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mobydick UN CANTO ALLA VITA di Anselma Dell’Olio e vi dicono che Lo scafandro e la farfalla, candidato all’Oscar e vincitore per la regia al Festival di Cannes, è senz’altro meritevole ma «deprimente», non credeteci. Il tema, l’improvvisa paralisi totale di un uomo di 43 anni (lo scafandro del titolo), unita alla perfetta lucidità della mente libera di volare (la farfalla) ma non di parlare, è di quelli temibili. Se non è un film che provoca mal di testa e di vivere, è merito del regista Julian Schnabel. Pittore e scultore di fama mondiale, dal suo esordio nella regia nel 1996 con Basquiat, seguito da Prima che sia notte (2000,) Schnabel sta sdoganando da solo il

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9 771827 881301

ISSN 1827-8817 80216

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

L’origine della felicità di Rino Fisichella Il sax prodigio di Cafiso di Adriano Mazzoletti

film biografico. Bollato da Hollywood con il soprannome denigratorio biopic, è considerato un genere inferiore, che dà poche soddisfazioni sia sul piano artistico sia al botteghino. Il primo film di Schnabel, già ottimo, è la storia di Jean-Michel Basquiat, graffiti artist di strada nero diventato star osannata e coccolata da galleristi, critici e colleghi, morto di eroina a 27 anni. Prima che sia notte (Leone per la regia alla Mostra di Venezia) è tratto dall’omonima autobiografia del poeta cubano Reinaldo Arenas, perseguitato, censurato e imprigionato dal dittator e «umanista» Fidel Castro.

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NELLE PAGINE DI POESIA

La scommessa (vincente) di Giuseppe Conte di Francesco Napoli

“Lo scafandro e la farfalla”, il film di Schnabel dedicato alla paralisi del giornalista francese Bauby, fa riflettere sul nostro modo di trattare l’esistenza come merce scontata

I numeri e il caso… L’esordio di Giordano di Maria Pia Ammirati Grandi europei: Eugenio di Savoia di Franco Cardini

La scena dell’arte vista da Mulas di Marco Vallora


memorie dallo

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CONTROCANTO

Schnabel? Un pessimo pittore buon regista per caso di Marco Vallora o so, non è politicamente corretto parlare senza aver visto (solo Flaiano osava dire: «non l’ho letto ma non mi piace»). Può darsi benissimo che quest’ultimo film mi piacerà pure, come apprezzai il precedente, sul perseguitato cubano. Ma trattandosi d’un film di Schnabel mi venne e verrà istintivo pensare: «se è bello non può essere suo» (ci son molti indizi a suffragare quest’ipotesi). Si sarà trovato un «negro» sapiente, per evitare quei grossolani solecismi, molto, troppo-Schnabel, del primo, insopportabile film d’esordio su Basquiat: tutt’un luogo comune, alla Bouvard e Pécuchet, sugli artisti maudits e bohème, col giovane meticcio che si beve dalla vetrina il ricco Warhol e sogna: «ah se potessi essere come lui» e la fiaba, tac, si compie. Solo quel

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segue dalla prima

Ha anche il merito di aver lanciato Javier Bardem, nel ruolo del protagonista, sul circuito internazionale. In Lo scafandro e la farfalla, Schnabel fa un’operazione magistrale di immedesimazione con Jean-Dominique Bauby, redattore capo della rivista Elle, falciato all’apice di una vita zeppa di glamour, di successo, di donne amate e lasciate con leggerezza, di ambizioni letterarie, ironico e sarcastico. Il film inizia con le immagini sfocate, traballanti e sbilenche che arrivano agli occhi di un uomo che non sa ancora dov’è né cosa gli sia successo. (Non a caso una delle nomination per l’Oscar è per la fotografia di Janusz Kaminski). Il neurologo spiega a Bauby dove si trova e comincia a fargli domande, come il nome dei suoi figli. Bauby risponde, ma solo noi nel pubblico lo sentiamo, perché siamo dentro la sua testa. Stabilito che il paziente è vigile e con le facoltà mentali intatte, gli comunicano che soffre di locked-insyndrome: è presente a se stesso e agli altri, ma la sola parte del corpo che è in grado di muovere è la palpebra sinistra. Si alternano scene della vita in ospedale nel presente, con quelle di Jean-Dominique (lo scattante, ipercinetico Mathieu Almaric) nella sua vita precedente di sensuale bon vivant, di scrittore in ascesa con un contratto per scrivere la versione femminile del capolavoro di Alexandre Dumas Il Conte di Montecristo. In uno dei flashback, torniamo all’otto dicembre del 1995, quando Bauby, alla guida della sua fuoriserie decappottabile accanto al figlio Théophile, si accascia sul volante, colpito

scafandro

pessimo pittore che è Schnabel, miracolato lui sì da un mercato finto come una fiaba hollywoodiana, può credere che le cose vadano così. Del resto lui crede d’essere ancora all’avanguardia, perché spesso va in società, convinto di sconvolgere, vestito di sole sneakers e accappatoio. Forse perché pensa che il suo bagno sia il baricentro dell’umanità à la page e iper-pagata. Certo, pure i dadaisti uscivano in pigiama, e Lacan pare girasse in pelliccia e calzamaglia carne, ed è pur vero che Fontana e Sottsass si fecero «beccare» da Mulas in uno scatto con pelliccette imperdonabili. Ma era pur sempre un servizio momentaneo per Vogue. Il cinico Schnabel crede d’esser giunto al top con la ciniglia del solo accappatoio, come quei clienti che sfilano per un attimo nelle hall degli hotel di lusso, emergendo dall’inferno delle saune. Il bello, o insopportabile, è che Schnabel dipinge come se ragionasse in accappatoio, col solo alibi assolutorio-categoriale di fare bad painting, cioè cattiva pittura, da manuale. Ma è, la sua, semplice cattiva pittura di scarto, pompierismo marcito. Sì, pessimo, non c’è altra parola. E incominciano a pensarla così in abbastanza, quelli che vaghissimamente capiscono ancora qualcosa e hanno il coraggio di osare pubblicamente, nonostante la dittatura delle gallerie collaborazioniste del peggio (votatissimo come il peggiore dell’anno, nella graduatoria del Giornale dell’Arte). Gli altri pecorari della critica (nemmeno più pecoroni) acconsentono comunque e sfacciatemente a tutto quanto imbandisce tristemente il mercato, sperando d’arraffare qualche buccia. Ovvio che veleggi alto nelle stelle-stalle delle aste, con quel glamour pacchiano da rivista patinata, quel gigantismno esasperato che fa subito loft, quel giochino scaduto di «dipingere» con i piatti rotti. Schnabel è una caricatura d’artista, che crede di vivere in un filmaccio alla Basquiat e annaffia mostre e musei con pessime metrature di teleri ubriachi, sgrammaticati e approssimativi. Certo, direte, ma che si trovi un «negro» anche per la pittura. Il guaio è che forse si considera, almeno lui, un Gran Pittore!

all’improvviso da un «incidente cerebro vascolare». «Strano - dice il neurologo lei non fuma e beve poco». Schnabel ha l’astuzia di rivelarci un poco alla volta, com’è successo per il paziente stesso, il corpo contratto e il viso irrigidito in una smorfia, colpo durassimo per un uomo che ha passato la vita a cercare, a impaginare e a sedurre la bellezza. «Sembro qualcosa uscito dalla formalina», commenta Bauby. La geniale sceneggiatura rivela il carattere di un uomo orgoglioso, ironico ed egoista. Arriva in visita un suo amico, Roussin (Niels Arestrup), che gli provoca un complesso di colpa mostruoso. Anni prima Bauby aveva ceduto il suo posto in aereo a Roussin, che in seguito a un dirottamento è preso in ostaggio a Beirut da terroristi per più di quattro anni. Bauby non era mai andato a trovarlo al suo ritorno, mentre Roussin si precipita a infondergli coraggio e a trasmettergli le lezioni di sopravvivenza imparate a caro prezzo nella sua prigionia. Caratteristica del personaggio è la sua reazione all’annuncio dell’arrivo di sua moglie. «Non è mia moglie - precisa Bauby - è la madre dei miei figli, Céline». Lui l’ha mollata senza rimpianti, ma è Céline che lo viene a trovare, che gli porta i figli e i fiori e lo spinge sulla spiaggia in carrozzella. In una scena che contiene tutto il masochismo di cui è capace l’amore respinto che non muore, Céline gli tiene la cornetta del telefono perché possa sentire la voce della donna che lui continua ad amare, e che non ha il coraggio di venirlo a trovare perché non vuole vederlo «in quelle condizioni». Forse per questo viene voglia di applaudire quando l’anzia-

no padre (Max von Sydow), che Bauby rade con affetto filiale durante quello che sarà il loro ultimo incontro, dice: «Avere un’amante non è una scusa per abbandonare la madre dei tuoi figli. Il mondo ha smarrito i valori». Due momenti «minori» provocano un’adesione totale nello spettatore. Il primo riguarda la tv, unico passatempo concesso a JeanDominique: mentre sta guardando un programma che gli piace, un infermiere distrattamente la spegne. Lui può solo subire, urlando il suo muto «No!» di protesta. Poi c’è la domenica, le maledette domeniche senza visite, con il personale ridotto, il silenzio come unico compagno. E tutto il tempo per pentirsi di non aver amato abbastanza. Due splendide donne si occupano delle sue terapie e il tombeur des femmes pensa «Non è giusto!». L’ortofonista (Marie Josée-Croze) inventa il codice che gli permetterà di comunicare. Un alfabeto particolare organizza le lettere secondo la loro frequenza d’uso in francese. Concordato che un battito di ciglia è «sì», due «no», lei gli legge le lettere sempre nello stesso ordine e il paziente batte il ciglio alla lettera desiderata. Con questo sistema in 14 mesi scrive l’omonimo libro, un best-seller. Due mesi dopo la pubblicazione, Bauby muore. Il film è feroce, spiritoso ed emozionante, mai morboso. La paralisi esteriore libera la fantasia dell’infermo in un susseguirsi di sensazioni espresse in immagini sorprendenti da Schnabel, che è prima di tutto un artista visivo. Ne esce un canto agli infiniti splendori della vita, che noi ancora integri trattiamo come merce scontata.

MOBY DICK e di cronach di Ferdinando Adornato

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BENE COMUNE ene comune: non potrei trovare termine migliore per dare seguito alla voce «antropologia», con la quale si è dato inizio a questo sillabario. Bene comune è un concetto fondamentale per la dottrina sociale della Chiesa, ma nello stesso tempo rappresenta un punto di confronto ineliminabile per il giudizio sull’azione politica dello Stato e delle sue Istituzioni. Nel caso del bene comune - come di diverse altre tematiche nell’ordine culturale, politico e sociale - il concetto pur essendo proprio del pensiero cristiano affonda le sue origini nel pensiero antico e in questo caso nella filosofia di Aristotele. Nella sua Politica egli sosteneva che ogni comunità si costituisce sempre in vista di un bene superiore che è dato dalla costruzione della polis. Sarà Tommaso d’Aquino che trasformerà in modo originale il pensiero di Aristotele, portando il bene comune oltre la sfera del bene della comunità politica per indirizzarlo, anzitutto, alla sfera personale in relazione con la felicità di tutti. Se si vuole, intorno al tema del bene comune si coniugano molte altre espressioni che stanno alla base della società e della comprensione dello Stato moderno quali: la giustizia, lo sviluppo economico, la solidarietà, la democrazia, la pace… In una parola, il bene comune è nello

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stesso tempo un concetto fondamentale e complesso. Da una parte, segna il fondamento su cui poter costruire una vita sociale che fa del progresso e della partecipazione di tutti i cittadini l’anima del proprio agire; dall’altra, proprio intorno a esso si sviluppano una serie di ulteriori accentuazioni che solo nella loro articolazione e interdipendenza formano un sistema di vita realmente democratico.

Intorno a questo concetto, proprio del pensiero cristiano ma nato con Aristotele, ruotano le fondamenta della società e dello Stato moderno: giustizia, sviluppo economico, solidarietà, democrazia, pace…

Invocare il proprio interesse individuale, prescindendo dal fatto che si appartiene a una società, vuol dire non integrare se stessi nelle relazioni che stanno alla base dell’identità personale. Vivere per gli altri aiuta a comprendere il senso della vita come amore

Giovanni Paolo II che ne sono un coerente sviluppo. La riflessione sull’universale distribuzione dei beni parte dal presupposto che è urgente prendere consapevolezza dell’interdipendenza tra i popoli e gli Stati; che esiste, volente o nolente, un rapporto tale da formare una sola famiglia umana e che solo nella misura in cui si punta al bene di tutti potrà esserci vera ricchezza per ognuno. Parlare di bene comune, di conseguenza, porta a considerare l’azione politica che lo Stato pone in essere per il suo raggiungimento. La responsabilità propria della politica non può voltare le spalle dinanzi a una esigenza come questa.Vi è alla base del bene comune, infatti, un’istanza etica talmente evidente da diventare normativa per quanti fanno della politica il loro mondo vitale. Sorge, ovviamente, la domanda su chi si fa interprete dell’individuazione di questo bene e del suo raggiungimento. In un periodo come il nostro in cui, sbagliando, si ritiene che la verità è data dal consenso, non stonerà ribadire con chiarezza che il bene comune non sarà mai assimilabile alla somma dei beni individuali, ma si fa forte di un patrimonio naturale che non può essere disconosciuto. Esso avrà sempre un elemento in più che porterà a guardare sempre oltre, verso un bene che sa riconoscere

maniera molto più diffusa di quanto si pensi - porta inesorabilmente a compiere delle scelte che privilegiano alcuni emarginando altri. La produzione e la distribuzione di beni avviene in modo tale che ampie fasce della popolazione locale o mondiale viene privata anche del minimo necessario. È in questo orizzonte che bisogna rileggere l’insegnamento del concilio Vaticano II e, soprattutto, le tre encicliche sociali di

la dignità della persona, di ogni persona, sia nel suo primo istante di vita come nel suo svolgimento e fine naturale. Il bene comune è un’eredità che non può andare persa per la tentazione di rimanere ricurvi sui propri interessi, dimenticando che se ognuno di noi esiste è sempre e soltanto perché vive con gli altri. Certo, vivere per gli altri potrà essere difficile, ma aiuta a comprendere il senso della vita come amore.

L’origine della felicità di Rino Fisichella In un periodo come il nostro, caratterizzato da una notevole frammentazione non è ovvio fare ritorno al bene comune e verificarne gli elementi positivi che possiede per permettere di uscire dallo stato di crisi generalizzato in cui ci si trova. La costante sottolineatura per il diritto individuale corrode lentamente, ma inesorabilmente, non solo la società come tale, ma ogni persona nelle sue relazioni interpersonali. Se ognuno, infatti, invoca il proprio inte-

resse individuale, prescindendo dal fatto che appartiene a una società, non riuscirà a integrare se stesso in una rete di relazioni che stanno alla base dell’identità personale. La realizzazione di ognuno di noi, in ogni caso, è legata alla sorte della comunità a cui si appartiene e senza la quale non si avrebbe ossigeno sufficiente per continuare a respirare. L’oblio del bene comune ha portato a un distacco dal senso di soli-

darietà sociale su cui una comunità non solo si fonda, ma sulla quale cresce, si sviluppa e progredisce. Accorgersi della solidarietà in alcuni momenti di grave emergenza è certamente un fatto positivo; eppure, diventa limitativo nel momento in cui non si percepisce che quella stessa forma di partecipazione al bene deve segnare la normalità di vita della società intera. È evidente che una cultura utilitaristica - presente nella nostra società in


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musica

pop

Replicando

Jude Garland al Carnagie Hall di Stefano Bianchi o ammetto. Rufus Wainwright l’ho scoperto un po’ tardi. Al quarto disco: quel Release The Stars dello scorso anno che di primo acchito non mi ha fatto gridare al miracolo ma al kitsch. Lussuoso, ma pur sempre kitsch. Specchio fedele di questo cantautore e pianista newyorkese, classe 1973, che s’atteggia a dandy viziato, ama farsi fotografare vestito da tirolese e stampa sui poster dei suoi concerti lo slogan World’s Greatest Entertainer. Per zittire anche i più scettici. Poi, quel cd, l’ho riascoltato. Più e più volte. E ho gridato al miracolo: della sua voce acidula e romantica, delle sue canzoni che coniugano pop, sinfonie, cabarettismi. Chiedo venia, dunque.Tant’è che sto rimediando al misfatto proprio in questi giorni: ascoltando i precedenti album (Poses, Want One, Want Two) dell’egocentrico e musicalmente bulimico Wainwright, sempre in bilico fra Scott Walker e Franz Schubert. E dopo essermi convinto che il figlio del cantautore Loudon Wainwright III e della folksinger Kate McGarrigle è un talento di quelli che non se ne incontrano più tanto facilmente, rieccomi ad applaudire il suo nuovo disco, doppio, intitolato Rufus Does Judy At Carnegie Hall. Stop. Riavvolgimento rapido. Il 23 aprile 1961, alla Carnegie Hall di New York, Judy Garland tenne il concerto più leggendario della sua carriera. Un trionfo, che non solo coinvolse il sold out dei fan presenti, ma i milioni di appassionati che in seguito acquistarono il long playing testimone dell’evento. Quella sera, in mezzo al pubblico, c’erano Loudon

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in libreria

LE TERAPIE DI JODOROSKY lejandro Jodorosky, fondatore del «teatro panico», regista di celebri film come La montagna sacra, di A pièce e pantomime, di romanzi e fumetti ha scoperto una funzione terapeutica della rappresentazione delle sue fantasie. Psicomagia. Una terapia panica, del 1997, fu il libro che rivelò questo versante e che si è affermato negli anni con successo. Adesso Feltrinelli manda in libreria Cabaret mistico (208 pagine, 16,00 euro), natura-

Come evolvere la nostra coscienza e superare le debolezze: esce “Cabaret magico” le filiazione di Psicomagia, raccolta delle “conferenzespettacolo”dell’autore. L’intento di Jodorosky è analizzare l’essere umano nelle sue debolezze - le paure, le insicurezze, i problemi da affrontare - fornendo elementi che possano aiutarlo a evolversi verso un livello di coscienza superiore. I mezzi di cui l’autore si serve per procedere in questa analisi sono storielle umoristiche e iniziatiche prese in prestito dalla filosofia, dalle diverse religioni, dalla magia. Come quella di un vecchietto che per ridare il sole al suo villaggio, oscurato da una montagna, si avviò con un cucchiaio in mano a spostarla: qualcuno doveva pur fare qualcosa…

Wainwright II e sua moglie Martha: i nonni di Rufus. Il quale, enfant prodige del pianoforte, ha trascorso l’infanzia stregato dal racconto di quell’esibizione e in particolare da una canzone, Over The Rainbow, che lanciò la protagonista del film Il mago di Oz fra i grandi interpreti dei classici americani. Bene. Cos’ha combinato quell’istrione d’un Rufus? Si è presentato alla Carnegie Hall e il 14 e 15 giugno 2006 ha riprodotto pezzo per pezzo, innaffiando di pop le partiture orchestrali, quel magico recital. In buona sostanza, si è «travestito» da Judy Garland e ha affrontato da par suo quel repertorio che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque (tranne a Frank Sinatra, se solo avesse voluto giocarsela). E così, l’aureo canzoniere griffato George Gershwin, Rogers & Hart, Irving Berlin e via swingando, trova nelle sue rivisitazioni (e nell’orchestra diretta da Stephen Oremus) nuovi slanci emotivi, frivoli e insieme melodrammatici. In due ore d’ascolto, transitando da When You’re Smiling a Puttin’ On The Ritz, da That’s Entertainment a Stormy Weather, Rufus Wainwright esplode e implode, gigioneggia e dà lezioni di crooning, scuote il pubblico per poi accarezzarlo. Rimaterializza Judy Garland per poter essere, narcisisticamente, se stesso. E tratteggia, con la sua voce impareggiabile, uno dei più bei dischi rétro e nobilmente pop degli ultimi anni. Rufus Wainwright, Rufus Does Judy At Carnegie Hall, Geffen/Universal, 21,90 euro

mondo

IN CINA mp3 A COSTO ZERO e un colosso come Google lancia un servizio musicale gratuito in un mercato enorme come quello cinese, è segno che la battaglia per il download libero ha più di qualche fondamento. In accordo con il sito Top100.cn, i padri del noto motore di ricerca, Larry Page e Sergey Brin, forniranno migliaia di mp3 a costo zero, grazie al contributo degli inserzionisti pubblicitari, allettati dal grande

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Google alla conquista del mercato cinese con un servizio musicale gratuito traffico prodotto intorno alla musica for free. Un po’ di réclame, quindi, in cambio di un brano. Dopo le barricate erette spesso in modo anacronistico e unilaterale, le major sembrano quindi accantonare minacce e citazioni in favore di una visione al passo con i tempi, basata su prezzi modici o nulli. Una controffensiva mirata quindi a spostare i tradizionali fruitori del peer to peer, in aree legali sorrette da un nuovo business fondato su traffico e tariffe pubblicitarie. Pronte a collaborare all’iniziativa di Google la Universal Music, ma anche la Emi e Sony Bmg.

riviste

UTO UGHI COMINCIA DALLA SCUOLA erve un’istruzione musicale vera nelle scuole, perché in questo senso l’Italia è uno degli ultimi Paesi al mondo». Parole e musica del maestro Uto Ughi, che intervistato dalla rivista mentelocale.it rimarca la sempre più deficitaria situazione dei Conservatori italiani e lo stato di semi abbandono in cui verte la musica classica. Impegnato in prima persona sulla riforma dell’educazione musi-

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L’artista intervistato da “mentelocale.it”. E dal 1° marzo racconta alla radio la musica per violino cale, il celebre violinista ha partecipato a spot di sensibilizzazione e ha istituito festival musicali gratuiti come quello di Roma. Un lavorio costante, che gli ha procurato grandi favori presso gli ambienti giovanili. Ma soprattutto, un’opera che prosegue. A partire dal primo marzo, Ughi racconterà per nove puntate il repertorio classico per violino su Radio Uno. L’appuntamento è per il sabato mattina alle 10 e 10. Il maestro presenterà ed eseguirà fra l’altro il Trillo del Diavolo di Tartini, le Due romanze per violino e orchestra op. 40 e op. 50 di Beethoven e Le danze ungheresi n. 20 e n. 17 di Brahms.


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zapping

Stones vs Winehouse REDENTI E DANNATI

classica

Domingo, improbabile Cyrano di Jacopo Pellegrini

di Bruno Giurato

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MARCO BRESCIA-TEATRO ALLA SCALA

Stones a fare la moraletta. Dicesi Rolling Stones, praticamente gli inventori del trinomio sesso, droga e rock, gli autori di Sister morphine e di Sympathy for the Devil. L’attualità parla di Amy Winehouse, che è una cantante e cantautrice notevole, ma anche una ventiquattrenne mezzo tossica e mezzo anoressica, coperta di tatuaggi da sembrare uscita da un volume di antropologia criminale dell’Ottocento, e per di più inglese, anzi di Londra Sud. Quindi maleducata. La fantastica Amy - fantastica per come canta, ha più armoniche nella voce di qualunque soul woman contemporanea, ha un timbro cangiante che passa dal sussurro al mignottesimo alla bella voce classica di una volta - si trova in ospedale per disintossicarsi, e le autorità americane le avevano negato il visto per esibirsi alla serata finale dei Grammy Awards, gli oscar della musica. Poi il visto è stato concesso ma era troppo tardi. Le pietre rotolanti - la metafora geologica nel nome pertiene sempre più dato che le rughe di Keith Richards ormai assomigliano all’orrido di Botri - ammoniscono la Winehouse di smettere con le droghe. Mick Jagger addirittura soggiunge che non capisce come questa nuova generazione conoscendo gli effetti delle droghe continui a usarle. Un caso di scuola, questo degli Stones contro la Winehouse, anzi un caso da proverbio: il bue dice cornuto all’asino. Poi, domenica notte, la Winehouse ha vinto 5 Grammy, si è esibita dal vivo in collegamento dall’Inghilterra dopo aver ottenuto un giorno di permesso dal centro di recupero. Ha fatto anche una bella esibizione. E qui si dimostra che peggio delle rockstar sregolate ci sono solo le rockstar redente.

a che loggione è loggione, il rispetto per le ugole argentee o in difficoltà contraddistingue i melomani di Vienna e NewYork; tutt’al contrario, la Scala esibiva volentieri una spietatezza confinante colla villania: non un catarrino, non un appannamento passavano indenni. Che volete, s’invecchia, e anche lassù, nella piccionaia meneghina, tendono ormai a identificarsi col «vecchiarel canuto e stanco» (ahi, quanto stanco!) che ha nome Placido Domingo. Lo incitano, lo applaudono, lo portano alle stelle, schiamazzando come forsennati per 10 minuti e forse più. Bell’esempio di altruismo; come tale, esente da approvazioni o censure di sorta. Spiace fare il bastian contrario, ma chi scrive, cuore di pietra per antonomasia, sedeva in platea; lontano dunque dagli effluvi angelici, che si spandono per le gallerie scaligere. E sebbene la più parte della stampa, pur deplorando l’opera, abbia elogiato l’esecuzione, stavolta non saprei davvero come allinearmi alla maggioranza. Ho detto opera, avrei dovuto dire «commedia eroica»: tale la definizione attribuita al Cyrano de Bergerac, sia nella primigenia veste parlata di Edmond Rostand (1897), sia nella successiva messa in musica, intrapresa tra il 1933 e il ’35 da Franco Alfano (1875-1954) su libretto francese di Henri Cain, che riprende gli alessandrini dell’originale. Apparso sulle scene nel ’36, Cyrano mancava alla Scala dal ’54, quand’ebbe a protagonista Ramón Vinay, l’Otello di Toscanini. Domingo, mentre s’appresta a passare alla corda baritonale (dopo l’Oreste nell’Ifigenia in Tauride di Gluck, già si parla d’un Boccanegra, e proprio nella sala del Piermarini), ha scelto il nasuto poeta-spadaccino come rôle fetiche: Milano segue New York, Londra,Valencia, e precede Vienna. Ora, si potrebbe obiettare sull’opportunità che un teatro di «prima sfera» accondiscenda ai desideri (stavo per scrivere capricci) di un Divo, chiunque egli sia, in materia di programmazione: prima di arrivare al Cyrano, hai voglia di spartiti da recuperare. Ma se proprio dev’essere, che almeno sia garantita una prova canora onorevole. Nonostante i tagli e le trasposizioni verso il basso, il tenore non ci cava fuori le gambe: timbro inaridito, volume ridotto, in particolare nel registro medio-grave, di acuti manco a parlarne; e pronuncia arruffata, niente sfumature, fisico imbolsito. Uno spettacolo mesto, cui fan da (in)degna corona, una bacchetta piatta piatta (Patrick Fournillier), un coro in libera uscita, un’orchestra non impeccabile (quegli ottoni!), cantanti, salvo poche liete eccezioni (Spagnoli e, a tratti, Alberghini, Caruso,

FOTO

Arrivano anche loro, i Rolling

Sgura), di mediocrità preoccupante (preoccupante in rapporto alla competenza di chi li scrittura). Quanto a Rossana, Sondra Radvanovsky, a prescindere dal suo improbabile francese, doveva trovarsi in una serata no, oscillante e incline al grido com’era. Dell’allestimento, firmato per la regia da Francesca Zambello, il meglio che si possa dire è che inclina alle zeffirellerie, sciupando in corso d’opera (da metà atto II in poi) un mestiere innegabile. Non capolavoro, né inutile paccottiglia, Cyrano è un osservatorio privilegiato per studiare il progressivo, inarrestabile tramonto della Tragedia nel panorama musicale italiano post 1920 (morto Puccini su Turandot, restava solo Pizzetti a misurarsi col genere). L’indeterminazione degli esiti, laddove i tratti interessanti affogano nel generico (i momenti comici) quando non nell’enfasi (duetto Rossana-Cirano, aria di Rossana, morte di Cirano), quelli sì attestano un evento tragico: la fine dell’opera italiana come forma di spettacolo popolare.

jazz

Il sax prodigio che incantò Marsalis cisti americani. Accompagnato da James Williams, Ray Drummond e Ben Riley, una aso emblematico quello di Francesco delle migliori sezioni ritmiche del momento, si Cafiso. Bambino prodigio, aveva solo esibisce alla Carnegie Hall e al prestigioso tredici anni quando nel 2002 venne Lincoln Center. È oggetto di ammirazione da notato da Wynton Marsalis, che lo ascoltò al parte non solo di Marsalis e dei suoi fratelli, festival di Pescara e lo volle al suo fianco per il ma di gran parte dei musicisti di tutto il tour europeo dell’anno successivo. «Wynton e mondo. La stampa specializzata internazionai suoi musicisti - racconta Lucio Fumo diretto- le non lesina elogi. «Umbria Jazz» lo presenta re artistico del festival che per primo presentò a New York, New Orleans, Melbourne. il giovane sassofonista - stavano attendendo Inspiegabilmente però la critica italiana lo nel backstage. Sul palco avevano preso posto ignora o quasi. Paura di esprimere giudizi nei Cafiso e il pianista Franco D’Andrea. Dopo confronti di un giovanissimo talento, con la poche battute del brano iniziale, ricordo era possibilità di prendere un abbaglio e incorrere How High the Moon, i musicisti americani si in qualche brutta figura? Forse bastava ascolprecipitarono fra le quinte per vedere chi stava tarlo attentamente per capire il valore di quel suonando. Il loro stupore fu immenso quando ragazzo. Oppure non si accettava, unici al si accorsero che a suonare era un bambino di mondo, un musicista che suona jazz autentico solo tredici anni». Da quel momento Cafiso nella più pura tradizione, identificandola in diviene «il caso» del jazz mondiale. A quindici semplice imitazione? L’amore per Charlie anni è a New York, dove riceve l’International Parker e per i suoi discepoli, Sonny Stitt, Phil Jazz Festivals Organization Award davanti a Woods, appare evidente quando rende omaguna platea composta dai più importanti musi- gio ai suoi idoli che a undici anni ascoltò nel

di Adriano Mazzoletti

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corso di una trasmissione radio, rimanendone folgorato. Dotato di enorme intuito e sensibilità, si impossessò immediatamente di quel linguaggio. Oggi lo stile del giovane sassofonista siciliano, che deve conciliare l’attività di musicista con gli impegni scolastici appare assolutamente personale. Il suo ultimo disco, New York Lullaby realizzato da Venus, giovane ma ormai prestigiosa casa discografica giapponese, è attualmente primo in classifica nelle hit parade. Accompagnato da tre eccellenti musicisti americani, dimostra un’ampia gamma espressiva negli standard (Polka Dots and Moonbeans, My Old Flame,) nei grandi classici del jazz (Lullaby of Birdland, What’s New) e in due composizioni dovute all’estro di musicisti europei, Speak Low di Kurt Weill ed Estate di Bruno Martino, melodia che si è ormai guadagnata lo status di standard fra i musicisti di jazz non solo italiani. Francesco Cafiso New York Quartet, New York Lullaby,Venus Records.


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libri

narrativa

I numeri e il caso… l’esordio di Giordano (tra racconto e romanzo) di Maria Pia Ammirati a solitudine dei numeri primi, romanzo d’esordio del torinese Paolo Giordano, potrebbe riaprire la rancida querelle sugli scrittori italiani come bravi costruttori di racconti e mediocri allestitori di romanzi. Giordano ha scritto infatti un romanzo che tiene insieme la compiutezza del racconto e l’incompiutezza del romanzo. Ma attenzione: è un’incompiutezza che deriva per lo più dalla perfezione e dalla forza che lo scrittore imprime alle prime pagine di questo sostanzioso libro, e dai primi due capitoli che da soli costituiscono sì la premessa alla storia, ma sono loro stessi due racconti autonomi. Racconti vigorosi che presentano al lettore i due numeri primi in questione, due giovanissimi protagonisti, due coetanei destinati nel tempo a incontrarsi, Alice e Mattia. La storia si snoda in circa venticinque anni senza scenografia e sfondo, ma solo primissimi piani dei personaggi. Partendo dall’infanzia, e approdando alla maturità, tutto dovrà essere letto attraverso la lente deformante di quei primi due episodi, i due primi racconti, che hanno cambiato la vita dei protagonisti. La prima storia si svolge nel 1983 e si intitola L’angelo della neve; è questa la storia di Alice che ossessionata dalla presenza paterna è spinta a commettere un errore che la renderà zoppa. Il breve plot si svolge sulla neve e la forma grottesca del racconto si raggela repentinamente in dramma. Il secondo antefatto, quello di Mattia, si svolge nel 1984 e si intitola Il principio di

L

Archimede. Qui il giovanissimo protagonista, spinto dalla vergogna (e dal disagio) di avere una gemella con ritardi mentali, la abbandona in un parco. La bimba non verrà più ritrovata e Mattia si chiuderà in una sua speciale forma di autismo autolesionistico. Queste due prime parti sono costruite in maniera compiuta benché non abbiano un finale, scopriremo solo più avanti che Alice si è salvata dopo l’incidente sulla neve ma è rimasta zoppa e che la sorellina di Mattia è sparita nel nulla. Da quel momento il romanzo si muoverà rapidamente per seguire le vite dimidiate e mortificate di queste due solitudini, passandole al setaccio di una vita dolorosa dove i rapporti familiari, amicali e gli incontri con gli altri sono il vero dramma dell’esistenza. Il titolo suggestivo, che rimanda agli studi dello scrittore (Giordano è laureato in fisica), riporta alla mente romanzi che alludono all’indeterminatezza del caso, uno fra tutti Le particelle elementari, libro citabile anche per la simmetrica dimensione dell’intreccio, dove l’agronomo Houllebecq combina una storia sulla diacronia delle vite scombinate di due personaggi (in questo caso realmente fratelli da parte di madre). Ma Houllebecq non smette mai di affondare la lama, perché la solitudine è materia scabrosa e per tale va trattata, mentre Giordano, dopo il folgorante inizio, vira verso il tema della redenzione cercando una scappatoia alle troppe storie che si rincorrono in cerca di un futuro possibile.

P a o l o Giordano, La soli tu dine de i numeri primi, Mondadori, 304 pagine, 18,00 euro

riletture

I paesaggi non solo interiori di Comisso godere, anche la mia arte riusciva di questo cogliere la vita in superficie, tanto era iovanni Comisso (1895-1969) de- per me paesaggio anche l’essere umano». buttò giovanissimo in una vita Di qui la decisione di vivere in campagna assai densa per non dire frenetica. e di scrivere, appunto, un libro intitolato Da interventista fervente partecipò alla La mia casa di campagna (1958), opera di guerra del ‘15-18. Nel ’19 seguì D’An- grande bellezza e intensità, che, felicenunzio nell’avventura di Fiume quando il mente Longanesi ha deciso di ristampare. poeta volle affermare l’indipendenza di Nella descrizione e nella partecipazione quella zona provocando l’intervento del affettiva delle stagioni in campagna, che governo. Poco dopo iniziò la sua vita di vanno seguite passo passo con ritmi corrispondente di grandi giornali italiani. molto ineguali tra primavera, estate e il Al ritorno dai suoi viaggi scriveva: «Non letargo dell’inverno, incontriamo l’epopea era più necessario per me tanto continua- della trebbiatura, della vendemmia, dei re a viaggiare ma restare fermo in un pericoli che corre la campagna per la punto, radicare e approfondirmi dentro di grandine, delle fiere, delle nozze contadime».Aveva 35 anni e acquistò una campa- ne, dei parti nelle stalle, delle avventure gna di sette ettari a Zero Branco, vicino a delle api, della benedizione dei campi. Ci Treviso: «Avevo 35 anni vissuti sempre sono ben otto pagine dedicate alla vita di con la frenesia di muovermi, di vedere e di una zucca e sono pagine esemplari.

di Leone Piccioni

G

Intorno tante figure: balli estivi tra le belle contadine e i ragazzi, le sere d’inverno passate nella stalla raccontando l’uno all’altro cose realmente accadute o di fantasia. In queste pagine Comisso raggiunge la migliore qualità della sua prosa: dolce, rotonda, ma con improvvise impennate, con cadenze metriche talvolta molto vicine alla poesia e con una grande proprietà e ricchezza di colori e sentimenti: un maestro della prosa - come si sa - pronto a narrare, a riflettere, a indagare psicologicamente così come a esaltarsi. Scrive Comisso: «Andai a Firenze e a Roma e constatai che, dopo aver vissuto a lungo tra i campi e gli alberi, le grandi città non mi emozionavano più. Firenze mi apparve meno interessante di un villaggio, eppure una volta credevo fosse una meraviglia e Roma mi stancò». Quante pagine dovre-

mo citare e di quante rallegrarci, ma almeno a due figure mi devo riferire: quella di Guido, il giovanissimo amico tanto amato che riportava Comisso «a una giovinezza che sembrava perduta».Vicende drammatiche capitano a Guido: siamo alla guerra con i tedeschi e all’occupazione. Guido, antitedesco, verrà arrestato e fucilato. Bellissime pagine, indimenticabile il personaggio e la partecipazione, poi il dolore con il quale Comisso ci parla, sobriamente, di questo suo amore.Accanto la madre. La madre che invecchia, che si stabilisce in campagna a rimettere ordine e vivere fino a novant’anni nella sua casa. Ma viene il nuovo tempo: «Non mi sentivo scrive Comisso - più disposto a subire come una volta l’incanto dei paesaggi. Avrei voluto vedere i paesaggi solo dentro all’uomo».


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personaggi

Rileggere De André oltre le ideologie di Alfonso Piscitelli ella vicenda postuma di grandi autori - come Pier Paolo Pasolini e ora anche De Andrè - accade spesso uno sdoppiamento: da un lato si forma una congrega di veneratori, dall’altro si raduna un pubblico più ampio e disincantato che continua ad apprezzare l’opera senza partecipare ai riti del culto della memoria. I veneratori a loro volta pretendono di essere venerati, in virtù della loro vicinanza al Maestro, della loro capacità di memorizzarne e ripetere gli stilemi; il vasto pubblico fondamentalmente se ne infischia e tende a selezionare nella memoria solo ciò che suscita una emozione profonda. Il libro curato da Guido Harari, che colleziona pagine sparse, immagini, illuminazioni di De Andrè con la classica tecnica del cut-up,

N

testimonia dell’uno e dell’altro fenomeno. C’è la tentazione di innalzare De Andrè a maestro-di-pensiero, proprio lui che aveva raggiunto il massimo della sua espressione sfiorando le corde del disincanto. Ma c’è anche la capacità di illuminare le tante gocce di «splendore», che come una fredda brina mattutina, stillavano dall’anima del cantautore. Alla fin fine l’antologia dà i brividi, e sono brividi di cuore. A otto anni dalla morte di De Andrè, sempre più egli ci appare come poeta elegiaco. Cieco come tutti gli impulsivi quando si proponeva a vate di messaggi ideologici (dopo il 1989 salutò stizzito il crollo dell’impero sovietico cantando che «la scimmia del quarto reich balla sul muro»…), veggente quando volava sulle ali del sentimento. La grandezza di un autore consiste anche nella capa-

cità di suscitare apprezzamenti che vanno al di là delle sue intenzioni originarie; di fare in modo che gli altri trovino in lui ciò che lui stesso non è riuscito a vedere. Negli anni che furono, la Guerra di Piero fu ascoltata come una vibrante denuncia del militarismo, di tutto ciò che si legava allo sventolio di una bandiera, al miraggio di una medaglia. Noi oggi sentiamo in essa la verità che si agitava nel subconscio del poeta: anarchico/comunista per ideologia, e quasi per «generazione», ma forse nel profondo della sua anima già accorto del fatto che per quegli slogan a pugno chiuso non valeva combattere e non valeva soprattutto morire.

Fabrizio De Andrè. Una goccia di splendore, a cura di Guido Harari, Rizzoli, 336 pagine, 45,00 euro

storia

Contraddizione di un vincitore vinto di Riccardo Paradisi i Giuseppe Garibaldi ormai si dice male o non si dice più nulla. Chè le celebrazioni ufficiali, le poche e semiclandestine che hanno punteggiato il bicentenario, ripropongono un’icona e una statua immobile, paralizzata nella fissità degli stereotipi e non il pensiero di un uomo che insieme a Mazzini e Cavour ha fatto il Risorgimento e l’Italia. Mario Isnenghi nel suo Garibaldi fu ferito non presenta l’ennesimo, ma ormai sempre più raro, ritratto agiografico o trionfalistico - comunque polveroso e ingiallito dell’Eroe dei due mondi, né un attacco postumo di stampo «revisionista» teso a dipingere il Generale come un masnadiero

D

(prassi sempre più diffusa) ma lo restituisce nella sua natura di uomo d’azione e di pensiero, talvolta tormentato da scelte gigantesche cui pure fece fronte. Non è una biografia di Garibaldi quella di Isnenghi ma una ricognizione sui momenti fondamentali della sua vita: il biennio 1848-49, fase preparatoria «dell’Eroe nazionale italiano», il 1860, anno della gloriosa spedizione, i difficili anni Sessanta. Ci si domanda oggi se quella dei padri del Risorgimento fu vera gloria. Isnenghi oltre alle date ricorda una serie di dati che testimoniano dell’entusiasmo e della partecipazione popolare

che il mito nazionale del Risorgimento riuscì a infondere negli italiani. I 150 mila di Milano che cacciano l’esercito più potente d’Europa dalla città nel marzo del 1848; la resistenza di Venezia nel 1848-49; i 50 mila che arrivano a Napoli con Garibaldi nel settembre del 1860, sono la dimostrazione che non è proprio un’ideologia partorita a tavolino da quattro massoni quella della rivoluzione nazionale italiana, ma un’idea che afferra le volontà, le anime e le intelligenze. «E al centro delle favole vere c’è il grande capo guerrigliero, il leader fascinoso e amato, l’uomo delle battaglie impossibili: Garibaldi... È lui - vincitore-vinto e vinto–vincitore - il segno di contraddizione. Mario Isnenghi, Garibaldi fu ferito, Donzelli editore, 213 pagine, 14 euro

economia

Greenspan e la distruzione creatrice A di Ruggero Ranieri

lan Greenspan è stato il più influente e longevo presidente della Federal Reserve (Banca Centrale Usa) del dopoguerrra. Fu nominato da Reagan e confermato dai presidenti successivi, fino a George W. Bush. Si è ritirato in pensione a 80 anni, nel 2006. I mercati pendevano dalle sue labbra e i suoi criptici commenti divennero proverbiali. Le sue memorie sono una miniera di notizie e di ricordi. Ci aiutano a entrare nella cabina di regia della politica americana, lungo mezzo secolo. Greenspan, per formazione liberista, anzi libertario seguace delle teorie di Ayn Rand, entrava nell’amministrazione come consulente sotto la presidenza Ford

ed è stato sempre molto vicino all’erepubblicano. stablishment Tuttavia, egli preferisce gli anni di collaborazione con Clinton, quando al Tesoro c’erano Rubin e Summers, e quando la New Economy sospinse la produttività americana oltre ogni record, senza risvolti inflazionistici. L’errore della presidenza Bush è stato, invece, lasciare che il Congresso gonfiasse la spesa pubblica, senza curarsi di bilanciare i pur legittimi e necessari tagli fiscali. In tanti imputano a Greenspan molti dei mali di oggi: dalla crisi dei subprime, alle difficoltà del mondo finanziario, ai deficit fiscali, alla bolla speculativa, ormai scoppiata, sui mercati immobiliari, per non parlare delle ingiustizie sociali legate alla globalizzazione. Secondo i

critici, questa sarebbe essenzialmente un’autodifesa. In realtà vi è molto di più.Vi è una informatissima riflessione e previsione sui principali capitoli dell’economia mondiale. La globalizzazione, nonostante i suoi squilibri, ha significato un gigantesco salto in avanti per il benessere dell’umanità e i mercati di oggi, popolati da milioni di attori, sono un’illustrazione quotidiana dell’efficacia della mano invisibile di Adam Smith. Regolarli sarebbe, dice Greenspan, insieme dannoso e inefficace. Fatti salvi rigore e trasparenza, meglio affidarsi alla «distruzione creatrice» del capitalismo. Alan Greenspan, L’era della turbolenza, Sperling & Kupfer editori, 608 pagine, 20,00 euro

altre letture Di François Furet

ci si può fidare, soprattutto quando parla di totalitarismi: lo storico francese è stato tra i primi a descrivere l’onnipotenza rivoluzionaria materializzatasi nel totalitarismo novecentesco: il secolo dove appaiono le follie politiche nate dalla sostituzione di Dio con la storia. Questo, si dirà, è noto, ma ciò che si dimentica è che l’onnipotenza rivoluzionaria ha avuto un mezzo tra tutti per imporsi nell’immaginario novecentesco: il cinema. A spiegare bene come è avvenuto e perché è utile un bel saggio di Claudio Siniscalchi - Riflessi del ‘900 (Rubbettino, 137 pagine, 15,00 euro) dove si racconta come il cinema, il treno della rivoluzione secondo Lenin, sia stato lo strumento più diretto della propaganda dei regimi totalitari.

I Nibelunghi,

Parzival, Tristano e Isotta ma anche Goethe, Mann per finire con Canetti, Boll, Grass: La letteratura tedesca (Il Mulino, 218 pagine, 18,00 euro) di Marini Freschi ripercorre la storia letteraria di lingua tedesca dai grandi poemi del Trecento alle opere dei più celebrati autori del nostro tempo. All’interno di questa storia delle idee e dell’immaginario tedesco, sono approfonditi due momenti epocali per la letteratura tedesca: il Settecento, età aurea del classicismo e del romanticismo, e il primo Novecento, dove si pone particolare enfasi su autori centrali della modernità come Brecht, Hesse, Kafka.

Un prete di campa-

gna, umile e goffo, «con il viso tondo e inespressivo e gli occhi slavati come il mare del Nord», apparentemente innoquo ma dotato di una straordinaria intelligenza: l’avrete riconosciuto, è il padre Brown di Gilbert Keith Chesterton, personaggio letterario che fu ispirato allo scrittore da un vero prete, l’irlandese padre O’Connor. Ora per gli appassionati dell’investigatore in abito talare è stato pubblicato Il candore di Padre Brown (Morganti editori, 315 pagine, 15,00 euro) che raccoglie i primi dodici racconti delle avventure dell’umile e goffo prete cattolico della Contea dell’Essex.


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GRANDI EUROPEI IL PRINCIPE EUGENIO LA POPOLARITÀ DEI REALI D’ITALIA È AL MINIMO STORICO. MA C’È STATO UN MEMBRO DELLA CASATA PIEMONTESE CHE MERITA D’ESSERE RICORDATO

Il migliore dei Savoia di Franco Cardini

O

rmai, gli estimatori di Casa Savoia sono scesi al di sotto dei minimi storici, specie dopo gli exploits di erotismo senile del pretendente al trono e le richieste di risarcimento della dinastia al popolo italiano, che evidentemente non ha gradito. Qualcuno ha insinuato che questo disamore degli italiani per la dinastia sabauda dipenda dalle loro scarse conoscenze di storia patria; e qualcun altro ha ribattuto che, se conoscessero meglio la storia, l’amerebbero ancora di meno. Personalmente propendo con forza per la seconda ipotesi. Ma ogni regola ha le sue eccezioni. Una soprattutto. Magari una sola. Ma splendente, straordinaria, eccezionale. Non era un granché, sotto il profilo fisico. Era bassino, mingherlino, bruttino: e quelle alte parrucche tardobarocche con la discriminatura centrale con le quali i pittori di corte si ostinavano a ritrarlo, insieme con lo splendore d’acciaio della corazza e tanto di bastone di comando e di candido destriero rampante, forse peggiorava la situazione. Ma era un genio militare, un coraggioso fulmine di guerra, un mecenate generoso, un raffinato cultore d’arte. In quel corpicciolo gracile e sgraziato albergava un’anima splendida, un autentico prince charmant. Stiamo parlando del grande Eugenio di SavoiaCarignano. O meglio, come la storia d’Europa lo ricorda, del Principe Eugenio. Una gloria d’Europa e un autentico, grande europeo fiero e cosciente d’esserlo. Tanto che amava firmarsi «Eugenio von Savoie», unendo così, nel suo nome, i tre idiomi delle sue tre patrie: l’Italia, la Francia e la Germania. Oggi tutti venerano la sua memoria, nei paesi che possono considerarsi «suoi». Soprattutto in Germania: dove perfino durante il nazionalsocialismo, che pure non era tenero con gli europeisti ai quali il mondo tedesco andasse stretto, e dove pure gli si dedicò perfino un’intera divisione SS, la Prinz Eugen. Chissà se avrebbe gradito un omaggio del genere. Ma vediamo un po’ più da vicino chi fosse. Nato a Parigi nel 1663, era il quinto figlio di Eugenio Maurizio, principe di SavoiaCarignano e conte di Soissons, e di Olimpia Mancini, nipote del cardinal Mazarino. Sua madre era una delle cinque nipoti del Mazarino: e, tra quelle che a Parigi venivano chiamate le mazarinettes, era forse non la più bella (pare che la palma andasse alla sorella Ortensia) ma senza dubbio la più spregiudicata. Si dice che il giovane Luigi, che era esattamente suo coe-

taneo, si fosse invaghito di lei e l’avesse anche posseduta, prima di preferirle la sorella Maria; a ogni modo, Olimpia fu compensata attraverso il nobile matrimonio col Savoia-Carignano. Dopo la morte del padre, nel 1673, Olimpia aveva mantenuto un certo ruolo a corte come sovrintendente della casa reale: ma nel 1680 fu coinvolta nel cosiddetto affaire dei veleni e dovette fuggire prima nelle Fiandre e di lì in Francia. Era evidente che aveva perduto il favore del re. Eugenio, ch’era stato avviato alla carriera ecclesiastica - e per tutta la vita i nemici lo avrebbero schernito, chiamandolo l’abbé de Savoie - viveva all’ombra della potente nonna paterna, Maria di Borbone, e sognava la gloria militare al pari del padre. Ma il suo aspetto gracile, il suo stato ecclesiastico e l’evidente poca simpatìa con cui il re lo considerava sembravano allontanare da lui qualunque speranza.

Troncò dunque gl’indugi: lasciò nel 1683 la capitale senza il regio permesso e, con l’aiuto di suo cugino Ludovico margravio del Baden, raggiunse Presburgo, dove si era dai primi di luglio rifugiato l’imperatore, uscendo da Vienna che stava per essere cinta d’assedio dall’armata ottomana al comando del gran vizir Kara Mustafà. Arruolato nello stesso reggimento nel quale era da poco caduto suo fratello Luigi Giulio, mostrò ottime qualità d’intuito tattico e di coraggio guerriero sia nella battaglia per la liberazione di Vienna, il 12 settembre, sia nella guerra austro-turca che tenne dietro a quell’episodio. Sostenuto da alcuni suoi parenti spagnoli, molto influenti alla corte di Leopoldo, il giovane Savoia fece presto carriera. Nel 1686 partecipò alla conquista di Buda; l’anno successivo, il 12 agosto si distinse nella battaglia di Mohács, dove Carlo V di Lorena e Ludovico del Baden batterono sonoramente i turchi aprendosi così la strada fino a Belgrado. I nuovi successi consentirono a Eugenio di risolvere anche i suoi problemi economici, che fino ad allora erano stati assillanti come sempre accadeva per i cadetti delle famiglie nobili: il suo poi era un caso speciale di vita estremamente dispendiosa. Ma il suo congiunto, il duca di Savoia Vittorio Amedeo gli venne incontro garantendogli le rendite di due abbazie piemontesi, per un’entrata annua di 20 mila lire. Da allora Eugenio, sostenuto soprattutto da Ludovico del Baden e da Massimiliano Emanuele duca di Baviera e principe elettore, divenne l’anima della nuova politica dell’impero nei confronti del sud-est europeo, caratterizzata dalla ricerca, a sud del regno d’Ungheria, d’un

ritratti


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nuovo confine naturale, e dall’impianto alle frontiere di coloni incaricati della difesa. Ma non s’impegnò solo a Oriente, in difesa dei confini dell’Europa cristiana. Nel 1688 scoppiò la guerra detta «della lega di Augusta», che avrebbe infiammato l’Europa occidentale per un decennio. L’impero, l’Olanda, il Piemonte, quindi la stessa Inghilterra re della quale era frattantodiventato lo stathouder d’Olanda Guglielmo d’Orange, si unirono contro la politica aggressiva ed espansionistica del Re Sole: ed Eugenio, combattendo nel «suo» Piemonte contro i francesi, seppe conquistarsi nel 1693 il bastone di feldmaresciallo.

Era il momento di mostrar appieno la sua gloria, nel cuore fastoso dell’impero. Nel 1693 il principe acquistò un terreno alla periferia di Vienna, in collina, e chiese all’architetto Johann-Lukas von Hildebrandt di costruirgli un edificio monumentale. Il Belvedere inferiore fu completato nel 1716 e quello superiore nel 1723: Eugenio di Savoia vi dette delle feste leggendarie, soprattutto dei balli mascherati che fecero epoca. I due Belvedere si ergevano dinanzi alle mura di Vienna proprio lungo la strada che i turchi avevano percorso per assediare le capitale: e pare che, nelle cupole delle torri e nelle linee dei tetti, vi sia un’allusione all’architettura turca e musulmana. Frattanto, i Balcani erano di nuovo in fiamme.Tra agosto e settembre del 1697, al comando dell’armata imperiale forte di 50 mila uomini, il principe intercettò i i turchi tra il Danubio e il Tibisco e, senza aspettare l’arrivo del grosso delle truppe, sbaragliò il nemico nella battaglia di Zenta. Gli ottomani persero 20 mila uomini e 87 cannoni, gli imperiali appena 400. Il sultano fu costretto a ripiegare verso Timifloara (Temesvár). Ora bisognava consolidare i confini. Eugenio fu il protago-

che obbligò i francesi a evacuare la Baviera ch’essi avevano occupato; la battaglia di Torino del 7 settembre del 1706, che rovesciò le sorti del teatro militare del nord-ovest italico, fino ad allora favorevole al Re Sole; e infine le brillanti operazioni anglo-austriache in Fiandra, nel 1708, come la battaglia di Oudenaarde e l’assedio di Lilla. Ormai, Eugenio era diventato la bestia nera di Versailles, dov’ era considerato una specie di traditore: «Odio il principe Eugenio nel modo più cristiano di cui sono capace», avrebbe confessato l’amante del re, Madame de Maintenon. Da parte sua, dava mostra di non aver mai perdonato Luigi per il trattamento che questi gli aveva riservato circa un trentennio prima. Nel 1714, all’atto della pace di Rastadt, l’impero ottenne le Fiandre; ed Eugenio di Savoia fu nominato negoziatore per l’impero del trattato, pur essendo personalmente contrario a quel tipo d’accordo. Decisamente, politica e diplomazia non facevano per lui. Tornò quindi alle armi, anche perché intanto gli ottomani avevano ripreso le loro campagne offensive nei Balcani. Nel 1716 batté i turchi a Petervaradino. L’anno successivo, intraprese l’assedio della fortezza di Belgrado, che era stata riconquistata dai turchi ma che capitolò il 18 agosto. Fu durante questa campagna, che condusse anche alla conquista di Temesvár, che un anonimo soldato compose il PrinzEugen-Lied, alto e rude elogio dell’Edelritter, il «nobile cavaliere» terrore dei turchi. E si arrivò alla pace di Passarowitz e con essa alla svolta storica: l’impero ottomano non si sarebbe mai più ripreso, quello austriaco avrebbe avviato i suoi quasi due secoli di vita da grande potenza. Ma frattanto il declino delle fortune di Eugenio era cominciato. Nel 1716 era stato nominato governatore dei Paesi Bassi austriaci: però la sua gestione di quelle

È stato uno dei più grandi strateghi dell’Europa moderna e un uomo di straordinaria cultura. Protesse Rousseau e Giannone: i suoi gusti filosofici e morali tendevano al deismo e alla libertà religiosa nista della colonizzazione delle terre conquistate ai turchi, soprattutto il banato di Temesvar. I territori sottoposti ad amministrazione militare vengono presidiati da soldati-contadini concepiti sul modello dei cosacchi, i Grenzer. Intanto con la pace di Karlowitz, il 26 gennaio del 1699, l’impero ottomano fu costretto a cedere all’Austria quasi tutta l’Ungheria e la Transilvania. Ma era intanto scoppiata la guerra di successione spagnola tra le due dinastie in campo, i Borboni e gli Asburgo. Nominato comandante generale delle truppe imperiali in Italia, Eugenio inflisse nuovi duri colpi ai francesi nonostante l’inferiorità delle sue forze. Un colpo di fortuna, intanto - senza fortuna, non c’è audacia che tenga - portava al vertice del governo viennese un abile statista suo grande amico, il conte Stahremberg, che nel 1703 lo volle al suo fianco in qualità di presidente del Consiglio di guerra (Hofkriegsrat): in tal modo egli poté riorganizzare l’esercito austriaco. Morto l’imperatore Leopoldo, l’influenza di Eugenio crebbe in modo esponenziale durante i sei anni di regno di Giuseppe I, tra 1705 e 1711: membro della Conferenza Aulica, il ristretto consiglio imperiale, il principe combatté gli sprechi e la corruzione, spianando sul piano militare la via a quelle che sarebbero state, più tardi, le più generali riforme di Maria Teresa. Ma la sua vera casa era il campo di battaglia. Durante la guerra di successione spagnola attuò dei veri e propri capolavori tattico-strategici: come la battaglia di Blenheim del 13 agosto 1704 combattuta fianco a fianco con il grande generale inglese Lord Marlborough,

terre, portata avanti attraverso un luogotenente, aveva avuto esiti deludenti. I consiglieri spagnoli dell’imperatore brigavano contro di lui, e nel 1718 la loro malevola attività aveva assunto l’aria di una vera e propria congiura.

Un’ultima occasione colta felicemente al volo fu quella che, grazie alla sua mediazione, portò all’alleanza austro-russa del 1726 e a quella angloaustriaca del 1731. Tutto parve precipitare comunque con la crisi della guerra di successione polacca del 1733, allorché l’Austria non seppe evitare l’isolamento. Il vecchio soldato tornò a combattere sulla linea del Reno, contrastando efficacemente i soldati: ma quest’ultima campagna fiaccò definitivamente la sua già provata fibra, e il settantatreenne principe morì a Vienna appena rientrato dal fronte, nel 1736. Eugenio fu uno dei più grandi strateghi dell’Europa moderna; ma quel che appare più affascinante è la sua personalità di raffinato uomo di cultura. I suoi palazzi viennesi - i due Belvedere, il Palazzo d’Inverno, il Marchfeld - sono tra i migliori esempi del «barocco imperiale» austriaco. La sua biblioteca, ricca di 15 mila volumi, spaziava dalla teologia al diritto alla letteratura alle scienza naturali. Era un uomo intellettualmente libero e curioso: protesse il Rousseau e il Giannone, e i suoi gusti filosofici e morali tendevano con chiarezza per quanto con moderazione al deismo e alla tolleranza religiosa. Nella galleria ideale dei grandi europei, gli spetta senza dubbio un posto di primo piano.


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pagina 11 • 16 febbraio 2008

tv di Pier Mario Fasanotti

Le ingiustizie

ra la caccia al serial killer e le bischerate dei reality show, tra uno sculettare di soubrettine (il reggicalze ora va alla grande) e le tensioni facciali di chi azzeccando un quiz s’intasca 100 mila euro, la nostra tv riesce talvolta a informarci in modo per nulla noioso. Il riferimento è a Megalopolis, in onda quasi a mezzanotte su Rai 3 il mercoledì, così tardi per non fare uno sgarro alla tanto amata soap Un posto al sole, che ha oltrepassato la boa delle 2500 puntate. Pazienza, ormai siamo abituati a pagare l’aggiornamento culturale con intontimenti da insonnia. La megalopoli che abbiamo visto è Shenzhen, città-esperimento della Cina, poco distante da Hong Kong. Era un borgo di pescatori solo 27 anni fa, oggi è una giungla di grattacieli e di fabbriche con 10 milioni di abitanti, età media sotto i 30 anni, la stragrande maggioranza proveniente dalle regioni interne. In poco più di mezz’ora il documentario (prodotto da Movie-Movie) ha offerto a chi non legge libri e corrispondenze giornalistiche la possibilità di affacciarsi su un paese destinato a condizionare l’economia mondiale. Serie di interviste, inquadrature in stile Blade Runner, citazioni (un po’ letterario-apocalittiche) da brani di scrittori, testimonianze choc: ed ecco la Cina, che non è affatto così vicina. Parla una ragazza che lavora in un centro commerciale: si alza alle sette e stacca alle 22. È straordinariamente sorridente come gli altri intervistati. I cinesi paiono molto pazienti (ma siamo in grado di capire le emozioni orientali?) anche quando raccontano di essere sfruttati da padroncini che pagano in ritardo o scappano con la cassa. Oppure non rispettano gli accordi. Domanda: sullo schermo scorrevano le immagini della Londra di Dickens o quelle di una città voluta «dal nostro grande leader Deng» e appartenente a uno Stato con timone comunista? Giovani e anziani ammettono di non avere una forma assicurativa, di essere sfruttati da molte agenzie di collocamento, di vivere nell’incubo dei taglieggiamenti e delle violenze della mafia (è il caso dei commercianti), di condurre una vita precaria, a 18 e a 60 anni. Vanesio, felice nella sua spider, è l’ex mister Schenzhen, già attore e modello, ora pupazzo della propaganda cinese in patria e all’estero. Davanti alla playstation made in Usa dice che la Cina è il paradiso dei giovani. Concorda la fidanzata, ex miss, che lo guarda rapita. Loro sono gli «arrivati». Gli altri (a parte i mafiosi e i super-ricchi) chissà quando arriveranno: ma secondo Marx e Lenin non dovevano essere proprio les miserables a tagliare il traguardo per primi?

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di Shenzhen fiore all’occhiello della Cina moderna

web

games

dvd

ARTEMIDIANA.IT, ARTE ON LINE

IL RITORNO DI PAC MAN

IL SILENZIO NECESSARIO

inguaggio semplice e diretto, un’idea comprensiva dell’arte che spazia dall’architettura alla moda, e grande attenzione alla contemporaneità. Artemidiana.it è una nuova rivista pensata da giovani e per i giovani, che ridisegna quel linguaggio paludato e ossequioso che spesso ha tenuto distanti i lettori dal piacere di imparare a guardare la bellezza.

a quasi trent’anni. Ed è il videogioco più famoso della storia. Eppure, in un’epoca di console della next generation, televisori e monitor ad alta definizione, controller wireless e ammucchiate online, la gente continua a giocare a Pac Man. Divertendosi. Parliamo di Pac Man Championship Edition, da poche settimane apparso nell’offerta di giochi scaricabili da Live Arcade,

ontano dai clamori di una realtà tambureggiante. Lontanissimo da un cinema bolso e imbarbarito che annoda storie e personaggi in balletti biomeccanici. È in questa doppia distanza che si misura la rupture tranquille del Grande Silenzio. Un’opera entrata in punta di piedi alla Mostra di Venezia e uscita nelle sale come l’ultima icona di un cinema che non c’è più. In tempi in cui

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La rivista si propone con un linguaggio più diretto senza rinunciare al peso dei contenuti Un modo fresco e piacevole di parlare d’arte, senza rinunciare però all’originalità e al peso dei contenuti. Contenuti in un progetto grafico accattivante e di facile accessibilità, spunti, recensioni, itinerari, biografie, interviste tengono insieme il costante intrecciarsi di mitologie antiche e presenti, dalla Venere classica all’epopea della pop art. Letture e riletture di un panorama artistico in costante sovrapposizione, efficace però, come nella sezione album, a indirizzare il gusto dei lettori su eventi noti e meno noti delle maggiori città italiane.Veloce, puntuale e frizzante. Artemidiana.it

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l videogioco che spopolò negli anni Ottanta, con meccaniche rinnovate ma non stravolte il servizio online della Microsoft per X-Box 360. Pac Man CE non è uno di quei tentativi poco riusciti in 3D con cui si è tentato, negli anni scorsi, di restituire smalto al classico arcade della Namco. Riesce, al contrario, a conservare l’anima immortale del capolavoro degli anni Ottanta, innovandone le meccaniche senza stravolgerle e adattando l’area di gioco ai nuovi schermi 16:9. Invece di offrire una sfida potenzialmente infinita, poi, Pac Man CE costringe a un tempo-limite fisso: niente di meglio per riscoprire il fascino antico del punteggio. E vantarsi del proprio hi-score con gli amici su Internet.

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Il film di Gröning sulla vita in un monastero certosino purifica lo sguardo e rianima il pensiero il documentario preferisce lo strepito e l’incursione al mantra e all’incontro, i monaci certosini di Le Grande Chartreuse strappano la vita dal flusso della durata. Come voleva Bazin, l’ordinato fluire degli eventi nel monastero di Grenoble, non si aggroviglia mai nelle maglie del racconto, ma si spiega nello spazio dilatando in essere la semplice esistenza. Prima di azionare la macchina da presa, Philip Gröning ha trascorso quattro mesi in compagnia dei monaci. Meditazioni, messe, lodi e vespri, sono perciò lo sfondo di un’immensa preghiera. Di un salmo distante e finalmente lucido, che purifica lo sguardo e rianima il pensiero.


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Dalla neoavangua

Figlia del Sole e di Perseide

di Francesco Napoli

1.

uando nel 1979 Giuseppe Conte dà alle stampe per la collana della «Società di poesia» di Guanda la sua prima raccolta riassuntiva L’ultimo aprile bianco, dalla quale ho qui segnato come testimonianza di una rinnovata ricerca in poesia le prime quartine del poemetto d’apertura Figlia del Sole e di Perseide, probabilmente non poteva avere fino in fondo il sentore di aver creato una frattura molto forte con l’intero Novecento poetico italiano. Ma in questo senso un po’ tutti gli anni Settanta devono essere letti come decisivi e non solo per il poeta. C’era chi allora insisteva nel parlare di fine della poesia in Italia mentre in realtà crescevano le direzioni e le prospettive nelle quali si articolano insieme ragioni lontane e diversissime tra loro. Così, nonostante la disgregazione dei messaggi poetici e del contesto in cui questi stessi andavano a essere recepiti e pur scomparendo sodalizi letterari e gruppi di tendenza, la poesia era, ed è, più viva che mai. Con L’ultimo aprile bianco - in questo titolo giace la memoria della metafora eliotiana dell’aprile come più crudele dei mesi -

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Il dio cigno il dio toro il cinghiale che baciò Adone nel loteto e lo uccise, Pasifae parlò e un gatto più che miagolare rise scuotendo le rugiade che si chiamano occhi «rammenti quando eravamo abitatori delle acque?» Solchi destinati a perpetuarsi, a farsi Vie – le carovaniere negate poi, molto poi da Voi uomini: alcune cupole sventrate Vetrate chiuse e spinte verso la colchide: nere nuvole correvano sulla flotta, algose reti, rovi di granchi, ragni, soffitti d’acque e sibili di soltanto mute vocali. (...) GIUSEPPE CONTE

da L’ultimo aprile bianco

PER “GUARIRE” L’OCCIDENTE in libreria

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poesia

Conte avvia una profonda riflessione sul destino dell’Occidente e sull’idea di «cultura bianca» sentita come prossima a una fine qualora non fosse stata in grado di aprirsi ad altri mondi. Un atteggiamento che informerà tutto il suo percorso e lo condurrà a confrontarsi e a far proprie fonti lontane dal sapere più tradizionalmente occidentale. Giungerà così, verso la fine degli anni Novanta, a comporre i Canti d’Oriente e d’Occidente, testi nati da una sempre più avvertita esigenza del poeta di far dialogare due culture, la nostra e quella araba. Un’idea avventurosa, allora come ora, ma di fascino e da perseguire. E quando vi scrive, immaginando di rivolgersi al feroce Tamerlano arrestatosi a Shiraz perché consapevole dell’esistenza di un grande poeta nella città, «Dalla tua angoscia di strage e razzia/ riposati ora, fratello, la poesia/ ci ha salvato», Conte crede davvero nella possibilità di compiere, attraverso la poesia, un grande e forte gesto pacificatore tra mondo occidentale e mondo arabo. Nel titolo del poemetto, Figlia del Sole e di Perseide, giace poi un grande mito della classicità greca.

UN POPOLO DI

di Giovanni Piccioni

e ali del Tempo, edito da Pagine, è la quarta, intensa e drammatica raccolta poetica di Gennaro Malgieri. Intellettuale impegnato politicamente, Malgieri non ritiene la poesia un esercizio secondario o marginale, ma ne individua il valore creativo autonomo. La raccolta, suddivisa in quattro parti, intreccia soprattutto due tematiche: la decadenza dell’attuale civiltà occidentale e l’emergere, insieme salvifico e dolente, di un vissuto che assume valore simbolico, di una memoria vitale. Nelle liriche della prima parte, «Il lamento occidentale», il sogno dell’Occidente svanisce nell’impotenza e nell’indifferenza, mentre permane il mito della grecità: «Sul mare greco/galleggiano/brandelli di memorie/illuminate/dal sole timido/di primavera». Le dodici poesie

Nelle “Ali del Tempo” di Gennaro Malgieri la decadenza della nostra civiltà e il valore salvifico della memoria della «Pratica del dolore», seconda parte della raccolta, marcano lo scorrere del Tempo, la perdita degli anni dell’innocenza a fronte di un avvenire oscuro come «un buco nero»: ormai si coltivano solo speranze minime e non resta che affrontare il dolore con capelli divenuti candidi. Il rapporto con il passato e la Tradizione si fa più intimo e personale nella terza parte, «Liquide attese»: una bella immagine rievoca il rapporto con il padre, e ricorrono parole ed espressioni chiave come «ritorno», «ricordo», «nostalgia», «malinconia», «età trascorsa», «rimpianti», «sogni di vent’anni», «giovinezza lontana». Un senso complessivo che confligge con i desideri e le attese infranti dal muro del Tempo. La tensione che anima il testo trova una soluzione nell’ultima parte, che dà il titolo alla raccolta di Malgieri. La poesia, oasi di speranza e promessa di vita, salva dal Tempo che consuma: «E tutto si ritrova ed ogni cosa va al suo posto». Questa poesia che guarisce dalle rovine fra le quali agonizza il presente, rivela anche una cura attenta della musicalità del verso, aperto allo stupore di incontri e contemplazioni.

Copro la mia fronte con un fazzoletto di seta bianca. L’olio screpola la tela, l’altare di marmo caldo di cera. La leggerezza della cupola nel cielo disegna la linea curva e infinita di Dio. Al ritorno, il vento gelido imprigiona le anime che riposano sotto le lapidi. Offriamo un pugno di zolfo

e ce ne andiamo in silenzio. Santa Maria del Giglio di Erika Reginato

***** o solo questa penna e questa pena nient’altro per librarmi e dare forza al tempo peso giusto e lieve esatta limatura, nient’altro perché fiorisca il cuore qui ed ora, prima dell’ultimo tramonto in questo campo inaridito e arato dal dolore.

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«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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rdia al Mito: la scommessa di Giuseppe Conte Rispolverarlo non significava certo rifarsi a un repertorio di belle favole bensì alla memoria delle origini e della storia dell’uomo. La mitologia greca, come quella di altre aree cultuali dalle quali Conte attinge a piene mani, risponde alla domanda del «perché» delle cose. Nella prospettiva inaugurata dal poeta obbliga l’uomo contemporaneo a tornare a fare i conti con il sacro e il divino e, al contempo, mantiene vivo un sapere disperso attraverso la sua forma elettiva: la poesia. Giuseppe Conte ripropone il poemetto dalla sua prima pubblicazione, Il processo di comunicazione secondo Sade, una piccola silloge apparsa nel 1975 e suddivisa in due sezioni ben distinte: «Il primo regime», tutto giocato sulla quartina da un andamento ritmico sostanzialmente costante e ben distinguibile; «Goethe teppista», a sua volta suddiviso tra una sorta di prologo e dieci componimenti racchiusi sotto la didascalia «frammenti di una conferenza in versi di Giuseppe Conte sul tema: parlare degli alberi». Si trattava di una provocazione condotta contro il «regime» poetico di metà anni Settanta, incentrato su strutturalismo e semiotica, freudismo e marxismo, a quei tempi ormai

inariditosi e non più in grado di interpretare il mondo e l’essere. L’obiettivo polemico erano Brecht («Che tempi sono questi, in cui parlare degli alberi è un assassinio») e Adorno («Nel tempo di Hiroshima la poesia è una forma di assassinio»). Conte si ribella a questi diktat, ben presenti anche nella cultura italiana. A partire da questa primissima prova gli alberi, e la natura più in generale, rappresentano in modo simbolico quella parte dell’animo umano che nel secondo Novecento in poesia aveva stentato a vedersi. Natura ed eros, anima e simbolo, necessitavano, per essere espressi, di una cornice come quella del Mito quale «sapere dell’anima, della Natura, dell’eroe, del destino» (Conte).Temi e figure dell’intera raccolta hanno in nuce i segni del cammino che Conte avrebbe intrapreso. Il debito alla sua formazione, neoavanguardista, è limitato a pochi aspetti formali, mentre rievocare in poesia Adone e Pasifae, ma anche gli Atzechi e i Sioux e il Tao con componimenti per lo più articolati sulla quartina e il respiro del poemetto non era per i tempi operazione da poco. Il tema del ritorno del sole, centrale nella Figlia del Sole e di Perseide, è di

POETI Non ho nulla, ho solo quello che ho sognato e amato nell’assenza che salva e fa infinito il povero bene che ho voluto. di Piero Buscioni

***** addero le stelle come metalli tarlati d’incenso, rigarono in un graffio lo sfondo di un mare di resti neri.

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Caddero una dopo l’altra finché stanche di comparsare tremolanti discese, vollero desiderare e non rimase che il desiderio. di Lorenzo Chiùchiù

certo uno dei più cari al poeta, come più volte si può constatare nell’intero Ultimo aprile bianco. Un sole dove si condensa un carattere forse meno noto del poeta, quello del suo interesse verso la sfera della spiritualità e di un’originale ricerca della dimensione divina. A proposito basta forse rileggere dalla stessa raccolta il solo incipit della poesia Il sogno del giorno dei trent’anni, ispirata da un antico canto atzeco: «Il sole distrugge e dona, il sole/ sa perdersi, ama tutto, e senza/ amore, senza pietà, senza sentire/ nient’altro che il proprio spargersi». Giuseppe Conte muove da sempre, e tuttora, la sua scommessa poetica cercando di porre interrogativi profondi e dubbiosi sulla centralità della cultura e del mondo occidentale. Non è solo, nei fervidi anni Settanta, a credere in questa sfida. Ci sono altre voci che, insieme a lui, rappresentano una delle parti migliori della poesia italiana contemporanea. Si tratta di poeti che corrispondono al nome di Milo De Angelis e Roberto Mussapi, Roberto Carifi a Rosita Copioli, tutti sempre molto malamente definiti, da una frettolosa critica dell’etichettatura, neorfici.

il club di calliope La lunga curva immetteva direttamente sulla spiaggia. La gente la percorreva placidamente certa dell’esito finale. Si chiamava «Strada delle Sables Blancs». Tiziano Boggiato

da Anticipo della notte (Marietti)


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arti

fotografia

La scena dell’arte e il genio di Ugo Mulas di Marco Vallora ucio Fontana, hidalgo nobilissimo, che gli scoppia tra le mani uno scottato Concetto Spaziale, di grès abbrustolito. O il suo strappato occhio da pachiderma, il gioco grafico della sua cintura-solista. Carlo Levi alla Biennale, che scantona complice dietro il tailleur inamidato della leonessa Palma Bucarelli. Il tapiro sospettoso Melotti, Calder clown di se stesso, la solitudine sdentata di Tancredi, la rabbia rappresa di Sironi, che elettrizza temporalescamente il tweed furente della giacca funeraria: un capolavoro. La sigaretta amara e il cappellone da texano di Guttuso, le mani-zampe di gallina di Peggy, la sfinge disabusata de Chirico, lo snebbiato Mirò, che si specchia nella Dama di Pollaiolo al Poldi Pezzoli, la vecchia ciabattante spoletina che aggredisce la scalinata, come nel Ballet Mécanique di Léger, senza nemmeno accorgersi del mostro addomesticato di Moore, che l’attende al vertice trasudato. Due modi di guardare il mondo dell’arte: Panza di Biumo, ombrello da city e colletto-primo della classe, che spiega una tela col ditino didattico e Pierre Restany che se la beve, pipa succhiata e fascio disordinato di libri sotto vento. Lionello Venturi, pizzardone ridanciano tra le forme astratte di Viani e il vetusto Severini, smarrito come un canuto neonato, tra gli specchi finti del Florian. La gioia ballerina dell’angelicato Fautrier, vincitore alla XXX Biennale, e il cappello orfano di Serge Poliakoff, che galleggia nudo, come un apporto medianico, nella sua sala deserta. Morandi, una montagna di diffidente risentimento e Buzzati, cerbiatto braccato tra le scemenze avanguardistiche d’un’ennesima Biennale. La ragnatela dell’occhio basedowiano di Baj e la mano usata di Burri a saggiare la consistenza cedevole del cellotex. Il «professor»

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Restany sorveglia il pennello sciamanico diYves Klein tra i piedoni sconclusionati di David Smith. Il sorriso da comico americano di John Cage e quello fumato, celato da contadino sornione di Giacometti; oppure l’aria da squartatore di Jim Dine, inscatolato nella sua cucinotta piccolo-borghese e l’aura da eterno comunicando di Rauschenberg. Magnifico Duchamp, in trench e trance, quinta newyorkese quasi animata, in un’infilata cruda di spigoli in marmo Mies van der Rohe. Duchamp arrotolato intorno al suo cigarillo svelto, il sedere di velluto a coste scodellato nella lignea poltrona di Brancusi. O Duchamp, pugile leggermente suonato del ring concettuale, che filtra attraverso una tenda come il Prologo dei Pagliacci. Duchamp appeso stanco al suo sigaro masticato, che gioca a scacchi con un se stesso più giovane, su una scacchiera-fotografia di Man Ray. Duchamp che diceva: «si può veder vedere, ma non sentir sentire» e Mulas mette in gioco, spessissimo, questo gioco del veder vedere.Warhol guardato raso terra mentre fotografa un suo affascinante modello, Consagra o Turcato che controllano l’apertura di sipario della loro gloria alla Biennale, Max Ernst scattato a sorpresa, biancocrinito e in sospetto, appeso all’ombrello mondrianesco d’un vaporino in laguna, o mentre si prova docile le scarpe, a Venezia. Anche un filo di serafica cattiveria: le calze in primo piano di Maria Pistoletto, su tronetto, che installa un’opera del marito Barbablù, il critico-guappo e il vanesio estetologo-dandy. Non c’è altro da aggiugere. Mulas: un genio dell’immagine. A Milano, Roma (Maxxi) poi alla Gam di Torino, a giugno. Regale catalogo Electa. Ugo Mulas, La scena dell’arte, Roma, Maxxi, fino al 2 marzo

autostorie

Cara, vecchia 500: mezzo secolo di gloria può essere interessante metterne a confronto due, di approccio e dimensioni li entusiasmi sollevati dall’attuale diverse nonché distanti per fascia di 500, connotata dagli stilemi che prezzo. Il primo libro, di agile formato e rendono inconfondibile la proge- con testo sia in italiano sia in inglese nitrice del 1957, hanno permesso a Fiat (500, by the people for the people, All di cogliere una larga messe di riconosci- Media editore, 380 pagine, 22,00 euro) è menti. Da quello attribuito dall’Uiga - stato redatto da Alessandro Sannia con l’Unione italiana giornalisti dell’automo- il divulgativo rimando, quasi di tipo bile - con il titolo di «Auto Europa 2008», didascalico, alla successione di fotograa quello di una giuria internazionale che fie e di schizzi progettuali che partono in rappresentanza di 22 paesi ha premia- dalla prima 500. Considerata come «una to la 500 come «Car of the Year 2008», in classica icona italiana che ha rappresenuna cerimonia svoltasi questo 28 gen- tato molto più di un semplice modo di naio a Berlino. Un successo di critica trasporto e, con il passare degli anni, la confortato dal prorompente riscontro sua immagine è andata fondendosi con i commerciale e che trova ulteriore avallo ricordi, le emozioni e le esperienze di un nel settore editoriale, con una miriade di numero grandissimo di persone che uscite sul mitico «cinquino». hanno continuato a utilizzarla e che la Fra le tante affluite nella cornucopia, guidano anche oggi». Per questo, argo-

di Paolo Malagodi

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menta il libro, la 500 è un’auto creata «con la gente per la gente»; la stessa gente che ha partecipato via internet alla definizione di un progetto divenuto concreto nel 2003 e che viene illustrato nel suo procedere, sino alla presentazione nel grande show svoltosi a Torino la notte dello scorso 4 luglio, in un suggestivo proscenio galleggiante sul Po. Di tutt’altro spessore è, invece, l’opera di uno studioso attento e rigoroso, quale Enzo Altorio, della storia dell’automobilismo e autore di un volume di grande formato (Fiat nuova 500, edizioni Legenda, 290 pagine, 95,00 euro), che rappresenta una sorta di «summa» difficilmente eguagliabile per quanto c’è da conoscere e approfondire sull’originaria 500. In un’ultima e aggiornata edizione che recupera, dalle precedenti, la prefa-

zione vergata dall’ingegner Dante Giacosa che fu lo straordinario progettista di un modello che «nacque - come annota lo stesso Giacosa - più da una costola della 600 che quale veicolo a metà strada tra la motocicletta e l’automobile, in modo da garantire quei livelli di robustezza e sicurezza altrimenti impossibili nelle microvetture più esasperate». Accompagnata da rare immagini di archivio e da disegni tecnici di grande dettaglio, l’analisi di Enzo Altorio ripercorre così il fenomeno della motorizzazione di massa italiana che, dall’estate del 1957, vide la 500 destinata a ricoprire un ruolo fondamentale nelle vicende nazionali e non solo per la diffusione popolare dell’automobile, ma per il processo di crescita del Paese in anni di tumultuoso sviluppo economico.


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architettura

Mies, la rivoluzione permanente dei musei di Marzia Marandola enelope Curtis, brillante studiosa di scultura contemporanea, della Fondazione Henry Moore di Leeds, affronta il rapporto tra la scultura e l’architettura contemporanee, tra le contiguità e i contrasti che possono nascere allorché si colloca una scultura moderna all’interno di una moderna architettura. Il titolo del libro Patio e Pavilion si riferisce alle architetture predisposte appositamente alla fruizione e alla valorizzazione delle sculture: se il patio è una sala a cielo aperto, il padiglione è una struttura temporanea, in origine delimitata da setti leggeri e mobili, in luogo di pareti. In entrambi i casi l’ambiguità spaziale del contenitore esalta le valenze atmosferiche della scultura, assicurandole quella misurabilità immediata che viene negata dall’esposizione all’aria aperta. Il dialogo tra architettura e scultura è focalizzato su sette casi esemplari. Al padiglione di Barcellona (1929) di Mies van der Rohe, icona dell’architettura del Novecento, è dedicata la prima lettura, che indaga con sottigliezza filologica le condizioni della scelta della scultu-

P

ra bronzea il Mattino di Georg Kolbe. Alla magia luminosa del Salone d’Onore, il padiglione ideato da Edoardo Persico, con la statua turbinante della Vittoria di Lucio Fontana, per la VI Triennale di Milano del 1936, segue il Cranbrook Campus di Detroit (1934-1942). Un complesso destinato alla formazione artistica, progettato da Eliel Saarinen, che volle disseminarne le architetture con una profusione di sculture di Carl Mille, come fosse una mostra permanente di sculture en plein air. Questi primi tre esempi, risalenti all’anteguerra, introducono al saggio centrale sul progetto di Mies van der Rohe di un museo per una città di 70 mila abitanti, pubblicato su The Architectural Forum nel 1943, dunque in piena guerra, in un numero monografico ottimisticamente intitolato New Buildings for 194X. L’analisi del progetto ideale suggerisce una riflessione a tutto campo sulle straordinarie prefigurazioni che Mies elabora sui musei e che attuerà nella Neue Nationalgalerie di Berlino del 1960. Le configurazioni di Mies rivoluzionano la museografia del dopoguerra e ancora oggi rimangono di viva

attualità. Lo dimostra il successivo caso studio direttamente influenzato da esse: il patio delle sculture del Museo di arte Moderna (MoMa) di New York, di Philip Johnson, modello dei nuovi musei americani. La magnifica Gipsoteca di Possagno, dove Carlo Scarpa esalta con la luce le candide tonalità dei gessi di Antonio Canova, rivela la vicinanza di Scarpa allo scultore Arturo Martini e la condivisione del rapporto tra architettura e scultura. Conclude la rassegna il padiglione temporaneo ideato da Gerrit Rietveld per l’esposizione scultorea nel parco di Sonsbeek ad Arnhem nel 1955 e le sue singolari repliche. Demolito a fine mostra, il padiglione dalle nitide scomposizioni neoplastiche, conoscerà ben due ricostruzioni. Una a Otterlo nel 1963 e un’altra di Aldo van Eyck nel 1965 a Sonsbeek, sullo stesso sito e con lo stesso impianto di quello di Rietveld di dieci anni prima. Penelope Curtis, Patio and Pavilion. The Place of Sculpture in Modern Architecture, Ridinghouse, London - The J. Paul Getty Museum Los Angeles

moda

Cercasi identità (maschile) disperatamente di Rita Salemi n questa primavera elettorale l’uomo alla moda porterà lievi camicie di garza, bermuda e giacche in pelle di iguana, impermeabili corti e traslucidi, rispolvererà il papillon e le bretelle. Si vestirà come se passasse dal campo da golf alla tavola da surf, dallo skate alla vela, come se non avesse priorità più alte del lino ben stirato. Ma i veri problemi arriveranno con l’autunno-inverno: alle molte incognite politiche si aggiungono quelle del guardaroba. Vedremo davvero tanti uomini con il minigonnellino arricciato da esibire, a mo’ di fascia da smoking, con un kilt ricavato un vecchio plaid o tre cappelli uno sull’altro, con sontuosi anelli di pelliccia attorno al collo o tabarri di zibellino? Probabilmente no, ma basta dare un’occhiata a fotografie, mostre, sfilate e look di celebrity per avere la certezza che l’uomo è in crisi, e gli stilisti fanno del loro meglio per vestire lussuosamente la sua mancanza di identità. Per prestargliene una, per-

I

dute ormai le certezze del dress code. Un uomo senza cappotto d’inverno (al massimo con un soprabito marmorizzato che gli regala un’aria perplessa) e con il trench semilucido, meglio turchese, d’estate. Un uomo che sembra si chieda: chi sono? Dove vado? E soprattutto, perché sono vestito così? Appena ieri l’invenzione del concetto di metrosexual (lanciato da Marian Salzman, Ira Mathathia e Ann O’Reilly) prometteva un nuovo, rivoluzionario profilo maschile, e invece è già passato di moda. Si è frammentato in comportamenti e stili di vita, uno più incerto dell’altro. L’uomo «emo», che piange molto, adotterà cravatte striminzite e pulloverini pastello. L’uomo tecno si appassionerà ai marchingegni per caricare l’I Pod con l’energia solare incorporati nella giacca (da usare prima del tramonto), gratificando il suo inconscio infantile. Il macho, beh, sceglierà nel solito armamentario di borchie, giubbotti, cinture e stivaletti cow abbinabili a baffi e barba di tre giorni. Il «new bloke», femmini-

sta e naturopata, si sentirà indeciso tra le suggestioni birmane e il tartan. Mentre ritorna, inesorabile il neodandy. Ma poi, come sempre accade, l’idea platonica della moda si incarnerà nel cinquantenne che per svecchiare il look compra le sneackers argentate e il gilet viola sbiadito. La tentazione di far emergere «il lato femminile» è evidentemente irresistibile. A cominciare dai colori. Li avete visti i verdini, gli arancio, i glicine che balenano anche sotto il gessato più severo? Poi c’è la vanità rivelata dai tessuti, colpa grave, secondo il tribunale rivoluzionario che condannò Maria Antonietta. Diventata, più delle previsioni del tempo, argomento di conversazione: hai visto il cashmere tessuto con il visone? Il neoprene con la vigogna? Certo, potremmo ricordare la ricchezza di velluti, broccati e gioielli mostrata da insospettabili condottieri. Ma allora la moda era simbolicamente legata al potere, oltre che al denaro. Oggi è la è fragile corazza che nasconde un uomo senza qualità (tranne quella del vestito).


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ai confini della realtà

i misteri dell’universo

La prima lettera? La tracciò una

donna

di Emilio Spedicato i sono delle persone all’origine della scrittura? La domanda può apparire paradossale ma ogni scoperta è di solito dovuta a un individuo, magari in collaborazione con altri e certo in un contesto che ne favorisce (o impedisce!) la scoperta. Ma per eventi assai lontani nel tempo determinare chi ne sia stato responsabile è usualmente impossibile. Qui però proviamo a valutare due proposte, una che individua nella donna l’invenzione della scrittura a ideogrammi, l’altra che suggerisce che la scoperta dell’alfabeto sia stato il maggiore contributo «scientifico» dell’uomo. Il Fiume Giallo è il secondo maggiore fiume della Cina, lungo circa 4500 km. Discende dal Tibet nord-orientale, costeggia il sacro massiccio dell’Anye-Machen e poi compie una immensa curva nella terra arida del Gansu prima di entrare nella pianura della Cina vera e propria dove scorre fra protezioni artificiali che dovrebbero evitarne le disastrose alluvioni. A metà circa del suo corso, nella zona da cui originarono gli Han con la loro civiltà antica di almeno 4000 anni, ci sono dei villaggi dove sino a qualche decennio fa si verificava lo straordinario fatto di una lingua segreta trasmessa fra le donne e da queste utilizzata, e parimenti di una scrittura usata anch’es-

C

sa solo dalle donne. Con l’arrivo della rivoluzione comunista e della modernizzazione lingua e scrittura non sono state più trasmesse alle nuove generazioni e quindi sono condannate all’estinzione. Solo persone molto anziane le conoscono ancora in parte e per questo, dopo la rivoluzione culturale, sono state oggetto dell’attenzione di filologi che vogliono recuperare tutto quanto sia ancora presente nella loro memoria. Sono state poi scoperte tombe datate circa 6000 anni fa, quindi a un tempo antecedente le civiltà sumere ed egiziane (ma non indiana). In queste tombe è stata trovata documentazione di scrittura identica a quella preservata dalle donne di questi villaggi, incredibile esempio della stabilità della trasmissione di informazioni culturali. Si tratta qui del più antico esempio noto di una forma di scrittura, e dobbiamo pertanto mettere in evidenza come essa sia associata a una cultura femminile. A 6000 km di distanza troviamo la terra dei Sumeri, popolo la cui origine era ritenuta in Dilmun, misteriosa regione che è possibile identificare non con l’isola di Barhein, ma con il Tibet nord-orientale sulla base di considerazioni fatte in altra sede. I Sumeri avevano una divinità femminile della scrittura (cuneiforme la

Il più antico esempio di scrittura, emerso da tombe risalenti a 6000 anni fa, è identico a quello che le donne di certi villaggi cinesi si trasmettevano di generazione in generazione, insieme a una lingua segreta. Fino alla rivoluzione comunista… loro e sillabica, quindi una forma più avanzata) e i loro sovrani imparavano a leggere e scrivere da una sacerdotessa. Anche qui troviamo un’associazione fra scrittura e donna. Passiamo ora all’alfabetico cosiddetto fenicio, da cui seguono gli alfabeti moderni. I fenici, il nome vuol dire rossi, entrano nel Mediterraneo occupando parte della costa del Libano nel decimo secolo a.C., provenendo, come racconta Erodono all’inizio delle sue storie, dal Mar Rosso, ovvero dall’Oceano Indiano.

Questo è il tempo del grande impero di Salomone, la cui esistenza storica può essere arguita sulla base della correzioni di alcuni clamorosi errori geografici e cronologici compiuti dalla storiografia ufficiale (che procede dichiarando invenzione l’intera Bibbia). Salomone ebbe in visita la Regina di Saba, proveniente non dalla Yemen ma assai probabilmente dall’India Meridionale, terra del dio Shiva/Siva/Saba/Sheba…. E persona non solo di strepitosa bellezza ma di immensa scienza e sapienza. Certo conosceva oltre a yoga e tantra anche la scrittura dell’India, originata nella valle dell’Indo e della Sarasvati almeno due millenni prima, basata su una lingua «misteriosa», che recentemente il filologo Schieldman e l’informatico Subhash Kak hanno dimostrato essere una forma antica di prakrito. Tale lingua si scriveva in forma sillabica. È allora vietato pensare che Salomone, dotato come ogni uomo di una mente analitica, abbia avuto l’idea di semplificarla riducendola alla ventina di suoni fondamentali? E che le scritture a ideogramma possano essere state invece originate dall’opera di una, o più donne, si accorderebbe con il fatto che il cervello femminile è usualmente migliore di quello maschile nella capacità sintetica.


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