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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Il film di Jessica Hausner
LOURDES PER TUTTI di Anselma Dell’Olio ourdes apre con una scena da cinema muto: in una simmetrica sala da più amato e conosciuto La passione di Giovanna d’Arco. Si potrebbe descrivere pranzo alberghiera, le cameriere finiscono di apparecchiare i tavoli, come uno stile minimalista, quello della Hausner, se non fosse totalmente con gesti né lenti né affrettati, limati dalla ripetizione. Un po’ alSbaglierebbe privo di snervanti lentezze e autocompiacimenti tipici del genere, che la volta la sala si riempie di persone in sedie a rotelle spininducono catalessi in chi non è appassionato al tedio artistico. chi lo evitasse te dai loro assistenti, tutti in divisa da volontari dell’Ordine di Chi eviterà questo film, magari immaginando che si tratti di Malta. Le giovani accompagnatrici sembrano crocerosun film «religioso» in senso tradizionale, commetterà un considerandolo una scontata sine o suore, crestine e abiti bianchi con golfini rosopera religiosamente schierata. Attenta grave errore. Il talento e l’intelligenza della Hausi; i maschi somigliano a soldati di un esercito sner (classe 1972) non sono limitati alla scelta a tutti gli aspetti della fede e agli spostamenti salvifico, divise verde marcio con berretti rosdi maestri eccellenti, ma includono il desidesi. Sullo sfondo l’Ave Maria di Schubert contribuirio di rilevare tutti gli aspetti della fede, dei miradell’anima che registra con sguardo coli, del disincanto degli infedeli, delle meschinità sce all’atmosfera carica di attesa ma non particolarclinico, è in realtà un piccolo troppo umane dei credenti, lasciando a ognuno lo spazio di mente spirituale. Dalla prima inquadratura ci sentiamo in miracolo di metafisica tirare, se ne ha voglia, le proprie conclusioni. Gli atei ci inzuppemani sicure; la regista Jessica Hausner (Lovely Rita, racconto di ranno il pane, la gente di fede si divertirà senza cambiare idea. formazione e Hotel, un horror) s’ispira ai più diversi autori, come Jaclaica ques Tati - ha il suo umorismo ellittico e mai insistito - e il Carl Dreyer di continua a pagina 2 Ordet, che alcuni ritengono il vero capolavoro del regista danese, al posto del
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9 771827 881301
ISSN 1827-8817 00213
Parola chiave Treno di Sergio Belardinelli I pruriti creativi di Peter Gabriel di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Lautréamont, demoniaca maestà di un innovatore di Francesco Napoli
Le bugie di Artemidoro di Gabriella Mecucci con un intervento di Sergio Valzania
Identikit di Landolfi tra vita e letteratura di Leone Piccioni
Il saltimbanco dell’assoluto di Marco Vallora
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segue dalla prima La regista non trucca le carte: non usa gli stilemi del cinema trascendentale, in cui si creano con diavolerie tecniche atmosfere emozionanti e «metafisiche»; né fa il contrario, usando l’arte e le luci per degradare l’esperienza di Lourdes alla pura mercificazione della speranza. Lo sguardo dell’autore è equanime, austero, clinico ma non freddo. Christine (Sylvie Testud), la protagonista, è una giovane donna costretta da anni su una sedia a rotelle dalla sclerosi multipla. In una delle prime conversazioni che ha con Kuno (Bruno Todeschini), il volontario concupito da lei e dalla sua giovane accompagnatrice Maria (Léa Seydoux), si fa riferimento alla commercializzazione del santuario, «un po’ troppo turistico» per i suoi gusti. Ma non siamo assaliti da riprese riduttive di negozi traboccanti chincaglieria religiosa o facili manipolazioni del genere. L’idea è presente in una sola immagine ripetuta, quella di una classica statua della Madonna a mani congiunte, vesti bianche e azzurre, l’espressione dolente ed estatica; sospesa sul capo c’è una corona illuminata al neon. È tipico dell’umorismo deadpan della Hausner; più che dissacrante è una visione sottilmente malandrina: diverte senza offendere.
Una volta conclusa la cena della comitiva appena arrivata, ci sono il benvenuto, gli annunci di servizio e le raccomandazioni («La visita alla grotta è rimandata; aiutiamo i malati a sentirsi meno soli, a trovare un po’di serenità, di sollievo. Alla fine si assegnerà il premio per il miglior pellegrino» (sic). La superiora delle volontarie è una donna severa e compunta, puntigliosa e corretta; nasconde un segreto che sarà rivelato solo verso la fine. È lei che accompagna la giovane Maria per assisterla nel mettere a letto Christine, che è immobile dal collo in giù. È la superiora che l’assiste in bagno per le abluzioni preparatorie al sonno e che dà istruzioni all’inesperta Maria su come si sposta e s’adagia una paraplegica sul letto: con le braccia incrociate sopra il rivoltino del lenzuolo. Poi le due donne s’inginocchiano ai lati del letto per recitare l’Ave Maria. SylvieTestud è perfetta nel ruolo di una giovane donna non particolarmente credente che spera lo stesso nella grazia. Maria le chiede se ne ha fatti molti di pellegrinaggi, e lei risponde «sì, altrimenti non uscirei mai di casa: è difficile viaggiare in carrozzella». A Kuno dice di preferire i viaggi culturali; a Roma, per esempio. «Anch’io preferisco Roma», risponde il belloccio in uniforme. Kuno è un oggetto del desiderio femminile. Impariamo qualcosa di lui, giusto quel che basta. Mentre della goduriosa Maria capiamo di più: «Di solito vado a sciare, ma volevo fare qualcosa di diverso, dare un senso alla mia vita». È una ragazzotta carina e superficiale, vogliosa di fare esperienze ma appena può molla Christine e insegue il divertimento e i flirt. Come molti che almeno una volta si offrono di accompagnare i malati ai santuari, è «il diverso» che l’ha attratta, più della ricerca di un significato. Gli atei si beano di trovare Lourdes un film «crudele», per la
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni
sotterranea (fino a un certo punto) «competizione» tra Maria e Christine, e che a sorpresa vedrà un rovesciamento dei ruoli. All’inizio è la malata che guarda con invidia e una dissimulata disperazione il cinguettio delle volontarie che socializzano ed escono, beate loro, con i colleghi maschi. «Non sappiamo nemmeno se è sposato quello lì» dice a Maria una volontaria parlando di Kuno; e dopo una brevissima pausa aggiunge, «ma cosa ce n’importa?» e giù risate, mentre Christine
ascolta, di fatto invisibile e fuori dal gioco; ma le cose cambiano. Alla regista non interessa la storia della giovanissima analfabeta Bernadette che vede «una bella signora» nella grotta (erano altri a decidere che si trattava della madre di Gesù). Si parla sin dall’inizio del film di guarigioni inspiegabili e dunque miracolose avvenute in quel luogo, e della speranza accesa di conseguenza in tanti malati. Alla prima cena gli organizzatori distribuiscono pile di libretti che raccontano
GENERE DRAMMATICO DURATA 99 MINUTI PRODUZIONE AUSTRIA, FRANCIA, GERMANIA 2009 DISTRIBUZIONE ISTITUTO LUCE REGIA JESSICA HAUSNER INTERPRETI SYLVIE TESTUD, LÉA SEYDOUX, BRUNO TODESCHINI, ELINA LÖWENSOHN, IRMA WAGNER
Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
la storia delle apparizioni dellaVergine, dei «segni» e delle prove: la sorgente d’acqua fino allora sconosciuta nel posto indicato dalla Vergine, le rose d’inverno, la diffidenza delle autorità ecclesiastiche. Per la storia della pastorella inizialmente derisa, c’è il film Il canto di Bernadette (1943) con Jennifer Jones, tratto dal libro di Franz Werfel, e che molte televisioni d’Occidente, Rai compresa, rimandano in onda con regolarità durante le festività pasquali. Ha un ottimo cast tra cui Vincent Price, Charles Bickford e Lee J.Cobb; è diretto da Henry King, un abile mestierante di Hollywood (Le nevi del Kilimanjaro, Carousel, Il vecchio e il mare, L’amore è una cosa meravigliosa) e non annoia. A differenza di Lourdes è un film partigiano, un’agiografia ben riuscita.
A Lourdes, però, interessano gli spostamenti dell’anima che ruotano intorno alla ricerca di una grazia divina. Un gruppo di preghiera è raccolto intorno alla statua della Madonna col cerchietto al neon. Una signora chiede di non sentirsi più inutile; un uomo abbandonato dalla fidanzata quando si è ammalato, chiede di trovarne un’altra. Alla fine di ogni supplica, il gruppo recita in coro: «Ascoltaci, o signore». In una sala i pellegrini guardano la testimonianza di un uomo che era paralizzato, e che dopo la visita al santuario ha ritrovato la mobilità. Alla fine del video una coppia di donne ciarliere, una sorta di coro greco ricorrente, spettegola: «Hai visto che quel miracolato non si è mai alzato dalla sedia: era sempre seduto». «Dà da pensare, no?». Nella lunga fila che avanza lentamente verso la grotta e il «battesimo» con l’acqua della sorgente di Bernadette, una donna racconta di un malato di sclerosi a placca guarito (Christine drizza le orecchie). «Non sotto l’acqua - precisa - ma durante la benedizione». «Ma non è durata - commenta - per questo non ne parlano». «E quando dura?», chiede una signora anziana.A turno i malati sono portati dietro una tenda bianca, spogliati, il corpo fasciato con un lenzuolo bianco e le spalle coperte con uno scialletto azzurro. Un giorno, mentre Christine è spinta nella carrozzella per una seconda visita alla grotta, guarda la roccia, che la prima volta aveva toccato grazie a Maria, che le aveva preso la mano rattrappita e l’aveva sfiorata sulla pietra. Questa volta, senza che altri se ne accorgono, Christina alza la mano e tocca la pietra da sola. Quella notte si sveglia, si alza, va in bagno e si veste. Il bel Kuno, colpito, mostra per la prima volta un autentico interesse per Christine, ora che la considera «speciale», cosa che ci fa capire che lui non lo è. Ora tocca a Maria di essere rosa dalla gelosia, e altri malati sono invidiosi: «Perché a lei e non a me?». Il film accumula una serie di minuscoli momenti esistenziali che insieme creano una luminosa elegia alla vita, alla sua magia e al suo mistero. È a sua volta un piccolo miracolo di metafisica laica. Se la regista non è credente, il miracolo è ancora maggiore. Lourdes ha vinto sia il Premio Brian dell’Unione Atei e Agnostici sia il Premio Signis, Organizzazione cattolica internazionale per il cinema. Non fate la stupidaggine di perderlo.
LOURDES
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco
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MobyDICK
parola chiave
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TRENO avanzare fischiando della vecchia locomotiva a vapore tra le colline della linea Fabriano-Pergola rappresenta per me l’essenza stessa del treno. Per osservarla ci appostavamo sulle alture circostanti, scattavamo fotografie, presagendo che prima o poi non l’avremmo più vista. Il movimento dell’asse che collegava le sue grandi ruote d’acciaio faceva pensare che dentro ci fosse qualcuno a pedalare: immaginavamo così la pedalata distesa e potente di Coppi e Bartali temerariamente in fuga solitaria in pianura, e quella addirittura entusiasmante delle loro fughe in salita, resa più entusiasmante ancora da una sorta di tremore che, da un momento all’altro, potessero piantarsi sui pedali. Di quella locomotiva sento ancora lo sbuffare; vedo il fumo denso uscire e quasi aggrapparsi ai primi vagoni, prima di disperdersi verso l’alto, tra gli alberi, senza mai riuscire a raggiungere il cielo; conservo intatta la sensazione di un viaggio che sembrava ogni volta senza inizio e senza fine. Niente di strano, dunque, che ancora oggi, nonostante i suoi endemici, estenuanti, ingiustificabili ritardi, il treno conservi nella mia immaginazione un fascino speciale.
L’
L’aereo vola, l’automobile va, il treno invece avanza. C’è una sorta di potenza rassicurante in questo avanzare. Un po’come in C’era una volta il West, uno dei capolavori di Sergio Leone, il treno è metafora di un progresso, costoso e magari struggente quanto si vuole, ma che non può essere fermato. L’arrivo della locomotiva tra gli operai che lavorano febbrilmente alla costruzione dei binari, l’ultima immagine di questo film straordinario, rappresenta un’ineguagliabile apologia del treno. La grande prateria e la stessa sensualità di Claudia Cardinale vengono come sottomesse dal suo avanzare; si capisce benissimo che d’ora in poi nulla sarà più come prima; gli indiani, i cow boys, i pistoleri, il selvaggio West, tutto è finito; eppure nulla sembra perdere la sua bellezza. Natura e tecnica che, grazie a quel treno, si compenetrano e si esaltano a vicenda. Ma il treno è anche un luogo della memoria. Mio suocero che raccontava della sua giovinezza di venditore ambulante, del suo cavallo, della sua valigia di cartone piena di mercanzie, dei suoi mercati, dei suoi stratagemmi per battere la concorrenza, alla fine finiva sempre per raccontare del treno: del mitico treno dai sedili di legno, dei caselli e dei ponti della vecchia linea Pergola-Urbino distrutti dalla guerra, e del treno, ben più comodo, col quale, più tardi, come se fosse una gita, era solito andare ogni anno, con la moglie, alla fiera di Milano. «Chi hai incontrato in treno?»: questa la domanda più ricorrente che mi sentivo rivolgere al ritorno dai miei viaggi quasi quotidiani; non «dove sei stato?» o «che cosa sei andato a fare in questo o in quell’altro posto?», bensì «chi hai incontrato?»: una sorta di naturale cu-
È metafora di progresso in cui natura e tecnica si compenetrano. È luogo della memoria e nel suo essere discorso, pluralità, è anche politica. Mentre l’aereo semplicemente vola e la macchina va, nel suo procedere c’è qualcosa di rassicurante
Avanzare con filosofia di Sergio Belardinelli
Conciliazione perfetta di essere e divenire, il treno si muove dando l’impressione di star fermo e si ferma dando l’impressione di continuare a muoversi. Eraclito e Parmenide convivono nell’improbabile idea di un’immobilità che va avanti. Con lo scopo di fare ritorno... riosità per gli uomini, un interesse vero per la loro vita, un privilegio, ritenuto indispensabile al bagaglio di un viaggiatore in treno. Il treno in effetti è anche politica. Almeno quel tanto, molto in verità, che la politica è discorso, pluralità, imprevedibilità. In treno non si può essere soli. Quando accade è di una tristezza indicibile. Il treno è fatto per viaggiare in compagnia. Nei suoi scompartimenti le persone parlano di tutto, con una vocazione speciale a esibire se stesse, il proprio punto di vista, la propria concezione del mondo. C’è chi lo fa con discre-
zione, chi alzando platealmente la voce; chi parlando male di questo o di quello, chi spargendo invece incredibili semi di gentilezza e di bontà. In ogni caso è sempre con qualcun altro che bisogna fare i conti, fosse anche qualcuno che grida per tutto il viaggio dentro il suo telefonino (se ne incontrano sempre di più), o qualcuno che non ha nessuna voglia di parlare, o qualcuno che, beato, russa incurante di ciò che gli accade intorno. Persino certi conoscenti che incrociamo regolarmente per strada senza rivolger loro la parola, quando li incontriamo in treno ci sembrano
diversi; scatta qualcosa che ci muove a salutarli, verrebbe da dire, a conoscerli per davvero. Con la sua inconfondibile colonna sonora, lo scompartimento del treno è un luogo di familiarità e di sorprese d’ogni genere. Ad esempio, quel tale che sembrava tanto elegante e gentile non ha esitato un attimo a occupare il posto vicino al finestrino, lasciando in piedi la signora con la quale era salito. Il gesto può diventare pretesto per accese discussioni tra i viaggiatori, come pure per imbarazzati silenzi; qualcuno si alza per cedere il suo posto; qualcun altro osserva indifferente o indispettito. Un intreccio di gentilezza, gratuità, egoismo, furbizia, maleducazione; un campionario di varia umanità; comunque politica. Intanto il treno avanza e avanza con filosofia. Conciliazione perfetta di essere e divenire, il treno si muove dando l’impressione di star fermo e si ferma dando l’impressione di continuare a muoversi. Eraclito e Parmenide vengono come conciliati nell’improbabile idea di un’immobilità che avanza. Si sale a Pergola e si scende a Roma. Nel frattempo abbiamo dormicchiato, letto qualcosa, guardato il paesaggio, chiacchierato con qualcuno. Ma non ci siamo mossi. Lo spirito e l’immaginazione seguono leggi che non sono quelle della fisica. La quale ci dice che il treno che incrociamo si allontana da noi a una velocità pari alla somma della sua e della nostra, e invece è solo un lampo che conferma la nostra paradossale immobilità; ci dice che il treno sul quale stiamo viaggiando è sporco e in ritardo e invece è pulito e in perfetto orario come un treno svizzero; ci dice infine che l’amministrazione delle ferrovie fa acqua da tutte le parti e invece domani riceveremo notizia che il presidente ha deciso di regalarci un milione di euro per questo articolo. Il quale, sia detto per inciso, certamente li vale, anche se l’abbiamo scritto quasi dormicchiando (in treno, naturalmente).
Credo che esistano pochi luoghi, specialmente d’inverno, capaci di conciliare il sonno e il dormiveglia come lo scompartimento di un treno. E allora anche la littorina della linea più sperduta del paese si trasforma in una sorta di mitico Orient-Express, affollato di belle donne, grandi progetti, mondi sconosciuti, personaggi del libro che hai appena appoggiato sulle ginocchia. A richiamarti il mondo reale, non si capisce bene come, visto che sei in catalessi, rimane soltanto, indelebile, l’assillo della tua stazione d’arrivo. Guai a mancarla. Non scendere, per qualsiasi motivo, alla stazione giusta è forse l’incubo peggiore per chi viaggia in treno; una mancata destinazione che rende infausto un destino; un fallimento senza compensi; un’incazzatura metafisica. È forse per questo che, quale inestinguibile barlume di veglia, la stazione d’arrivo rimane sempre sullo sfondo dei nostri viaggi, anche di quelli più incantati. Un poeta ha scritto che lo scopo di ogni viaggio è quello di ritornare a casa. Evidentemente il treno lo sa.
musica I pruriti creativi MobyDICK
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cd
ira una brutta aria, quando si rivisitano le canzoni altrui. Chi fa le cosiddette cover, di solito ha l’ispirazione ridotta al lumicino, un piede nell’età pensionabile e un gusto masochista per il karaoke. Peter Gabriel, per fortuna, non l’ha vissuta così: ha scelto grossi calibri (David Bowie, Lou Reed, Paul Simon, Randy Newman, Neil Young, Radiohead, Talking Heads), un manipolo di belle speranze (Elbow, Arcade Fire, Bon Iver, The Magnetic Fields, Regina Spektor) e dopo aver pizzicato dal loro repertorio i pezzi meno noti (tranne Heroes di David Bowie e The Boy In The Bubble di Paul Simon) li ha scomposti, denudati e sfilacciati radicalizzandoli con una disciplina del canto più teatrale che emotiva. Senza chitarra e batteria, ma utilizzando un’orchestra sinfonica, Scratch My Back («grattami la schiena») ribalta il concetto di cover. Qui non si rifà nulla ma si crea ex novo. In queste
T
di Peter Gabriel di Stefano Bianchi dodici tracce, Peter Gabriel si è preoccupato di far tabula rasa delle versioni originali. E di spingersi oltre, sperimentando, com’è sua abitudine da quando è solista (dopo essersi totalmente dimenticato dei Genesis). Lo ha fatto con tre «spalle» di cui fidarsi a occhi chiusi: il produttore Bob Ezrin (in curriculum Berlin di Lou Reed e The Wall dei Pink Floyd), il compositore e arrangiatore John Metcalfe, ex Durutti Column, e l’ingegnere del suono Tchad Blake (Suzanne Vega, Sheryl Crow, Tom Waits). Nel suo incedere da mantra, in quell’ispirarsi alle partiture dei compositori classici del Novecento (Igor Stravinskij, Steve Reich, Philip Glass, Arvo Pärt, Michael Nyman), Scratch My Back non è un disco facile da assimilare. Dopo averlo ascoltato, indugerete a tornarci sopra. Ma una volta riapprocciato, ne apprezzerete le virtù mu-
in libreria
QUELLA PASSIONE PER LA METAFORA
sicoterapeutiche e le affinità con altre incisioThe ni disossate, Crying Light di Antony e Magic And Loss di Lou Reed su tutte. Se la titanica Heroes di David Bowie è un sussurro che si evolve in crescendo sinfonico, The Boy In The Bubble di Paul Simon, azzerata l’anima sudafricana, si reinventa minimale coi contrappunti di un pianoforte che pare suonato da Eric Satie. Mirrorball (Elbow), vive di afflati romantici e improvvise impennate di viole e fiati, mentre Flume (Bon Iver) scorre scarnificandosi un poco alla volta. L’abbraccio orchestrale si fa più coinvolgente in The Book Of Love (The Magnetic Field) e Philadelphia (Neil Young), mentre The Power Of The Heart (Lou Reed) sprigiona un’ineffabile leggerezza melodica. Ma sono fuggevoli attimi, giacché l’atmosfera torna a rapprendersi ritagliando gli struggimenti emotivi di My Body Is A Cage (Arcade Fire) e la tristezza crepuscolare di I Think It’s Going To Rain Today (Randy Newman). La vena più avantgarde, invece, prende forma nell’ossessivo dipanarsi degli archi (come se i Kraftwerk di punto in bianco decidessero di sinfoneggiare) che sottolinea Listening Wind dei Talking Heads, nella dram-
mondo
DAGLI ZEPPELIN AL NIPPLEGATE
maticità e nell’accavallarsi di archi e fiati in Après Moi (Regina Spektor), nell’incedere grave e fuligginoso di Street Spirit (Fade Out) dei Radiohead. Dopo essere stati «coverizzati», gli artisti ricambieranno il favore rivisitando il meglio dal canzoniere di Peter Gabriel. Succederà quanto prima nell’album I’ll Scratch Yours: dopo «grattami la schiena», «gratterò la tua». Hanno aderito tutti, eccezion fatta per il desaparecido David Bowie che si avvia al ruolo di Jerome David Salinger del pop. Al suo posto (era il coautore di Heroes) lo stratega dell’ambient music Brian Eno. Peter Gabriel, Scratch My Back, Virgin/Emi, 20,90 euro
riviste
PATTI ALLE RADICI DELL’AMERICA
«C’
era un abbaino dal quale io, da bambino, aspettavo la sera, vedevo il cielo da blu diventare nero, vedevo i negozi spegnere le luci mentre si accendevano le stelle, sentivo il giornale radio di allora, il campanone di piazza Grande, aspettavo l’inizio del campionato di calcio (naturalmente tifando Bologna), andavo a vendere i libri, sentivo quella sensazione della neve anche se non c’è, quel
Q
uali sono le dieci date che hanno segnato il mondo della musica in quest’ultimo decennio? Risponde Billboard, rivista di riferimento dell’industria discografica statunitense. Al primo posto quel 23 ottobre 2001, che vide l’ingresso dell’iPod nelle abitudini dei consumatori. Al secondo il 25 giugno 2009, la morte di Michael Jackson. E poi il 4 settembre 2002: American Idol
l risultato, a un primo superficiale ascolto, ricorda molto le tante sortite di Lyle Lovett in campo spiritual, ma se la Griffin ha da sempre una marcia in più rispetto a molte coetanee, è proprio perché ha sempre dimostrato di non dare mai nulla di scontato nella sua musica, per cui, pur maneggiando un genere che ha delle regole ferree da seguire, il risultato è tutt’altro che
Discografia illustrata di Lucio Dalla: dagli esordi beat, alla produzione di cantautore, all’elettronica
“Billboard” mette in fila fondamentali eventi musicali che hanno segnato questo decennio
La Griffin firma “Downtown Church”, disco gospel che rispolvera il meglio del soul Usa
profumino strano, che non ha niente a che fare con quello dei tortellini o delle lasagne, ma che in qualche modo li concepisce e li sente anche se non ci sono». Lucio Dalla ha avuto sin da piccolo una straordinaria vocazione alla metafora, un istinto che ha conservato integro in quasi cinquant’anni di carriera. Melisanda Massei Autunnali ripercorre la sua sterminata produzione in Lucio Dalla, Discografia illustrata (Coniglio editore, 160 pagine, 14,50 euro). Dagli esordi beat negli anni 60, ai pezzi cantautoriali successivi (4 marzo 1943, Piazza Grande), dalle sperimentazioni jazzistiche all’uso dell’elettronica, l’artista bolognese emerge in tutta la sua distanza da ciò che suona conforme o banale.
segna ascolti record in tv. Al quarto posto il 4 dicembre 2005: YouTube permette a chiunque di postare la propria musica. E ancora il 1 febbraio 2004, giorno della performance di Janet Jackson ribattezzato Nipplegate, e l’1 ottobre 2007: i Radiohead concedono In rainbows in download gratuito. Grande importanza anche per la morte di Aaliyah (25 agosto 2001), la testa rapata di Britney Spears (19 febbraio 2007) e i Led Zeppelin alla O2 Arena di Londra (10 dicembre 2007). Infine le vibranti proteste di Kanie West contro G.W. Bush in diretta tv (2 settembre 2005).
lo scolastico e calligrafico compitino a cui siamo spesso abituati per operazioni a tema di questo tipo». Nicola Gervasini presenta così su rootshighway.it il nuovo lavoro di Patti Griffin. E Downtown Church è in effetti un progetto avvincente, dotato di un’anima gospel ma efficace nell’abbattere il rischio di suonare demodée. Un affascinante concerto per voci che la Griffin sa riempire di un avvolgente calore country degno dei giorni felici di 1000 Kisses. Nato per gioco tra i banchi di una chiesa di Nashville, Downtown Church miscela i migliori sapori della vecchia America. C’è da scommettere che a Robert Altman sarebbe piaciuto un mondo.
a cura di Francesco Lo Dico
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classica
zapping
Precari a Sanremo A TUTTO C’È UN LIMITE!
Celibidache e il puro suono perduto di Pietro Gallina
di Bruno Giurato ono un precario e quindi mi piace questo Sanremo dove tutto è precario. Gli ospiti: Jennifer Lopez? non-sisa-ma-pare-di-sì. Bill Clinton? Non pervenuto, ma forse. Paolo Rossi? Forsechesì forsechenò. Il contenuto delle cinque «serate cocktail» (o patchwork? O patchanka?) a oggi sembra davvero precario. Precarissima la Clerici, ha preso anche le polverine proteiche per dimagrire ed è finita in ospedale. Precarizzato Morgan, la cinica tv lo fa saltare per dichiarato uso di crack (ora si capisce da dove viene l’aria un po’ isterica delle canzoni del Castoldi, se il ministro Sacconi invece di tuonare contro i «disvalori» dicesse francamente ai ragazzi: non fumate coca in basi perché finirete a scrivere canzoni come Morgan, farebbe solo bene). Epperò la Zurich Opera House eseguirà il brano morganatico, come a dire: cazzi vostri domani vado in Svizzera. Intanto sappiamo che quest’anno non ci sarà la classica scalinata, ma «soluzioni create dalla tecnologia che gioca con la grande pedana di otto metri al centro della scena». Un’entrata basculante, un’entrata precaria. E si viene a sapere che il brano di Povia è stato scritto, precariamente, in tre giorni. E Sandra Bullock viene o non viene? Precaria anche lei. Mentre Beppe Grillo chiede che vengano messi i defibrillatori in giro per la città dei fiori, con un a campagna intitolata «Nuovo ritmo nel cuore di Sanremo». Probabilmente a uso della dirigenza sanremese provata da tante incertezze. E questo è il quadro, fino alla stesura di queste righe. Però a tutto c’è un limite. Vanno bene perfino Fabrizio Moro e Orietta Berti, precariamente su una nave da crociera. Ma l’iniziativa «La causa dei precari merita il palco più grande», cioè la presenza sul palco di un coro di precari che faranno un rap precario è come mettere la senape sulla senape, ecco. Anche al patchanka c’è un limite.
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er la collana I Grandi Direttori dell’Editrice Zecchini di Varese è in libreria il saggio biografico del giornalista musicologo Umberto Padroni, Sergiu Celibidache - La fenomenologia per l’uomo. Celibidache (1912-1996), romeno nato a Iasi, studiò musica dal 1939 a Berlino e nel 1945, per l’allontanamento temporaneo di Furtwängler nel processo di denazificazione, il brillante giovane a soli 33 anni salì come in un sogno sul podio dei Berliner Philharmoniker. Li diresse con successo fino al 1948, quando Furtwängler riprese il suo posto e lui rimanendo comunque al suo fianco, cominciava ad apprendere dal grande maestro tedesco la base delle sue future teorie, ovvero il principio che la creazione musicale debba rinnovarsi incessantemente e che ciascuna esecuzione sia un unicum irripetibile. Dopo Berlino cominciò il suo lungo peregrinare per il mondo, di orchestra in orchestra fino ad approdare ai Münchner Philharmoniker che diresse per 17 anni dal 1979 alla sua morte. Alla Scala, come in altre grandi istituzioni, ebbe a scontrarsi con gli orchestrali, quasi una Prova d’orchestra felliniana, per i terribili apprezzamenti che gridava loro in faccia. Il suo temperamento impulsivo in cerca della perfezione fino allo spasimo, ne ha fatto un personaggio scomodo, spesso vittima di isolamento. Dedicato all’amico critico musicale Erasmo Valente, il libro di Padroni si snoda per vari cammini dell’avvenutura umana e artistica dell’osannato direttore d’orchestra: da quelli più semplicemente biografici, a quelli avventurosi, all’isolamento sofferto, alla carriera tumultuosa, ai contrasti per essere sempre controcorrente, ai successi strepitosi ovunque arrivasse il suo sovrano pensiero musicale. Importantissima fu pure la sua attività di pedagogo: una necessità innata per passare ai giovani musicisti quasi un messaggio religioso-filosofico che aveva come fine la ricerca dell’assoluto in musica: l’impegno teorico e ideale di restituire al suono la sua purezza perduta, contro il mercato del disco e contro le tecniche di organizzazione del consenso. Questo spiega con parole dense ed emozionate Padroni e continua nell’introduzione del suo
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scritto: «Celibidache con la propria arte direttoriale e con una attività pedagogia multidisciplinare, ha alimentato una solitaria azione risarcitoria all’insegna della probità a favore della musica che nell’ultimo secolo s’è persa nel deserto: aride e disegnate casualmente le dune dell’espressione, e ingannatori i miraggi dei compensi». La singolare storia di Celibidache che rifiuta ostinatamente l’incisione su disco - la peggiore illusione dell’umanità è che un disco trasmetta musica... - ha creato un vuoto di documentazione ufficiale sulla sua stessa arte; «l’industria della riproduzione del suono ha messo in circolazione, contro la sua volontà, pallide e talvolta contraddittorie testimonianze sulla sua arte; solo negli ultimissimi anni, per iniziativa della famiglia, s’è assistito a un’inversione di tendenza» ci racconta ancora Padroni. Nel repertorio delle musiche dirette da Celibidache, da alcuni considerato vastissimo, ci sono tante strane assenze; a parte la volontà di non dirigere l’opera lirica, sono scarse le esecuzioni di musiche russe, spagnole, italiane, essendo il fulcro del suo operare basato sulla musica austrotedesca: essenzialmente Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms e il suo grande adorato Bruckner. Mahler è completamente assente, considerato da Celibidache più «un caso psichiatrico che musicale». I maggiori compositori della musica moderna del Novecento sono stati eseguiti costantemente e anche i musicisti d’oggi. Non amava però Schönberg e la dodecafonia, pur avendo eseguito alcuni suoi pezzi, preferendo il brillante Berg. Il libro di Padroni come egli stesso dichiara in chiusura è solo una piccolo e incompleto apporto a un personaggio straordinario che non ha voluto far stampare i suoi scritti e documenti probabilmente perché non sufficientemente esaustivi a spiegare meglio le sue teorie musicali (né la critica del suo tempo ha pubblicato studi di qualità sulla sua direzione orchestrale). Con l’autore del libro c’è da augurarsi che altri scritti vengano composti dagli allievi di Celibidache perché il suo pensiero pedagogico sia maggiormente diffuso e i suoi insegnamenti non cadano nel vuoto dell’oblio.
jazz
To be or not to bop: Gillespie si racconta
di Adriano Mazzoletti trentun anni dalla pubblicazione dell’autobiografia e a diciassette anni dalla sua scomparsa, Minimum Fax pubblica l’edizione italiana della storia di uno dei più rappresentativi musicisti del XX secolo, Dizzy Gillespie. Scritta nel 1979 con l’ausilio di Al Fraser, professore associato di studi afroamericani al Chesney State College della Pennsylvania, l’autobiografia di Dizzy Gillespie è uno di quei volumi indispensabili per la conoscenza non solo di un musicista, ma del mondo del jazz dagli anni Trenta. Passato alla storia come uno dei creatori del Bebop e caposcuola del jazz moderno, Gillespie è stato anche uno dei protagonisti di un periodo che va dal 1930 al 1945, che si arricchisce, attraverso le sue memorie narratore brillante e preciso nei dettagli - di eventi spesso sconosciuti. Il vo-
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lume è anche arricchito dalle testimonianze di un centinaio di musicisti che hanno condiviso con lui la carriera o che lo hanno incontrato già dagli anni
giovanili. Alcuni famosi, altri sconosciuti. Tutti testimoniano l’ammirazione e l’affetto per il musicista, ma soprattutto per l’uomo che era in realtà assai diverso da come appariva. Brillante, creativo, divertente, ironico, ma soprattutto generoso, intensamente buono e capace di atti di grande solidarietà. Le pagine che Dizzy dedica alla famiglia - madre, padre, fratelli, sua moglie Lorraine alla quale il libro è dedicato con parole di profondo amore - testimoniano il suo animo. Eventi tragici come la morte di Charlie Parker o esilaranti come la scesa in campo per una sua improbabile «campagna elettorale», armato della sola tromba, sono alcuni dei tanti, tantissimi episodi che rendono il volume di facile e piacevole lettura anche per il non competente di jazz. L’appassionato e lo studioso trovano invece la descrizione, musicalmente puntuale, di molti momenti come la
nascita del bop al Minton’s Playhouse di New York o di come lui stesso, Thelonious Monk, Bud Powell, Kenny Clarke, Charlie Parker «inventassero» nuovi accordi su cui improvvisavano linee musicali assolutamente nuove sotto lo sguardo stupito di colleghi che non riuscivano ad afferrare quelle strutture. Rispetto alla prima edizione americana questa, che finalmente viene pubblicata anche in Italia, non comprende però le foto, molte mai più ripubblicate, che arricchivano quella edizione ormai diventata assai rara. Probabilmente la lunghezza dell’opera, quasi 700 pagine, ha impedito l’inserimento delle novanta immagini, fra fotografie, disegni e caricature. La traduzione, eccellente, è di Dario Matrone. Dizzy Gillespie con Al Frazer, To be or not to bop. L’autobiografia, Minimum Fax, 680 pagine, 18,00 euro
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narrativa
libri
Miseria e nobiltà
nel nome del padre di Maria Pia Ammirati io padre manifestò sin dalla giovinezza un’innata vocazione alla rovina e alla dissipazione. Ha sempre avviato, trattato e concluso sedicenti bisness nel modo peggiore». Una delle rapide, concise, ironiche e sapide descrizioni del padre, maggior protagonista dell’ultimo romanzo di Rosa Matteucci intitolato e dedicato in gran parte alla figura paterna, centrato, come peraltro i precedenti libri dell’autrice, sulla famiglia. La vena grottesca alimentata da una prosa ridondante e carnosa, impastata di una lingua fitta di voci colte e citazioni, densa di colori e sapori, ma anche di puzze e piccole oscenità, connota con toni comici l’irriverente mondo familiare dell’io-narrante Rosa, coincidente con la scrittrice e perciò facilmente assimilabile a una scrittura autobiografica. Il clima familiare della Matteucci sembrerebbe d’altri tempi, e forse proprio la sottrazione di drammatico peso del romanzo sposta il tempo dei fatti narrati in una condizione sospesa, benché fortemente annotata tra i fatti della nostra contemporaneità; ne sono fedeli testimoni i continui rimandi a cose e feticci del nostro armamentario quoti-
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diano, dei nostri riferimenti culturali e informativi (la tv, il cinema, i prodotti di consumo). Eppure resta questo senso del fantastico che aleggia e che stempera un tono altrimenti tragico di descrivere la dissoluzione di una famiglia. Una perdita per prima cosa di natura economica e patrimoniale, ma che presto diviene sperpero degli affetti e dei legami. La centralità della figura del padre, dissipatore e nullafacente, ma pieno di risorse e interessi, schiavo delle magie occulte, che pratica anche con le figlie attraverso sedute spiritiche, ma anche di moderne e più modaiole ascultazioni divinatorie, come l’IChing. Un uomo talmente poco pratico e sognatore che avrebbe potuto persino ravanare tra le viscere degli animali per cercare la verità. La verità è sempre legata alla ricerca del denaro. Tra le varie ricerche il romanzo ci narra quella (magica) di un guantino bianco, regalo della madrina a Rosa, probabilmente appartenuto allo zarevic Nicola. L’oggetto ritrovato avrebbe riportato l’antica famiglia aristocratica al suo splendore attraverso una cospicua eredità. Ma nessun cane di famiglia (gli amati cani materni prediletti ai figli) aveva mai annusato e ritrovato l’oggetto perduto che avrebbe portato fuo-
ri dalla tempesta la famiglia di Rosa. Il guantino come la casa, le stoviglie, i mobili, gli argenti, le tovaglie di fiandra, le sete e i merletti, tutto viene inghiottito inesorabilmente dai debiti. È strano che un libro così centrato sulla dissipazione sia invece un libro così pieno e colmo, generoso di parole (con al bando i soli neologismi) quanto di storie, e la sua pienezza sia come una pienezza di vita, sottratta e diminuita nei beni e nelle pietanze (il cibo meriterebbe un’analisi a parte), che lentamente scompaiono dall’orizzonte della protagonista, la quale lucidamente e passivamente, fa da spettatrice alla catastrofe e alla perdita di tutto. La perdita si chiude con la morte dei genitori e infine del cane, e le corde dell’ironia, del sarcasmo e del paradosso evitano le lacrime e sollecitano il riso, benché da ridere non ci sia nulla quando si descrive il freddo, la fame e la morte. Rosa Matteucci, Tutta mio padre, Bompiani, 286 pagine, 17,50 euro
riletture
Le escort? Un’invenzione del Rinascimento di Giancristiano Desiderio er dirla semplicemente, questo è un libro sul sesso». Scrive così - viva la schiettezza - Allison Levy nell’introduzione al libro da lui curato per la casa editrice Le Lettere: Sesso nel Rinascimento. Allison, lecturer di Storia dell’arte presso lo University College London, al di là della sua carriera accademica, sembra uno che se ne intende. Ma perché una rilettura di quel grande secolo che fu il Cinquecento e di quella irripetibile epoca che fu il Rinascimento necessità anche di una conoscenza della Pratica, perversione e punizione nell’Italia Rinascimentale, come recita il sottotitolo del libro? Possibile? Per conoscere l’Umanesimo e il Rinascimento (sono la stessa cosa) c’è bisogno di infilarsi sotto le lenzuola, nelle camere da letto, negli affari e intrallazzi delle cortigiane e dei loro amanti e clienti? Non basta
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leggere le opere dei letterati, degli scrittori, ammirare le opere, la pittura, la scultura, l’architettura? Non basta leggere Machiavelli e Guicciardini e l’Ariosto e intendersi di Firenze e di Padova, dare una scorsa al Pomponazzi, ammirare la Primavera? Non bastano Michelangelo, Leonardo e Raffaello? Non basta la «filosofia naturale» e la pratica della magia, diretta genitrice della scienza moderna, ed entrare nelle botteghe del Verrocchio e del Cellini? E Roma e i suoi Papi? Alessandro VI e Giulio II? Il libro che ho tra le mani sostiene di no. Non basta. C’è bisogno di Giulio Romano e di Pietro Aretino: c’è bisogno dei disegni del primo, pittore e disegnatore scandaloso, e delle didascalie del secondo, il vero pornografo dell’Italia rinascimentale. Il libro è composto da una serie di saggi e di scandali. Ne riporto qualche titolo per far capire di cosa si tratta: «Piacere, vergogna e guari-
gione: immagini erotiche nella maiolica del XVI secolo»; «La prostituzione nella Venezia del Cinquecento: prevenzione e protesta»; «Civiltà puttanesca e armi di seduzione nei ritratti delle cortigiane veneziane»; «Il commercio delle amanti a corte: corpi erotici e sistemi di scambio all’inizio dell’epoca moderna»; «Pesche e fichi: erotismo “bisessuale” nei dipinti e nella poesia burlesca del Bronzino»; «Passioni triangolari». Sono solo alcuni esempi che già ci fanno capire che le cortigiane a corte ci sono sempre state e non c’è corte senza cortigiane. Il potere da sempre è stato coniugato con il sesso. Il mondo delle escort è una invenzione del Rinascimento (Berlusconi, pove-
rino, non può attribuirsi neanche questo primato). Noi vi abbiamo aggiunto l’ipocrisia e l’ignoranza. Nella Roma rinascimentale, poco prima e poco dopo che vi arrivasse Lutero, in quella Roma rinascimentale che tanto piaceva a Nietzsche che nella sua follia vi vedeva addirittura l’Anticristo - ma Nietzsche di donne non ne sapeva poi tanto, nonostante dicesse che i filosofi non hanno mai capito bene la storia della verità perché la verità è femmina -, bene, in quella Roma così carnale e passionale, così femminile, di un buon cardinale si diceva: «È un’ottima persona, va solo con le donne». Una battuta, certo, ma a volte c’è più verità in una battuta che in un voluminoso saggio.
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diari
La moglie di Tolstoj, un mestiere difficile di Pier Mario Fasanotti essuno ovviamente può negare che Lev Tolstoj sia stato uno dei più grandi geni letterari della storia mondiale. Ma a leggere i diari di sua moglie, Sof’ja (di 17 anni più giovane) si delinea la figura di un «mostro»: egoista, sempre autoreferenziale, indifferente ai figli (ne ebbe tredici, ma tre morirono piccoli), brutale nel comportamento amoroso. Sof’ja Andreevna Behrs (1844-1919) tenne un diario dal 1862, giorno del suo matrimonio con Lev, fino alla sua morte. La signora Tolstoj si è data interamente all’accudimento affettuoso e amoroso del genio, a tal punto da teorizzare quel che si deve fare per lui: «…bisogna creare un am-
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personaggi
biente tranquillo, allegro, comodo; al genio bisogna dare da mangiare, bisogna lavarlo, vestirlo, bisogna trascrivere le sue opere un numero infinito di volte, bisogna amarlo, non fornire pretesti alla sua gelosia, perché sia sereno». Sof’ja trascorse la sua vita come essere insignificante, pur essendo molto acuta. «Con lui sono stata sola per tutta la vita… Lev non esce con me a passeggiare perché ama stare solo. Non si è interessato ai suoi figli, con me non è mai andato in nessun posto, con me non ha vissuto nessuna emozione». E poi due righe di spietata desolazione: «…sono la solita mobilia di ogni giorno: sono la donna. Per me c’è la vita di tutti i giorni, la morte. Per lui c’è una vita completa, un’attività interiore, il
talento e l’immortalità». Un grido di dolore cui però non ha mai fatto seguito un cenno di ribellione, anche perché la stessa Sof’ja non arrivò mai a ipotizzare una diversa condizione femminile: «Noi donne non abbiamo bisogno di libertà, ma di aiuto». Il marito, così arcigno e ingombrante, si teneva per sé le emozioni. Tanto è vero che Sof’ja scoprì per caso una lettera in cui Lev manifestava lo slancio erotico verso la donna che aveva sposato, e anche una forte dose di gelosia e di sospetto. Gelosa lo era anche lei, soprattutto del suo passato. Ma come risposta riceveva sempre la solita frase: «Ah, per favore, non farmi domande! I ricordi mi turbano troppo e ormai sono vecchio per rivivere tutta la
mia vita nei ricordi». Madame Tolstoj doveva vedersela anche con il segretario del marito, con i suoi allievi e «fedeli» (nell’ultimo periodo della vita aveva abbracciato una preudofilosofia cristiana misticheggiante). Lei che aveva trascritto ben tredici volte Guerra e Pace, si vide messa da parte da un giovane arrogante. E le venne in mente quanto Lev una volta le disse, ossia di essersi innamorato più degli uomini che delle donne. Solitudine, dedizione totale, rapporti intimi «irrispettosi»: c’è ancora da domandarsi perché la compagna del «genio» tentò il suicidio? Sof’ja Tolstaja, I diari (18621910), La Tartaruga, 262 pagine, 18,00 euro
Perché santificare Wojtyla (nonostante Gaeta) di Vincenzo Faccioli Pintozzi na volta di più, Saverio Gaeta riesce a piazzare un «colpo» che di letterario ha poco, ma di giornalistico anche troppo. Dopo il libro che conteneva - in barba alle regole canoniche - alcuni stralci del processo di beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, l’ex redattore di Famiglia Cristiana torna in libreria con un testo/evento che si propone sin dal titolo di svelare perché Giovanni Paolo II sia «davvero un Santo». Molti, troppi titoli di giornali e take di agenzia hanno svelato i punti cardine del testo: l’idea di dimettersi accarezzata dal Papa polacco e la certezza che questi si flagellasse, in ossequio alle sofferenze di Cristo. Due punti di cui non si dovrebbe discutere in salotti letterari, o
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almeno non ora: dovrebbero essere riservati alle aule della Congregazione dei Santi che sta valutando e portando avanti, a tempi record, il processo di beatificazione. Impressiona che la firma che sigla il libro sia quella di Slawomir Oder, il postulatore della causa, che invece aveva brillato negli anni scorsi per ritrosia nel confidarsi con la stampa e per aver gettato acqua sul fuoco ogni qual volta una polemica toccava il processo che dichiarerà beato papa Wojtyla. Il libro non è comunque del tutto da buttare via: alcuni episodi poco conosciuti umanizzano molto una delle figure più importanti del Ventesimo secolo, e il calore di alcune testimonianze (quasi sempre comunque anonime) rendono giustizia a un pontefice mistico ma strenuamente attaccato alla vita socio-politica del mondo in cui ha cammina-
to. Come dicevamo, però, sono la flagellazione e le dimissioni a fare la parte del leone: entrambi episodi poco rilevanti, il primo persino avvalorato da testimonianze «uditive» e mai oculari, vengono sponsorizzate come il motivo saliente per cui vale la pena leggere Perché è santo. Ma persino il tema delle dimissioni perde di interesse, una volta calato nel suo giusto contesto: un successore di Pietro coscienzioso, che conosce i limiti umani ed è già passato attraverso l’attentato, che si interroga - come già Paolo VI prima di lui - di cosa fare «in caso di impedimento permanente» del seggio che ricopre. Niente di più, niente di meno. Merita una citazione anche «la pista bulgara» riesumata da Gaeta, di cui si parla tanto ma per la quale non vengono presentate prove. Un libro pretenzioso, insomma, che forse inconsciamente potrebbe fare più danni che altro alla figura di un protagonista del Novecento. Slawomir Oder e Saverio Gaeta, Perché è santo, Rizzoli, 192 pagine, 18,50 euro
Elkann, una pietra che si chiama letteratura di Angelo Crespi difficile definire l’ultimo libro di Alain Elkann, così privo di ogni orpello letterario da sembrare letteratura. Nei fatti cos’è davvero questa sorta di romanzo familiare? Un diario scritto di getto durante l’agonia della madre e pubblicato così anche con le sviste, le ripetizioni, le storture grammaticali? Oppure un diario scritto dieci anni dopo la morte della madre, come sembra presagire la terza parte, nel quale c’è un elemento di distacco e di riflessione? O forse un finto lacerto biografico di quegli scrittori, specie gli america-
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ni, in cui protagonista della fiction e romanziere coincidono, ma uno non è mai l’altro definitivamente? Certo Elkann è spudorato, nel senso primo del termine. Non ha pudore a mettere in scena la propria famiglia, gli affetti intimi, la madre e i figli e il fratellastro. Non ha neppure pudore nel raccontare i luoghi di questo martirio, una Torino mai così poco letteraria come questa volta. E anche la scrittura si adegua in questa piatta e assolutamente non letteraria ricerca della verità di una vita che si spegne. Perché il vero scatto, dalla vita alla letteratura, sta appunto in questa algida tasso-
nomia del dolore. Perché quando il dolore è vero non c’è letteratura che tenga e a poco vale giocarci su con le parole. Quando il dolore è vero, nessuna forma letteraria ci salva, quando l’amore finisce nessuna poesia ci restituisce l’amata. La letteratura serve più a noi osservatori per compatire chi vive, serve più a noi che non proviamo dolore per fingere - parafrasando Pessoa - che è davvero dolore il dolore che non proviamo. Per questo motivo il libro di Elkann è straordinario: racconta la banalità della vita, forse lo fa incoscientemente, ma proprio per quella preveggenza che possiede la parola letteraria
anche al suo grado minimo. La banalità della vita è che mentre muore una madre tutto il resto intorno continua, qualcuno soffre, altri lottano per se stessi, il tempo cambia, i treni sono in ritardo, gli aerei fanno rumore, e nulla si ferma, neppure noi che proviamo dolore e vorremmo davvero fermarci. Come nell’ultimo quadro fa Elkann, ma dieci anni dopo, mentre sta per raggiungere l’aeroporto, si ferma, sosta sulla tomba della madre, recita il Kaddish e depone una pietra sulla tomba. Quella pietra si chiama letteratura. Alain Elkann, Nonna Carla, Bompiani, 132 pagine, 14,00 euro
altre letture Quali erano le strutture di potere nel Medioevo? Come funzionava la meccanica del comando e dell’obbedienza nei secoli che hanno formato l’anima europea dopo la fine dell’impero romano? Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche di Mario Ascheri (Il Mulino, 421 pagine, 27,00 euro) traccia la storia delle istituzioni politiche, laiche ed ecclesiastiche che hanno caratterizzato l’evo di mezzo. Nel saggio sono illustrate da un lato le strutture pubbliche di governo, dall’altro le idee e gli interessi che le sottendevano e che costituiscono il lascito più cospicuo ai secoli successivi. Dal papato all’Impero, dai regni ai principati ai Comuni, dalle signorie territoriali ai feudi, dalle istituzioni comunali a quelle parlamentari, sono delineate la fisionomia e le funzioni dei principali apparati istituzionali, nonché le tensioni cui essi furono sottoposti. Potere, ambizione,
saggezza, superbia. Steve Forbes, capo di un impero mediatico, sa bene come questi concetti influenzino il businnes, la politica e la vita moderna. John Prevas, professore di storia classica, sa dove hanno portato i leader del mondo antico. Forbes e Prevas in Potere ambizione gloria. Lezioni di leadership dai grandi del passato (Etas edizioni, 287 pagine, 21,50 euro) raccontano le altezze siderali e le profondità miserabili raggiunte dai più grandi leader del passato. Da Ciro il grande ad Alessandro Magno, da Annibale ad Augusto le vicende miliari dei personaggi che hanno fatto la storia del mondo vengono narrate con stile evocativo e analizzate in parallelo con quelle dei protagonisti del businnes della nostra epoca.
Martin Heidegger e Karl Jaspers si conoscono nella primavera del 1920 a casa di Hedmund Husserl. Fino al 1963 intrattengono un intenso contatto epistolare. Le 155 lettere che sono giunte sino a noi ora sono raccolte e pubblicate in Martin Heidegger-Karl Japsers. Lettere 1920-1963 (Raffaello Cortina editore, 288 pagine, 33,00 euro). La corrispondenza dei primi anni testimonia la speranza, comune ai due pensatori, di trovare l’uno nell’altro un amico e un alleato disposto a impegnarsi per il rinnovamento della filosofia e dell’università. Ma presto vengono fuori le differenze tra i due pensatori, sia sull’ontologia di riferimento sia sulla prospettiva della riforma universitaria. Le lettere del dopoguerra danno conto di una perduta sintonia, ma anche del grande rispetto che resta tra questi due giganti del pensiero. a cura di Riccardo Paradisi
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storia
GRANDE ESPLORATORE DELL’ANTICHITÀ, FECE IL PERIPLO DEL MEDITERRANEO MA RAGGIUNSE ANCHE L’OCEANO. CONOSCIAMO LE SUE AVVENTURE PERCHÉ ALTRI HANNO INTERPRETATO E TRASCRITTO I SUOI PAPIRI. IN UN INTRECCIO DI VERITÀ E MENZOGNE CHE ADESSO LUCIANO CANFORA SVELA IN UN LIBRO. DOVE SI SCOPRE CHE FU LUI IL PRIMO FALSARIO…
Le bugie di Artemidoro di Gabriella Mecucci rtemidoro fu uno dei più grandi viaggiatori e geografi dell’antichità, ma noi conosciamo le sue avventure perché altri hanno interpretato e trascritto i suoi papiri, le testimonianze dirette sono quasi del tutto sparite. Il racconto vero si intreccia così con quello dei falsari. E al fascino del viaggio, si aggiunge quello oscuro e labirintico delle menzogne.Tutto questo intrigato percorso viene ricostruito da Luciano Canfora in Il viaggio di Artemidoro.Vita e avventure del grande esploratore dell’antichità (Rizzoli, 346 pagine, 18,50 euro). Ma andiamo per ordine. Le terre che raggiunse Artemidoro le conosciamo attraverso Marciano: degli undici libri scritti dal grande geografo, restano solo alcuni frammenti. Dove andò, dunque? Fece sicuramente il periplo del Mediterranneo (mare interno), ma raggiunse anche l’Oceano (mare esterno). Cominciamo dal primo. Il Mediterraneo orientale, all’epoca, non era controllato pienamente da Roma: la Siria era ancora un regno indipendente, ancorché in pieno
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Insomma anche il mare esterno gli era tutt’altro che ignoto. Ma Artemidoro si spinse anche verso la Siria, l’Egitto, altri punti del Nord Africa, il Mar Rosso, il Mar Nero, l’Arabia e la Trogloditica (zona costiera antistante all’Arabia). Sembra che i suoi scritti, ripresi da altri, raccontassero anche di animali e persone non direttamente incontrate da lui. «Artemidoro ha parlato di serpenti della lunghezza di trenta cubiti» - scrive con ironia Strabone - «in grado di avere la meglio su elefanti e tori, ed è stato per così dire moderato: i serpenti indiani sono ancora più favolosi, per non parlare di quelli libici, sul cui dorso si favoleggia che cresca addirittura l’erba». Un ricco bestiario più o meno fantatistico, più o meno credibile fa parte degli 11 libri di Artemidoro. In Trogloditica è sicuro di aver incontrato un kameloèpardalos, a metà fra il cammello e il leopardo. L’Egitto e l’Etiopia poi - secondo il nostro esploratore, riportato da Strabone - pullulano di elefanti e leoni detti formiche: questi hanno i genitali al contrario, la pelle color
All’inizio fu sobrio e credibile nel racconto, ma poi anche lui esagerò. Come nella descrizione del kameloepardalos incontrato in Trogloditica, mai effettivamente osservato. Eccessi fantastici che esposero la sua opera a critiche declino, e altrettanto può dirsi dell’Egitto; Mitridate incombe molto da presso, per non parlare dello strapotere dei pirati, soprattutto dell’area contesa tra Cipro, Creta, la Cicilia e la Siria. Persino a Occidente la «presa» romana dell’area mediterranea faceva acqua da tutte le parti, se si considera la facilità con cui i Cimbri e i Teutoni avevano sfondato (118 a.C.) nella recentissima provincia della Gallia Transalpina, arrivando fino a Vercelli e dilagando nella pianura Padana. Per quanto riguarda poi la Spagna, i romani erano ben lungi dal controllare l’intera Lusitania (oggi in larga misura coincide col Portogallo), mentre la parte settentrionale della penisola iberica era «terra incognita». Secondo Artemidoro poi le colonne d’Ercole non si trovano nello stretto di Gibilterra, ma fra l’isola di Gades e la costa spagnola, già in pieno oceano Atlantico. Conosceva, inoltre, una parte importante del versante spagnolo che affaccia sull’oceano.
oro e la chioma folta dei leoni di Arabia. Queste descrizioni appaiono discretamente incredibili e del resto riguardano il bestiario di terre che di per loro venivano vissute come mirabolanti. Figurarsi se non poteva venire la tentazione di calcare un po’ la mano sugli animali. Perché Artemidoro inserì in un’opera fondata sull’osservazione diretta dei luoghi e dei popoli, parti e osservazioni su cose non viste direttamente da lui quali le mirabiliadi Gabriella Mecucci della Trogloditica. In omaggio forse a un’idea di completezza del disegno dell’ecumene, che lo portava ben oltre l’orizzonte del periplo? Questa scelta espose però la sua opera, così critica verso i suoi predecessori per gli eccessi fantastici, a critiche molto simili. Le cose stanno comunque così: all’inizio Artemidoro era molto sobrio e credibile nel racconto, ma poi anche lui, come gli altri, tralignò. In realtà egli non raggiunse né le isole del sole, né Tapro-
bane (Cylon). Il suo non fu un viaggio reale ma un viaggio letterario. Recuperò quanto Diadoro aveva scritto del viaggio di Giambulo. Quest’ultimo toccò molti lidi ad altri sconosciuti.Tutto iniziò quando, rapito dai pirati etiopi e condotto con un suo compagno di ventura in una località della costa, fu vittima di un rituale che fra quelle popolazione era molto seguito: si metteva uno straniero su di una imbarcazione e lo si affidava alla corrente con la consegna di non fare mai marcia indietro pena la morte. Giambulo e il suo compagno arrivarono a destinazione, girarono per l’oceano Indiano, e furono in grado di raccontare quell’avventura. Parlarono degli indigeni, i nostri due esploratori e ne descrissero i corpi come straordinariamente alti, flessibili, vigorosi, molto più dei nostri. Avevano peli solo in testa, mentre l’intero corpo era liscio e glabro. Riuscivano a parlare con due interlocutori contemporaneamente grazie al fatto che con una sezione della lingua comunicavano con il primo e con l’altra con il secondo. Un popolo bello, allegro, forte che venera il sole con una ritualità gioiosa. Giambulo, però, dopo una non troppo lunga permanenza nelle isole, viene incomprensibilmente cacciato e quindi ha raccontato la sua avventura. Artemidoro ne sarebbe venuto a conoscenza e avrebbe arricchito la sua opera con i particolari riferiti da un altro a lui sconosciuto, senza dichiararlo. Fu lui medesimo dunque il primo falsificatore. Più avanti i falsi si moltiplicheranno e diventeranno parte costitutiva di questa storia.
A metà dell’Ottocento spunta in Europa Costantino Simonidis, proveniente dall’isola greca di Simi. Questo signore si fa benvolere da tutti e in particolare dal grande Sainte-Beuve. Ma ne combina di ogni tipo riuscendo a fabbricare uno pseudo Artemidoro. La creazione del falso era una vera, grandissima passione di quest’uomo. Aveva un atteggiamento molto disinvolto ed era capace quasi di tutto. Come quando nel corso del suo terzo viaggio sul Monte Athos sottrasse vari fogli del Valtopedi, che contenevano l’epitome (la parte più importante di un’opera, ndr) di Agatamero, fondata sui racconti di Artemidoro. Dopo il furto arrivò anche la falsificazione. Simidis pubblicò un inedito di Eulyros chiaramente con-
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traffatto e che si limitava a riferire solo su Cefalonia. Si trattava di un’operazione truffaldina che anticipava di poco quella su Artemidoro.
L’ultimo manipolatore delle sue cronache geografiche raggiunse dalla Grecia l’Europa a metà Ottocento. Stimato da Sainte-Beuve, in Germania venne persino arrestato. Fatale gli fu un errore copiato da un testo sbagliato di Plinio
icordo bene un’occasione nella quale Luciano Canfora sviluppò davanti a una piccola platea la sua concezione dell’unicità della storia, che non può essere smembrata in antica, medievale, moderna e contemporanea, né tanto meno può essere scomposta per temi. Che questo accada nelle università italiane dipende solo da questioni organizzative, nel migliore dei casi. «La storia è storia» diceva, infatti, in Germania, dove su questa disciplina la sanno lunga, si può dire che nella sua forma attuale l’abbiano inventata i tedeschi, nelle università esistono cattedre con la secca denominazione di Geschichte, storia, senza nessuna specifica. Canfora sosteneva la sua tesi confortato dalla recente stesura del Papiro di Dongo (Adelphi, 2005), un libro che tratta di Goffredo Coppola, insigne filologo che aveva aderito al fascismo con tanta convinzione da trovarsi fra gli accompagnatori di Mussolini nel suo disperato tentativo di fuga, venire catturato insieme a lui e fucilato a Dongo insieme ad altri gerarchi. Al momento della morte Coppola sembrava aver portato con sé le informazioni di cui disponeva a proposito di un prezioso papiro arrivato in Italia per vie non del tutto chiare. Una storia che si dipanava ben oltre i secoli per
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Per realizzare quest’ultima occorse molto tempo e non mancarono le difficoltà. Basti dire che Simonidis in Gemania venne persino arrestato. Ma, abile come era, riuscì a uscire dalle sue innumerevoli disavventure abbastanza bene. Alla fine incappò però in un incidente che lo inchiodò alle sue responsabilità. Mentre, dopo lungo e attento lavoro, esibiva il suo pseudo Artemidoro, qualcuno notò che qualcosa non andava. Il documento indicava infatti la distanza fra Gades e il Promontorio degli Artabri in 6464 stadi. Per fare un miglio occorrono 8 stadi. La misura fornita risultava quindi identica a quella fornita da Plinio che la indicava in 891 miglia che, moltiplicata per otto, dava un numero vicino a quel 6454. In realtà l’891 era completamente sbagliato perché tratto da un’edizione pliniana difettosa. In realtà Plinio aveva tratto - dicono le fonti - la distanza fra Gades e il Promontorio da Artemidoro (scritto scomparso), e i numeri erano parecchio diversi. Simonidis aveva dunque copiato dal Plinio sbagliato: l’errore rendeva evidente che l’Artemidoro che esibiva era falso e costruito da lui a tavolino. Ma la storia non finisce qui. Luciano Canfora dimostra che ci fu un’ulteriore contraffazione. È andato ad Alessandria è ha scoperto che Simonidis ha utilizzato, per costruire il suo pseudo Artemidoro, falsi documenti, scritti da un tal Callinico Ieromonaco. Da qui si risale a un’altra serie di manipolazioni, fra queste la citazione di opere che non erano nelle Biblioteche dove si sosteneva di averle trovate all’epoca in cui erano state cercate. Il giallo è così intrecciato che è persino difficile raccontarlo. E infatti il libro di Canfora in molti suoi punti non riesce a evitare il linguaggio tecnico del filologo. E così un saggio che avrebbe potuto essere appassionante, da leggere tutto d’un fiato, diventa di non semplice lettura. Non è dunque un libro per tutti anche se, qualora si decida di armarsi di pazienza e di concentrazione, l’avventura fra mirabilia e crimini storici, seppur di difficile comprensione, riesce a prendere il lettore.
Da Coppola a Simonidis oltre la porta del tempo di Sergio Valzania affondare nei millenni, per comprendere e raccontare la quale si dimostravano necessarie competenze che non possono essere circoscritte a una sola epoca. Bisognava saperne di papiri quanto di organizzazione della cultura durante il fascismo. Oltre alla questione della non frazionabilità della Geschichte, nel Papiro di Dongo Canfora, allo stesso modo di come fa oggi con Il viaggio di Artemidoro, vita e avventure di un grande esploratore dell’antichità poneva quella della concilibilità di testo analitico e sintetico. La ricerca storica è obbligata ad analizzare i dettagli, ad approfondire ogni singola questione, ogni fonte fin quando è possibile farlo, a dedicare tomi interi a un’iscrizione, un frammento, un personaggio minore, o un grande, come Artemidoro, delle cui opere non ci rimane quasi niente. Si tratta di operazioni necessarie, che corrono il rischio di diventare pedanti e noiose, mentre le grandi
sintesi che racchiudono tutte le nostre conoscenze relative alla civiltà greca, o anche l’intera storia dell’umanità in qualche centinaio di pagine vanno incontro al rischio parallelo della superficialità e della semplificazione, anche se scritte con un’ispirazione felice. Canfora ha la capacità, dimostrata nel Papiro e confermata in Artemidoro, di realizzare delle analisi approfondite che condensano attorno a sé una visione compiuta del mondo che circonda la vicenda presa in considerazione. Disponiamo di uno spiraglio, un buco della serratura, attraverso il quale guardare al passato nella sua interezza e complessità, oltre la porta opaca del tempo. Nel caso del Papiro il contesto rievocato era quello del ventennio fascista, con le sue meschinità e insensatezze, alcune delle quali non gli erano peculiari. Riuscirono a trasferirsi senza problemi nell’organizzazione universitaria della Repubblica e
si comprende bene quanto provenissero da lontano. Medea Norsa, la grande studiosa di papirologia deuteragonista di Coppola nel Papiro, fu perseguitata in quanto ebrea, ma già prima dell’emanazione delle leggi razziali la sua condizione femminile le aveva negato il rilievo che il suo sapere le avrebbe meritato nell’ambiente accademico italiano. Anche Il viaggio di Artemidoro ha due protagonisti per presentare i quali è necessaria una conoscenza storica a spettro temporale ampio, dato che sono vissuti a diciassette secoli di distanza, provenendo tutti e due dalla Grecia, intesa in senso culturale. Il geografo Artemidoro e il falsario Simonidis, attraverso il racconto delle cui imprese Canfora presenta un mondo. Negli anni nei quali si giunge all’unità d’Italia, l’Europa è percorsa da un fervore culturale del quale abbiamo una bassa percezione. Il clima era acceso e le contese feroci. Canfora immagina che proprio all’interno della rete degli amici, collaboratori, finanziatori e complici del falsario sia rimasta nascosta per un secolo circa quella strana meraviglia presentata di recente e battezzata Papiro di Artemidoro, ormai riconosciuta quasi da tutti come una contraffazione ottocentesca. Molte sono le prove che ne segnalano Simonidis come autore.
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ritratti
Dal “Dialogo dei massimi sistemi” a “Des mois”, identikit di Tommaso Landolfi
Con quella penna… può fare ciò che vuole di Leone Piccioni ommaso Landolfi (1908-1979) è stato certamente uno dei pochi nostri grandi scrittori del Novecento. Debuttò a Firenze nel ’39 con due volumi stampati a sue spese. La prima affermazione si registra con il Dialogo dei massimi sistemi. Ci sono poi da citare molti titoli tra i quali scelgo Racconto d’inverno del ’47, Cancro regina del ’50, La bière du pécheur con il doppio significato di Birra del pescatore e Bara del peccatore, oltre a Le due zitelle, a Le labrene e infine con Rien va del ’63 e Des mois del ’67. Studiò a Firenze ed ebbe come compagni all’università Bo, Luzi, Poggioli, Traverso e altri. Frequentava con la sua ironia e il suo distacco un po’ voluto e un po’ signorile (era d’origini nobili) le Giubbe Rosse, il famoso caffè fiorentino dei letterati della prima metà del secolo scorso. Ha avuto come fedele editore la Vallecchi, poi Rizzoli intraprese l’opera di ripubblicazione dei suoi scritti che purtroppo si fermò molto presto, con la stessa operazione proposta poi da Adelphi che va avanti - mi pare - con molta lentezza. Uomo di grande fascino, avventuroso di temperamento, volutamente un po’ sprezzante, autore di fulminanti battute, con un carattere ombroso e, quasi sottovoce, destinato alla liricità. «Non ho mai avuto forza - ha scritto - di tollerare gli altrui sbalzi d’umore: io d’umore non cambio, se niente intervenga a far pencolare i miei sentimenti, io sono ombroso; a me, è vero, è sufficiente una menomezza per cambiare d’umore, anzi per mutare radicalmente la mia visione del mondo, ma quella ci vuole e senza quella resto saldo». E ancora: «Quando il mio tono è basso, quando anzi il mio termometro è calato a zero, io vengo preso da una specie di frenesia ragionativa… In compagnia della ragione ci si sente come privati di alcunché, come ingannati».
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Landolfi ha sempre tenuto a divulgare, nei suoi libri, una fotografia nella quale con il palmo aperto della mano si copre il volto, lui che si è rifiutato di far apparire nei suoi volumi i cosiddetti «risvolti di copertina» fino a dettare il seguente: «L’autore, stanco di sentirsi attribuire dai critici (o almeno dai più grossolani) la paternità o l’ispirazione degli scritti per consuetudine stampati in questa sede (quali anzi lo trovano bene spesso dissenziente), ha pregato l’editore di sostituirli d’ora in avanti (nel 1962) con la seguente dicitura: Risvolto bianco per desiderio dell’autore». Da ricordare un’antologia degli scritti di Landolfi curata da Italo Calvino nell’82 per Rizzoli: un grande scrittore del passato visto da un grande scrittore del presente. Ci racconta Calvino di essere rimasto una volta sconcertato quando leggeva che «il critico e sodale
più fedele e incondizionato fin dagli anni fiorentini, Carlo Bo, ha scritto più volte che Landolfi era il primo scrittore italiano dopo D’Annunzio che poteva fare con la penna tutto quello che voleva», ma dimorando all’interno dell’opera landolfiana, Calvino si convinse dell’esattezza di quelle indicazioni: «poi ripensandoci ho capito che il vero elemento in comune fra i due era un altro: dell’uno e dell’altro (e solo di loro due) si può dire che scrissero sì al cospetto della lingua italiana tutta intera, passata e presente, disponendone con competenza e mano sicura come di un
lo dell’emozione da parte del ragionamento, l’inquietudine placandosi nel prender gusto a penetrare i caratteri che lo circondano, in una continua varietà di modi e di toni e di temi fino ad andamenti anche proverbiali, popolari, coloratissimi.
In un diario come Des mois fa specie allora vedere con quanta tenerezza Landolfi si esprima quando parla dei suoi bambini e anche di sua moglie. Sposatosi tardi con una giovane donna battezzò nei suoi libri i bimbi come la Maior e il Minimum: «Egli è forse il so-
Lo sostenne per primo Carlo Bo e ne convenne, più tardi, Italo Calvino, riconoscendo che tutti e due disponevano della lingua italiana “con competenza e mano sicura come di un patrimonio inesauribile cui attingere con dovizia e con piacere continuo”
patrimonio inesauribile cui attingere con dovizia e con piacere continuo». Bisogna rendere omaggio a Pietro Pancrazi e a Bo per aver scritto fin dal 1937 (sul Dialogo dei massimi sistemi appunto) su Landolfi. Il Pancrazi parlava di due strade aperte a Landolfi: «quella di un’arte di più impegno lirico e quella di un umorismo logico e morale più che scoperto». In verità la strada di Landolfi è sempre stata una sola con i due aspetti (la tendenza lirica e quella moralistica e ironica) perfettamente fusi insieme: in azione perenne nella sua fantasia e nel suo pensiero a corrente alternata, intervenendo subito l’ironia a placare la spontanea accensione lirica, quasi di quegli slanci, di quegli abbandoni lo scrittore avesse ritegno, avesse pudore: intervenendo il control-
lo essere al mondo - scrive - cui la mia presenza dia un piacere disinteressato e immediato; il solo, almeno, il cui piacere alla mia vista non sia da nulla turbato… In questi giorni c’è in me un rinnovato amore per la famiglia.Tra i tanti, in verità, non ho ancora fatto questo esperimento come se tutto fosse vero». E della moglie: «Non ha molta pazienza coi figli e ha ragione dopo tutto, sbaglia tante cose… Eppure che c’è nel malinconico ovale del suo viso, nei suoi capelli talvolta arruffati, nello spirare del suo grembo ahi quanto fecondo che forza il mio pietoso amore? Ella è il mio perenne riscatto, la mia croce fulgente». Si è detto di Landolfi gran giocatore, assiduo dei casinò di Sanremo e di Venezia, dove ha lasciato quasi tutti i suoi
quattrini, ed ecco perciò che il gioco diventa una fonte perenne di meditazione per lui.Tutte le sue raccolte sono piene di tavoli verdi, di albe che sorgono su giocatori che sono rimasti privi anche delle poche lire necessarie per prendere un treno e tornarsene a casa, stanze piene di fumo. Il modo di porsi di Landolfi di fronte alle vicende del gioco, è molto simile al modo di porsi di fronte alle vicende stesse della vita, all’andamento della sorte e dei rapporti umani: in Rien va è arrivato a capire che «il giusto guiderdone che il giocatore deve pagare per sdebitarsi dei piaceri che dal gioco gli provengono (interessi, vitalità, azzardo) è il perdere». Il vero giocatore deve perdere: non potrebbe unire al piacere del gioco la bassa soddisfazione della vincita materiale. «Vorrebbe indicare alcune osservazioni di cui potremo forse giovarci nell’ora della nostra morte: non dovremo, in quell’ora, lottare con niente e con nessuno, non dovremo combattere la nemica nelle sue stesse armi, e solo così ci porremo nelle condizioni migliori per vincerla; guai se una levata di scudi, se uno spasmodico protendersi e opporsi della nostra sostanza più vile le fornisse il mezzo, l’opportunità e la materia per operare. La morte ci trovi vuoti di tutto ciò su cui ha forza, inermi; non diamole pretesto alcuno e vedremo a cosa si appiglierà, vedremo allora se davvero è fatale».
Ma lasciamo spazio a una sola e mirabile citazione dal Dialogo dei massimi sistemi, dalle pagine di Night must fall, quando il primo slancio lirico landolfiano non veniva da lui stesso soffocato: «C’è un assiuolo che mi perseguita: lo sento tutte le notti quando rincaso da un lupanare, da una serata letteraria, più spesso da una di quelle serate fumose che si trascinano a lungo per i caffè, senza senso, ma pure con lo struggimento di fare qualcosa. Canta dai grandi alberi del giardino anche quando invito i giocatori nella mia camera e trascorriamo una gran parte della notte in mezzo al fumo. Cioè, allora non lo sento: lo sento quando se ne sono andati portandomi via fin l’ultimo quattrino e, sotto l’alba, cerco d’addormentarmi. Ho aperto prima la finestra per rinnovar l’aria, però il fumo non è uscito, s’è solo rinfrescato; là dentro, con l’incubo di un ronzio di zanzara posso pensare in pace a due donne che vorrei avere. Ma le rondini cominciano a rivoltarsi sui fili, come ancora fra le pieghe del torpore notturno, e fanno udire i primi cinguettii, rauchi di sonno e soffici; il cielo si schiara, l’assiuolo ha cessato di cantare; è tempo di andare a dormire. O non piuttosto di uscire nell’aria pungente, nella chiaria fra le sbavature di resina lucente, fra i dondolii dei rami pendenti, incontro al sole?».
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Terra!
Vite di periferia come antidoto alle veline
di Pier Mario Fasanotti reve premessa: da un po’di tempo se un giornalista propone, al suo quotidiano o al suo settimanale (non tutti, è ovvio) un’inchiesta che non contenga l’ingrediente piccante lo scandalo, il sesso, lo strano-ma-vero - si sente dire «ma che tristezza!».Vogliamo fare una serie di articoli sulle periferie delle città italiane? Risposta: uffa, che noia. Se lo stesso proponente aggiunge che alla periferia, che ne so, di Pavia o di Crotone nascono come funghi spettacoli di hard sex, allora la musica cambia. Il cronista, nove volte su dieci, riesce a partire. La tanto vituperata televisione brandelli di ottima cronaca riesce a farli, dando così l’immagine vera, che magari è stata igno-
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rata o tenuta nascosta da sempre, dell’Italia. Un paese che, appunto nelle periferie, è molto più omogeneo di quanto alcuni, leghisti compresi, pensano. Una serie giornalistica scattante e veritiera è Terra!, venerdì su Canale 5: un contraltare serio alle ammucchiate di veline, tornisti depilati, cantanti con Morgan (sic) in giuria. Gli ideatori del programma,Toni Capuozzo e Sandro Provvisionato, hanno alle spalle un mestiere solido. Raccontano senza cadere nella retorica sociologica o nel fatalismo dei luoghi comuni. Snocciolano cifre impressionanti, fanno parlare i protagonisti, avviano un coro a più voci. La puntata dedicata alle periferie delle città italiane ha chiarito una cosa: si può stare male al Nord come al Sud. Genova, città del Nord. Qui ci sono quartieri mostruosi con una vista bellissima (il mare). Si chiamano Begato, Cep. Se dici di provenire da lì sei subito marchiato come problematico, povero, disadattato psichico. La farmacista Nicoletta spiega che vende so-
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prattutto anti-depressivi. In incombenti «città-palazzo» come Le Dighe, l’ascensore va e non va e dentro non ci sta nemmeno una lettiga (al quattordicesimo piano c’è una signora anziana con bombola d’ossigeno). Porte di ferro e pareti di carton gesso, che trasudano umidità. Un vedovo di 82 anni è caduto per le scale perché non hanno mai cambiato una lampadina rotta. Per fortuna ci sono gli «educatori di strada»: fanno quello che possono,
lottano, credono. Recuperano gli sbandati, mostrano prospettive esistenziali. Bronx, ghetti. La ricetta è questa: casermoni senza servizi, nessuna manutenzione, a volte assenza totale di negozi. Che fare allora per chi non ha lavoro? Stare in strada. Grazie alla volontà di gruppi e cooperative c’è stata a volte una buona integrazione razziale: sullo stesso tavolo il pesto e il cous-cous. Platì, Calabria. C’è una strada, la Provinciale 112, in direzione Aspromonte, che in un tratto è tenuta su da grissini ferrosi più che piloni. Ci passano auto e camion, ma in realtà taglia in due, anche economicamente, un territorio. Platì è il co-
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mune più povero d’Italia e regno dell’evasione fiscale visto che la presenza dei ricchi mafiosi è visibilissima. È a rischio di frana: se la montagna si sgretola, potrebbe spazzare via un quarto dell’abitato. Da sei mesi ha un sindaco (dopo tre anni di assenza «per paura»), il quale dice: «Qui non c’è futuro e nemmeno speranza!».Vivono 19 sorvegliati speciali, la n’drangheta mostra sue ville, tiene nascosti i suoi bunker. Macchine sgangheratissime accanto a poche di gran lusso. Torino: su un muro di via Nizza, vicino alla stazione di Porta Nuova, c’è un’enorme scritta: «No alla guerra tra poveri». La quale è in periferia, la stessa dove poco tempo fa un quindicenne romeno è morto perché due connazionali gli hanno tagliato la gola. Le banlieu non sono soltanto una realtà francese, basta andare a scovarle, qui da noi. Non manca, davanti alla telecamera, un cinquantenne razzista: «Ognuno nella sua nazione, oppure da Obama in America». Una donna dice che ai margini della raffinata urbanistica sabauda c’è «una terra di lacrime e di lame». Molti non vanno a scuola. Ma soprattutto non ci credono: «Che sono i libri? Non servono, tanto non ti prendono al lavoro». Eppure è a Torino che più si nota l’operazione recupero delle periferie. La città va più svelta di Milano. Malgrado tante cose: sottotetti degli extracomunitari dati alle fiamme, spaccio di droga, prepotenza, bullismo, nichilismo spinto, degrado, sporcizia. Non sono pochi quelli che senza aspettare la manna dal cielo si danno da fare.Torino è stata dichiarata la Città Europea dei Giovani nell’anno che è appena cominciato.
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UN VALENTINO PER UN DESIDERIO
IL RITORNO DEI COW BOYS
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nche i più strenui oppositori di San Valentino, quelli che ritengono la festa degli innamorati un inno al consumo, non avranno nulla da ridire sull’iniziativa pensata per l’occasione da Save the children. Basta collegarsi al sito dell’associazione umanitaria che si occupa dei minori di mezzo mondo, per innamorarsi della «lista dei desideri». Il meccanismo è semplice:
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e ambientazioni western non hanno mai dato grosse soddisfazioni ai frequentatori di console, nonostante gli ingredienti storici per un action come si deve non siano mai stati carenti. A rendere giustizia al genere, ci penserà a detta di molti Red Dead Redemption, titolo firmato Rockstar che muove da un classico plot hollywoodiano. Il giocatore vestirà i panni di John
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L’iniziativa di “Save the children” per la festa degli innamorati: doni reali per bimbi bisognosi
L’epopea del West e dell’ex bandito John Marstone arriva in console con “Red Dead Redemption”
Fabio Tondelli documenta la vita segreta di un branco che abita il massiccio del Pollino
si può scegliere tra decine di cartoline illustrate quella da recapitare alla persona amata. Ma per ciascuna card consegnata alla propria metà, l’oggetto raffigurato in ciascuna viene donato davvero a un bimbo bisognoso. Il ventaglio è ampio: si va da un cesto di cibo a un biberon, da sei piccole caprette a materiale di cancelleria per gli scolari. E inoltre possono essere donati alberi da frutto, una coppia di polli, kit di assistenza per il parto e per il pronto soccorso. Il tutto a prezzi assai modici. Un modo davvero intelligente per celebrare l’amore di coppia, ed essere complici di un piccolo gesto che ne varca i confini.
Marstone, un ex bandito in cerca di redenzione che cercherà di conquistarsi dignità e libertà cercando di riportare ordine nel selvaggio West. Sospeso tra missioni nelle praterie e incursioni nelle piccole cittadine di New Austin, West Elizabeth e Nuevo Paraiso, il gioco vive di numerose interazioni con i personaggi del posto, dallo sceriffo al vecchio ubriacone, e di una certa libertà nell’avanzamento del gioco. Disponibile a breve, Red Dead Redemption potrebbe segnare il definitivo ritorno dell’epopea West nell’immaginario collettivo.
esemplari, e a piazzare sul loro corpo un radiocollare. È questa la premessa da cui muove Il mistero del lupo, documentario di ricerca diretto da Fabio Tondelli per National Geographic. Gli appostamenti, le scoperte, le scene rubate: ogni singolo frame del lavoro di Tondelli assume un’enorme rilevanza naturalistica. È molto complesso infatti seguire le tracce dei lupi, dotati di sensi affinatissimi capaci di metterli in allarme anche a molti chilometri dal presunto pericolo. Un viaggio affascinante, che rilancia un genere scientifico molto trascurato dalle produzioni nazionali e inoltre consente l’accesso a una Penisola segreta, lontana dalle telecamere.
a cura di Francesco Lo Dico
I SENSI DEI LUPI ul massiccio del Pollino, il più alto del Mezzogiorno, sopravvive un piccolo branco di lupi. E da anni Paolo Ciucci, ricercatore quarantenne, ne segue pazientemente le tracce. Un lavoro minuzioso, svolto nella solitudine del bosco, che qualche anno fa arrivò a un’improvvisa svolta. Il team del ricercatore dell’ Università La Sapienza riuscì infatti a vincere la diffidenza di un paio di
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poesia
Demoniaca maestà di un innovatore di Francesco Napoli sidore Lucien Ducasse, in arte Lautréamont, è tuttora un affascinante mistero. Figlio di un funzionario del consolato francese a Montevideo, dove nacque nel 1846, aveva, forse, un paio di manie sin dalla tenera età: passione sfrenata per i crudeli combattimenti tra galli che allora fiorivano nella periferia della capitale uruguagia e un insano divertimento ad aprire bottiglie a suon di revolverate. Se sia vero o meno poco conta, quello che testimonia invece è un carattere irrequieto e impulsivo, insopportabile e passionale, tutto centrato su una opposizione tra Bene e Male che ne caratterizzerà anche l’opera. Nel 1859 arriva in Francia, deve completare gli studi, e lo fa nella provincia, tra Tarbes e Pau. I maestri sono tutti per lo più di formazione razionalista e voltairiana e lui li affronta di petto, fino a un celebre scontro con il professore di Retorica, Gustave Hinstin. «La sua immaginazione si rivelò compiutamente in un discorso francese in cui aveva colto l’occasione per accumulare, con un terribile lusso di epiteti, le più spaventose immagini della morte: tutto un susseguirsi di ossa spezzate, viscere penzolanti, carni sanguinanti o ridotte in poltiglia». Così lo ricordò a distanza di molti anni un suo compagno di scuola, Lespes, in una delle pochissime testimonianze dirette sulla sua vita. Provò a far stampare anonimi, appena ventunenne, I Canti di Maldoror che l’editore, letti, rifiutò per paura della censura. E neppure con lo pseudonimo che lo rese celebre riuscì a farsi riconoscere in un ruolo letterario al quale ambiva con questo libro. Nell’aprile del 1870 a Parigi dà alle stampe anche le Poésies, un primo e un secondo fascicolo, con l’idea, come scrisse a un banchiere per ottenere i finanziamenti giusti per l’opera, che «i gemiti poetici di questo secolo non sono altro che sofismi schifosi» e che «cantare la noia, i dolori, le tristezze, le malinconie, la morte, l’ombra, il tetro, ecc. significa voler guardare ad ogni costo soltanto il lato puerile delle cose». E ce l’aveva con i Lamartine, Hugo e De Musset che allora tenevano banco. Morirà di lì a poco di una «febbre maligna», assolutamente ignorato dalla critica e da tutti, in circostanze misteriose, il 24 novembre 1870, all’alba della guerra franco-prussiana.
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La riscoperta della sua opera data attorno agli anni Venti del XX secolo, con i surrealisti per i quali Ducasse-Lautréamont diventa il primo sperimentatore dell’écriture automatique, ergendosi in tutta la sua demoniaca maestà ad arcangelo nero e misterioso oltre i confini del tempo. Impiegando gli strumenti della psicoanalisi Gaston Bachelard nel 1939 dedica a Lautréamont un ampio studio ora per fortuna riedito da Jaca Book (Lautréamont, 128 pagine, 16,00 euro), introdotto da Francesca Bonicalzi, il testo si avvale dei contributi critici di
Aldo Trione e Filippo Fimiani, dopo la prima edizione italiana del 1989 con Edizioni 10/17 di Salerno del rimpianto Gelsomino D’Ambrosio. Sono le pulsioni primordiali che agiscono negli Chants al centro dell’interesse dello studioso francese. Il «complesso della vita animale» che Bachelard rintraccia nella poetica ducassiana dell’aggressione permette così un’inedita rottura tra energia e scrittura. Attraverso una consapevole operazione catartica, Ducasse, secondo Bachelard, si libera della violenza repressa, indotta dall’ambiente sociale, e raggiunge inediti livelli di coscienza. Alla lettura bachelardiana risponde Blanchot con Lautréamont et Sade (in Italia nel 1974) e che sarà molto seguita dai giovani poeti anni Settanta, De Angelis e Conte nonché Roberto Carifi, poeti che andarono inizialmente riscoprendo l’anarchia e la libertà espressiva del poeta maudit ante litteram francese per poi raffredarsi al suo richiamo. Blanchot si soffermò in particolare sull’analisi dell’ossessione ducassiana della lucidità e approfondisce nello stesso tempo il debito di Ducasse nei confronti della sensibilità tardoromantica, di Baudelaire in particolare. Chants e Poésies sono considerati work in progress, espressioni di un processo contraddittorio ma sostanzialmente unitario, secondo una visione suggerita dallo stesso Lautréamont.
Sono sei I Canti di Maldoror che subito instaurano con il lettore un rapporto diretto. «Voglia il cielo che il lettore, reso ardito e momentanealemte feroce come ciò che legge» attacca il poeta stabilendo regole di un gioco alquanto costrittivo per il lettore e avvertendolo che nessuna sicurezza lo assisterà nell’esplorazione delle «paludi desolate di queste pagine oscure e avvelenate». Tema dominante è il Male («lettore, è forse l’odio che vuoi ch’io invochi all’inizio di quest’opera?») e Maldoror altri non è che un eroe del Male, nato buono ma travolto da istinti selvaggi che finalmente asseconda. Le strofe dei canti si susseguono indipendenti l’una dall’altra anche sul piano formale, tra piano andamento narrativo e prosa poetica. Così radicale in vita, sulla poesia di Isidore Ducasse ci sarà un lungo silenzio e quando viene ripresa ecco che si aprono accesi dibattiti. Un’opera su cui inevitabilmente quasi ci si divide e ci si schiera, non permettendo atteggiamenti indifferenti né parziali. Un’opera che mette a dura prova le categorie rassicuranti della razionalità e dell’immaginazione, del Bene e del Male, perché seguendo un itinerario e un metodo personalissimi, sperimenta gli estremi, attraversa le antinomie e giunge a superarle, istituendo un terreno avvenire, metaforico nel significato retorico del termine. In questo senso pochi mesi dopo la morte di Ducasse, Rimbaud scriverà: «La Poesia non ritmerà più l’azione; essa sarà in avanti».
Lettore, è forse l’odio che vuoi ch’io invochi all’inizio di quest’opera? E chi ti dice che non ne fiuterai a volontà le rosse esalazioni, immerso in voluttà innumerevoli, con le tue narici orgogliose, dilatate e secche, rovesciandoti sul ventre come uno squalo, nell’aria bella e nera, lentamente e maestosamente, come se tu capissi davvero l’importanza di quest’atto e l’importanza non minore del tuo legittimo appetito? Ti garantisco, o mostro, ch’esse rallegreranno i due buchi informi del tuo muso schifoso, a condizione però che prima t’impegni a respirare per tremila volte di seguito la coscienza maledetta dell’Eterno! Allora le tue narici, dilatate da un piacere ineffabile, da un’estasi immobile, non chiederanno niente di meglio allo spazio odoroso di profumi e d’incenso; saranno finalmente sazie di una felicità completa, come gli angeli che abitano nella magnificenza e nella pace dei gradevoli cieli. Lautréamont (da I Canti di Maldoror, I)
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il club di calliope SI PIANGE SOPRATTUTTO DI DOMENICA Si piange soprattutto di domenica davanti a certe palme altissime che sbandierano al vento del golfo dita verdi fiammanti. Ci si piega accosciati di lato, a piedi nudi sul pavimento di scaglie miste, freddo, delle case in affitto che ritenevo seriamente - e raccontavo contenesse alcuni diamanti ed altre gemme, e si vedeva bene da quei luccichii Organizzavo tutti gli altri bambini del palazzo, le loro piccole teste ben pettinate. Preparavo spedizioni, scavi… Rossella Tempesta
TUTTO SEMBRA INDICARE... LA DERIVA DEL TEMPO in libreria
di Nicola Vacca a poesia di Jordi Virallonga, professore ordinario di letteratura nell’Università di Barcellona e uno dei fondatori dell’Aula de Poesia, dispone un racconto spiazzante della realtà. La sua cifra è esistenziale e penetra nel tessuto dei giorni con un disincanto che costruisce geometrie drammatiche alle quali il lettore difficilmente potrà sottrarsi. La sua opera è poco conosciuta in Italia, ma è tradotta in molte lingue. Grazie alla sensibilità di Paolo Ruffilli, che da molti anni è impegnato nella scoperta di notevoli poeti stranieri, esce Tutto sembra indicare
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tragica è che non facciamo niente per esorcizzare le paure che ci dicono che il peggio deve ancora venire. Il poeta spagnolo mette il dito nella piaga delle amarezze quotidiane, indica con la crudeltà delle parole il frantumarsi della vita che naufraga nelle situazioni dell’assurdo: «Questo è un territorio senza uscita/ non regola la discarica né gli pesa il dolore, il guadagno vergognoso./ Non teme mai l’obbrobrio né svergogna/ coloro che essendo uguali ridono/ della legge, del giudice, del castigo./ Ma i diseredati ammirano soltanto/ chi li sfrutta a piacimento./
UN POPOLO DI POETI Ora canuto e senescente stretto magone di verde età all’obsoleto petto, sarà l’immemore oceano il solo scarto alla contesa Il vento che morbido pettina il grano conforta sbiadite rimembranze di un lugubre sguardo allorché dalla rugosa palpebra di vecchio una goccia di rugiada spronò le pellaginose grinze Il romanzato tempo si ripete, coventrizza dolci malinconici timori: e sono ancora io, incerto e spaurito convinto a sollevare il dolore dalla polvere Imparai il mondo e la virtù di stupirmi altresì chiaro scuri sentieri di un sogno presto svezzato al congedo Celere si trascende l’infinito dacché spio dietro scoscese cataratte l’erba come un logo d’antica amicizia talvolta malizia talora sinuosa gaiezza Rimpianti meandri di dotte mura scolastiche, premurosi viaggi passati dei nonni con empatiche saggezze dei miei ad allietare lancinanti transiti di nugoli Cupe sere del cuore camuffate dall’immenso celeste; mai provai a contare le stelle, pensando a misteri e domande mai risposte Tutto fu, travolto ineluttabilmente dall’ingiurioso scorrere ma rimarrà solo mio; non le denari, come una piuma che carezza l’anima La mente del cuore (Una foto dell’anima) Jacopo Curi
Esce una raccolta del poeta spagnolo Jordi Virallonga. Versi taglienti sul frantumarsi della vita nell’assurdo della contemporaneità. Un racconto che riguarda tutti (Edizioni del Leone, 69 pagine, 11,00 euro).Versi taglienti che feriscono il tempo rappresentato nella sua deriva più disperata. La parola è concreta, dice quello che vede, rappresenta il tramonto della contemporaneità. A Virallonga non sfugge il sonno della ragione nel quale è precipitato l’essere umano che sembra aver smarrito l’orientamento. I suoi versi si interrogano sulla perdita del senso civile, denunciano l’indecenza in cui sono caduti i rapporti umani. Questo non basta per calmare l’ansia che si fa strada nelle coscienze sempre più insensibili di fronte al vuoto che avanza inesorabile per portarsi via tutto.Tutto sembra indicare che siamo consapevoli dell’esistenza del terrore che vive e lotta in mezzo a noi. La cosa più
D’altra parte è così./ Qui nessuno fa niente./ E tu nemmeno». Una poesia che fa i conti con la consapevolezza della fragilità che accade, che si porta dietro le parole ferite di un racconto di cui tutti facciamo parte. «La chiave di lettura della poesia di Virallonga - scrive Paolo Ruffilli - è dunque il percorso di una voce che insegue, mentre la vive con intensità, una definizione della vita con le sue ricadute continue nell’ossessivo. Quella vita che in mille rivoli e frammenti continuamente scivola via, scorre inafferrabile eppure è tenuta, provata per qualche attimo». Il poeta attraversa l’esperienza intingendo la penna nel vero, dove appunto tutto sembra indicare che non risolveremo mai certe questioni in sospeso.
Ho sentito il freddo E ho visto dove nasce Il cielo, mi ha guidato La pietra levigata Dal cuore, e sono risalito Nel giorno delle allodole.
Angelo Leoconte
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
arola di Alexander Calder, con dolce ironia: «Tutti pensano che il monumentale nasca, emerga dalla terra, nessuno crede che possa piovere, scendere dal cielo». Come lui stesso in realtà riuscì presto a dimostrare, al mondo diffidente delle avanguardie. Sacre parole, soprattutto per chi torna dal bailamme kitsch e monumentale di una città consumistica, in lievito affrettato e disordinato, come Pechino e dove non soltanto i goffi e scimmiottanti grattacieli, così prevedibilmente nouveaux riches, e i supermercati rigurgitanti di schifezze, ma soprattutto l’arte risulta come preoccupantemente afflitta e affetta da un gigantismo inquietante. Quasi tutto fosse come enfiato da un gradassismo imperialista, gonfiato di vitamine mostruose, gridato di volgarità, deforme, assalito da un diffuso e compiaciuto e ben pasciuto talidomine del gusto. Ebbene, magari benedetti da una disorientente ubriacatura da jet lag, non c’è nulla di più rilassante e rigererante che tornarsene ancora una volta a ripercorrere la bellissima mostra, dedicata allo scultore americano, al romano Palazzo delle Esposizioni (aperta fino a domani, ndr), e aggirarsi tra le sue strutture lievi e sussurrate, per domandarsi appunto che cosa mai di mostruoso sia nel frattempo capitato al mondo imputridito dell’estetica. La qualità di queste recenti mostre al Palazzo delle Esposizioni, vedi anche quella di Rothko, e a differenza di quella milanese, più scompaginata, di Hopper, è proprio quella di ben riassumere l’esordio e i punti di partenza di artisti in fondo non così ben conosciuti da noi (nonostante l’interesse pionieristico di un critico attento alla scultura come Carandente, recentemente scomparso e rimpianto, e presente in catalogo con un racconto d’esperienza comune: l’avventura di Spoleto, ecc.), ma anche di concedere una dimostrazione fattiva e ben concertata delle loro opere maggiori (in questo caso anche poco viste, se non rarissime). E soprattutto di lasciare dietro di sé una «scia» editoriale, di studi e documentazioni, che aiutano a meglio penetrare il personaggio, in consonanza con la poetica delle scie d’ombre e di movimenti aleatori, che costituiscono l’impalcaturabase della sua novità di scultore. Tra la vecchia lezione interrotta di Rodin e la crescente importanza d’un «rovinista» come Giacometti. Stiamo parlando del notevole volume Motta, uscito per l’occasione, con saggi del nipote Alexander S. C. Rower e altri saggisti americani (ma che dramma dover cercare i titolo delle opere!) e anche del piccolo quanto prezioso volumetto Abscondita, che racco-
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Calder
arti
che lo attrae, sinteticamente: la gobba di cammello, il collo della papera, il lazzo d’una scimmia, che salta nei nostri occhi. È come una scrittura abbreviata ed emblematica, un timbro che lo renderà poi subito riconoscibile, se non inconfondibile (certe cose possono davvero far pensare a Mirò). Il paraffo arrotato nella levità libera dell’aria, che disfa la solidità della materia ferrea, ma simula subito una sagoma riconoscibile e affabile, che via via diventerà sempre più astratta e «non-oggettiva». Senza però mai sganciarsi dalla linea sospesa e disfatta della realtà, dal filo teso del virtuosismo funambolico. La poetica del povero ma invitto acrobata, sospeso all’asta immaginaria dell’aria nuda, universo rilkiano del saltimbanco, con la sua famiglia circense, cara anche a Picasso, a ToulouseLautrec, ad Apollinaire e a Chaplin, che da tutti loro era considerato un maestro. Cioè la poetica del gesto, del frizzo nell’aria, del vento e del soffio d’un infante qualunque, che può modificare la solidità perentoria e morta, imbalsamata, del marmo accademico. Non a caso, amico di Duchamp (che gli regalò la nomenclatura e la definizione dei suoi Mobiles) e influenzato da Schwitters, Calder emerge dalla poetica nichilista e dadaista dell’objet trouvé, dello scarto di pattumiera da riscattare. Legandosi alla teoria del caso e dell’aleatorietà, anche musicale (il ritratto in fil di ferro di Edgar Varèse e la musica di Cage, scelta insieme a quella di Applebum, per il film di Hans Richter, I sogni che si possono comprare). Si guardi quell’opera rarissima che è Sfera pesante e sfera più leggera (se la memoria non c’inganna, ma il catalogo non aiuta a perfezionare il ricordo). È come un pendolo di rabdomante, che casualmente va a pescare e toccare il suo destino spettacolare, urtando qui una vecchia bottiglia di clochard abbandonata, là una cassetta usurata da supermercato, qui una lattina arruginita. Ogni colpo è un’alea, ma anche un rumore inaspettato, uno spettacolo. Non stupisce che un grande filosofo fenomenologo, prima che esistenzialista, come Sartre, si sia interessato a Calder e abbia scritto: «Calder non suggerisce nulla: cattura dei movimenti reali, vivi e li plasma. I suoi mobiles non suggeriscono nulla, non rimandano a nulla se non a se stessi. Esistono e basta. Sono assoluti».
il saltimbanco dell’assoluto di Marco Vallora
glie alcuni dei saggetti illuminanti e dei pensieri aforismatici di questo Scultore dell’Aria, come ben riassume il titolo della mostra. Che parte come bambino prodigio, figlio di artisti, subito capace di piegare il fil di ferro e ottenere delle fisionomie riconoscibili, soprattutto nel mondo divertito e complice degli animali da cortile. Ma è la sagoma pura
Alexander Calder, a cura di A.S.C. Rower, Motta Editore, 264 pagine, 49,00 euro
diario culinario
Anguilla alla brace e letteratura a Ferrara di Francesco Capozza erché prendere il nome da Steinbeck avendo a disposizione il formidabile titolista Ariosto ed eventualmente anche Antonioni, Bassani, De Pisis? Steinbeck fa venire in mente Uomini e topi e non è saggio che un ristorante evochi, pur se in modo indiretto, sorci, zoccole, chiaviche e pantegane. Quel fantastico giovedì, a Ferrara, giustamente viene definito ristorante: tutto è minuscolo e grazioso, caldo per via del legno, comodo per via delle poltroncine. Ci sono due salette di cui la prima che è più bella e meno piccola è riservata ai fumatori. Il primo piatto scritto nel menù fa venire voglia di fuggire lontano: «sashimi di branzino di Valle e salmone con tartare di tonno rosso, scampetti, verdure alla soia
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e wasabi». Viene da citare Guido Barilla: «i nostri cuochi invece di esaltare le nostre tradizioni preferiscono scimmiottare le tendenze straniere. Purtroppo è più facile mettere lo zenzero ovunque, che studiare e lavorare sodo». Per fortuna il resto della carta è meno scimmiottante e l’umore migliora. Arriva una deliziosa crema di finocchi con aglio e olio extra vergine, dove l’olio di Brisighella fa perdonare il terribile piatto quadrato (una giapponeseria vista dieci anni fa da Rinascente, dieci mesi fa da Coin, dieci giorni fa alla Upim). Arrivano invece - stavolta in bellissimi piatti «vecchio Ginori» - gamberoni e polpo alla veneziana con maionese alle acciughe e capperi; anguilla cotta alla griglia e marinata da noi (cioè loro); crostata di cardi gobbi e baccalà. L’anguilla in particolare è notevole, la ma-
rinatura strepitosa. Purtroppo l’anguilla è inabbinabile e l’aceto è il peggior nemico del vino per cui bisogna ricorrere a qualcosa di molto combattivo, ovvero al Fontana frizzante. Meno male che lo servono al bicchiere cosicché finita l’anguilla è finito anche il Fontana e si può passare a vini meno ruspanti (sempre al bicchiere c’è uno dei Chianti più autentici e bevibili in circolazione: il Castiglioni dei marchesi de’ Frescobaldi). La zuppa di farro e verdure è insaporita con l’osso di prosciutto patanegra (altra strizzatina d’occhi esterofila cui si poteva tranquillamente fare a meno optando per un osso di suino locale). Comunque è buona. Meglio ancora gli gnocchetti di patate rosse di Bologna con cuori di carciofo e pecorino di fossa. Che bel nome ha la torta tenerina, ma sarà per la prossima volta.
In conclusione si possono sollevare dubbi su tanti aspetti, ma in sala sono gentili e in cucina ci dev’essere qualcuno bravo. Una volta usciti si trova la multa sul parabrezza della macchina, che rabbia, da forestieri mai avremmo parcheggiato in via della Ghiaia se non fossimo stati convinti che fosse lecito farlo (mettere cartelli più chiari no?). Poi a casa sfogliando Luoghi letterari di Giampaolo Dossena (riedito ora da Sylvestre Bonnard), libro di erudizione portentosa, impressionante, si scopre che in quella via c’era la casa del dottor Corcos, un protagonista delle Cinque storie ferraresi di Bassani. Dentro le mura di una città non si è mai soli e la letteratura è sempre una gran consolazione.
Quel fantastico giovedì, via Castelnuovo 9, Ferrara, tel. 0532.760570
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architettura
Giovani progettisti crescono. E l’Italia non se ne accorge accesso delle nuove generazioni al mercato del progetto di architettura si presenta in Italia particolarmente difficile. Si tratta di un’aporia che è stata condivisa anche da altri paesi d’Europa, che tuttavia tempestivamente hanno operato per dare risposte concrete, costruendo una cultura del progetto capace di polarizzare il consenso dei più. In particolare la Francia ha mostrato grande sensibilità a questo tema e fin dagli anni Settanta del secolo scorso ha promosso un’iniziativa a carattere pubblico e ufficiale, capace di segnalare e promuovere giovani e gruppi di giovani progettisti, al di sotto dei 35 anni, francesi e non, che dimostrassero interessanti potenzialità creative. Si tratta di una pubblicazione a cadenza biennale, intitolata Album, Premio Najap, acronimo di Nouveaux Albums des Jeunes Architectes et des Paysagistes, nella quale vengono pubblicate alcune decine di progetti e costruzioni di giovani professionisti, selezionati da una giuria nominata dallo Stato. La segnalazione sull’Album, corredata da foto e disegni, ora esposti in mostra, vale come titolo di merito, e costituisce una corsia preferenziale per l’ammissione ai concorsi nazionali. All’ultima edizione dell’Album è dedicata la sobria, quanto interessantissima mostra inaugurata il 5 febbraio alla Casa dell’Architettura a Roma,
L’
teatro
di Marzia Marandola intitolata Desirama Giovani architetti e paesaggisti. La sua apertura è stata introdotta da una tavola rotonda che ha visto riuniti architetti di generazioni diverse: da Sandro Anselmi, celebre architetto romano dalla
Gli interventi, pur con argomenti diversi, hanno concordemente messo a fuoco l’emergenza giovani nell’architettura italiana e la necessità di promuovere, a livello istituzionale, iniziative che offrano ai progettisti esordien-
variegata esperienza internazionale, a Francis Soler, presidente della giuria Premio Najap del 2007-2008, a Luca Montuori, giovane e talentoso professionista della capitale, alla giovanissima Ludovica Di Falco del gruppo italiano Scape, pubblicato sull’Album, ad Alfonso Femia, del promettente studio genovese 5+1AA, che ebbe anni fa pubblicazione sull’Album.
ti un’efficace vetrina nazionale e internazionale. Naturalmente tale iniziativa deve essere subordinata a una radicale modifica della legge Merloni che, di fatto, discrimina i piccoli studi e gli esordienti, privilegiando in primo luogo il volume di affari degli aspiranti vincitori dei concorsi pubblici. Si tratta di una norma non solo ottusa e, di fatto iniqua, ma decisamente dannosa
per la crescita della cultura architettonica nazionale, ridotta in pochi decenni a fanalino di coda, anche rispetto a paesi molto più piccoli, dotati di minor popolazione e tradizione specifica, come l’Olanda o il Portogallo. La mostra è promossa dal Ministero della Cultura e della Comunicazione
francese ed è stata allestita in precedenza alla Cité de l’Architecture et du Patrimoine di Chaillot, a Parigi; dopo Roma continuerà il suo itinerario espositivo in altre capitali europee.
Desirama, Jeunes architectes et paysagistes en France, Roma, Casa dell’Architettura, piazza Manfredo Fanti 47, fino al 25 febbraio
Una bambola nel palazzo dell’inconscio
a in scena al Colosseo Nuovo Teatro di Roma Doll is mine di Katia Ippaso che ha fatto sue le suggestioni di La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata e Sonno profondo di Banana Yoshimoto, composti rispettivamente nel 1960 e 1989. Una serata unica (già presentata in forma di lettura nel novembre 2009 al Divino Jazz club) che avrà luogo il 15 febbraio alle ore 21. Cinzia Villari, per cui il testo è stato scritto, abita in scena il mondo di un’assistente del sonno di professione. «Perché lei è una bambola, perché la bambola è mia» questo è il sentimento che i suoi clienti nutrono verso la protagonista del racconto. Tutto avviene nel palazzo delle belle addormentate, luogo in cui i nipponici sono soliti consegnare i lori corpi a Morfeo assistiti da dolci fanciulle. Shiori sorveglia quindi i loro involucri terrestri mentre loro si lasciano possedere ognuno dai propri mostri. Nel giorno di riposo, dorme e spia la dirimpettaia. Ci troviamo idealmente in una stanza con un grande letto dove «incollare i sogni cattivi» perché «durante la notte il corpo è esposto e vi entrano i morti». Un’immagine forte di un altrove sconvolgente in cui si manifestano i fantasmi dell’inconscio. Una scrittura a effetto, che apre squarci nel racconto come se nulla fosse, quella della scrittrice e giornalista teatrale siciliana (il cui ultimo libro Le voci di Santiago. Dall’Italia al Cile lungo la rotta del teatro è stato presentato lo scorso giugno al Teatro Valle). Un monologo che fa planare gli incisi teatrali su una carezzevole piattaforma poetica molto seducente in grado di restituire pienamente il gusto e la sensibilità orientali. Esile, delicatissima e avvincente, Cinzia Villari orna-
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di Enrica Rosso
bestiario umano di cui è testimone convogliando in una gestualità minima, empatica, i nodi emozionali del racconto. La assedia il commento musicale, quasi un continuo estorcere emozioni, eseguito dal vivo da Michele Villari (sassofono e clarinetto) e Roberto Palermo (fisarmonica midi). Il tutto supportato da Lorenzo Profita che firma la regia della mise en espace. Prodotto da Vitamina T in collaborazione con Le onde, Doll is mine è la terza espressione di un progetto più ampio che va sotto il titolo Famiglia: un trittico di scritture per il teatro sul Giappone contemporaneo a opera della stessa Ippaso con Cinzia Villari e Marco Andreoli. Il primo frutto di questa collaborazione esplora la realtà degli Hikikomori, gli adolescenti inquieti, mentre il secondo sonda il fenomeno dei cosiddetti «evaporati», cioè i numerosissimi giapponesi scomparsi (si dice nella foresta dei suicidi), dopo essere rimasti senza lavoro, piccoli uomini disillusi dismessi dal gioco, in quella fase della vita in cui le forze iniziano a diminuire. Particolare di pregio: sarà possibile assistere alla serata in streaming connettendosi al sito www.etheatre.it. Da un’idea progetto di Simone Carella realizzata con Paolo Grassini e Ulisse Benedetti www.e-theatre.it è un portale interattivo sul web, interamente dedicato a teatro, musica, danza, poesia e arte, nato con l’intento di creare un archivio in progress accessibile a tutti. Se non abitate a Roma potrete quindi sperimentare il brivido del teatro in diretta.
ta di un bianco kimono anni Trenta, sospesa nello spazio di un’immaginaria gabbia sopraelevata, come fosse un carillon, compila il catalogo del
Doll is mine, di Katia Ippaso, Colosseo Nuovo Teatro di Roma, 15 febbraio ore 21, info. 06-7004932; serata in streaming su www.e-theatre.it
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i misteri dell’universo
stata recentemente comunicata una scoperta geologica del tutto inattesa e con conseguenze assai importanti in relazione sia all’evoluzione del clima sia alla comprensione di fatti accaduti nel passato a memoria di uomo.Tale scoperta, conosciuta attraverso il sito gestito da Maurizio Blondet, che di solito si occupa di questioni politiche e sociali e non scientifiche, riguarda l’esistenza di almeno una decina di vulcani attivi in quello che negli atlanti dei miei tempi si chiamava Oceano Glaciale Artico. Sono vulcani che emettono magma in grande quantità sotto i ghiacci. Il magma provoca l’evaporazione dell’acqua con cui viene a contatto, con la formazione addirittura di un tipo di nuvole sottomarine.Tali nuvole, a temperatura piuttosto alta, venendo a contatto con la parte inferiore dei ghiacci, ne iniziano la fusione e quindi contribuiscono ad assottigliare la copertura dei ghiacci artici.
È
Pur essendo il fenomeno scoperto da poco, e non essendo certo se si tratti di un evento recente (nel qual caso non è chiaro cosa lo avrebbe provocato), è naturale pensare che esso possa costituire una delle cause dello scioglimento evidente dei ghiacci artici. Il cosiddetto passaggio di Nord-ovest, che permetterebbe alle navi provenienti dall’Atlantico di raggiungere il Pacifico seguendo le coste settentrionali dal Canada, è ormai parzialmente libero e si prevede sarà utilizzabile nel periodo estivo di qui a una quindicina di anni. Con riduzione del percorso rispetto a quello attuale via canale di Panama, ma con aumentato inquinamento di quelle terre settentrionali ancora virtualmente incontaminate. Che esistano vulcani sottomarini, o più in generale fessurazioni del fondo ocea-
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ai confini della realtà
di Emilio Spedicato nico da cui può uscire il magma, è ben noto da decenni, avendo gli oceanografi mappato le grandi dorsali oceaniche, estese per circa 60 mila km, situate generalmente nel mezzo degli oceani. La crosta oceanica differisce da quella continentale in vari aspetti, fra cui l’età delle rocce non superiore a circa 200 milioni di anni e lo spessore, generalmente di 34 km contro l’ottantina della crosta continentale. Nelle dorsali esistono molte minibocche vulcaniche e il magma fuoriesce sia per effetto degli spostamenti delle placche tettoniche in cui la superficie terrestre è divisa, sia per eventi dovuti a terremoti o altre instabilità.Tale fuoriuscita ha effetti sulla temperatura delle acque, assai moderati nella situazione presente in cui piccole quantità di magma sono emesse, e contribuisce ad arric-
gradi, capace quindi di fare evaporare milioni di km cubici di acqua. Conseguirebbero in tal caso piogge intense, anche pari a vari metri di acqua precipitata per metro quadro. Piogge anche caratterizzate da temperature abbastanza elevate. Un evento di questo tipo potrebbe dar luogo alla terminazione di un’era glaciale, sciogliendo i ghiacci, riducendo l’albedo, e aumentando la temperatura dell’atmosfera. Effetto quest’ultimo che, in caso di temperature superiori ai 60 gradi con durata di molti giorni, porterebbe inevitabilmente alla scomparsa di esseri viventi, particolarmente di quelli di corporatura abbastanza grande, incapaci di disperdere, anche per l’elevata umidità, il calore assorbito dall’ambiente. Quanto sopra descritto potrebbe essere avvenuto alla fine dell’ultima gla-
Sono una decina i vulcani attivi che emettono una grande quantità di magma sotto l’Oceano Glaciale Artico. Provocano l’evaporazione dell’acqua assottigliando la copertura dei ghiacci. Una scoperta inattesa con conseguenze importanti sull’evoluzione del clima. Ma anche sulla comprensione di fenomeni antichi chire l’acqua in profondità di sostanze nutritive utilizzate dalla grande varietà, un tempo inattesa, di specie viventi scoperte sino alle più grandi profondità, basate su un metabolismo indipendente dalla luce solare. Nei grandi eventi catastrofici del passato, la quantità di magma emesso potrebbe essere stata di vari ordini di grandezza superiore ai livelli di oggi, corrispondendo anche a milioni di km cubici di materiale a temperature vicine ai mille
ciazione. La causa della forte emissione di magma potrebbe essere stata o un grande impatto oceanico - di cui però non si hanno tracce al momento, ma sappiamo come la geologia sia lungi dall’avere una informazione completa sul nostro pianeta - oppure il passaggio ravvicinato di un grande corpo, con dimensioni confrontabili con quelle della terra - in quanto la deformazione che il nostro pianeta subirebbe per effetti di marea gravita-
zionale darebbe luogo a effetti simili di emissione magmatica lungo le fratturazioni della crosta oceanica.
Fuoco sotto l’acqua si ha anche quando un vulcano sottomarino entra in eruzione, oppure la caldera di un vulcano in un’isola sprofonda nell’oceano, dopo lo svuotamento della camera magmatica. Questo fenomeno è avvenuto verso il 1630 a.C. a termine dell’eruzione del vulcano dell’isola di Thera-Santorini. Si è spesso ipotizzato che questo evento sia stato la causa delle dieci piaghe d’Egitto prima dell’Esodo. Tuttavia questa ipotesi secondo chi scrive non è corretta, essendo invece l’evento Thera legato al poco ricordato diluvio di Inaco, corrispondente ai sette anni di carestia in Egitto, quando era visir Giuseppe figlio di Giacobbe. L’ Esodo, secondo chi scrive, è invece da collegarsi a un evento ben più clamoroso, ovvero l’eruzione del centinaio di vulcani della depressione di Dancalia, molti allora coperti di acqua, e all’esplosione di Fetonte, come suggerito da un dimenticato passo di Paolo Orosio, collaboratore di Sant’Agostino. Un evento più recente è quello di fine Ottocento legato all’esplosione del vulcano Krakatoa, notevole per averci dato evidenza che le pomici nel momento del contatto con l’acqua marina assumono il colore rosso vermiglio. E il nome Mar Rosso dato all’Oceano Indiano ha certamente a che vedere con queste pomici rosso vermiglio, costituenti grandi isole galleggianti, e non invece, come affermato da biblisti ignoranti di geografia e vulcanologia, dalla presenza di canne lungo i suoi litorali. Fenomeno non solo, devo dire, ignoto ai biblisti, ma alla maggioranza dei vulcanologi da me interpellati fra il Vesuvio e l’Islanda, tutti ignoranti degli atti di un certo Pacific Geology Meeting del 1929…