendo e l’aiutò a cambiarsi per la festa. Naturalmente l’abito era nero. E se lo guardate bene, vi accorgerete che potrebbe andare benissimo al vostro prossimo party. Quando si dice lo stile.


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il paginone

«Parassita militante» No, solo poeta di Pasquale Di Palmo l processo, la prigione, l’esilio sono avvenuti così tanto tempo fa che li considero quasi parte di una mia precedente incarnazione. Io mi sono sempre considerato soltanto una persona che vive all’estero, in una sorta di prolungata vacanza che mi è stata regalata dall’imbecillità dei governanti russi. Le confermo che non mi piace né il termine esule né quello di dissidente. Prima di tutto perché è orribile etichettare un essere umano e la sua vicenda secondo categorie ideologiche o di appartenenza a una razza e a una nazione. Poi perché queste, come tutte le altre definizioni, finiscono per congelare le idee. Bloccando l’intelligenza e la comprensione dei concetti stessi. Quando si parla di esilio o di dissidenza, ad esempio, emerge un elemento melodrammatico che è falso e fastidioso. L’esilio è considerato a volte come ragione in sé sufficiente d’eroismo, mentre spesso si traduce in una vita più semplice e agiata».

«I

Queste parole, tratte da un’intervista del 1990 a Josif Brodskij, documentano il complesso rapporto che l’autore russo aveva nei confronti della sua vicenda «politica». Vessato a più riprese dalle autorità sovietiche, Brodskij venne infatti arrestato alla fine del 1963 e sottoposto a un processo-farsa con l’accusa di «parassitismo sociale» qualche mese dopo. Gli atti di questo processo, svoltosi nella città natale di Brodskij (San Pietroburgo, all’epoca chiamata Leningrado), trascritti in segreto dall’amica FridaVigdorova, si conclusero con la condanna a cinque anni di lavori forzati che il poeta trascorse solo in parte nella località di Archangel’sk. L’opinione pubblica internaanno IV - numero 6 - pagina VIII

zionale si mobilitò infatti per la liberazione di Brodskij, coinvolgendo, tra l’altro, intellettuali del calibro di Sartre e costrinse le autorità sovietiche a liberare il futuro autore di Fermata nel deserto dopo diciotto mesi. Due giovani studiosi emiliani, Cristiano Casalini e Luana Salvarani, pubblicano ora sotto il titolo Brodskij 1964. Un processo (Medusa, 98 pagine, 11,50 euro) la trascrizione degli atti di questa cause célèbre, intervallata dalle considerazioni che due fantomatici intellettuali si troverebbero a

fare nel 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, ascoltando i nastri relativi alle deposizioni.

Concepito come una sorta di pièce teatrale (il sottotitolo del volumetto è Dramma didattico sulle trascrizioni originali delle udienze), il lavoro dei due studiosi ha il merito di presentare al lettore italiano un documento di fondamentale importanza sul piano storico e politico, soffermandosi su una vicenda che assume carattere di esemplarità

nel contesto culturale novecentesco tout court. La miopia e la malafede con le quali il poeta, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987, viene giudicato sono suffragate dalle deposizioni di alcuni testimoni, come quella di un certo Nicolaiev: «Non conosco personalmente Brodskij. Quello che ci tengo a dire è che da tre anni sono al corrente dell’influenza disastrosa che egli esercita sui suoi contemporanei. Sono padre di famiglia. So per esperienza quanto è duro avere

Sembra un pezzo di teatro dell’assurdo lo scambio di battute tra il futuro Nobel per la letteratura e il suo giudice. Del resto i curatori del volume l’hanno concepito come un “Dramma didattico”

un figlio come lui, che non lavora. Più di una volta, ho trovato da mio figlio delle poesie di Brodskij: un poema in quarantadue parti e diverse altre poesie. Ho sentito parlare di Brodskij a proposito del caso Umanski. Dimmi chi sono i tuoi amici... come dice il proverbio. Ho conosciuto personalmente Umanski. È un inveterato antisovietico. Ascoltando Brodskij, ho riconosciuto mio figlio. Anche lui si considera un genio. Come lui, si rifiuta di lavorare. Individui come Brodskij e Umanski hanno un’influenza disastrosa sui loro contemporanei. I genitori di Brodskij mi sconcertano. Visibilmente, essi cantano le sue lodi, all’unisono con lui. A giudicare dalla forma, è evidente che Brodskij sia capace di far versi. Ma i suoi versi non fanno altro che del male. Brodskij non è un semplice parassita. È un pa-


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Per lui il peggiore dei crimini era il supremo dei beni. E a causa di esso fu processato a Leningrado nel 1964 e condannato a cinque anni di lavori forzati che grazie alla mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale si ridussero a 18 mesi. Ma Josif Brodskij non amava il termine dissidenza né quello di esilio, perché, diceva, «finiscono per congelare le idee». Adesso la trascrizione degli atti di quella celebre causa è pubblicata in un libro rassita militante. Con gente come lui, bisogna essere senza pietà». I due curatori mettono in luce come gli atti di questo processo si basino sostanzialmente sulla profonda dicotomia esistente tra il linguaggio burocratico esibito dagli organi del potere costituito e la disarmante caparbietà con la quale Brodskij rivendica il proprio ruolo di poeta in un mondo che non riconosce né abbisogna di poeti.

A meno che questi ultimi non siano disposti a fare il panegirico del regime. Giustamente Massimo Onofri, nella sua pregnante prefazione, sostiene che «Brodskij non s’aiuta difensivamente, ma aggrava la sua posizione, quando, di fronte all’accusa che quello di poeta non è un lavoro, continua a ripetere che il suo lavoro, appunto, è stato quello di comporre o tradurre versi». Onofri aggiunge: «Paradossalmente, Brodskij e i suoi carnefici la pensano allo stesso modo, potrebbero persino parlare lo stesso linguaggio: il nemico della rinnovata società socialista è proprio l’individuo. Il “distacco dal mondo” (e cioè una radicale asocialità), la “pornografia” (e dunque il carattere diseducativo, intimo e privatissimo della poesia di Brodskij), l’assenza d’amore per la patria e per il popolo (che, nei versi del poeta, sono amore per l’uomo in quanto tale, ben al di là della sua contingente anagrafe storica e sociale), insomma tutti gli addebiti che gli imputa il compagno Voievodin, cambiati di segno

e valore, potrebbero essere rivendicati con orgoglio come valori dall’individualista Brodskij». Il problema è che la poesia di Brodskij, come ha rilevato Pasolini in una sua recensione, «si fonda sull’idea dell’inutilizzabilità della poesia» e, come tale, non poteva che essere recepita dalle istituzioni sovietiche alla stregua di un’opera dal carattere asociale, ripiegata sull’intimismo e sulla pornografia anziché sull’engagement di majakovskijana memoria. Si assiste dunque a un processo in cui gli inter-

segno opposto. Se per i funzionari sovietici, l’inutilità sociale della poesia, il suo carattere irriducibilmente antipedagogico, è il peggiore dei crimini, per il poeta è il supremo dei beni», avverte ancora Onofri.

C’è uno scambio di battute esemplare tra Brodskij e il giudice, signora Savelieva, che testimonia la totale mancanza di umanità e comnei prensione confronti dell’imputato, disarmato dal fatto di non trovare appigli di genere nessun per districarsi da una situazione paradossale e, al tempo stesso, capace di mantenere un atteggiamento fiero, a tratti quasi sprezzante: «Il giudice: In generale, qual è la vostra specializzazione? Brodskij: Sono poeta, poetatraduttore. Il giudice: Chi ha stabilito che voi eravate un poeta? Chi vi ha classificato tra i poeti? Brodskij: Nessuno. E chi mi ha classificato nel genere umano? Il giudice: E avete studiato a questo fine? Brodskij: A quale fine? Il giudice: Per diventare poeta. Non avete tentato di fare studi superiori per prepararvi... per apprendere... Brodskij: Non pensavo che questo potesse essere appreso. Il giudice: Come diventate poeta, allora? Brodskij: Penso che... sia un dono di Dio...». Sembrano i dialoghi di una commedia del teatro dell’assurdo e non si può non ricordare, a tal propo-

efficienza che verso la metà dei Sessanta ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato». Quel che non convince, nella pur meritoria operazione di riproporre in italiano gli atti del processo a Brodskij (ricordiamo che, nel 1964, apparve nella rivista Il borghese una versione pressoché integrale), è di accavallare gli stessi con le fumose elucubrazioni di due intellettuali nutriti di quella tipica cultura novecentesca che Brodskij in fondo osteggiava proprio in virtù della sua retorica (Lacan, Barthes, Foucault, Derrida), appellandosi a ben altri modelli, quasi esclusivamente di taglio poetico (in primis Auden, ma anche Frost, Lowell, l’Achmatova, la Cvetaeva, Kavafis, finanche il nostro Montale, peraltro quasi mai citati nel testo). Gli stessi curatori aggiungono, nella postfazione, che a loro «non interessava Brodskij come scrittore», bensì «il processo Brodskij per le domande che pone». Ebbene, ci sembra che, con le conversazioni proposte, rasentanti il birignao intellettuale tipico di un certo retroterra culturale, tali domande rimangano desolatamente senza risposta e che una vicenda quanto mai sintomatica come il processo a Brodskij corra il rischio di essere soltanto un pretesto per evidenziare la gratuità di due interlocutori che, sorsegdiscettano giando whisky,

«L’estetica è la madre dell’etica - disse Brodskij a Stoccolma nel 1987. Le categorie di “buono” e “cattivo” sono categorie estetiche che precedono le categorie del “bene” e del “male”» locutori si trovano nella condizione di parlare lo stesso linguaggio proprio in virtù della loro perfetta incapacità di rapportarsi al modello diametralmente opposto. «Da questo punto di vista, la posizione di Brodskij resta inconciliabile con quella dei suoi carnefici, e dunque non negoziabile, proprio perché è esattamente la stessa, seppure con un valore di

sito, la conversazione telefonica intercorsa trent’anni prima tra Pasternak e Stalin a proposito della detenzione di Mandel’stam, in cui il futuro autore del Dottor Zivago invitava, senza alcun esito, il despota georgiano a parlare «della vita e della morte». Brodskij stesso scrisse che «il regime, negli anni Trenta e Quaranta, sfornava vedove di scrittori con una tale

sull’horror vacui mentre il problema di fondo riguarda il fatto che il regime sovietico era «l’unico al mondo dove si uccide per una poesia», come aveva sentenziato Nadezda Mandel’stam. Non era meglio allora proporre, nudo e crudo, il resoconto degli atti senza appesantirlo con disquisizioni fuori registro? E non era preferibile tradurre tale resoconto direttamen-

te dal russo e non dalla versione francese, visto che i curatori sono «convinti [...] che una scrittura si rivela solo nel contatto profondo con la lingua in cui è stata pensata»? Si ha l’impressione che i propositi dei curatori si ripercuotano a mo’di boomerang sul loro stesso operato. E se condivisibile risulta l’intento di «evitare un commento classico, di tipo saggistico», più nebulosa appare la seguente asserzione alla luce dei lacerti dialogati dei due intellettuali: «il gergo della riflessione sociopolitica, soprattutto in Italia, ci pare così sfibrato dall’uso bulimico, approssimativo (e non di rado in malafede) della prassi giornalistico-accademica, che non usarlo, semplicemente, è buona norma igienica». D’accordo, ma un netto contrasto si avverte nell’economia del libro: da una parte la cronaca, i fatti realmente accaduti, anche se adulterati da uno scambio di battute degne di Beckett o Ionesco; dall’altra il commento fuori dalle righe di due rappresentanti dell’intellighenzia che adoperano il medesimo linguaggio «bulimico, approssimativo» che vorrebbero potenzialmente contrastare.

D’altronde non è un caso che Brodskij mettesse in luce come la questione del gusto fosse intimamente correlata a un canone di ordine etico, come nello rileva straordinario discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel nel 1987: «Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del “bene”e del “male”. In etica non “tutto è permesso” proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, perché il numero dei colori nello spettro solare è limitato. [...] Come polizza di assicurazione morale, quanto meno, la letteratura dà molto più affidamento che non un sistema religioso o una dottrina filosofica. Poiché non ci sono leggi che possano proteggerci da noi stessi, nessun codice penale è in grado di prevenire i reati contro la letteratura; anche se possiamo condannare la materiale soppressione della letteratura - la persecuzione degli scrittori, gli abusi della censura, i roghi dei libri - siamo poi impotenti di fronte al delitto più grave: l’indifferenza verso i libri, il disprezzo per i libri, la non-lettura. Per questo delitto una persona paga con tutta la sua vita, e se il delitto è commesso da una nazione intera, essa lo paga con la sua storia».


Narrativa

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libri

Georges Simenon LA FUGA DEL SIGNOR MONDE Adelphi, 154 pagine, 17,00 euro

ome in molti romanzi di Simenon la vicenda prende l’avvio da una svolta emotiva, da un oscuro magma interiore che trova improvvisamente un canale di uscita. C’è un uomo che in pochi istanti decide di cambiare vita, trovando insopportabile e talvolta incomprensibile quella fino a quel giorno vissuta. Un atto brusco, del quale non si sorprende solo chi lo realizza, ossia Herbert Monde, 48 anni, ricco industriale. Si alza presto. Teme sempre di svegliare la seconda moglie dagli occhi neri. Si lava con cura, si guarda poi allo specchio «con un compiacimento venato di amarezza». A quell’ora i suoi capelli biondi e radi gli stanno ritti in testa dando al suo viso roseo un aspetto infantile. Fa colazione da solo, nell’angolo con le vetrate colorate che gli ricordano il padre e il nonno. Poi va in ditta, saluta il contabile poi il figlio effeminato. Infine sparisce. «In quel momento non si sentiva a suo agio da nessuna parte». Sale su una carrozza di terza classe, diretto a Marsiglia dopo aver scelto abiti dozzinali e aver messo una forte somma di denaro nella valigia. La fuga verso il mare. Si è tagliato i baffi. Solo un piccolo gesto: «Non ebbe incertezze, si potrebbe dire - scrive Simenon - che non ebbe bisogno di decidere, anzi che non ci fu niente da decidere». La casa appena lasciata la pensa come «inamovibile», lui desidera lanciarsi a capofitto «in quel fiume di vita che scorreva» attorno alle mura familiari. Gli piace l’anonimato. Accetta gli odori volgari, la promiscuità e la sciatteria d’un albergo. Norbert è sempre stato «un uomo incapace di osare», che teme di mettere in imbarazzo gli altri. Anni prima ha covato l’idea di un «altrove». Anche con la sua prima moglie, Thérèse, una «santarellina» che però collezionava foto e disegni pornografici e spesso si faceva portare dall’autista in locali sordidi. Una donna che diceva sempre al marito «a me piace quel che a te piace» e poi si raggomitolava in segreti indecenti. Per caso, nell’albergo di Marsiglia, soccorre Julie, una donna giovane, appariscente e poco fine, che tenta di avvelenarsi per una delusione amorosa. Superba e spietata è la descrizione che Simenon fa di lei, al ristorante: «Si era acchittata con cura come se non fosse mai successo niente, e si era truccata con cura, disegnandosi una strana bocca, più piccola di quella vera, attorno alla quale il rosa pallido

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groviglia in volute psicoanalitiche, predilige la descrizione: è qui che risiede la verità della vita, compreso l’inspiegabile.Talvolta si limita ad accennare ai moti dell’anima, ma lo fa con occhio da fotografo: «Lui si rivestì. Non era infelice. Quello squallore faceva parte della vita che aveva desiderato».Vuole far parte della gente comune. Da Marsiglia a Nizza. Sempre sul mare: «la battaglia è finita», bisogna lasciarsi trascinare senza rimpiangere nulla, evitare l’obbligo di spiegare il senso delle parole. Certo, dietro di lui c’è una vita complessa. Il genio di Simenon consiste nel conoscere perfettamente il passato di ogni personaggio. Ecco perché lo scrittore prima di iniziare un racconto s’annotava l’intero passato di ogni persona destinata poi a calare sulle sue pagine. A Nizza il signor Monde s’imbatte nella sua prima moglie, Thérèse dagli occhi viola, coinvolta in una vicenda poco chiara. È ormai morfinomane, lui l’aiuta senza far finta di dimenticare che non è cambiata, che si sente sempre al centro del mondo. È stata lei, lasciandolo, a farlo soffrire. Certo, si è rifatto una vita con un’altra moglie, «ma non era più riuscito a essere felice». Monde ha ormai compiuto il percorso da troppo tempo rimandato, è capace, «alla luce della luna», di vedere in modo diverso la vita, «come se avesse dei portentosi raggi X». Lascia Nizza per Parigi. L’uomo che da tre mesi tutti credevano morto riprende normalmente la sua vita. La moglie è impassibile: «Lui la guardava senza scomporsi, vedeva i suoi piccoli occhi neri diventare un po’meno duri, lasciar trapelare, forse per la prima volta, un certo smarrimento». Fino all’ultimo non capisce nulla: «Non sei cambiato». Risposta di monsieur Monde: «Sì, invece». È consapevole di essere di nuovo solo. Ma il viaggio, anzi la fuga, ha tracciato una metamorfosi, quasi animalesca: «Era sereno. Era dentro la vita, mutevole e fluido come la vita stessa». Lontano ormai dai fantasmi e dalle ombre del suo passato, va nella stanza con le vetrate colorate. Ormai «guardava la gente negli occhi con fredda serenità».

La metamorfosi di Monsieur

Riletture

Monde

Un uomo decide all’improvviso di cambiare vita. E Simenon ce lo racconta dal suo punto di vista privilegiato: quello della descrizione di Pier Mario Fasanotti delle labbra naturali veniva fuori come una sottoveste troppo lunga». Julie, frequentatrice di locali notturni e con ambizioni di ballerina, non è cattiva. È soltanto una qualsiasi. Il signor Monde ha svogliati rapporti intimi con lei. Passeggiano cupi e silenziosi «come ogni coppia». Gli chiede della scelta, Norbert si limita a rispondere «ero stufo». Simenon, come di consueto, non s’ag-

L’ermetismo (e altre assenze) spiegato da La Capria o ripreso in mano il Meridiano di Mondadori dedicato a Raffaele La Capria per rileggere dopo molti anni Ferito a morte del 1961 che vinse meritatamente, e dopo una battaglia letteraria, il Premio Strega. Il romanzo conserva tutta la sua freschezza, la sua originalità con personaggi assai vivi e coloriti, con vicende che prendono il lettore, e uno stile personalissimo che segnò la scrittura di La Capria, che ha da subito usato una straordinaria vocazione narrativa. Il libro, del resto, fu accolto con molto favore dai critici del tempo. Ma prima mi sono imbattuto nei frammenti di False partenze datati 1943. È una lettura che mi riguarda da vicino, perché gli scrittori formativi che la Capria indica sono stati più o meno gli stessi che hanno toccato il mio cuore e la mia fantasia. E questo vale anche per molte tematiche (come quelle sull’«assenza»). Non parallele invece le prime scelte politiche di La Capria, poi però accantonate per una posizione che si può definire liberale e che subito mi persuase. «Baudelaire era il lago da cui si partivano i due fiumi della poesia francese: Rimbaud in una direzione che arrivava fino ai surrealisti, Mallarmé in un’altra che arrivava a

H

di Leone Piccioni Valéry». «Valéry credeva al dominio assoluto dell’intelligenza e infatti“la stupidità non è il mio forte”era il suo motto. Ammiravo la perfezione alessandrina di Valéry poeta, il professorale neoclassicismo di Eliot, l’aristocratico liberty di Rilke». Ma si aggiunge l’ammirazione per Garçia Lorca e la sua poesia. Tante altre scelte possono definirsi comuni come quella per Kafka e per Dostoevskij.Tra gli italiani l’importanza di Vittorini, di Moravia, di Pavese, traduttore di Moby Dick, legando certa nuova ricerca narrativa italiana a tipici prototipi americani come Saroyan, anche se poi un po’ ridimensionato. Per le scelte politiche La Capria fu toccato come molti suoi coetanei scrittori dalla dottrina di Marx. Sotto le armi, correndo molti pericoli, portava con sé il Manifesto del Partito Comunista. Ma sempre più la riflessione sul marxismo lo porta a rivedere quale situazione si sia determinata in Russia dove la teoria doveva sostituire la pratica, e si accorge «che diventava sempre meno probabile che il bruco si trasformasse in farfalla». E si tornano così a citare interventi assai

Sfogliando il Meridiano Mondadori, alcune riflessioni in margine a “False partenze”

coraggiosi e importanti dell’epoca diVittorini anche nei confronti della libertà in genere e della libertà culturale in senso stretto. C’è in Italia l’aumento di una presenza ermetica tra poeti e critici, anche se c’era - e tuttora c’è - qualche imprecisione: come se Ungaretti e Montale risultassero ermetici. Uno dei temi degli ermetici è quello di trovarsi in uno stato di «assenza». La Capria lo spiega assai bene: «Cos’è questa assenza? Ma è inutile e forse impossibile descriverla. È una sorta di rapimento o piuttosto una fuga, fuori dalla nuvola di parole e di concetti che sempre ci avvolge, e fuori da ogni ricostruibile immagine o pensiero. Somiglia - dice ancora La Capria - all’andare e venire dell’onda sulla spiaggia, all’allargarsi di cerchi d’acqua, al gioco delle nuvole difformi». Queste riflessioni La Capria le compie al cospetto di uno splendido panorama marino. Siamo in guerra, ci sono i bombardamenti ma la bellezza dello specchio d’acqua non sembra implicata: le bombe cadranno anche davanti a Posillipo, e alcuni amici, in una pagina memorabile (che tornerà anche in Ferito a morte), in barca, dentro una grotta, assistono al bombardamento. Erano tempi in cui molti «credevano che la letteratura fosse la chiave per capire chi eri e in che mondo vivevi», per virtù del pensiero e non del miraggio sociale.


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poesia

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L’umanesimo ironico di Ludovico Ariosto di Francesco Napoli hi è questo Ludovico Ariosto che alle gesta cavalleresche non crede eppure investe tutte le sue forze, le sue passioni, il suo desiderio di perfezione a rappresentare scontri di paladini e d’infedeli in un poema lavorato con cura minuziosa?» si chiede Italo Calvino. Ludovico Ariosto è l’Orlando Furioso. Un’identità perfetta, simbiotica. Il poeta, reggiano d’adozione e ferrarese di corte, ha dedicato gran parte della sua attività di scrittore alla composizione del capolavoro epico-cavalleresco. La redazione incomincia verso il 1505, viene pubblicato nel 1516 e nel 1532 vede la terza e definitiva stesura approvata dall’autore. Sia ben chiaro che, come spesso accade, le prime edizioni sono migliori dell’ultime, hanno un germe vivo e attivo d’originalità e slancio che nel tempo i condizionamenti culturali inevitabilmente abbassano.

«C

ri ai suoi tempi ancora ammirati (eroismo, onore e, soprattutto, amore) ma anche esaltare la varietà e la grandezza dell’azione umana attraverso i personaggi dell’opera. Ormai Ludovico Ariosto vive una dimensione del mondo cavalleresco distaccata perché la materia non esercita più alcuna influenza diretta. Anzi, proprio quella stessa esaltante materia che dai cicli carolingi e arturiani attraverso l’azione letteraria di Boiardo, ma anche di un Pulci, era a lui pervenuta viene dominata e sublimata secondo le nuove aspirazioni dell’epoca. E quando Ariosto si lascia andare nelle parti encomiastiche verso gli Estensi, lontani figli di quel Ruggiero eroico, o le pseudoprofezie a posteriori che celebrano i signori di Ferrara, lo fa senza alcuna piaggeria, con un senso dell’obbligo ma anche con quel po’ di presa in giro nascosta tra le righe, ed evidente se si pensa alla famosa prima satira nella quale al cardinale Ippolito d’Este chiede la dispensa dal seguirlo in una fredda Ungheria. E sul mondo di corte nelle Satire, sette in tutto, Ludovico Ariosto esercita al meglio la sua ironia.

cherà nei circoli letterari di corte. Come uomo politico, poi, non infierisce sui vinti quand’era governatore in Garfagnana, anche se non lo si vede mai opporsi alla volontà dei suoi superiori.

Di rilievo, poi, il conseguente rapporto di amore-odio verso la corte. Amore perché, anch’egli, in quanto intellettuale di origine nobiliare, faceva parte di quegli Ludovico ha poco più di trent’anni quando, al seambienti, e poi perché sperava di ottenere buoni uffiguito del padre, comandante delle guarnigioni estenci, incarichi e riconoscimenti letterari; di odio perché si prima a Reggio Emilia, poi a Rovigo e infine a Fersi sentiva strumentalizzato, non valorizzato come inrara Giudice dei dodici Savi, ha già appretellettuale ma solo come diplomatico; inolso i segreti della vita delle corti rinascitre non gli piacevano le corti che si commentali italiane. Ha scritto poco: qualche battevano tra loro, disposte persino ad alprova lirica in latino e ancor meno in vollearsi con lo straniero, senza tener conto gare. E la scelta della materia cavalleresca degli interessi di corte. Infine era consapeDegli uomini son varii li appetiti: come soggetto del suo lavoro poetico si rivole dei valori superficiali delle corti stesa chi piace la chierca, a chi la spada, vela anch’essa assai precoce: ne accenna se, anche se non riteneva di aver la forza infatti in un’elegia, De diversis amoribus, e sufficiente per opporvisi: infatti dirà d’aver a chi la patria, a chi li strani liti. tra le prime esercitazioni in volgare ecco scritto il Furioso per il divertimento dei SiChi vuole andare a torno, a torno vada: spuntare nelle sue carte l’inizio di una gnori. Ludovico Ariosto non pensò di scriObizzeide, poema cavalleresco. Sembra vere un poema che servisse a una causa vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; quasi che Ariosto abbia voluto aiutare i ideale o politica: sapeva benissimo che i a me piace abitar la mia contrada. suoi numerosi critici puntando penna ed suoi lettori non sarebbero stati capaci di energie inventive quasi esclusivamente sul recepirla. In un certo senso dava per scongenere cavalleresco. Il momento poi in cui tato che la classe dei cortigiani, pur ricca decise di comporre quella che lui stesso ha sul piano economico e potente su quello definito una «giunta» all’Orlando Innamopolitico, non aveva molto da dire su quello Ludovico Ariosto rato di Matteo Maria Boiardo è anche il ideale. Ma a colpire è un modernissimo in(Satire, III, vv. 52-57) momento in cui si può ritenere ormai chiateresse per ogni aspetto della vita degli uoramente già impostate nella sua mente tutmini. Rispetta e comprende i sentimenti te quelle risoluzioni che il cambiamento dell’uomo, che mette sempre al centro deldei gusti imponevano all’invenzione della sua produzione letteraria. Rifiuta gli atl’illustre predecessore. Stessi personaggi e teggiamenti da eroe e da moralista: piuttoantefatti, stesse parti in causa (l’esercito saraceno di Tre mi sembrano i punti essenziali della sua azione, sto guarda con ironia e indulgenza i difetti propri e alAgramante e quello cristiano di Carlo Magno) ma una a principiare da un concreto e realistico senso dell’esi- trui. Contesta gli aspetti deteriori della sua epoca: attidiversa prospettiva ideologica del mondo cavallere- stenza. Ariosto, si sa, si piega alle esigenze economi- vismo frenetico, culto della ricchezza e amore per il sco da cantare: non più paradigma attraente e pur che dei suoi familiari; cerca un compromesso coi «po- lusso, ambizioni sfrenate e sete di potere, mercato dellontano - donde la compiacenza dell’evocazione alter- tenti» (laici o ecclesiastici che siano) per avere non so- le cariche e corruzione a ogni livello. Questo nel XVI nata con la familiarità dell’ironia - ma finzione lette- lo di che vivere, ma anche per ottenere il riconosci- secolo: chissà cosa avrebbe scritto di questi tempi da raria pura e semplice con la quale sì celebrare i valo- mento del suo valore artistico, che in effetti si verifi- fine di Basso impero.

il club di calliope

LA NUDA REGOLA DI MILO DE ANGELIS in libreria

STANZE

di Loretto Rafanelli

Immagino talora l’ignoto che abitò queste stanze e l’ignoto che le abiterà. Mi sembra calcare le orme confuse di entrambi di entrambi scontrare le ombre dovermi intimidito scusandomi scostare. Alberto Vigevani (Da L’esistenza, Einaudi)

ncora una volta Milo De Angelis ci consegna un libro (Quell’andarsene nel buio dei cortili, Mondadori, 14,00 euro) riverso sulla soglia di una parola impronunciabile, in un marmoreo balbettio che delinea la tragicità di una presenza ancorata sul vuoto e una aperta lancinante ferita. Sono le macerie «dell’autunno sbilanciato», nella scarnificata essenzialità di un linguaggio, in una ferrea distaccata distanza. De Angelis esprime il rintocco di una nuda regola: l’esattezza della poesia e una misurata emozione (che forse però qui è più sentita: «Ma poi quell’ansia ostruita/ trovò le sue labbra»). La lettura delle poesie di De An-

A

gelis richiede sempre un’attenzione particolare, perché sappiamo che dietro ogni curva c’è in agguato un segnale, un accenno, un dire muto, una parola che rimanda a una verticale visione, in uno squarcio definitivo, ultimo. La perentorietà della poesia di De Angelis si dà alla necessità di un ordine essenziale, come quello seguito dai piccoli eroi della Via Pal, che devono inchinarsi a un codice d’onore (e penso aYukio Mishima col suo inesorabile rifarsi a una eroica tradizione, e dove scorgo una certa vicinanza ), a una condotta di vita che non ammette appelli, né confusioni di ruoli. Che è poi tutto ciò di cui anche la poesia necessita.


pagina 20 • 12 febbraio 2011

di Enrica Rosso oche note del suono triste di un bandoneòn ed è subito Argentina. Eduardo Pavlovsky, pluripremiato drammaturgo e regista contemporaneo, le cui radici affondano nella formazione psichiatrica, offre un materiale eccellente per indagare lo sconcerto delle sparizioni avvenute durante l’ultimo regime dittatoriale. Augusto Zucchi, innesta due dei suoi monologhi e mette a punto L’ora della mosca. Anni Novanta, ci troviamo presumibilmente a Buenos Aires: di fronte a noi un uomo che ha attirato nella sua casa, con l’inganno, una giovane donna che potrebbe essere sua figlia. Circa vent’anni prima, nel 1976, il generale Jorge Vileda aveva rovesciato il governo di Isabelita Peròn, seconda moglie di Juan Peròn. Il Paese è tuttora in ginocchio dopo che le «squadre della morte» agli ordini del dittatore, si sono accanite sull’opposizione eseguendo una serie impressionante di crimini che hanno fruttato all’Argentina il macabro primato dei Desparecidos: circa 30 mila anime. Tra di essi molti bambini strappati ai cadaveri venivano amorevolmente adottati dagli stessi militari che ne avevano barbaramente trucidato i genitori o dai medici che ne erano stati comunque formalmente complici. Solamente dopo la caduta del regime, in seguito alla pressione delle Madri coraggio di Plaza de Mayo, il governo si attiverà per rintracciare i ragazzini, aprirgli gli occhi e restituirli ai supertiti delle famiglie originali. «Perché dobbiamo restare indifferenti di fronte alla morte di una mosca?»… il dialogo (ma sarebbe più giusto parlare di monologo) è appena cominciato. L’uomo incalza la ragazza, da subito la mette all’angolo con educazione, con grazia, la costringe ad ascoltarlo sottendendo una ragnatela di intenzioni emotivamente toccanti, cerca di portarla dalla sua parte. Lei, interpretata da Giulia Greco, intuisce il tranello ma non trova la forza di sottrarsi, verosimilmente sta lottando anche lei con i suoi fantasmi. Augusto Zucchi è calibratissimo e raggelante nel suo bisogno

P

Televisione

Televisione La resa dei conti sulle note di un bandoneòn MobyDICK

spettacoli DVD

MR. ZINNERMAN SECONDO MR. SCORSESE o amo troppo per farlo», aveva detto Scorsese di fronte alla proposta di girare un documentario su Bob Dylan. Ma per fortuna, il grande filmmaker non è stato di parola e ha vinto la paura. Il risultato è No direction home, complesso documentario che ripercorre la storia di mister Zimmerman e ci consegna un esemplare spaccato di storia americana. Gli esordi folk in Minnesota, l’armonica appesa al collo, Blowing’ in the wind in coppia con Joan Baez. Miti e malesseri di un’intera generazione scorrono in un’opera immersiva. Da vivere in apnea.

«L

PERSONAGGI

IL MOLLEGGIATO DIVENTA UN CARTOON d’amore, determinato a far valere le ragioni del cuore indipendentemente dalla loro intrinseca giustezza. Pochi, accurati, elementi scenici a opera dello scenografo Antonio Bernardo Fraddosio inscrivono nello spazio una seduta comoda, ma impercettibilmente precaria, pronta a cedere sotto il peso eccessivo della colpa e un fondale rugoso, inquietante, una materia viva, scomposta, a suggerire una stratificazione di emozioni, pronte a scoperchiare il danno, una fragilità messa a nudo solamente nel finale, ma che da subito si insinua nelle inceppature di ritmo che Augusto Zucchi oltre che autore dell’adattamento, regista e protagonista, inserisce ad arte nel flusso delle parole. Micro crepe immediatamente riparate, da cui far sgorgare fiumi di rabbia e angoscia,

di vita sprecata al fianco di una donna che lo fa sentire trasparente e inutile, «l’intensità della disperazione è l’unica cosa che mi fa sentire veramente vivo» nell’attesa spasmodica di realizzare l’incontro a cui assistiamo. Gli inserti musicali evocano un tempo e un luogo. Due parole per presentare lo spazio: Teatro Studio Keiros, una sessantina di posti, è da due anni un’isola, una «camera d’artista» in cui ri-trovarsi in un rapporto privilegiato con artisti - attori, cantanti, musicisti - che approfittano di uno spazio più intimo per offrire al pubblico il loro repertorio «da camera».

arà difficile renderne su carta i passi molleggiati e la parlantina fluviale, ma uno come lui lo si riconoscerebbe anche muto in un programma radiofonico. Adriano Celentano ritorna alla ribalta nei panni di Adrian, eroe di un cartoon animato prossimamente al via su Sky Uno. Ventisei puntate che si avvalgono dell’illustre collaborazione di Milo Manara, Vincenzo Cerami e del premio Oscar Nicola Piovani, per un progetto che mescolerà i brani più celebri del cantautore milanese a un plot fantascientifico che vedrà Adrian confrontarsi con le forze del male.

L’ora della mosca, Teatro Studio Keiros di Roma, info: www.teatrokeiros.it - tel. 06 44238026

di Francesco Lo Dico

S

Superadolescenti ad alto grado di volgarità

programmi televisivi italiani per adolescenti sono rarissimi, e spesso piacciono più ai bambini che non ai diretti interessati. Più o meno la stessa cosa capita nell’editoria, che ha sottovalutato il pubblico dei young adults, i quali invece hanno risposte dal mercato americano e in parte anche europeo. Sul canale Fox è appena iniziata la serie Misfits (che significa disadattati o anche sballati). So per certo che sta riscontrando un notevole successo tra i giovani (sono padre di due adolescenti). Sceneggiati crudi, molto crudi. Il linguaggio è forte, nel senso che è quello che viene usato dai ragazzi, non solo quelli delle periferie più disgraziate. Misfits è un prodotto inglese che racconta di un gruppo di ragazzi che lavorano in un centro dei servizi sociali (tute arancione, stile Guantanamo) dopo essere stati arrestati

I

per crimini minori, solitamente spaccio e consumo di droga. L’appeal del serial deve essere cercato nel fatto che agiscono in modo molto strano in quanto investiti da un temporale magnetico, che ha donato loro dei superpoteri. Curtis, atletico nero, promessa dello sport, è il protagonista. Si susseguono scene che paiono uguali in apparenza, in realtà diverse per la loro conclusione. Il nostro Curtis infatti sa, e lo dichiara, di poter cambiare la storia, di modificare il futuro. C’è una

zoomata sulle sue pupille e inizia così l’andirivieni nel tempo. Senza mai raggiungere, però, la tranquillità personale e collettiva. La telecamera ritrae i giovani nelle discoteche, e qui compare nella sua brutalità il degrado emotivo di una generazione. Gente che si «sballa» con la polvere bianca, spacciatori con coltello, poliziotti sempre a inseguire i colpevoli. «Esco un po’, sono fatta», dice una ragazza. Poi, a un coetaneo che le sta accanto: «Levati dalle palle». Altre frasi, come «mi sento una merda», descrivono un ambiente dove pare non esista speranza di un futuro migliore. La banlieue britannica fa orrore. La vicenda è stata filmata a Southmere Lake, nel quartiere londinese di Thamesmead, tra i sobborghi di Greenwich e Bexley. In Inghilterra

è già trasmessa la seconda stagione e visto il successo la casa produttrice ha messo in cantiere la terza. La serie ha vinto il premio Bafta del 2010. A parte il via vai nelle opportunità temporali grazie ai superpoteri (caratteristica in comune ad altri serial di oggi: Superman non muore mai!), Misfits ha una venatura gialla. Sempre per la misteriosa tempesta magnetica, il sorvegliante del centro rieducativo cade in un vortice di violenza. Alla fine diventa una minaccia e i ragazzi, per difendersi, si trovano costretti a sopprimerlo. Proprio per questa missione, ciascuno dei protagonisti scopre la natura dei superpoteri. Tutti diversi. Non manca il ragazzo venuto dal futuro. La serie, quindi, racchiude elementi di per sé non originalissimi, ma assemblati in una cornice estremamente moderna. La linea guida è la velocità. Che lo spettatore adulto fa un po’ fatica ad accettare. Come, francamente, è difficile digerire il fraseggio certamente attualissimo, ma ad alto grado di volgarità. (p.m.f.)


Cinema

MobyDICK

12 febbraio 2011 • pagina 21

di Anselma Dell’Olio

uesta settimana festeggiamo un’altra debuttante, dopo Laura Luchetti e il suo sguardo fresco in Febbre da fieno. Paola Randi, con Into Paradiso, regala una divertente e insolita opera prima che tocca temi (e non «tematiche») come precariato, immigrazione e camorra, che spesso annoiano per il trattamento prevedibile. Il suo tocco leggero e scanzonato glissa sui i toni «di denuncia» scontati, usati dai registi italiani per Temi Socialmente Importanti. È felice la scelta del protagonista Gianfelice Imparato (teatro con Roberto De Simone ed Eduardo De Filippo, cinema con Matteo Garrone e Paolo Sorrentino). Alfonso d’Onofrio è uno scienziato precario di mezz’età, licenziato all’inizio del film. Non resta che affidarsi a Santa Raccomandazione. Chiede aiuto a Vincenzo Cacace, politico ed ex compagno di scuola mai più visto da allora. Cacace è Peppe Servillo (fratello di Toni e cantante degli Avion Travel); più che un attore, una maschera scavata e ferrigna, il solito corrotto in combutta con il solito boss. Ad Alfonso, in cambio del favore, chiede di consegnare un cadeau a certe persone nel mandamento Paradiso, allegro e formicolante quartiere d’immigrati asiatici. Prima di poterlo consegnare ai picciotti, i medesimi sono coinvolti in un regolamento di conti di cui l’ignaro disoccupato è testimone. Inseguito dai sicari del boss, si rifugia sui tetti nella baracca di Gayan, ex campione di cricket srilanchese appena sbarcato a Napoli, convinto di trovare un ottimo lavoro e una vita di lusso: scopre che lo aspetta un posto di badante per un’anziana signora bisbetica, drogata di telenovele. Gayan decide di tornare in patria e accettare il posto di cronista tv prima snobbato, ma non ha i soldi per il biglietto (Saman Anthony, uno schianto di figliolo e attore promettente, è un credibile idolo della folla in pensione in cerca di una seconda chance all’altezza del proprio passato). Tornato nel sopraelevato abusivo del quartiere Paradiso, Gayan trova in casa un impaurito Alfonso con la faccia feroce, che gli punta addosso lo spacchettato «regalo». Parte una commedia di errori e ribaltoni, condita da riti sacri orientali (bella la scena dei palloni illuminati, galleggianti, che salgono misteriosamente in aria), tecniche yoga, incensi, minacce e insolite alleanze interrazziali. Ci sono siparietti animati, poco integrati nel racconto ma simpatici, e una colonna sonora a tono. La sceneggiatura ha qualche debolezza nella seconda parte, ma si arriva lo stesso in fondo, sorridenti e lieti per un film italiano fresco e originale. Da vedere.

Q

Tale era la simpatia e il successo di Pranzo di Ferragosto, debutto a 60 anni dell’attore e autore trasteverino Gianni Di Gregorio, che si temeva che Gianni e le donne non ne sarebbe stato all’altezza: invece porta bene «sfogare tardi», come si dice a Roma. Di Gregorio, per anni ape operosa del cinema e sceneggiatore ottimo (Gomorra), ha incontrato l’adulazione della folla in età avanzata. Serve, eccome, avere sull’anima e sul viso i segni dei «dardi di un’avversa fortuna». Fanno da corazza contro la sopravvalutazione di se stessi, e del suo contrario quando lo tsunami di osanna passa. Nell’opera secon-

Il vero erede di Umberto D.

da, l’autore è rimasto nel suo quartiere d’origine ma non con la madre, Donna Valeria (de Franciscis Bendoni - tutti hano i loro veri nomi), nobile decaduta dolcemente tiranna, ma sposato con Pallina (Elisabetta Piccolomini). Lei è distratta dal lavoro, mentre lui è un baby pensionato. La figlia Teresa (Di Gregorio) lascia che si trascini per casa il suo ragazzo Michelangelo (Ciminale), simpatico fannullone. La signora madre, come nel primo film, approfitta del buon carattere del figlio: sta male solo quando la badante ha il giorno libero. Gianni accorre, il «malore» è passato e lui è arruolato come maggiordomo per la comitiva di amiche riuni-

Di Gregorio, che dopo “Pranzo di Ferragosto” torna nelle sale con “Gianni e le donne”, non delude: mescolando refrain di De Sica e di Fellini, di Risi e Monicelli, è l’unico che incarna il cinema italiano d’antan. Da non perdere anche “Into Paradiso” e “Il truffacuori”

te per la partita di carte: catering di lusso, fragole e champagne. La madre non ne vuol sapere di alienare alcuna delle opere d’arte che affollano la villa con giardino. Il denaro scarseggia, ma lei prosegue con la sua «allegra finanza», ignorando le suppliche del figlio di vendere qualcosa. Alfonso (Santagata), avvocato e amico di Gianni, gli fa notare che uno degli anziani che bighellonano al bar in tuta da ginnastica, ha «una storia» con la bella tabaccaia, e in Gianni scatta la voglia di non essere più l’invisibile factotum-vittima di tutte: la vicina con il San Bernardo da portare a passeggio e la spesa da fare, la sexy badante (Kristina Cepraga) che la madre copre di regali costosi, la neodivorziata Gabriella (Sborgi) che mostra interesse per lui. Gianni si spara tutta la pensione per un bel vestito di lino chiaro e si lancia sulle prede, deciso a farsi apprezzare. C’è lo stesso tocco leggero con una punta crepuscolare del primo film, la stessa voglia di compiacere e la medesima capacità di sopportare con filosofia e buon umore il disappunto, le illusioni frantumate. In novanta minuti secchi, il regista dimostra di essere l’unico vero erede del cinema italiano d’una volta; mescola refrain di Umberto D. e La Città delle donne, con i pizzicati asciutti di Dino Risi e Mario Monicelli, e compone un accattivante canto Di Gregoriano tutto suo. Da vedere.

«Il truffacuori» è una commedia romantica francese dalla premessa irresistibile: un tipo affascinante si dedica a spaccare coppie mal assortite, a pagamento. Assoldato da famigliari preoccupati, Alex (Romain Duris) è valente seduttore di donne infelici. Suo cognato (François Damiens) pensa agli aspetti tecnici e sua sorella (Julie Ferrier) a tutto il resto. Fanno meticolose ricerche su gusti e predilezioni della cliente da sedurre. Ci sono solo due regole: mai dividere una coppia felice e mai portare a letto il bersaglio. Basta svelare alla cliente le prospettive migliori che l’aspettano lontano dal mascalzone di turno. L’inizio è folgorante. Senza rovinarvelo, perché è la parte più divertente del film, Alex finge di essere un medico senza frontiere che «per caso» dà un passaggio alle dune alla turista bidonata dal fidanzato, che preferisce poltrire in piscina a rimorchiare bellezze in bikini. È una delizia di sequenza con autentiche sorprese, scritta, recitata e diretta splendidamente. Poi si passa al ribaltone tipico del genere: il truffacuori che s’innamora della preda. Indebitato con uno strozzino che gli sguinzaglia un gorilla serbo alle calcagne, Alex accetta di violare la regola e separare una coppia felice. Juliette (Vanessa Paradis) è un’ereditiera che sposerà dopo dieci giorni a Montecarlo un ricco, innamorato fidanzato filantropo. Anni prima, la madre muore mentre Juliette è in giro a fare danni come groupie. Il padre è convinto che lei abbia scelto uno noioso per penitenza. Buona l’idea dell’amica ninfomane che ricompare dal passato (Helena Noguerra), ma non pienamente realizzata; meglio le scene di Alex che impara a ballare come Patrick Swayze in Dirty Dancing, il film più amato di Juliette. Il film (già comprato per un re-make americano) è un’occasione per studiare la compagna cantante dell’insostituibile Johnny Depp, graziosa e catatonica dall’inizio alla fine. Solo quando accenna a canticchiare una canzone alla radio, Paradis s’illumina di vita e fascino. Speriamo di vederla presto in un musical.


ai confini della realtà I misteri dell’universo

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MobyDICK

di Emilio Spedicato

n questa rubrica parliamo della caduta sulla terra di oggetti di piccola dimensione, chiamati comunemente meteoriti. In altre rubriche abbiamo parlato dell’esplosione nell’atmosfera di oggetti di dimensioni considerevoli, come quella della Tunguska o il Fetonte della tradizione greca, un probabile oggetto super Tunguska. Abbiamo anche parlato di impatti con oggetti di dimensioni addirittura marziane, come quello che la maggioranza degli astronomi pensa abbia portato alla formazione della luna. Qui consideriamo invece la caduta di oggetti di dimensioni piccole, sino a qualche tonnellata di peso o qualche metro di dimensioni. Che tali oggetti cadano era noto agli antichi e registrato nelle loro tradizioni e documenti, ivi compresa la Bibbia. In epoca illuminista si rifiutò l’affermazione biblica che oggetti potessero cadere dal cielo, aggiungendola ai vari argomenti sulla inattendibilità della Bibbia. Ma questo giudizio degli illuministi venne a cadere quando, il 26 aprile del 1803, vicino ad Aigle, nella Francia nordoccidentale, precipitarono non meno di tremila meteoriti, e l’astronomo Biot dichiarò che provenivano dallo spazio extraterrestre.

I

Oggetti provenienti dallo spazio sono stati utilizzati e venerati da migliaia di anni. Qui citiamo quattro casi in cui un meteorite è divenuto oggetto di culto. Il più noto e importante è certamente quello dalla pietra nera, al Hajiar al Aswad, probabilmente un meteorite ferroso anche se per ragioni religiose non è mai stata fatta un’analisi scientifica. L’oggetto è sito alla Mecca, nella Kaaba, un tempio antichissimo, certamente esistente migliaia di anni prima di Maometto, e ora modernizzato per ammettere i milioni di visitatori che arrivano ogni anno con i pellegrinaggi aerei. Un’ipotesi corrente è che il meteorite provenga dal doppio cratere di Wabar, in Arabia meridionale presso il confine con l’Oman, formatosi verso il 4000 a.C. (o forse qualche secolo prima, e contemporaneo al cratere Burckle sul fondo dell’Oceano Indiano).Tuttavia una tradizione, raccolta in uno studio dell’iman di Francia Dalil Boubakeur, afferma che il tempio sarebbe stato fondato da Adamo, insieme a una struttura di culto a Gerusalemme (ricordiamo che Maometto fu incerto se si dovesse pregare rivolti verso la Mecca o verso Gerusalemme). In tal caso se si usa la cronologia interna biblica dovrebbe essere più antico di almeno un migliaio di anni. Lo storico persiano AlTabari racconta che quando si decise di rifare il tempio della Mecca, prima che Maometto partisse per la Medina iniziando la sua predicazione, la pietra nera faceva parte con altre pietre normali più piccole di un piccolo tumulo, su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare Ismaele. Fu posta su di un panno e spostata dai quattro mag-

Fuoco dal cielo giorenti della città che lo presero per gli angoli, su invito di Maometto. È poco noto che un tempio duale a quello della Mecca esisteva sino a verso il 1920 a sud della Mecca, in prossimità della regione montuosa dell’Asir, che lo storico cristiano libanese Kamal Salibi ritiene sia la biblica terra di Canaan.Tale tempio aveva come quello originario della Mecca 360 statue di divinità, ma la pietra sacra era

Roma all’epoca della guerra contro Annibale, dove, ritenuta uno dei fattori della vittoria, fu venerata per cinque secoli. Un’altra si trovava a Emesa in Siria e fu portata a Roma dallo stravagante imperatore Eliogabalo. Il meteorite più grande ora noto si trova a Hoba in Namibia, 66 tonnellate. Quello detto Allende di 30 tonnellate è caduto in Messico in vari frammenti. I meteoriti possono essere di

Che oggetti provengano dallo spazio era già noto in tempi remoti. Alcuni di essi sono venerati da migliaia di anni, come la Pietra Nera conservata alla Mecca. Molti collezionisti per questi reperti, specialmente se provengono da Marte e dalla Luna, pagano prezzi stratosferici bianca invece che nera. Rispettato da Maometto, fu fatto distruggere da Ibn Saud, il wahabita che prese il potere per decisione di Churchill al posto del re Hussein della dinastia hascemita, discendente da Maometto. Ibn Saud fece distruggere anche la tomba di Eva a Jeddah e quella di Maometto alla Medina... vedasi un libro di Doron Gold. Un’altra pietra meteoritica sacra, dalla curiosa forma conica, si trovava a Pergamo, nell’attuale Turchia occidentale. Fu portata a

diversi tipi. Quelli ferrosi contengono un ferro nativo molto pregiato che non arrugginisce, ed è stato usato in passato per coltelli e forse per il famoso pilastro di Nuova Dehli. Quelli rocciosi sono di molti tipi, alcuni provengono dalla crosta della Luna o di Marte o dai pianetini fra Marte e Giove, altri pare risalgano ai primi processi di condensazione della nebulosa che ha originato il sistema solare (prodotta a sua volta dall’esplosione di una precedente stella). La maggior parte

dei meteoriti cade sugli oceani o in zone forestali dove sono praticamente introvabili. Facile è la raccolta sui ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia, e anche nei deserti. In uno dei bellissimi libri di Saint-Exupéry, pioniere dei collegamenti postali per aereo fra Europa e America latina, si parla di come, avendo dovuto atterrare nel Sahara, fu sorpreso nel vedere dei meteoriti. Esistono persone e organizzazioni dedite alla ricerca dei meteoriti, parte dei quali sono poi dati per lo studio scientifico, parte sono venduti, a prezzi che raggiungono cento volte quello dell’oro i meteoriti marziani, e 10 mila euro al grammo quelli lunari.

Nel 1996 la Nasa trovò in Antartide un meteorite di origine marziana nel cui interno si osservarono al microscopio delle strutture filamentose, simili a quelle di microoganismi. Ci fu un ampio dibattito se si trattasse davvero di microorganismi, in questo modo avendo la prima prova dell’esistenza di vita su un altro pianeta, o se fossero particolari cristallizzazioni.Tre anni dopo di trovò un meteorite simile nel Sahara, scoprendo tuttavia presto che la sabbia del Sahara era ricca di mcroorgansmi viventi esattamente del tipo osservato sul meteorite. Un fenomeno quindi di contaminazione e un’ulteriore evidenza della ricchezza di tipi di forme viventi sul nostro pianeta, ancora da scoprire. In questo caso si trattava di microorganismi cinquanta volte più piccoli dei più piccoli noti sino ad allora.


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