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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Anselma Dell’Olio elodramma straziami-ma-di-artesaziami, thriller mistificatorio, horror psicologico kitsch, psicodramma sessuale isterico, frullato freak di La mosca, Eva contro Eva e Scarpette rosse, poltiglia stregonesca, scaltra guilty pleasure al cubo, opera d’arte sublime: si è scritto e detto di tutto su Il cigno nero, coinvolgente film di Darren Aronofsky (The Wrestler, Requiem for a Dream, L’albero della vita, l’unico tonfo) ed è tutto vero. Il cigno nero ha aperto la Mostra di Venezia nel settembre scorso, fischiato dalla stampa italiana, non da quella internazionale. Succede che noi critici fighetti ci facciamo ingannare da un eccesso di snobismo sofistico. Persino chi tra noi preferisce la fetta di torta alla fetta di vita ha pensato che Aronofsky era scivolato sul Grand Guignol e i clichè più triti: la concorrenza ferrigna tra primedonne, la stage mother che soffoca la figlia con le sue ambizioni frustrate, la ballerina tecnicamente impeccabile e repressa (il cigno bianco) che deve liberare la bestia oscura (il cigno nero) in lei, il coreografo mefistofelico, tiranno e seduttore, la tortura sado-masochista obbligatoria per partorire l’eccellenza, l’eros che libera la farfalla dal crisalide, blablabla. A prima vista ci siamo detti no, stavolta il regista, Leone d’oro per The Wrestler, un gran film che ha rilanciato la carriera di Mickey Rourke, ha toppato. Restava un tarlo; Aronofsky non è un qualsiasi mestierante. Ci sono cineasti i cui fallimenti sono spesso più interessanti dei successi da box office dei mestieranti. Nina Sayers (Natalie Portman) è da quattro anni in una compagnia di danza classica modellata sul New York City Ballet (con la stessa sede, Lincoln Center). Thomas Leroy (Vincent Cassel) è il direttore artistico autocratico, esigente, adorato e temuto, come il leggendario George Balanchine. S’inizia con le ballerine riunite nell’allenamento quotidiano davanti agli specchi (realtà quotidiana e metafora di narcisismo e sdoppiamento).

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Il balletto di Tchaikovsky secondo Darren Aronofsky

L’OSSESSIONE DEL CIGNO

Acclamato e vituperato, “Black Swan” del regista di “The Wrestler” è un’altra stupenda pagina di cinema. Non un “girly movie” per vecchie ragazze nostalgiche, ma un altro capitolo del suo trattato in forma di film sulla follia. Da non perdere

Parola chiave Voce di Maurizio Ciampa John Cale classico e rocker di Stefano Bianchi

Memoriette

Picassate alla siciliana di Leone Piccioni

Oui, je suis Josephine Bonaparte di Gabriella Mecucci Javier Marías si racconta di Pier Mario Fasanotti

Carracci & Co. nel Genus Bononiae di Marco Vallora


l’ossessione del

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La maîtresse de ballet dà un colpetto alla spalla di numerose ballerine. Alla fine annuncia: «Tutte le ragazze non toccate, vadano nel camerino delle soliste; le altre negli spogliatoi». Nina è tra le fortunate, candidate étoile del prossimo balletto: Il lago dei cigni di Tchaikovsky, la vetta da scalare per ogni ballerina classica. Odette è una principessa pura, lirica, trasformata in cigno da un mago. L’incantesimo finirà solo se sarà amata da un uomo fedele. Durante la sola ora notturna in cui Odile torna donna, incontra Siegfried, un principe in cerca di moglie. Lui è rapito e giura che amerà solo lei. Odile torna cigno, lasciandogli in pegno una piuma bianca. Durante un ballo il giovane incontra Odette (il cigno nero), straordinaria seduttrice molto somigliante a Odile, che danza per lui. Il principe è incantato, credendola Odile, e chiede la sua mano; quando si rende conto dell’inganno, è troppo tardi: Odile è cigno per sempre. Siegfried implora perdono ma il mago scatena una tempesta sul lago per annegarlo. Al cigno bianco non resta che suicidarsi tra i flutti.

Thomas sceglie Nina per il doppio ruolo ma le dice che è credibile solo come cigno bianco; è troppo legata, perfezionista, ingenua per il doppio ruolo, il più difficile di tutto il repertorio. La incalza durante le prove, la marca stretta, la pungola, la tormenta: ha la precisione, la dolce innocenza di Odile ma è troppo schiava della tecnica per essere credibile come cigno nero. Odette è passionale, libera, un’ammaliatrice con arti di seduzione tali da obnubilare la mente e scatenare le pulsioni autodistruttive di un uomo innamorato di un’altra. La «accusa» d’essere ancora vergine, le palpa la patata, la eccita e le ordina di tornare a casa e toccarsi. Nina s’addormenta al suono d’un carillon con la musica del Lago dei cigni (che ha pure sul cellulare) in una cameretta tappezzata di disegni infantili e pupazzi di peluche.Vive in una simbiosi paraincestuosa con la madre Erica (Barbara Hershey, brava da incubo e con un doppio ruolo), danzatrice fallita che dedica la vita interamente alla carriera della figlia. L’amoreodio tra madre e figlia è la più intricata delle rivalità femminili. Quella più tradizionale è con l’amica-nemica Lily (Mila Kunis) che Thomas chiama da San Francisco per fare da sostituta a Nina. Sensuale, scafata, tatuata, senza complessi, è la più pericolosa delle contendenti (tutte le soliste lo sono) e manda in paranoia Nina. Kunis ha guanciotte piene, lo sguardo invadente. La minuscola Portman, già un fuscello, ha perso dieci chili e si è allenata per mesi per aderire alla parte. Con le ossicine sporgenti, il viso scavato e gli occhi da cerbiatta spaventata, il contrasto con Lily è netto. La più navigata la trascina in discoteca, con rimorchio di ragazzi e anno IV - numero 7 - pagina II

la via, senza più avere bisogno di una custode. Il cigno nero, visto la seconda volta, senza dover seguire la trama e districare i fili della voluta confusione tra fantasia e realtà, suscita ammirazione per la stupenda pagina di cinema realizzata dal regista, dal suo direttore della fotografia Matthew Labatique, d’origine filippina, e dal montatore Andrew Weisblum. Labatique (Requiem for a Dream, L’albero della vita) sa catturare le visioni allucinatorie e deliranti immaginate dal regista, per esprimere stati interiori. I tre collaboratori hanno raffinato ulteriormente l’uso della Snorricam (Mean Streets, Babel, Il milionario) detta anche bodycam, imbragata sul corpo dell’attore, e di molti primi piani e immagini fast motion, poi montati a pezzetti in rapida successione, per simulare una psiche alterata dalla droga o dalla psicosi e la caotica mescolanza tra sogno e realtà. Si chiama montaggio hip hop (dai videoclip del genere musicale) e lo usa, in maniera molto diversa, anche Guy Ritchie (Lock, Stock, and Two Smoking Barrels, RocknRolla).

consumo di ecstasy. In Nina, che lo stress delle prove e il terrore di fallire hanno reso borderline psicotica, si scatenano desiderio, pulsioni omicide, autolesionismo: sono graffi sulla schiena o ali che spuntano? Il confine tra vero e fantastico, e tra io, super-io e subconscio sparisce. La scena più fantasiosa, in un film dove debordano, è quella in cui le danzatrici si fanno intorno a Nina dopo una caduta in palcoscenico, chiedendole premurose se sta bene. Secondo gli addetti ai lavori, è pura fantascienza. Ognuna starebbe col fiato sospeso nella speranza di poterla sostituire in caso d’infortunio. Il conflitto con la madre è ben diverso, più morboso, scisso, ambiguo, il segreto malato incistito nella complicità. Le ballerine stanno sempre a dieta: la forma e il peso ideale sono da custodire sempre con la massima vigilanza. Erica compra una torta ipercalorica per «festeggiare» l’assegnamento del ruolo agognato alla figlia, che gliel’ha detto subito. Nina guarda il dolce con disgusto: «Mamma no, non riesco a mangiare, ho ancora lo stomaco chiuso dall’emozione». Mammina cara da festante si rabbuia, prende il trionfo di pasticceria e fa per buttarlo nella spazzatura, furibonda. Nina, persa davanti all’ira della persona che passa la vita a compiacere, la blocca. La donna rispolvera un sorriso agghiacciante, prende una ditata della glassa cremosa e la infila nella bocca tremante della sua «bimba», che si sforza di non vomitare.Tra le molte scene disturbanti, è la più inquietante, patologica, verosimile.

Verso l’alba Nina si sveglia e comincia a muoversi sotto il piumone a fiori rosa. Si sta toccando a occhi chiusi. Arrivata vicino all’orgasmo, si gira sulla pancia: sussulta quando scopre la madre appisolata sulla poltrona accanto al letto, dove ha passato la notte: è una hover mother, la madre colibrì che non rispetta i confini, un’altra immagine di puro orrore. Poco dopo, portando fuori la spazzatura, Nina raccoglie un bastone di legno tra i bidoni, che usa per bloccare la sua porta contro l’invadenza della mamma. È l’inizio della rivolta. Il cordone ombelicale riceve un secondo strattone brutale quando la madre non la sveglia dopo la notte brava con Lily, e senza interpellarla chiama la compagnia per dire che la figlia sta male e non andrà alle prove. Nina fuori di sé si veste di corsa, mentre la madre le sibila che non è in grado, il ruolo è troppo per lei, non ce la farà mai. «Io sono la regina dei cigni» urla Nina mentre scappa via, «e tu non sei nessuno!». È scioccante rendersi conto che la premura materna è lastricata di gelosia, della voglia di ostacolarla. Se la figlia fallisce l’obiettivo, resta sua e uguale a lei; se lo centra, dimostra la sua superiorità e vo-

cigno

IL CIGNO NERO - BLACK SWAN GENERE DRAMMATICO DURATA 103 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE 20TH CENTURY FOX

REGIA DARREN ARONOFSKY INTERPRETI NATALIE PORTMAN, MILA KUNIS, CHRISTOPHER GARTIN, WINONA RYDER, VINCENT CASSEL, BARBARA HERSHEY, SEBASTIAN STAN, TOBY HEMINGWAY, KRISTINA ANAPAU, JANET MONTGOMERY

Qualcuno potrebbe scambiare un film sulla danza per roba da femmine, un girly movie per le legioni di vecchie ragazze che hanno ballato sulle punte da piccole. Sarebbe una lettura riduttiva e molto superficiale. Il costo psicofisico dell’etereo splendore del balletto è alto e cruento: piedi deformati e sanguinanti per lo sforzo innaturale, ore e ore di massacranti prove quotidiane, il sacrificio di una giovinezza spensierata e di una vita privata appagante. L’autore (con tre sceneggiatori tutti maschi) è ossessionato dall’ossessione stessa. Pi - il teorema del delirio (premio per la regia a Sundance) è la storia di un matematico paranoico, che impazzisce nell’inseguimento di un numero chiave che schiuderà i segreti dell’universo. Requiem for a Dream (Ellen Burstyn candidata all’Oscar), dal romanzo di Hugh Selby Jr., racconta il maniacale perseguimento dello sballo perfetto e duraturo e la follia che ne consegue. L’albero della vita parla della ricerca della fonte d’eterna giovinezza, almeno credo; il film copre mille anni, tre storie in epoche diverse, con gli stessi attori. Fischiato alla Mostra di Venezia, è bello, noioso e incomprensibile. Dato per morto artisticamente, Aronofsky risorge con The Wrestler (proprio come Rourke), un successo di critica e al botteghino. È sempre la storia di uno che sacrifica tutto e mortifica il corpo per la sua professione. «La fissazione è peggio della malattia», si dice, e secondo alcuni critici è Aronofsky stesso che va liberato dalla sindrome che mette in scena così bene. Portman è la favorita per l’Oscar e Il cigno nero merita le cinque nomination ricevute: film, regia, attrice, montaggio, fotografia. Si potrà amarlo o criticarlo ma non mancarlo. Da vedere.


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parola chiave

19 febbraio 2011 • pagina 13

VOCE utto, o quasi tutto ciò che appartiene all’uomo passa attraverso le vibrazioni di una voce: il canto è voce, e lo è il sussurrare della parola d’amore, lo è il grido lacerante del bimbo alla nascita, o il rantolo estenuato dell’agonizzante. La voce scandisce i tempi e le espressioni della vita e della morte. La voce è l’uomo, è la sua storia. Affastellando questi pensieri, mi sono tornate alla mente le parole di un grande scrittore olandese contemporaneo, forse il più rappresentativo della sua letteratura, o comunque il più conosciuto anche da noi. Si chiama Cees Nooteboom e ha sorprendentemente descritto la città di Amsterdam, dove vive parte dell’anno, nell’alternarsi delle sue voci. Ma ogni città - questo è il pensiero di Nooteboom - è un teatro di voci, presenti e passate, un accatastarsi, sovrapporsi, stratificarsi di suoni e di voci, la cui somma assume un segno probabilinconfondibile. mente Amsterdam, Parigi, Londra o Roma o New York hanno un suono, una voce così come hanno una luce che le caratterizza e le differenzia.

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Una città - ha scritto Nooteboom - «è tutte le parole che in essa furono dette, un continuo, interminabile mormorare, sussurrare, cantare, gridare che è risuonato nel corso dei secoli per poi dissolversi. Per quanto sia svanito nel nulla, è parte integrante di una città anche ciò che non sarà mai possibile ricostruire, ma che le appartiene per il semplice fatto di essere stato detto o gridato in una notte d’inverno o in una mattina d’estate proprio in quel punto. Le parole del predicatore ambulante, la sentenza del tribunale, le grida di dolore del fustigato, l’offerta fatta a un’asta, l’ordinanza, il manifesto, la manifestazione, il libello, l’annuncio di morte, la voce della sentinella, le parole di re, suore, prostitute, capi di Stato, giudici, boia, navigatori, mercenari, guardiani delle chiuse, architetti, questo continuo dialogo lungo i canali nel corpo vivo della città, tutto questo costituisce la città stessa». Mi sono dilungato in questa citazione, perché mi risultava difficile staccarmi da un’immagine tanto seducente: la città come insieme delle voci che l’hanno attraversata, ordito, labirinto di voci. La forte seduzione di questa immagine viene proprio dalla lunga, dettagliata elencazione delle voci e dagli eccentrici accostamenti cui dà luogo: «le parole del predicatore ambulante… di re, suore, prostitute, capi di Stato, giudici, boia…». È in questo coacervo sonoro che si sente scorrere, pulsare, passare la vita. Come il battito del polso o il ritmo del cuore, così le

Scandisce i tempi e le espressioni dell’esistenza e della morte: è l’uomo, è la sua storia. Lo stato delle cose si coglie dai suoni che esse emettono e che sono la manifestazione di ciò che è vivo

In ascolto del mondo di Maurizio Ciampa

A Marrakech Elias Canetti andava a caccia di umane sonorità attraverso le quali decifrava la città. Invece Pavel Florenskij, rinchiuso per quattro anni nel gulag delle Solovki e poi eliminato, colse il segno di quell’oppressiva esperienza nella cappa di silenzio che lo circondava voci, nella loro stordente pluralità, scandiscono lo spazio della città e ne formano la storia.

Dicevo all’inizio che la voce è l’uomo. Mi pare che le parole di Cees Nooteboom abbiano chiarito il senso di un’affermazione che, sulle prime, poteva apparire eccessivamente sintetica. Era un modo, probabilmente troppo rapido, per dar conto di una nuova significativa attenzione che passa attraverso la voce. A guardar bene, è presente da tempo nella nostra cultura. In un libro di oltre trent’anni fa Rumori - l’economista Jacques Attali diceva: «Il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta». E, più all’indietro, ci sono i due libri straordi-

nari di Elias Canetti, Le voci di Marrakech e Il testimone auricolare con le sue «fisionomie auditive». Possiamo immaginare il burbero Canetti come un abile cacciatore di umane sonorità, capace di leggere lo stato del mondo nelle inflessioni di una voce. O nella sua assenza, come fa il grande filosofo e teologo russo Pavel Florenskij, rinchiuso per quattro anni nel gulag delle Solovki e poi brutalmente eliminato. Che cosa immediatamente nota Florenskij? Quale è il segno della sua nuova terribile esperienza? Un’oppressiva cappa di silenzio. Ma perché il silenzio dove, in uno spazio esiguo, soffocante, si accalcano tanti uomini? Per Florenskij il silenzio conosciuto nel gulag è semplicemente assenza di

voce, quella della natura e quella degli uomini, la tranquilla armoniosa orchestrazione delle voci, un gaio brusio, un grembo di suoni temperati. Ecco il rilievo strategico, nella nostra cultura, della parola «voce». Non deve dunque sorprendere se a Bologna, da una decina d’anni, è attivo un «Centro della Voce», diretto da Lino Britto, che attorno a questa «parola chiave» si muove con grande fervore, promuove ricerca (dalla «voce come codice genetico al suo uso come principale mezzo di comunicazione»), organizza memorabili eventi culturali, come quello dell’anno passato che ha avvicinato, muovendosi tra la Basilica di San Petronio e l’Università, la musica di Arvo Pärt e la costruzione d’immagini di Bill Viola: non un semplice intreccio di forme, ma un dialogo di anime. Molto il Centro di Bologna farà nell’immediato futuro. In fondo, l’esplorazione della voce è solo all’inizio. E si tratta di un continente, non di una circoscritta regione. Sono in questione l’ascolto del mondo, e l’uomo, la sua storia, le sue produzioni simboliche. L’orizzonte è ampio, e può creare un effetto di stordimento in chi si trova a guardarlo.

«Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci», ha scritto Italo Calvino in uno dei suoi ultimi racconti, Un re in ascolto. Una nuova «mappa del mondo», tanto cara a Italo Calvino, una autentica ossessione che percorre tutta la sua opera, forse può partire proprio da questo segno minimo: «C’è una persona viva». È la stessa constatazione che fa Canetti: gli «arabeschi acustici» dei mendicanti di Marrakech, le loro voci che si assottigliano in una litania ripetuta quasi all’infinito, non sono che la sonorità elementare dell’essere vivo. Questo è la voce: la manifestazione di ciò che è vivo e rompe l’involucro del silenzio. Non nasce così il mondo nel racconto di Genesi? È una voce a generarlo, una parola: «Dio disse.“Sia la luce”. E la luce fu». Dov’era il silenzio, il «deserto», le «tenebre», dell’informe, ora si distende l’ordinata geometria della creazione. Ed è la voce che ha percorso quella strada, è la voce che, vibrando, mette in esistenza. «C’è una persona viva»: una voce ne rivela la presenza. Il sapere dell’uomo, la «mappa del mondo», che oggi è un disegno confuso costantemente affacciato sull’indecifrabile, può tornare ad articolare la sua trama a partire da questa constatazione elementare, ma difficile. Possiamo ripartire da una voce.


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Pop

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musica

di Bruno Giurato

Le mode passano MA JEFF BECK RESTA

di Stefano Bianchi are musica, per John Cale, equivale a «inspirare ed espirare». Me lo confidò in un’intervista telefonica. Con la musica ci vive: non tanto nel senso di quattrini (è pur sempre artista di nicchia), quanto di cuore che batte. Una questione fisiologica. L’introverso gallese adottato da New York, negli anni Sessanta organizza con La Monte Young il Dream Syndacate, ensemble votato alla sperimentazione. Poi con Lou Reed, Maureen Tucker, Sterling Morrison e Nico dà vita ai Velvet Underground sponsorizzati da Andy Warhol. Dopo due ellepì, preferisce proseguire da solo pur di restarsene caratterialmente in disparte, chiuso nel suo guscio. E dalla musica, a partire dagli anni Settanta, cava fuori suoni caustici, slabbrati, soavi, romantici. Alternandosi alla viola, al pianoforte e alla chitarra, padroneggiando una voce nevroticamente passionale, John Cale è transitato dal folk psichedelico (Vintage Violence) alla magniloquenza sinfonica (The Academy In Peril); dall’estetismo cameristico (Paris 1919) alla sporcizia rock (Fear); dall’unplugged (Music For A New Society) all’overdose elettronica (Artificial Intelligence); dal pop intellettuale (Walking On Locusts), al technopop obliquo (Hobosapiens). E ogni volta, dal vivo, s’è messo in discussione disossando il proprio repertorio allo scopo di rintracciarne la matrice classica (Fragments Of A Rainy Season) ed esasperando il rock fino a destrutturarlo (Sabotage! Live). Questa doppia identità di musicista classico e rocker, si svela ai massimi livelli nel doppio cd Live At Rockpalast che propone due concerti tedeschi: quello registrato il 6 marzo 1983 allo Zeche di Bochum e quello del 13 ottobre 1984, inserito nel Rockpalast Festival, alla Gru-

eno male che Jeff Beck c’è. Nessun dorma rifatta da lui è un caso unico di grande melodia italiana (meglio di Eros Ramazzotti, nientemeno) non massacrata da rivisitazioni pop. E quel che è davvero incredibile è che la melodia viene da una chitarra elettrica, la Fender del vecchio Beck appunto. Della magnificenza beckiana si sono accorti da tempo quelli dei Grammy Awards, che quest’anno lo hanno premiato per la migliore performance rock strumentale. Ma sono anni e anni che il vecchio Beck fa incetta di premi ai Grammy, le Britney Spears, le Lady Gaga, le Madonne, passano e lui resta. Sempre più anziano (67 anni) e sempre più lirico o spericolato. Beck è il chitarrista famoso anche per non esser mai entrato nei Rolling Stones: dopo l’abbandono di Mick Taylor gli fu preferito Ron Wood. Vero hidalgo del rock, Beck passa più tempo ad aggiustare i carburatori della sua collezione di Ford che a studiare la chitarra. Suona a mani nude, senza plettro, picchiando, torcendo, facendo strillare la chitarra. All’occorrenza tirando fuori delle melodie delicate con tecniche stranissime. Chiunque abbia bisogno di un fuoriclasse lo chiama. È successo a Mick Jagger per il suo disco solista Primitive Cool, a Roger Waters dei Pink Floyd per Amused to death, perfino alla poppettara Imogen Heap, a cui Beck, pare, insegnò a suonare la chitarra in una notte provenzale di chiaro di luna (l’ha confermato la stessa Heap a chi scrive). Il suo disco Emotion & Commotion è un porto sicuro e anche un viaggio pieno di sorprese. E il fatto bizzarro è che una scorbutica vecchia volpe come lui possa ancora regalare emozioni rockissime. Provare per credere.

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Danza

zapping

John Cale

classico e rocker gahalle di Essen. Da solo, sul palcoscenico, Cale accarezza i tasti del pianoforte e pizzica le corde della chitarra acustica. Reduce dalla nudità di Music For A New Society, denuda il proprio canzoniere. Mette in fila, con rigore e un pizzico d’aristocrazia, Ship Of Fools, Amsterdam, A Child’s Christmas In Wales, Buffalo Ballet, Antarctica Starts Here, Cable Hogue… Addolcisce Waiting For The Man di Lou Reed (repertorio Velvet Underground) e illanguidisce Heartbreak Hotel di Elvis Presley. Gioca di fioretto. Seduce la platea. Un anno e mezzo dopo, sale sul palco alle 3 di notte accompagnato da Dave Young (chitarra), Andy Heermans (basso) e Dave Lichtenstein (batteria). Butta gambe all’aria Waiting For The Man, urlandole addosso e riempiendola fino all’orlo di rock tossico. Riprende con furore, solo con la voce, Heartbreak Hotel. Si concede il lusso di

fondere in un delirante rock-blues Pablo Picasso dei Modern Lovers e Love Me Two Times dei Doors. Si toglie lo sfizio d’esasperare la storica Streets Of Laredo di Francis Henry Maynard, tramutando il lamento folk del cowboy in assordante fragore chitarristico. Mena fendenti di spada. Schiaffeggia la platea. Si racconta, in equilibrio sul rock & roll, con Autobiography: pezzo mai proposto prima, che non riproporrà mai più. Dal disco che ha da poco pubblicato, Caribbean Sunset, estrae la canzone omonima più Magazines e Modern Beirut Recital. Dopodiché nevrotizza i suoi classici: balbetta e strangola Fear Is A Man’s Best Friend, manda in cortocircuito Mercenaries (Ready For War), riempie di veleno Leaving It Up To You e Close Watch. Se ancora non conoscete la grandezza di John Cale, scopritela in questo duplice (Vasco Rossi mi passi la citazione) Fronte del Palco. John Cale & Band, Live At Rockpalast, Mig Music, 23,00 euro

Ritratto di Pina Bausch (prima e dopo Wenders) uesto febbraio è stato, ed è ancora, un periodo eccezionalmente dedicato alla figura di Pina Bausch. L’esordio di uno dei mesi più freddi, infatti, è stato stemperato dall’attesissimo ritorno in Italia, dopo un’assenza durata vent’anni, della compagnia di Wuppertal - dal 10 al 13 al Piccolo di Milano con uno degli ultimi stücke della coreografa, Vollmond (2004), in prima nazionale. La capitale, da parte sua, non si è affatto risparmiata, regalando 35’ in compagnia di due donne formidabili: Pina Bausch, appunto, e Susan Sontag. A Primer for Pina, cortometraggio prodotto e diretto per Channel 4 Television da Jolyon Wimhurst nel 1984, è stato proiettato nello spazio Ascolto dell’Auditorium Parco della Musica lo scorso week-end all’interno della rassegna Pina Bausch. Un Ritratto. In A Primer for Pina, le due figure femminili che hanno

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di Diana Del Monte animato il mondo culturare europeo e statunitense della fine del secolo scorso si incontrano - la voce della seconda accompagna le immagini della prima - in quello che appare quasi un atto di devozione e ammirazione della scrittrice americana nei confronti dell’arte coreografica della danzatrice tedesca. Come prevedeva il progetto originario, il film ha fatto da introduzione alla registrazione integrale di 1980, proiettato per la prima volta in Italia all’Auditorium grazie alla collaborazione tra il Festival Equilibrio, Riccione TTV e il Centre Pompidou di Parigi. La rassegna dedicata alla figura dell’artista tedesca scomparsa a giugno del 2009,

che ha riunito oltre venti documenti video tra film e registrazioni di spettacoli della e sulla rivoluzionaria coreografa, si chiuderà domani con le immagini di Bandonéon (1980) e Der Festerputzer (1997). Ma gli stücke sono esperienze, non spettacoli, e devono essere sperimentati in prima persona ogni volta che se ne presenta l’occasione, più volte nella vita ove possibile. La loro forza e il coinvolgimento che ne consegue sono stati croce e delizia per Wim Wenders che, rapito dal lavoro della Bausch dopo aver assistito a Café Müller nel 1985, ha continuato a pianificare un film sull’opera della coreografa tedesca per anni: «Come regista conosco bene il movimento. È un elemento essen-

ziale di ogni film, ma solo quando ho visto per la prima volta un lavoro di Pina ho capito che non sarei mai stato in grado di creare un’opera che avesse la stessa potenza visiva ed emotiva dei suoi balletti. Non sarei mai stato in grado di produrre un movimento simile al suo». La lunga attesa si è conclusa sabato scorso, quando Pina è stato presentato fuori concorso alla 61esima edizione del Festival di Berlino. Accolto con un lungo, caloroso e sincero applauso da parte di pubblico e critica, il film, interamente girato in 3D nell’amata Wuppertal, è un montaggio di alcuni frammenti di quattro lavori Le Sacre du printemps (1975), Café Müller e Kontakthof (1978), Vollmond - scelti in accordo con la stessa Bausch e ripresi tra il 2009 e il 2010. L’uscita nelle sale tedesche è prevista per la fine di febbraio mentre, per quanto riguarda la sua distribuzione in territorio italiano, non si hanno, purtroppo, notizie.


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arti Musei

arà un effetto anticipato del federalismo strenuamente voluto dalla Lega (ma qui si ritorna addirittura al municipalismo guelfo-ghibellino) eppure è difficile non rendersi conto che in un’Italia che perde ormai i pezzi, in cui crollano muri storici e chiudono istituzioni e fondazioni preclare, e persino spezzoni importanti d’università, dolosamente affamate, scompaiono in un vischioso silenzio, e in cui i sovrintendenti vanno e vengono, sospinti dal vento come pedine di dama, e i ministri preposti non entrano nemmeno più in ufficio, è impossibile non accorgersi che alcune virtuose città, in un fattivo questa volta silenzio, danno prova di operazioni serie e affidabili, non tutte legate all’effimera voga delle mostre passa e vai. Per dire: qualcosina a Firenze, qui e là qualcosa a Torino, nel bailamme persino a Roma, poco, notoriamente, nella finta-Capitale Milano (a parte quel «coso» imprendibile del nuovo Museo di Arte del Novecento, con scale mobili a paillettes lampeggianti e il «Quarto Stato», come in un outlet di moda, incassato in una vetrinona, con tutti i riflessi della città che sale e s’agita, in piazza, pur di entrare). Ma suvvia, si giunga finalmente alla nostra meta Bologna, che via dalla pazza confusione euforica delle mille concordanze espositive eruttate da Arte Fiera (più o meno valide, talvolta basta solo il numero), poco a poco svela il lavoro corposo fatto in questi anni, da parte della Fondazione Carisbo e della caparbia volontà mecenate di Fabio Roversi Monaco, nel senso di questo decentrato Museo della Città, ovvero Genus Bononiae. E si parta appunto dal cuore pulsante del vecchio Palazzo Fava, edificio cinquecentesco, che ritrova una sua nobiltà un po’ pomposa, sede ritrovata dopo cinque anni di doverosi lavori, che mostra soprattutto gli acquisti (talvolta un po’ discontinui) fatti in questi anni

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Architettura

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Carracci & Co.

forse fin troppo privato, di un viaggio d’una famiglia bolognese nella Shanghai primo Novecento, «quando la Cina era ancora lontana»: storie di porti, dogane, fidanzamenti, colonialismo e Boxer, non nel senso di Signorini e Lele Mora, che oggi passano da intellettuali. Allora: la vera verità è che noi avremmo voluto arrivare alla mostra bolognese, che più ci stava a cuore, perché la più umile e più nutritiva, quella dedicata alla Madonne di Vitale da Bologna al vicino Museo Medievale, e che vi consigliamo comunque di vedere, noi ritorneremo presto a parlarne. Ma ci rendiamo conto che lo spazio si è ormai esaurito, e non siamo nemmeno entrati nel restaurato e vicino, sontuoso Oratorio di San Colombano, trasformato in un prezioso museo degli strumenti originali a tastiera, spinette, forte-piani, clavicembali, virginali, salteri, appartenuti al celebre organista bolognese Ferruccio Tagliavini. Che ci accompagna, col suo suono antico, nella visita di questo spazio barocco, dov’è difficile però non esser colpiti dallo sguardo contrito e dal tornito corpo, assai duccesco, del Cristo affrescato nella cripta, e che dovrà essere ancora attentamente studiato, anche per capire le influenze giottesche e senesi in questa compagine locale. Ma ovviamente la visita a Palazzo Fava non può concludersi senza il debito omaggio agli ariosteschi affreschi dei Carracci, che raccontano cinematrograficamente «il racconto cappa e spada» del vello d’oro, dove la maga-bambina Medea, al lume di una acerba luna «compie un lavacro di purificazione, pudica e fragile come una moderna bagnante di Degas, carnale e languida», come ha scritto felicemente Anna Ottani Cavina.

nel Genus Bononiae di Marco Vallora dalla Fondazione e che soprattutto, nel suo sfarzo nobiliare, tradisce un poco il classico limite delle collezioni bancarie, per quanto prestigiose. E così, hai pur voglia di lavorare in stile antica quadreria e di accrochage astuto e balzano, ma che risultato complessivo puoi ottenere, mostrando accanto (e in cagnesco) alte opere silenti di Melotti, Martini, Sironi e De Pisis, cheek to cheek però con il chiasso cromatico di rovinosi quadracci della Transavanguardia e qualcosina di locale, di ancor peggio, se possibile? Viste le possibilità

dei quattro livelli espositivi, inevitabile e un poco prevedibile il ricorso al tour de force d’omaggiare, comunque, i secoli che si sfogliano, in salita, placcando il Novecento-storico al pianterreno, riservando il piano nobile al classicismo ideale e Bellori del naturalismo bolognese, senz’ancora per ora sollevare gli occhi alle magnifiche e distraenti decorazione del soffitto. Poi, via via salendo, un divertente e magari anche didattico confronto tra la Bologna fotografica di un tempo e la Bologna attuale e infine uno story-board,

Sinfonia in rosso per lo scrigno del vino

ull’onda delle grandi case vinicole europee e americane, anche numerosi proprietari di piccole aziende agricole hanno investito nella ricerca di qualità architettonica per l’edificio della cantina, divenuto esso stesso manifesto di propaganda del prodotto vinicolo. Non solo archistar si sono cimentate in questo inedito tema progettuale, ma anche giovani architetti hanno avuto occasione di mettersi alla prova: come è accaduto nel recente ampliamento della cantina Martín Berdugo. In un’area a nord della Spagna, la Ribera del Duero, dal fiume che rende il terreno fertile, una zona rinomata per la produzione di vino, sorge la Martín Berdugo, una piccola azienda vinicola spagnola a conduzione familiare, che da poco più di cinque anni ha allargato il proprio mercato e ha inserito la vendita diretta di vino in situ. L’immagine architettonica della cantina Berdugo, completata nel 2004, è affidata alla giovane progettista Maria Viñé, con la collaborazione di Vicky Daroca, dello studio Vi-Vo di Zurigo. I committenti chiedono un edificio giovane, innova-

S

di Marzia Marandola tivo e inusuale, che trasmetta l’idea di persone audaci, che vogliono sperimentare le nuove tecnologie, senza rinunciare al tesoro della tradizione, e che intendono rispettare e valorizzare il paesaggio circostante. L’architetto Viñé assume dal paesaggio rurale aspro, ghiaioso, coperto a vigneti di tempranillo, un grappolo rosso con sfumature violacee tendente al nero, i cromatismi e le grane materiche che sostanzieranno il progetto. Sul paesaggio orizzontale la cantina emerge come una cassaforte, un prisma ermetico ed enigmatico, uno scrigno che nasconde e protegge un prezioso prodotto: il vino! Apparentemente senza aperture, il volume è in realtà intaccato, oltre che da due grandi aperture per gli ingressi, da numerose finestre rettangolari, strette e allungate, poste sui lati lunghi del volume, ma schermate da pannelli sporgenti. Il volume offre facce geometricamente e cromaticamente differenti su ogni fronte così come in copertura, infatti alla semplicità elementare di pianta corrisponde un’articola-

zione volumetrica complessa. Le pareti esterne, composte dall’assemblaggio di pannelli cementizi, che talvolta plasticamente slittano verso l’esterno, uscendo dal filo della parete, alternano colorazioni a fasce dal colore rosso brillante o rugginoso a rustiche porzioni in grigio cemento. La nuova cantina si affianca parallelamente alla preesistente, un anonimo capannone in cemento, e ne riprende la pianta ad aula unica rettangolare. I grandi ingressi industriali, con apertura a saracinesca metallica, sono allineati e tagliano trasversalmente l’aula, che resta divisa in due ambienti: uno maggiore di circa 2/3 dell’intera lunghezza, destinato alla conservazione del vino in barrique, e uno minore destinato ai macchinari per l’imbottigliamento. Alla geometria variabile dei pannelli è associata anche una colorazione attenta del calcestruzzo di ogni pannello, a tratti lasciato grigio, oppure chiazzato da macchie e sfumature del rosso dal vermiglio al carminio, fino a raggiungere scure ombreggiature, volumi intensi che richiamano le tonalità accese del corposo vino rosso del Duero. L’architetto Viñé ha sapientemente composto uno scrigno plasticamente articolato, che durante il giorno riluce colorato da rosse sfumature e tonalità cromatiche in apparente e continua variazioni, mentre di notte svanisce affiorando con sottili fasce di luce soffusa.


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iglia di un «Grand Blanc» della Martinica, Rose Josephine Tascher conosce il suo destino da uno stregone locale: «La tua vita è oltre le grandi acque. Sei stata salvata per uno scopo». E sarà così. La ragazza creola, bellissima e sensuale, diventerà in Europa, al di là dell’Oceano, Giuseppina Bonaparte, moglie di Napoleone. Una grande storia la sua più volte raccontata, ma nelle cui pieghe si trova sempre qualcosa di nuovo e di affascinante. Caroly Erickson aveva già scritto la sua biografia, ma ora rivisita il personaggio in un romanzo dal titolo, La vita segreta di Giuseppina Bonaparte (Mondadori, 396 pagine, 19,00 euro). È lei, la femme fatale, a ricostruire la sua vita in prima persona, guardandola con gli occhi indeboliti di una donna ormai anziana.

F

Tutto inizia con la lettura del primo biglietto amoroso ricevuto. A inviarglielo Scipion du Roure, l’ufficiale di cui s’innamorò quando ancora viveva alla Martinica: «Rosa di tutte le rose, mia bella signorina Tascher... Fino al nostro nuovo incontro vi bacio le mani, gli occhi le labbra, vi bacio tutta». Così prende le mosse la narrazione che la Erickson, straordinaria scrittrice di biografie, definisce un «divertisemment storico» non «un romanzo storico». Nel romanzo si intrecciano fatti realmente accaduti (molti) con altri che sono frutto dell’invenzione dell’autrice. Alla fine con una breve nota si viene a sapere ciò che è vero e ciò che non lo è. Ma torniamo alla lussureggiante Martinica e ai primi giovani uomini che at-

Alexandre non sopportava la vitalità e l’indipendenza di Josephine, di cui disse ai quattro venti che era una prostituta, e ben presto i due si separarono. Sola, in una Parigi che non l’amava, ma che non le faceva paura, la bellissima creola dette prova della sua straordinaria maestria nell’arte di cavarsela: si mise in affari con il barone Rossignol (prestiti a strozzo) e in poco tempo si arricchì, tanto da poter mandare parecchio danaro al padre rimasto alla Martinica. Presto tornò anche lei, ricca e potente, nella sua amata isola. Lì reincontrò Donovan e la magia del suo amore, ma a causa di una sanguinosa rivolta dovette fuggire per sbarcare di nuovo in Francia dove è costretta ad assistere, a Parigi in piazza della Rivoluzione, al supplizio dei «traditori della Repubblica». Fra i ghiliottinati c’era il suo vecchio socio in affari, barone Rossignol, accusato di aver prestato i soldi alla vedova Capeto. Così era chiamata Maria Antonietta, dopo che al marito era stata tagliata la testa. Josephine precipita nel gorgo del Terrore, viene arrestata e reincontra in carcere Alexandre. Lei riesce a evitare la ghigliottina, lui no. Salva e fuori dalla galera, la bella creola, ormai trentenne, conduce una vita di eccessi: un uomo dietro all’altro sino ad arrivare a Paul Barras, membro del direttorio che rovesciò Robespierre. Fu lui, cinico, ricco e corrotto a favorire l’incontro di Josephine con Napoleone. Lei, divenuta ormai molto abile nelle scalate al potere, non si lasciò sfuggire l’occasione. Intanto si era inserita anche nel businesss delle forniture all’esercito, fonte di un fiume di da-

Maestra nell’arte di cavarsela, si arricchì con i prestiti a strozzo e nel business delle forniture all’esercito. Sesso e denaro, del resto, erano le sue grandi passioni traggono Rose. C’è Scipion, che le resterà amico per tutta la vita. E c’è soprattutto Donovan, un ragazzo bianco e bellissimo, ancora più giovane di lei, che le farà scoprire il sesso sulla spiaggia bianca dell’isola caraibica. Un’esperienza che Rose-Josephine non dimenticherà mai: «Quel lungo pomeriggio scoprii di essere fatta per l’amore. Amavo Scipion con tutto il cuore, ma avevo amato quel ragazzo, quell’estraneo con il mio corpo. E, dei due generi d’amore, l’amore del corpo era il più forte e il più ricco e desiderabile. Compresi allora che a quell’amore avrei sempre ceduto, per quanto cercassi di resistere». Una frase questa che anticipa il futuro di Josephine: la sua sensualità dirompente che non si sottometterà mai a nessun potere, ma sceglierà sempre per il suo piacere. E infatti, la storia con Donovan durerà per tutta la vita: sarà suo amante anche durante il matrimonio con Napoleone. Anzi, sarà la causa prima delle terribili gelosie dell’imperatore. La vita agiata, immersa nel paradiso della Martinica, viene interrotta da una decisione del padre: Josephine andrà in Francia dove diventerà la moglie di Alexandre de Beauharnais, un nobile tanto bello per quanto cinico e violento, che sarà giustiziato durante il Terrore. Prima di scomparire però infelicitò la vita della moglie quanto più possibile: basti ricordare che il primo dei due figli (Eugène e Hortense) sarà il frutto di una violenza carnale del marito ubriaco. anno IV - numero 7 - pagina VIII

naro e di parecchi futuri guai. La prima volta che vide il generale corso, lui le si rivolse così: «Si dice siate una delle donne più desiderabili di Parigi, a dispetto dell’età». E lei: «Non so se ringraziarvi o darvi uno schiaffo». Napoleone si innamora come un ragazzo. Le scrive biglietti appassionati. Lei non lo ama, pensa piuttosto a Donovan e continua, anche se stancamente, a incontrarsi con Barras. Nonostante ciò, quando il generale le chiede di sposarlo, risponde: «Non posso fingere che i miei sentimenti per voi siano forti quanti i vostri per me. Tuttavia, dopo aver riflettuto, ho deciso di accettare la vostra proposta di matrimonio». Un discorsetto freddo al quale il generale, in partenza per la Campagna d’Italia, risponde con l’entusiasmo di un adolescente innamorato. Il matrimonio avviene in

il paginone

In un “divertissement storico” di Caroly Erickson, la creola che divenne imperatrice dei francesi si racconta in prima persona. Tra realtà e un po’ di finzione, la vita, gli amori, la scalata al potere di un personaggio che si è trasformato nel tempo in icona di trasgressività

Oui, je Josephine di Gabriella Mecucci tutta fretta: gli impegni bellici premono e Bonaparte ha fretta di sposarsi. Cerimonia spartana fra una donna ormai trentaduenne che porta sul suo corpo i primi segni di una giovinezza che si va allontanando, e un ventisettenne comandante dell’esercito, bruttino, sporco e geniale.

Josephine, prima e dopo il matrimonio, continua a coltivare la sua bollente relazione con Donovan, che gli chiede, senza successo, di tornare con lui alla Martinica. La seducente creola ha tre passioni che non tradisce mai: il sesso, la ricerca del potere, danaro. Quando Napoleone - mentre trionfa in Italia - la vuole con sé, la desidera, la prega di raggiungerlo, lei attraverserà le Alpi in compagnia dell’amante. A Milano c’è il primo impatto con l’odiosa famiglia còrsa dei Bonaparte: con mamma Letizia, occhiuta e moralista che se la prende con la nuora per la sua infertilità, con la sorella Elisabetta, bruttina e grassoccia, con Paolina, bella e di facili costumi che

accusa in compenso la cognata di avere centinaia di storie di sesso, con il fratello Giuseppe, perfido sino al punto di tentare d’uccidere Josephine. Insomma, un mostruoso caravanserraglio che il giovane generale si porta dietro, che lo adula e lo sfrutta. E cerca soprattutto di metterlo contro la moglie, accusata di essere una «donna perduta», che lo «riempie di corna e di discredito». All’inizio, Napoleone, ancora molto attratto dalla bellezza e sensualità di Josephine, la protegge: non crede alle storie che gli vengono raccontate su Donovan e si limita a chiedere alla moglie di non esagerare con le sue speculazioni nel rifornimento delle salmerie dell’esercito. Poi, soprattutto gli affondi di mamma Letizia e di Giuseppe cominciano a far breccia. La campagna d’Egitto fa il resto. È Eugène, ormai valoroso ufficiale dell’esercito francese, che scrive alla madre per raccontargli come stanno andando le cose. Oltre alle ragazze offerte dai ricchi sceicchi ma


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e suis Bonaparte

snobbate da Napoleone, «c’è un’altra donna, chiamata Cleopatra o Beillotte. È la bastarda di un cuoco. Il generale l’ha incontrata al Tivoli egiziano, una sala da ballo del Cairo... Il generale l’ha sedotta soltanto perché ha saputo che voi e Monsieur de Gautier (Donovan) siete amanti. Prima non l’aveva mai voluto credere. Ma adesso sì». Da allora vennero riversate su Josephine le peggiori cattiverie da parte del marito: tradimenti, rabbia e vendetta. Solo grazie alla mediazione del figlio Eugène, molto amato dal patrigno Napoleone, ogni tanto il clima teso e rissoso della coppia si stemperava in qualche tenerezza. Ma la situazione era insopportabile. Si arrivò così all’incoronazione di Bonaparte: con un gesto di sfida verso il Papa, fu lui medesimo a poggiare il diadema sulla sua testa e, subito dopo, su quella della moglie. Sono imperatore e imperatrice di mezza Europa. La sensuale creola, ormai invecchiata, dotata di una sensualità ancora forte ma fanée, guarda dall’alto del trono la sua lunga e strabiliante carriera. Si ricorda del vaticinio dello stregone caraibico, si compiace di averlo trasformato in realtà, ma non può non soffrire dei malatrattamenti e dei tradimenti continui dell’imperatore e delle cattiverie della famiglia Bonaparte. E ha sempre più bisogno della

marito è perduto e il suo malanimo verso di lui esplode: fa tutto il possibile per aizzargli contro l’esercito, per mettere gli uomini uno contro l’altro. Per favorire, insomma, il crollo. In mezzo a quella tragedia ritrova anche Donovan, ferito molto gravemente. Lo cura, lo salva, mentre Napoleone precipita sotto lo sguardo cinico e soddisfatto di quella moglie ormai cinquantenne, sul cui volto è svanita l’antica bellezza e sono comparsi i solchi della sofferenza e dell’età. Josephine va prima a Milano dal figlio Eugène, poi di nuovo alla Malmaison, Donovan la segue.

È qui che la donna passa gli ultimi giorni della sua vita avventurosa. Poco prima di morire scrive: «Una parte di me ha sempre camminato nel mondo come una straniera, portando un dono che non ho mai compreso. Muoio avendo condotto a termine il mio compito. Lascio dietro di me un soffio di mistero, un dolce profumo che viene da un luogo lontano. Ricordatemi». E la sensuale creola è rimasta nel tempo un’icona di bellezza, di spregiudicatezza, di indipendenza, di trasgressività. A suo modo, titolare di un fascino indimenticabile. Il romanzo della Erickson è piacevole. La prova da romanziera è superata, il «divertissement storico» funziona. Ma

Non nascose mai di non ricambiare i sentimenti di Napoleone con la sua stessa intensità. Ma alla fine la relazione tra i due fu costellata dalle peggiori cattiverie

La Malmaison, la dimora preferita di Josephine. A sinistra, un ritratto di Hortense, figlia di Josephine e di Alexandre de Beauharnais. Sopra il titolo: un ritratto della moglie di Bonaparte, già incoronata imperatrice; un particolare della “Consacration de Napoleon” di Jacques-Louis David e la copertina del libro di Caroly Erickson

protezione e delle calde carezze di Donovan. Il cane si morde la coda: Napoleone viene a conoscenza degli incontri e s’incattivisce sempre di più, lei, sofferente non può che cercare conforto fra le braccia dell’amante. Vive una vita difficile nel Palazzo de Le Tuileries, dopo aver abbandonato l’amata Malmaison. Si avvicina a grandi passi l’esito finale: la tragedia di Napoleone e della Francia. L’imperatore guida la Grand Armée, Josephine fa parte del seguito: il suo odio verso quell’uomo che, del resto, non aveva mai amato, si acuisce. Come sia andata la storia è noto: l’arrivo in una Mosca deserta, la mancanza di cibo e di legna per scaldarsi, la terribile ritirata. Dolore, sconfitte, morte. Josephine capisce che il

in coda - così come fa l’autrice - occorrerà mettere in chiaro ciò che è frutto dell’invenzione. Innanzitutto, Josephine non andò al seguito della Grand Armée nella tragica Campagna di Russia. Non è mai esistito un suo amante di nome Donovan, ma è vero che ebbe numerose storie con uomini più giovani di lei: uno di questi, Hippolyte Charles era molto attraente e la loro relazione durò molto a lungo. Per tutto il resto, i fatti narrati nel romanzo rispondono - fatta salva qualche licenza - alla verità. La protagonista somiglia molto alla Josephine vera. Una vita straordinaria: fatta di inimmaginabili successi, di avventure e di piaceri, ma anche di sconfitte cocenti e di insopportabili dolori. Finita fra pochi, amatissimi amici.


Narrativa

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ncora un esordio narrativo di giovane scrittore. In questo caso scrittrice non letteralmente esordiente, ma con alle spalle qualche rapsodica pubblicazione breve. È l’inizio d’anno e inizio stagione dei premi e sembrerebbe anche questo libro di Barbara Di Gregorio, Le giostre sono per gli scemi, appartenere al gruppo di giovani romanzieri, partito qualche anno fa da Paolo Giordano, coccolato e spesso creato dai grandi gruppi editoriali. L’esordiente è quindi alla moda, attira lettori e critici, fa vendere e sbanca i premi. Sembra di essere tornati ai primi anni Ottanta, quando l’esordio di De Carlo, Del Giudice, Busi e Tabucchi, fece ripartire il motore della rinascita del romanzo e della narrativa italiana. Curioso ricordare che a quasi trent’anni di distanza oggi le scrittrici la fanno da padrone, mentre allora le donne faticavano a trovare la voce e la forza per imporsi sui più aggressivi gruppi editoriali. Sono invece più di dieci anni che il romanzo ha invertito il senso, le donne sfiorano la maggioranza, gli ultimi premi Strega e Campiello su tutti, sono stati a prevalenza femminile per partecipazione e vincite. Torniamo alla nostra scrittrice in esame, fuori dai luoghi comuni, è sempre meglio verificare sul testo la qualità e la tenuta dei testi gridati e lanciati, e non si fa un buon lavoro quando si intruppano gli scrittori nelle categorie. Ma anche questo libro, dopo Giordano e Avallone, torna su tematiche e personaggi noti. I due principali protagonisti sono adolescenti e fratellastri da parte di madre, Leonardo e Chicco. Il luogo dove si muove la storia è la grande provincia italiana. Dentro questo mondo conosciuto va detto anche che ci sono due cose che colpiscono e fanno ben sperare in questa nuova scrittrice: un taglio espressivo denso e deciso, una tematica non di moda che avvicina l’occhio (e l’orecchio) al mondo del nomadismo, sintetizzato brutalmente come il mondo zingaro, che vive ai margi-

libri Barbara Di Gregorio LE GIOSTRE SONO PER GLI SCEMI Rizzoli, 279 pagine, 18,00 euro

A

La casa della

zingara Un altro esordio al femminile: il mondo del nomadismo alimenta di magia lo stile denso di Barbara Di Gregorio

Riletture

di Maria Pia Ammirati

ni delle nostre piccole e grandi città. «Pescara è la città degli zingari. Famiglie che hanno girato il mondo per secoli, e a un certo punto si fermano… e decidono di diventare normali». Pescara provincia benestante e contraddittoria come la rappresentazione della famiglia che vien fuori dalla storia, famiglie fuse su altre famiglie con alla base la radice zingara della capostipite, nonna di Leonardo, una zingara che nel tentativo di far perdere le tracce del nomadismo crea una casa come una sorta di fortino segreto e inespugnabile, che invece andrà perduta. «Faccia da zingara, parlata da zingara, camminata da zingara… hai voglia di vestirsi di nuovo. Hai voglia a chiudersi dentro una casa, ma lei s’immaginava che bastasse perché da lontano sembrassero tutti signori». La storia che procede anche per colpi di scena che cambiano la visione realista, peraltro mai veramente affrontata come si potrebbe, ha un suo alone di narrazione magica. La prima parte è dedicata al tenero rapporto tra Leonardo e Chicco, uno spaccato familiare dove si condensano i grumi di rapporti faticosi e difficili tra figli e genitori, dove i fratellastri sono un gruppo contro un altro (madre e padre), dove il dissidio si nasconde dietro la normale routine che in realtà non è altro che la ripetizione di gesti di necessità: il sonno, il cibo e la scuola. La seconda parte cambia repentinamente d’umori. Leonardo abbandona la famiglia ricomposta, Chicco si sente abbandonato dall’elemento concreto e vitale della casa. Comincia una fase di ricerca da cui saltano fuori le radici e le persone perdute: la radice zingara e una strana vena di follia che sono l’eredità vera della nonna di Leonardo. Chicco, il ragazzo bulimico e intelligente, è il ponte fra due mondi, uno apparentemente normalizzato, l’altro corrotto dalla necessità di normalizzarsi.

Con Croce alla scoperta dell’Anticristo che è in noi a Fondazione Corriere della Sera ha stampato e diffuso un libro dedicato agli scritti di Benedetto Croce pubblicati sul quotidiano di via Solferino. Il volume è edito nella collana «Terzapagina» che raccoglie gli scritti e gli articoli di altri importanti uomini della cultura e del pensiero che collaborarono o lavorarono con il Corriere. Non so bene dove il mio lettore potrebbe reperire il testo, ma so per esperienza che nulla è più bello ed entusiasmante della ricerca di un libro perduto o non facile da recuperare. Quando, al termine della ricerca, si avrà finalmente tra le mani il libro tanto desiderato, la lettura sarà più bella e istruttiva. Io stesso, sapendo di non trovare il nuovo testo crociano in libreria, mi sono rivolto direttamente alla Fondazione che, con voce cortese - quella della segretaria -, mi ha detto: «Mi dia l’indirizzo che glielo spedisco». Ho atteso, non senza trepidazione, qualche giorno e il libro è giunto a casa mia con mia grande felicità (in fondo, mi accontento di poco). Benedetto Croce e il Corriere della Sera: questo il titolo del libro che raccoglie quanto il filosofo pubblicò sul quotidiano milanese dal 1946 al 1952. Infatti,

L

di Giancristiano Desiderio Croce non scrisse nulla per il Corriere prima del 1946. Giuseppe Galasso, nella ricca e bella introduzione al volume, spiega perché e ripercorre la storia dei rapporti tra il filosofo e il Corriere oltre a soffermarsi sull’idea che Croce ebbe del giornalismo e che praticò. Tra gli scritti crociani per il Corriere ci sono alcune grandi pagine che il lettore di Croce avrà già avuto modo di leggere e apprezzare. Faccio un solo esempio. Lo scritto L’Anticristo che è in noi uscì il 3 agosto del 1947 per poi essere ripreso nel volume Filosofia e storiografia due anni dopo. Sapere o scoprire che questa altissima pagina crociana uscì per la prima volta sulle pagine di un quotidiano - autorevole quanto si voglia, ma pur sempre un giornale che, come si sa, il giorno dopo è buono per l’uso dell’incartamento del pesce o dell’insalata - fa senz’altro un certo effetto. Il mio lettore la potrà rileggere scorrendo le pagine di questo «testo giornalistico» di Croce e, forse, ne potrà apprezzare ancor meglio lo spirito di verità che contiene una volta e per sempre. «In verità”, dice quel testo, «l’Anticristo non è

Gli scritti del filosofo per il “Corriere della Sera” (dal ’46 al ’52) raccolti in volume

un uomo, né un istituto, né una classe, né una razza, né un popolo, né uno Stato, ma una tendenza della nostra anima, che, quando non sia fa sentire in essa operosa, vi sta come in agguato; e non sale dagli abissi a muoversi nel mondo né nasce umanamente di donna, sebbene taluni credano di averlo incontrato: non viene tra noi, ma è in noi. E anche quando noi lo aborriamo e lo combattiamo con tutte le nostre forze, non lo rendiamo mai a noi esterno ed estraneo, perché nessuno di noi si può distaccare con un taglio netto, sicuro e definitivo dalla società e dall’umanità alla quale appartiene, né rinnegarla e disconoscerla e credersi puro tra gli impuri, irresponsabile delle colpe altrui, le quali, non meno che le azioni buone, hanno un’origine che oltrepassa il singolo e comprende tutti». Dopo tanta altezza, ritorno alle cose di quaggiù, ricordando qualche curiosità. Una in particolare mi preme riferire, ossia l’affanno dei direttori del Corriere, e soprattutto di Guglielmo Emanuel, che volevano pubblicare in esclusiva gli scritti di Croce. Il filosofo non badava molto a queste regole e i suoi scritti potevano essere editi in vari giornali. Il Corriere, che già sapeva di essere il Corriere, voleva l’esclusiva, ma Croce non si curava più di tanto della cosa.


Memoriette

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sisteva per salire sull’ultimo vagone perché «era il meno pericoloso». Era invece il più pericoloso di tutti.

Trovo in un libro di Camilla Baresani questa battuta: «Dio saprà quanto deve a Bach?».

n sacerdote di Chiusi, don Moisè, guidava una sera una macchina sull’autostrada con due preti a bordo. La polizia stradale lo fermò per eccesso di velocità e cominciò a scrivere la contravvenzione. Don Moisè scese dalla macchina, prese sottobraccio un agente e camminò con lui per un po’ ai bordi dell’autostrada; tornato indietro fece lo stesso percorso con l’altro agente. Poi risalì in macchina, accese il motore, ripartì senza nessuna contravvenzione. «Come ha fatto?», gli chiesero i compagni di viaggio. «Poverini - rispose don Moisè - era tanto che non si confessavano. Li ho confessati io».

U

Definizioni da far risalire a Mazzacurati: Moravia, «l’amaro Gambarotta»; Cardarelli, «il più grande poeta morente»; Guttuso, autore di «Picassate alla siciliana». Di un pittore che era anche scrittore notissimo Vincenzo Talarico diceva: «Come non ti piace di più: come scrive o come dipinge?». A Ungaretti in una festa celebrata negli Stati Uniti all’Università di Harvard, una giovane studentessa chiese quanti anni avesse: «Dipende - rispose Ungaretti - dall’intenzione con la quale me lo chiede».

A Pienza c’era un barbiere molto piccolo di statura e molto spiritoso. Andato in pensione si divertiva a dirigere il traffico nel crocevia della città. Un giorno si fermò accanto a lui una macchina con tre o quattro giovanotti in vena di scherzi che gli chiesero: «Da che parte dobbiamo andare per andare dove ci pare?». Il barbierino rispose con calma: «Se volete andare al mare dovete preseguire diritto e poi svoltare; se volete andare a Firenze fate otto chilometri di strada a sinistra e poi c’è il bivio; se volete andare a Roma dovete passare per Chianciano; se poi volete prendervela in quel posto siete belli e arrivati». La vita umana a Pienza tende tranquillamente alla vecchiaia.Ogni tanto si vedono degli annunci funebri sui muri delle strade: chi è morto a 80 anni, chi a 87, chi addirittura a 90. Un pullman di visitatori siciliani si incuriosì a vedere queste longeve età. Chiesero: «A Pienza si vive così a lungo?». «Sì rispose un passante. Qui si muore solo per cause naturali». Un contadino della provincia di Pistoia di un paese che si chiama Gello, durante la guerra dalla Libia scriveva ai suoi: «Qui non si fa altro che rinculare. Rincula rincula, speriamo di rinculare fino a Gello».

Meridione

Per la sceneggiatura televisiva dei Promessi sposi chiamammo il grande scrittore Riccardo Bacchelli (regista Sandro Bolchi). Una volta Bacchelli ci disse: «Siete fortunati perché per Manzoni avete chiamato uno scrittore degno di lui». E aggiunse: «Queste cose se non me le dico da solo non me le dice mai nessuno».

Picassate

alla siciliana di Leone Piccioni Un amico romano aveva una grossa macchina americana che voleva vendere. Non era molto esperto di guida. Con un probabile cliente andò verso il centro e arrivato a Piazza Barberini cominciò a girare intorno alla piazza. Più girava e più si accostava ai lampioni, fino a sfiorarli. In queste incerte manovre stava sospingendo un ciclista vicino a un lampione: «Che vuoi? - gli disse questi.Vuoi che m’arampico?». Di un italianista come Luigi Russo, Piero Bargellini indicava il suo gusto per essere sempre al centro dell’attenzione: «Nei matrimoni - diceva - vorrebbe essere lo sposo, nei funerali il morto».

Gianpaolo Cresci, segretario di Fanfani, e uomo di relazioni pubbliche della Rai, invitò a cena in un ristorante di lusso, a Roma, Silvana Mangano, Flaiano, me e altri. Ma Cresci stette ben poco a tavola perché era di continuo chiamato al telefono. «Il dott. Cresci al telefono… il dott. Cresci al talefono» per tutta la sera. Ma la conversazione fra noi non si interruppe mai. Alla fine Flaiano ringraziò a nome di tutti e disse: «Caro dott. Cresci una di queste sere La inviteremo noi e faremo una cena direttamente alla Teti». Morandi e Manzù dovettero una volta prendere un treno insieme. Morandi in-

Bacchelli aveva gelosamente nascosta una relazione con una signora sposata. Un suo amico, il bibliofilo Marino Parenti, un giorno passando sotto la casa di Bacchelli vide affacciata alla finistra una bella signora bionda, e lo disse a Bacchelli. Rispose: «Ero io!». Un grande amico di tanti anni fa, Annibale, non si poteva certo definire un bel ragazzo, ma era molto simpatico e cercava qualche compagnia femminile. Aveva una specie di garçonnière subito dopo il centro di Roma: ci si arrivava con un tram e poi c’era da fare un bel pezzo di strada piuttosto in salita. Annibale con una ragazza arrivò in cima stremato e si buttò su una sedia. «Cosa ti devo fare?» chiese la ragazza, e Annibale dopo una piccola pausa: «Fammi un caffè!».

Quei 300 mila in fuga verso tutti i Nord del mondo fantasmi del Sud sono i giovani per i quali non c’è un lavoro per affermarsi. Sono la coda di una Questione meridionale in un Mezzogiorno neppure più «colonia di consumo del Settentrione produttivo». E infatti emigrano, almeno in 300 mila all’anno e verso tutti i Nord del mondo, con la borsa in pelle del portatile al posto della valigia di cartone. E sono braccia e cervelli, perché a 150 anni dall’Unità d’Italia qui vale sempre il motto siciliano «cu nesci arrinesci». Giulio Tremonti è convinto che non esista «un problema di crescita nazionale», ma «un problema meridionale». E appena può ricorda che senza la zavorra del Mezzogiorno il reddito procapite italiano passa da 25.800 a 30.445 euro, superando quindi in benessere diffuso Gran Bretagna, Germania e Francia. Ma se si guarda la classifica dal basso, dal Sud, la Penisola finisce alle spalle della Grecia. Questa differenza la riempiono gli economisti Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano nel loro saggio Ma il cielo è sempre più su?, spiegando che il gap è dovuto alla pessima gestione che nell’area si fa del capitale umano: perché anche quando si impongono livelli di formazione molto alti, non si fanno i conti con un

I

di Francesco Pacifico mercato locale incapace di assorbire le figure professionali prodotte. Bianchi e Provenzano - anche essi meridionali che hanno avuto successo oltre il Garigliano - descrivono con il piglio degli etologi una generazione che ha scelto come luoghi d’elezioni gli aeroporti, le stazioni e i caffè delle piazze dei loro paesini quando si torna a case per le vacanze. Perché per il resto dell’anno si produce ricchezza a Milano o a Modena come a Londra e a New York. E nel 30 per cento dei casi si tratta di un’emigrazione precoce, visto che ci si laurea fuori. Per poi diventare emigrazione precaria, legata a contratti a tempo e alla speranza di rientrare, quindi senza alcuna possibilità di fare progetti a lungo termine come un figlio o una casa. È precarietà nella precarietà. In questo scenario, scrivono gli autori, «studiare serve soprattutto a emigrare. In particolare per coloro che, non provenendo da famiglie agiate, non possono godere di quel sistema di relazioni informali che rappresenta ancora al Sud uno dei principali canali di acces-

so al mercato del lavoro. Ma a emigrare sono proprio i migliori». E il 41,5 per cento dei laureati lo fa. Quello di Bianchi e Provenzano è un cahier de doléances, la cui forza sta proprio nel fotografare con i numeri l’assenza di mobilità sociale, la sconfitta di una generazione che non ha saputo sfruttare i sacrifici dei padri per lasciare una società più giusti a i figli. Nel libro non c’è spazio per le eccellenze del Sud che permettono in alcuni casi all’area di competere con i Paesi più dinamici. Perché la colpa principale della classe dirigente è quella di ostentare i pezzi migliori, non preoccupandosi di integrarli in un progetto complessivo, che parta da una più virtuosa ridistribuzione delle risorse pubbliche. La soluzione, lo Stato, potrà apparire banale, ma è difficile pensare a qualcosa di meglio in un microcosmo che si blinda con la scusa che «ogni soldo trasferito nella migliore delle ipotesi è sprecato e nella peggiore finisce direttamente alle mafie». Luca Bianchi - Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su?, Castelvecchi-Tazebao, 200 pagine, 14,00 euro


Personaggi

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molto probabile, anzi auspicabile, che l’Accademia svedese prima o poi prenda in considerazione lo scrittore spagnolo Javier Marías (nato a Madrid nel 1951) come persona degna del premio Nobel. Marías, che conosce molto bene l’Italia e la nostra lingua, ha vinto la trentaseiesima edizione del premio Nonino, oggi tra i più seri. Claudio Magris ha detto di lui: «È uno scrittore totale, si confronta con il tempo, sa fare i conti con l’essere umano in tutte le sue pieghe e nella sua opacità». Marías, pur avendo sempre affermato di non essere «un cronista» anche se si occupa, in profondità, del tempo, a Percoto (Udine), sede della premiazione, si è associato ad altri intellettuali nell’additare un mal di vivere non solo individuale ma collettivo, un mondo in crisi. E si è detto disposto a ragionare sui rimedi possibili a quel male dilagante che è l’impunità. Il riferimento alla situazione italiana era esplicito: Marías, come tanti altri intellettuali, parla con la gente, consulta il termometro emotivo di noi italiani. Il Premio Nonino è riferito alla trilogia Il tuo volto domani, pubblicato come tutti gli altri suoi romanzi dalla Einaudi. L’ultimo tomo è sottotitolato «Veleno e ombra e addio». In Italia ha cominciato a diventare famoso con Un cuore così bianco, romanzo che ha mostrato appieno le sue doti narrative che lo accostano ai grandi scrittori dell’Europa, e non solo del Novecento. Marías è uno scrittore che non si isola dal tempo in cui vive. La «lezione» che ci viene proposta è la seguente: la capacità umana di provare sentimenti verso gli altri può diventare la nostra salvezza.

ALTRE LETTURE di Riccardo Paradisi

SE IL MERCATO È ÜBER ALLES

È

Aiuta, e molto, a comprendere Marías come scrittore e come uomo il libro-intervista edito da Passigli, Voglio essere lento (139 pagine, 14,50 euro). Cominciamo dal titolo, che segnala un comportamento di vita in controtendenza. Marías non usa il computer. Scrivere a mano gli permette di essere lento, con l’obiettivo di «perdere il tempo, nel senso che lo consumo, che lo uso a mio piacimento, che lo uso a mio piacimento nella misura in cui mi è consentito, giusto perché non ho fretta». Ripete, nell’intervista alla studiosa Elide Pittarello: «Voglio perdere il tempo. Ed è esattamente questo che mi consente il romanzo». Marías considera «macchiette» quegli scrittori che non riescono a staccarsi mai dalla scrittura. Lui passa del tempo a fare altre cose, viaggia, soggiorna in altre città (a lungo ha soggiornato a Venezia). Ma di recente ha avvertito la necessità di tornare tra i suoi personaggi come se questi gli garantissero un rifugio sereno. È così a suo agio tra le figure che inventa che vorrebbe, talvolta, diventare lui stesso un personaggio. Non si è mai sposato, ha avuto varie relazioni, in specie con donne che vivevano lontano: «In maniera più o meno inconscia mi sono dato da fare per non costruire qualcosa di simile a una famiglia». Ha un peso significativo, a questo proposito, una frase contenuta in Il tuo volto domani: «Magari nessuno ci chiedesse mai niente». In Un cuore così bianco si legge di un uomo al quale pesa molto l’idea di alzarsi dal letto e che la persona

hi ha davvero il potere, oggi, nel mondo globalizzato? I governi degli Stati con i loro leader politici? O piuttosto le grandi multinazionali e i supermanager? O la potenza anonima e misteriosa della grande finanza? Il giusto equilibrio tra potere politico e potere economico, ricorda Massimo Terni nel suo La mano invisibile della politica (Garzanti, 185 pagine, 16,60 euro) era un tema di riflessione già ai tempi della Grecia classica ma che la recente crisi finanziaria ha reso di esplosiva attualità tanto più che il trionfo del mercato ha portato a privilegiare l’homo oeconomicus sull’homo politicus, rovesciando la prospettiva del pensiero politico occidentale che da Aristotele a Hobbes ha sempre preferito il secondo sul primo.

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Il romanzo come perdita di tempo

Non usa il computer e, in evidente controtendenza con lo Zeitgeist dei nostri giorni, ama la lentezza, specialmente nella scrittura. Javier Marías, vincitore dell’ultima edizione del Premio Nonino, parla di sé in un libro-intervista. E propone un rimedio ai mali di oggi: provare sentimenti verso gli altri ci può salvare di Pier Mario Fasanotti con cui vive sia lì. Lo disturba «il fatto che per stare insieme non intercorra la minima decisione, un minimo previo accordo da parte di entrambi… ha un certo rifiuto a dover assistere costantemente a tutto ciò che riguarda quella persona… ha una certa resistenza a essere eccessivamente testimone della vita dell’altro e che l’altro, a sua volta, sia eccessivamente testimone della sua». Ed ecco il plauso all’assenza «come forma di vitalità e di rispetto». Dichiara Marías, che ha imparato dai suoi genitori il riserbo e il limite alle confidenze: «Credo che a quasi tutte le persone, che lo sappiano o meno, convenga stare sole una parte del giorno, voglio dire fisicamente sole, e che allora possano scegliere». Se oggi la gente ossessivamente vuole «riempire il tempo», Marías rivendica: «Pensare è una delle cose più spassose e divertenti che ci siano, anche se fosse pensare - come si dice in spagnolo - alle ragnatele». È in queste ore che si evidenziano le sfumature, tema ricorrente nella sua narrativa. C’è poi il Marías inevitabilmente cronista - lo è nelle dichiarazioni, negli articoli, mai nei romanzi anche se questi non ignorano la Storia - quando s’indigna della recente deriva etica. La Spagna non è diventata quello che desiderava: «Ora ho la sensazione che non solo nessuno si vergogni di essere ignorante, ma che sia persino orgoglioso di esserlo». E aggiunge: «Questa cosa così spagnola del “sì,

questo non lo so, e allora?”, non so se è un fenomeno generale, se per esempio in Italia succede qualcosa di simile».

L’intervistatrice gli fa notare che per gli italiani la Spagna è diventata di moda, quasi un modello. Risposta: «Il mio è un Paese che ama fare baldoria.Visto da fuori, durante una visita breve, può dare quella impressione. Paese relativamente allegro, sebbene abbia anche un lato molto sinistro… i rapporti col denaro non sono ancora diventati, come succede altrove, sordidi e deprimenti… ma la Spagna è sempre un Paese di cui io non mi fido, che mi spaventa sempre un poco». Spavalderia e volgarità? Sì, anche per queste ragioni. E l’Italia? «L’ho sempre sentita vicina e la trovo abbastanza imparentata con la Spagna. In Italia mi sono sempre sentito quasi come a casa… mi fa però tanta rabbia il fatto che l’Italia sembri andare a rotoli: è una cosa che non le si addice per niente». Fa una distinzione tra partiti europei di destra e di sinistra: «Gli elettori di sinistra sanno ancora reagire di fronte ai comportamenti dei loro rappresentanti. E invece si ha l’impressione che i politici di destra possano contare sugli stessi voti qualsiasi cosa facciano, esattamente come se non avessero fatto niente di male». Per Marías c’è indubbiamente «una malattia morale della società». Che si può chiamare in tanti modi: ignoranza, volgarità, impunità, non distinzione tra pubblico e privato, insopportabili amnesie storiche.

VIVERE FELICI CON PITAGORA *****

precetti forniti dai Versi aurei di Pitagora riguardano l’osservanza degli obblighi religiosi e dei doveri naturali, la vigilanza sulle passioni, la moderazione, la sopportazione dei dolori, la distanza dagli eccessi, l’equilibratura del corpo. Libero nelle sue scelte l’uomo è responsabile della propria condotta, per cui è esortato da Pitagora a riflettere prima di agire, mentre gli viene ricordato che, per un felice compimento delle azioni, sono necessari l’esame di coscienza e la preghiera. Le edizioni Mediterranee pubblicano ora in una nuova versione I versi d’oro (Edizioni Mediterranee, 195 pagine, 19,50 euro), l’introvabile Commentario di Ierocle, la vita di Pitagora scritta da Porfirio e un brano della Vita pitagorica di Giambico. La traduzione è dello stesso curatore dell’opera, Claudio Mutti, che nel saggio introduttivo ha seguito l’evoluzione del lungo rapporto di Evola - di cui viene ripresentata un’introduzione ai Versi del 1959 - con la tradizione pitagorica.

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LE VITE PARALLELE DI BISMARK E CAVOUR *****

amillo Cavour e Otto Bismark sono i costruttoiri degli Stati nazionali italiano e tedesco e soprattutto sono due grandi esempi di leadership politica. Cavour è un leader risoluto nel Parlamento e in forza del Parlamento, tanto che il suo modello diventa attraente anche per i liberali tedeschi anche se l’unità tedesca segue altre strade grazie a Bismark. Il quale incarna il principio d’autorità monarchica, pur utilizzando in modo spregiudicato strumenti democratici. Sullo sfondo degli avvenimenti italiani del 1859-’61 e di quelli tedeschi del 1866-’67 il saggio Cavour e Bismark di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino, 212 pagine, 15,00 euro) ripercorre i processi di decisione politica dei due statisti e i loro stili di governo tra liberalismo e cesarismo.

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MobyDICK

spettacoli

di Enrica Rosso ate un gioco: chiudete gli occhi e visualizzate le sensazioni collegate alla parola marmo, marble in inglese: hanno forse a che fare con il senso di morte? Marble è appunto il titolo del testo dell’irlandese Marina Carr in scena al TeatroVascello di Roma per la regia di Paolo Zuccari. Come nel precedente fortunato allestimento di Zuccari A cena con gli amici di Donald Magulies, quattro i personaggi a dividere la scena. Ben e Hurt, entrambi felicemente sposati e padri di famiglia, sono amici da lunga data. Una di quelle amicizie inossidabili in cui si cazzeggia delle rispettive spose senza freni inibitori supportati da una complicità affinata negli anni. Non solo, i due lavorano insieme. Apparentemente realizzati, galleggiano in una routine senza scampo sostenendosi a vicenda fino al giorno in cui Hurt che per resistere alla barbarie di un’esistenza opaca ha messo in agenda di obnubilarsi con metodo al calar della sera col brandy -, confessa all’amico, con dovizia di particolari, di aver fatto un sogno erotico travolgente, starring la moglie di Ben - una buona moglie che cerca di sopravvivere al tran tran domestico facendo scorrere il tempo tentando di non soffrire eccessivamente. Il problema vero però è un altro. Il sogno si ripete, ogni volta con assoluta soddisfazione. Contemporaneamente anche la moglie di Ben sogna Hurt, di più: vive lo stesso sogno ambientato nella stessa abbacinante camera di marmo, ma soprattutto traendone la stessa impareggiabile soddisfazione. «I sogni son desideri di felicità, nel sonno non hai pensieri, ti esprimi con sincerità», intona la sonnolenta Cenerentola prima di rituffarsi nelle sue poco gratificanti mansioni di tutti i giorni, e conclude: «Tu sogna e spera fermamente, dimentica il presente, e il sogno realtà diverrà». Che dire di più? Un testo-manifesto contro la ritualità dei rapporti siglati dalla noia e in cui l’amore viene barattato quotidianamente con la stabilità di un presente tanto frustrante

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Televisione

Teatro Partita a quattro su marmo bollente

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DVD

MEXICO E BUSINESS A CIUDAD JUAREZ «Il capitale è intelligente. Va dove deve andare». Nelle parole beffarde del responsabile dell’Associazione delle Maquiladoras di Ciudad Juarez, c’è l’amara realtà che investe il Messico. In mezzo al deserto, la Ciudad de negocios è popolata da clandestini che non riescono a passare il Rio Bravo per andare negli Usa. E c’è il business annesso, documentato con puntiglio da Isabella Sandri e Giuseppe Gaudino in Maquilas, ovvero le circa 400 fabbriche delle Export Processing Zones. Luoghi dove non si pagano le tasse, e quasi nulla la manodopera. Opera sintomatica.

BAND

MODELLO RADIOHEAD SULLA ROTTA LOW-COST quanto rassicurante, che spezza l’amarezza con battute da risate a denti stretti, sviluppato in scene brevi, rapide, di succo, nella traduzione di Valentina Rapetti. Un testo servito molto bene da una regia di taglio cinematografico che sovrappone le immagini degli incontri tra i quattro protagonisti grazie alla scelta della scenografia di citazione di Francesco Ghisu (pochi arredi fondamentali, rigorosamente trasparenti, intangibili, quasi linee), che viene mossa e rimossa da due elementi scorrevoli di grande autorevolezza a contenere tanto i sogni notturni quanto gli incubi diurni. Le luci di Valerio Geroldi percorrono il biancore della scena e lo personalizzano dandogli carattere. Paolo Zuccari nel ruolo del sognatore Hurt si sciupa di giorno in compagnia del Ben (Paolo Giovan-

nucci) e rifiorisce di notte tra le braccia impalpabili della sposa di lui (Teresa Saponangelo): affiatati, calibrati, convincenti, ben assortiti; mentre Anne, moglie di Hurt (l’eccellente Antonella Attili), troppo intelligente e lucida per accontentarsi di rapporti di scarsa qualità, si dibatte nel suo regno domestico occupandosi delle celebrazioni familiari, leggendo libri desolanti, rigirando gli arredi della sua magione come fosse la casa di Barbie, coltivando il sogno proibito di comprarsi un divano rosso a interrompere il biancore accecante, tombale dell’ingresso di cui lei ritualmente e ossessivamente lucida le candide e marmoree piastrelle.

Tornano a quattro anni di distanza da In rainbows, ma anche il nuovo The king of limbs è ispirato dallo stesso lodevole intento: lasciare al mercato, per davvero, il compito di stabilire il prezzo. Per l’ottavo album di studio, disponibile sul loro sito a partire da oggi, i Radiohead hanno fatto una media: sei sterline, tanto quanto più o meno fu raccolto per ciascuna copia del precedente lavoro nel 2007. Dopo la rottura con Emi, i funambolici britannici si confermano artisti all’avanguardia. E se la qualità somma della loro musica vale sei sterline, ecco spiegate quindi molte cose.

Marble, Roma, Teatro Vascello fino al 6 marzo, info: 06 5881021 - www.teatrovascello.it

di Francesco Lo Dico

Ah, l’opinione pubblica... questa eterna portinaia n tempi italiani come questi, che è superfluo definirli tanto sono sfacciatamente lì, sul gran palco del mondo, la televisione accoglie e raggruma quella strana e anguillosa cosa che è l’opinione pubblica. Lo fa attraverso i talk-show, le interviste, la satira, lo spettacolo (che puro non lo è più da molti anni). I microfoni e le telecamere aiutano a capire l’umore nazionale. Scoraggiamento, indignazione, archiviazione dell’osceno anche se non provato giudizialmente, indignazione, voglia di reagire, realismo delle piccole cose. Strano ma vero: anche nelle televisioni di proprietà di Berlusconi s’infila lo spiffero dell’opinione pubblica. A Zelig (Canale 5) si ridacchia, tra pena e sconforto, del «padrone», e la gente applaude. Secondo Lincoln «l’opinione pubblica è tutto»: riassunto della mentalità americana. Il greco Eraclito la definiva «mal caduco». Karl Kraus: «questa eterna portinaia».Vero, ma per avere informazioni sui condomini, come insegnava il commissario Maigret, si deve sostare in portineria.

I

So di gente che non segue, per saturazione o nausea, programmi come Anno zero, Matrix o Ballarò. Troppi proclami, troppe risse, voce a volume altissimo. Un programma più quieto viene offerto da La 7 con Niente di personale, condotto da un sobrio Antonello Piroso, il quale sa alternare domande impegnative a domande più leggere senza perdere di vista il baricentro della persona intervistata e il perché è lì in quel momento. Camicia bianca con maniche rimboccate, cravatta, modi cordiali ma non sbracati, un lieve indugiare su di sé come regista dell’attualità, risata irrefrenabile al posto della

battuta pungente di Fabio Fazio, Piroso ripete sempre d’essere nemico del «pensiero unico». E quindi porge il microfono a personaggi diversi. Il sottofondo è sempre quell’inafferrabile cosa che è l’opinione pubblica. Ci si accorge comunque che, indipendentemente dalla personalità dell’ospite, l’umore nazionale bolle come una minestra sul fuoco, in attesa di piatti nuovi che la possano contenere quando s’apparecchia la (nuova?) tavola. A proposito della manifestazione di protesta delle donne, per esempio, la saggista Maria Madotti ha modo di precisare che il rischio è quello di dar fiato all’unanimismo, elemento che fa sempre paura, oppure quello di prendere in considerazione il modello di famiglia anni Cinquanta. Gino Paoli, che oltre a scrivere canzoni pensa, ci avverte che Berlusconi «non ha capito un accidente delle donne»: esse non sono categoria, ma condizione. E ancora, dalle labbra dell’autore di Il cielo in una stanza: l’Italia è cambiata perché è cambiata

la mentalità. Quella che dà spazio ai furbi e molto meno agli onesti. O per satira o per dichiarazioni, sul banco televisivo degli imputati prima o poi siede sempre il premier. E anche se Piroso intervista Matteo Renzi, sindaco di Firenze, il quadro non muta di molto. Salvo però il modo di combattere il declino nazionale. Dice Renzi: «Smettiamola di chiacchierare su quel che fa Berlusconi di notte e cominciamo a discutere su quel che non fa di giorno». Si deve puntare sulle cose. Al ministro La Russa così facile alla rissa (per un gioco di parole è diventato «ministro la rissa») non imputa la colpa di «messaggiare» con la escort di turno, semmai di non aver dato risposte sulle caserme abbandonate: potrebbero servire, a Firenze, per gli alloggi popolari. Ecco che avanza l’opinione pubblica, ondeggiante tra barzellette, ripetizioni di portaborse e dito puntato su ciò che non s’è fatto e si continua a non fare. Il brusio si diffonde. (p.m.f.)


Babeliopolis

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ntorno al 5-7 febbraio tutti i giornali italiani hanno riportato una raccapricciante notizia: in un paesetto della Svizzera un’implacabile burocrazia aveva soppresso il barboncino di una signora che non aveva pagato le tasse comunali che lo riguardavano sulla base di una legge del 1904. C’è chi scriveva che la signora aveva provato a pagare in extremis quei 50 franchi, ma niente da fare; e c’è chi scriveva che la ignara, a differenza di altri, si era ostinatamente rifiutata di pagare la tassa per anni sino alla tragica conclusione. I commenti, giustamente indignati, si sono sprecati e hanno coinvolto anche il funzionamento di una burocrazia svizzera inesorabile e precisa come i suoi orologi. Giornalisti, veterinari, animalisti, commentatori di costume hanno detto tutti la loro. Insomma, come si suol dire, un «caso» di quelli che occupano anche le prime pagine dei quotidiani all’affannosa ricerca di storie popolari e lacrimevoli (ormai si sono ridotti quasi tutti così).

I

E invece dopo un altro paio di giorni viene a galla la verità. Se la calunnia è un venticello, la bufala, o più accademicamente, la leggenda metropolitana, è un tornado, una bufera, un ciclone. Soprattutto da quando la Rete e Internet sono diventate il mezzo di comunicazione mondiale più diffuso, veloce e consultato. Nulla di tutto quel che aveva mosso a commozione e indignazione lettori e telespettatori era vero. O per meglio dire non era vera la parte essenziale della notizia: la morte del cane.Vero il luogo della vicenda: il paesino (duemila anime) di Reconvilier nel Canton Bernese. Vero il nome del sindaco: Flavio Torti. Vera l’infame legge ammazzacani morosi del 1904. Vera la tassa di 50 franchi (38 euro). Punto. Il resto era falso. Falsa la signora italiana tignosa o pietosa, tale Marilena Janotta. Falsa la morte del barboncino di tre anni causa evasione delle tasse. E allora? Allora, a quanto pare la faccenda girava su Internet dall’inizio di gennaio e se ne erano occupati anche i giornali svizzeri, ma la cosa è rimasta là, senza uscire dai confini della Confederazione. Evidentemente, la falsa notizia ha continuato a gonfiarsi a tal punto in Rete che qualche importante agenzia stampa l’ha ripresa e rilanciata. Ora, una agenzia stampa è sicuramente più attendibile del chiacchiericcio mediatico del Web e i quotidiani italiani tutti, vedendosela comparire sui loro monitor, ci si sono gettati su senza pensarci due volte. Eppure, si dovrebbe sapere che ormai, sempre più spesso, le notizie, specie quelle più singolari, strane, curiose, grottesche, improbabili, le agenzie stampa mondiali, un dì famose per la loro autorevolezza derivante da una accredita serietà, se le vanno a pescare proprio nella Rete senza un minimo di controllo. Basta fare lo scoop! Peraltro collettivo… Basta fornire ai media cartacei e visivi quel materiale «leggero» di cui vanno ghiotti. Ed ecco

MobyDICK

ai confini della realtà

Bufale in Rete

di Gianfranco de Turris il povero cagnolino soppresso dalla cieca burocrazia elvetica. Non è detto, peraltro, che tutto questo sia stato creato a bella posta dal comune di Reconvolier medesimo che infatti ammette di aver recuperato ben presto il 50 per cento delle tasse canine arre-

o inventate, ma noi non possiamo sapere con certezza che esse non lo siano! Infatti chi garantisce per esse? Tutti, ma proprio tutti, per i motivi più diversi, seri o faceti, per destabilizzazione, terrorismo o solo puro divertimento, possono inserire fatti, informazioni, dati che si

La più recente è quella del cane soppresso in Svizzera perché la sua padrona non aveva pagato le tasse. Leggende metropolitane che un tempo si diffondevano oralmente e che oggi, più veloci della luce, rimbalzano su Internet. Finché autorevoli quotidiani non le prendono per vere trate: far cadere nel panico i padroni morosi con relativa reazione. Il risultato però è identico. Indipendentemente da ciò, questa grottesca vicenda sta a dimostrare molte cose e dovrebbe dar da pensare seriamente a quelle categorie che si interessano dei fenomeni di massa. Dagli psicologi, ai sociologi e agli stessi politici. Il tempo della carta stampata e delle notizie diffuse dalle agenzie, ma anche il tempo dei radio, cine e telegiornali come uniche fonti di informazioni sta tramontando. Così come sta tramontando il fatto che una volta le notizie che sembravano poco ortodosse come minimo si controllavano, oppure si facevano conoscere con cautela, con poche o molte riserve. Tutto ciò sembra essere finito, purtroppo. Oggi il World Wide Web ha affossato praticamente a priori ogni pretesa di sicurezza, serietà e veridicità delle informazioni in esso e con esso diffuse. Ovviamente non tutte le notizie sono false

afferma siano reali, ma che nessuno può controllare. E - diciamo - più si tratta di questioni inverosimili e più trovano accoglienza, sono rilanciati, arricchiti, abbelliti, manipolati dilatandosi, gonfiandosi, espandendosi per ogni dove. Sino a che non trovano sfogo su qualchee «autorevole quotidiano» o qualche «importante emittente» che dà loro il crisma della totale verità.

È il meccanismo della «leggenda metropolitana» o «urbana» sulla quale sono stati scritti saggi di notevole interesse e pubblicate antologie di storie sorprendenti. Sorprendenti soprattutto perché alcune di esse, praticamente uguali fra loro con minime varianti, sono nate e hanno proliferato in Paesi senza collegamenti o contatti. Ovviamente ci si riferisce a un’epoca ante Era Digitale. Evidentemente l’Immaginario umano è simile nei cinque continenti, e la voglia di affabulare e di lasciarsi irretire dalle storie più singolari e curiose,

più paurose e grottesche non ha confini. Internet ha potenziato questo meccanismo, elevandolo all’ennesima potenza. Se prima i ricercatori di antropologia culturale o di sociologia dovevano andarsi a studiare i casi uno a uno, cercando anche di rintracciare come, dove e perché una leggenda metropolitana era nata per poi dilagare, adesso la questione è irrisolvibile. Si pensi ai casi classici in materia dell’«autostoppista fantasma» (un automobilista offre un passaggio a una persona che improvvisamente scompare) o del «bambino nel forno» (una domestica africana che cerca di rosolare il neonato della famiglia dove presta servizio) diffusissimi in molte nazioni. La leggenda metropolitana è la versione moderna, industriale, tecnologica della vecchia leggenda del folklore. Non ha una fonte originaria precisa. È sempre appresa dall’amico di un amico, da un familiare che a sua volta l’ha udita da altri attendibilissimi ecc. ecc. Si diffonde oralmente e la si ritiene vera sol perché tutti ne parlano: la quantità e la diffusione creano la realtà e la verità. La nascita e l’affermazione definitiva di Internet ha reso incontrollabile il fenomeno, consentendo di credere che siano reali le vicende più improbabili: si pensi a quanto la Rete abbia contribuito a diffondere le leggende metropolitane intorno all’attentato dell’11 settembre. Di tutto questo il caso del barboncino soppresso perché la padrona tirchia non pagava la tassa è semplicemente l’ultimo caso.


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