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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti periamo che i signori accademici di Stoccolma, che probabilmente non daranno mai il premio Nobel a Philip Roth, si ravvedano nel prossimo futuro, che si tolgano dalla pelle quell’odiosa diffidenza verso gli scrittori americani di pelle bianca, come se il colore epidermico coincidesse sempre con il progressismo, lo stare contro il diavolo colonialista e la ferocia del mercato occidentale. Un’occasione ce l’avrebbero: premiare Paul Auster che all’età di sessant’anni ha dato alle stampe (in Italia mirabilmente tradotto e pubblicato da Einaudi, 223 pagine, 17,30 euro) il suo sedicesimo romanzo intitolato Invisibile. Secondo il New Yorker è «il suo migliore libro». Critici autorevoli hanno applaudito. In Italia anche, malgrado qualcuno, in un quotidiano a forte tiratura, sia incappato nell’incomprensione del ritmo stilistico di Auster, che ha come propria caratteristica artistica quella di raccontare storie da più di una visuale, di renderle credibili e allo stesso tempo relegarle nel mondo onirico, quello del possibile, anzi del verosimile. Nessuna «civetteria stilistica (abbastanza insopportabile)», come è stato sciattamente scritto, nel passare dalla prima alla terza persona laddove l’episodio, scandalosamente forte e imbarazzante come un incesto tra fratelli, è collocabile sia in Il suo una realtà della quale nuovo romanzo, non s’afferra mai

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“Invisibile”, lo candida definitivamente alla laurea mondiale che il discusso premio svedese conferisce. Un intreccio di realismo e visionarietà intriso di cultura completameneuropea ma di stampo te il senso, sia nel newyorchese bacino delle pulsioni in-

Perché lo scrittore americano meriterebbe il Nobel

AUSTERFILIA 9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Memoria di Sergio Valzania Non delude il ritorno di Sade di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Ungaretti, la parola come riscatto dalla caducità di Filippo La Porta

time e segrete. Le quali hanno un’ambientazione che s’intreccia con quelle della vita quotidiana. Ma come non capirlo? Verrebbe da dire. Sorge a questo punto una domanda più che lecita: si deve ancora conferire il solenne credito alla giuria svedese che in questi ultimi anni, a parte il grandissimo Orhan Pamuk, ha compiuto scelte alquanto discutibili? Ammettiamo comunque che il «marchio Nobel» è indelebile e ha un’eco strabiliante. È una sorta di laurea mondiale. Che poi il plauso accademico e della critica non sia internazionalmente unanime è certo da tener conto. Ed è un segnale, sempre più robusto.

Chi ha paura di Federico II? di Mario Bernardi Guardi Lupi mannari e testimoni protetti di Anselma Dell’Olio

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L’Estetica secondo Grace di Marco Vallora


austerfilia

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segue dalla prima

sfortunatamente è quello che credo» ha dichiarato, «è il dolore che ci fa crescere e ci consente di conoscere». In tutte le opere di Auster, che è di origini polacche, c’è il tema del rapporto con l’altro e delle interrogazioni su se stessi. «Nessuno è mai stato me. Può darsi che io sia il primo» si leggeva nel suo Il libro delle illusioni. In Mister Vertigo sviluppava l’irresistibile fascino del doppio: «Basta guardare qualcuno in faccia un po’ di più, per avere la sensazione di guardarti in uno specchio». Anche nei quattro lavori cinematografici di Paul Auster - il più famoso è Smoke, storia (del 1995) di sguardi e di prospettive che potrebbe essere affiancato al senso dell’opera pittorica di Ewdard Hopper: ripetizione e silenzio - viene esaltata la realtà parallela: vissuta o soltanto pensata come intimamente credibile, poco importa se ci si infila nell’incastro tra realismo e visionarietà di un autore che ha assorbito la tradizione culturale europea. Una vici-

Perché quel titolo, mister Auster? «La verità è invisibile» risponde lo scrittore che vive in un’ampia casa di Brooklyn e che candidamente ammette d’essere preoccupato per l’inaridimento della sua vena «mentale». Tanto è vero che confessa di attingere storie dall’inconscio. Almeno lo spirito delle vicende che scrive, visto che in lui non c’è alcun estraniamento rispetto alla realtà, compresa quella politica, in cui vive e lavora. L’Invisibile ha come incipit l’incontro tra un ventenne studente della Columbia University e un trentaseienne docente francese di origine svizzera, monsieur Rudolf Born, che in una festa anni Sessanta a New York rimane affascinato dal complesso candore e dall’essere «perbene» di Adam Walker. Torbidamente stimolato a iniziare una conversazione con lui dalla sua compagna Margot, sessualmente (ma non solo) attratta dall’unica persona che quella sera la tiene ancorata al banale e lurido suolo statunitense. Auster beve dal calice della sua cultura europea (ha studiato alla Sorbona di Parigi e traduce testi dal francese) e fa soffermare il suo personaggio sull’assonanza tra il cognome Born e il poeta amore assoluto, scoppiato liberamente verso i vent’anni dopo un «esperimento» adolescenziale, che comprende condivisione di un comune passato, la gioiosa scioltezza comportamentale, la confidenza, la fiducia e l’attrazione erotica. «Un matrimonio perfetto» dal quale uno dei due (entrambi belli ed ebrei) si deve staccare, in ottemperanza alla insopprimibile legge biblica che non prevede alcun futuro dopo «gli abissi della sensualità» consanguinea. L’ambiguo Born lascia quel «paese spietato che è l’America» per salvarsi dall’accusa di aver ucciso un rapinatore. Adam lo ritroverà a Parigi, deciso a fargliela pagare ricorrendo ai mezzi sofisticati della simulazione, che però non gli sono propri.

provenzale Bertrand de Borne, noto per essere stato sbattuto da Dante in una bolgia infernale: tiene con la mano la propria testa recisa, a simboleggiare la colpa di aver diviso - potremmo dire «tagliato» - Re Enrico II e suo figlio. De Borne, non a caso, è un cantore terribilmente entusiasta della guerra. Ma anche lo svizzerofrancese ha una propensione, spesso celata o simulata, per i fragorosi scontri bellici, per la violenza, per la tortura (il suo passato lo conferma). E questo malgrado la sua professione ufficiale (ma ci sarà altro dietro alla sua spavalderia), cioè docente di Affari internazionali.

Un uomo così esiste nella realtà. Come esistono migliaia di altri simili a lui, che ondeggiano tra sbandierate convinzioni democratiche e grossolane (ma anche praticate) realtà crudelmente belliche. Il «perbene» e dolorante Adam, che sogna un destino di poeta, metterà da parte un istintivo sospetto e comincerà a «giocare a carte col diavolo». Un gioco a tre visto che è lo stesso Born a spingerlo nella spirale erotica di Margot, una trentenne che ammette con semplicità desolante che «il sesso è l’unica cosa che conta nella mia vita». La trama si complica improvvisamente e si arriva a un delitto che segnerà per sempre il futuro di Adam, assetato di giustizia e consapevole - come ha dichiarato Paul Auster parlando di sé - che la poesia e in genere la cultura a volte, anzi spesso, possono poco contro gli orrori del mondo. Adam s’incammina verso il declino, all’inizio oscillando tra America e Francia. Le pagine più forti, scritte tuttavia con una delicatezza travolgente che peraltro non nasconde un conturbante realismo, riguardano il tabù dell’incesto: tra Adam e la sorella Gwyn, vissuti nella gabbia del «matrimonio muto» dei genitori che mai si sono ripresi dalla morte del terzo figlio. E il fantasma del ragazzino (sette anni) scandirà il rituale della convivenza tra i fratelli superstiti. Un

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

Le quinte temporali mutano quando Adam sessantenne divorato dalla leucemia si rivolge a Jim, un suo vecchio compagno di studi, diventato scrittore affermato.A lui consegnerà non le poesie, ma il memoir della sua non riuscita vita, dopo aver preso coscienza «della cosa in sé, la conoscenza empirica del mondo». Nessuno spettro andrà mai via dalla casa interiore del poeta fallito. Il lutto per il fratellino annegato si perpetua in una deriva esistenziale, ma anche nella necessità prepotente di consegnare all’amico la storia della sua vita. Quello di Auster è stato definito «romanzo di formazione», in cui gli innesti autobiografici sono evidenti. In primis l’esperienza francese. Ed è proprio questa, a mio avviso, che plasma la sua prosa e la fa allontanare - così come è capitato in tutte le altre opere - dal rischio della «banalità americana». C’è un filo sottile, ma ben visibile, che unisce questo romanzo all’esordio con Trilogia di New York, laddove gli elementi visionari si intrecciavano coerentemente con la mai rinnegata lezione del realismo. Nello stesso tempo è lo stesso Auster a confessare di credere che la maturità possa giungere solo a patto che si siano attraversati i grandi viali del dolore. «Sì,

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

nanza, sia pure mai sbandierata, ai temi pirandelliani? L’accostamento, che può sembrare arbitrario, è diventato lecito nel suo penultimo romanzo, Uomo nel buio, che racconta di un critico letterario in pensione che inventa altri mondi fino a inseguire le vertiginose prospettive della sua stessa creatura, mai lontana dal vissuto quotidiano. Non è un caso che Auster, in un’intervista, abbia dichiarato: «Improvvisamente sentii l’enorme divario tra parole e mondo, tra esperienza e possibilità di descrivere quella stessa esperienza con le parole». E ancora una frase illuminante tratta da un altro romano, Leviatano: «Per me la più piccola parola è circondata da acri e acri di silenzio, e perfino quando riesco a fissare quella parola sulla pagina mi sembra della stessa natura di un miraggio, un granello di dubbio che scintilla nella sabbia». Le angosce oniriche di Auster hanno pulsioni vitali e concrete e diventano chiave per interpretare dolori e smarrimenti della vita reale. Dire Auster è come dire NewYork. Se non vivesse lì, sceglierebbe Parigi, città della quale ha colto la bellezza e la raffinatezza di pensiero. Ma NewYork non è necessariamente America: «C’è ben poco in comune tra un newyorkese e un abitante del Montana o nell’Alabama. Questo non vuol dire che il primo sia superiore antropologicamente, ma è certamente diverso il suo sguardo sul mondo. A causa della propria storia, New York è la città di tutti, è la realizzazione della promessa americana, ma nello stesso tempo non è l’America». Ed è in questa cittàmondo che Auster fonde la tradizione europea con quella dell’ambiente in cui è nato. Non sottovaluterei la sua propensione a stare vicino alle più contorte e profonde tematiche del vecchio continente. Anche, o soprattutto, grazie a queste è in grado di descrivere e spiegare l’America. Il rischio è quello di non capire bene che cosa succeda tra un Bush e un Obama, tra un Vietnam e un Iraq, se ci stai troppo o sempre dentro.

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parola chiave

iamo i nostri ricordi. La nostra identità consiste nel dare forma a questi materiali, perdere la memoria significa divenire un’altra persona, anche dal punto di vista affettivo. Questo vale per i singoli come per le comunità, grandi o piccole che siano. In questi mesi l’Italia riflette sulla propria esperienza unitaria mentre organizza le celebrazioni per i 150 anni della sua durata e ci accorgiamo di quante implicazioni questo comporta a livello di riconoscimento di quello che siamo e di quello che vorremmo essere. Nelle chiacchiere domestiche, all’interno del microcosmo familiare, tantissimo spazio è dedicato alla rievocazione, a mantenere vivo il ricordo della vita comune e alla trasmissione ai più giovani della narrazione condivisa. Non si tratta di un modo per passare il tempo, ma della costruzione e della conferma del tessuto connettivo che tiene in vita gli affetti attraverso la memoria comune.

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Il passato è un terreno fertile, che ha comunque bisogno di essere coltivato e solo in questo modo produce i suoi frutti migliori. La sua rivisitazione ne modifica i contorni, come la presenza attiva dell’uomo agisce sulle forme del paesaggio. I luoghi rimangono gli stessi, ma interventi successivi ne cambiano l’aspetto, tanto che fotografie scattate a distanza di molto tempo denunciano trasformazioni profonde, a volte in meglio, altre in peggio, oppure di semplice adattamento all’evoluzione del gusto. Ci sono campagne abbandonate all’incuria, nelle quali la vegetazione selvatica riprende il sopravvento sugli interventi umani, cancellando l’antropizzazione. Si crea allora un fenomeno particolare: i segni del passato sono riconoscibili solo da lontano, da una distanza tale da far vedere le tracce dei terrazzamenti, gli allineamenti dei filari e le suddivisioni dei campi, oppure da molto vicino, attraverso l’ispezione attenta del luogo, che riporti alla luce i resti degli orti e dei sentieri. Così lavorano gli storici, nelle due forme della loro attività, da una parte le accurate ricerche d’archivio e le sofisticate analisi delle fonti, dall’altra le grandi sintesi che cercano di fornire un senso d’insieme ai fenomeni di lunga durata e vasta estensione geografica. Dagli studi sugli archivi notarili del Medioevo ai trattati sull’impero romano. La storia è la memoria collettiva e quindi il suo scopo consiste nella costruzione di un’identità comune e condivisa, ricercata attraverso l’interpretazione del passato e la sua organizzazione in fasi e sequenze, individuando i fatti per noi rilevanti e collegandoli in percorsi che ci sembra divengano riconoscibili solo dopo la conclusione dei processi in corso. Gli storici svolgono questo compito sociale con una consapevolezza sempre maggiore dell’arbitrarietà di molte delle scelte che effettuano. L’evidenza mostra un passato elusivo, nel quale non esistono percorsi privilegiati e dominanti, come autostrade che attraversa-

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MEMORIA È un’attività etica che determina il futuro condizionandolo in modo decisivo attraverso scelte, atteggiamenti, decisioni maturati e immagazzinati nel cervello in attesa di essere utilizzati: per l’edificazione della personalità che contribuiscono a costruire

Noi, i creatori di noi stessi di Sergio Valzania

Il passato è infinito. Al suo interno si ammassa un numero enorme di accadimenti disordinati, la cui importanza non può essere definita in maniera univoca. È la nostra visione del mondo che crea la gerarchia nella quale collochiamo gli eventi che, in modo diverso, tratteniamo no un territorio imponendo il loro tracciato, si trovano piuttosto tracce da seguire e interpretare muovendosi in un intreccio di sentieri, tutti utili a muoversi all’interno del bosco, ma nessuno dei quali ha un senso se non in relazione al luogo che si vuole raggiungere. Il passato infatti è infinito: al suo interno si ammassa in modo disordinato un numero enorme di accadimenti, la cui importanza non può essere definita in maniera univoca. È la nostra visione del mondo che crea la gerarchia nella quale collochiamo gli avvenimenti che le diverse forme della nostra memoria trattengono. Se a dominare l’agire dell’uomo sia l’interesse economico o il

desiderio di potere, l’amore per la propria discendenza o l’ambizione di costruire una società migliore non lo si può scoprire in modo empirico. Ciascuno riesce a dimostrare la propria tesi, salvo scoprire che le sue conclusioni non bastano a convincere chi la pensa diversamente. Un sistema circolare collega la nostra memoria con il modo nel quale la rinnoviamo in continuazione, condizionati da lei nel momento nel quale la riformuliamo. Attraverso questa via il passato diventa plurimo, non solo quello collettivo, storico, che soggiace a letture e interpretazioni diverse, fino a diventare campo di battaglia per il confronto delle ideolo-

gie. Anche la memoria individuale spesso non resiste alle verifiche fatte con testimoni oculari compartecipi delle vicende cui ci si riferisce. Il racconto delle esperienze affettive concluse rappresenta un territorio privilegiato per le narrazioni differenziate di eventi vissuti in comune con la massima intensità. La rottura si realizza nelle modalità del racconto diverso di esperienze fatte insieme. La non condivisione della memoria produce una divaricazione ulteriore delle storie, fino a renderle così diverse da non poter riconoscere in esse una vicenda comune. La ricerca della verità fattuale nel ricordo di altri che hanno partecipato ad accadimenti divenuti oggetto di narrazioni alternative risulta inutile: si risolve nella presentazione di un altro racconto ancora, del tutto diverso da quelli che si trovano nel ricordo dei protagonisti. La memoria, nel suo articolato dinamismo, rende possibile il riconoscimento del presente, la cui consapevolezza è legata all’esistenza di un passato la cui esperienza ci rende convinti dell’esistenza simmetrica del futuro. In questo modo l’immaterialità temporale dell’attimo di durata zero in cui esistiamo si consolida in una doppia proiezione temporale che ne conferma la solidità. Tutto ciò dovrebbe rendere prudenti e consapevoli nella considerazione della nostra individualità e delle sue modalità di formazione. Se siamo la nostra memoria ed essa non è l’esito necessario e univoco di quello che ci succede e che facciamo quanto piuttosto la ricostruzione, l’elaborazione del passato, la rimasticazione quotidiana di un materiale sterminato, la sua scelta e riorganizzazione, la cancellazione di quello che desideriamo far scomparire, l’apposizione di intenzioni e collegamenti tra eventi scarnificati fino a dichiarare un’essenza che in origine era affogata in una complessità ben più ricca, questo significa che per buona parte la nostra identità è autoprodotta.

Siamo creatori di noi stessi nel nostro agire e allo stesso tempo nella costruzione del nostro passato, nella scelta e nelle forme di narrazione dei fatti che lo compongono, per poi porsi alla base delle scelte che compiamo. Perciò la memoria è un’attività etica, in quanto fonda l’agire futuro e in questo ambito va collocata tanto la costruzione dei materiali grezzi che le forniamo, la cui qualità scadente si proietta sul futuro, quanto l’attenzione che viene posta nella loro organizzazione. In questo contesto assumono pieno significato la preghiera, lo studio e la meditazione, che sono momenti formativi soprattutto per la memoria di sé che vanno costruendo. La memoria preme sul futuro condizionandolo in modo decisivo, dato che le scelte hanno quasi tutte una consapevolezza bassa, sono determinate da decisioni, atteggiamenti, maturati in precedenza e immagazzinati nei banchi del cervello in attesa di venire utilizzati per manifestare la personalità che essi contribuiscono a costituire.


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cd

musica

Avvolgente e sussurrato il ritorno di Sade di Stefano Bianchi i chiamava New Cool ed era un sofisticato cocktail di soul, funk, easy listening e jazz. Nei primi anni Ottanta, in Inghilterra, chiamò a raccolta gruppi come Style Council, Everything But The Girl, Carmel, Working Week e Matt Bianco per offrire una valida alternativa all’elettronica totale e glaciale. Che suoni! Che atmosfere! E a calare i suoi assi c’era anche la cantante nigeriana Helen Folasade Adu, in arte Sade, che nel 1984 debuttò con Diamond Life dopo

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aver metabolizzato la black music di Curtis Mayfield, Bill Withers e Donny Hathaway. «Pubblico dischi solo quando ho qualcosa da dire», puntualizza oggi a cinquantun anni suonati. «Non mi interessa fare musica solo per vendere. Sia chiaro una volta per tutte: Sade non è una marca». Infatti, in ventisei anni ha pubblicato (incluso il nuovo Soldier Of Love) sei dischi. Meno del minimo sindacale. Incassando dalle malelingue il nomignolo Howie: come Howard Hughes, il miliardario ric-

in libreria

co e solitario. Da Diamond Life a oggi (passando per Promise, Stronger Than Pride, Love Deluxe e Lovers Rock) ha venduto la bellezza di cinquanta milioni di album e accumulato una montagna di sterline. Eppure sostiene che «non sono una di quelle che ha bisogno di tanti soldi. Potrebbero entrarmi in casa e andarsene dopo mezz’ora, senza aver trovato nulla da rubare». A parte il carattere agrodolce («Una volta mi hanno detto che sono una Capricorno nata sotto la stella più triste. Ma la tristezza, se ben gestita, porta alla felicità. O almeno spero»), è un piacere ritrovare questa sensuale e nebbiosa chanteuse che in Soldier Of Love, registrato al Real World Studio di Peter Gabriel, si muove (oggi come ieri) in punta di piedi assecondando umori felpati, avvolgenti, lofi. Accanto a lei, i musicisti di una vita. Quelli che la seguono fin dagli esordi: Stuart Matthewman (sassofono), Paul Denman (basso) e Andrew Hale (tastiere). «Li considero vecchi amici di famiglia. Generalmente stiamo bene, insieme». E le dieci nuove canzoni lo testimo-

mondo

niano ampiamente. Non fatevi depistare, però, dal brano che dà il titolo al disco: spezzettato nel suo ritmo marziale, proietta ombre hip-hop e funk. Né fatevi abbindolare dalle scansioni elettroniche e dal raggamuffin che danno spessore a Babyfather. Sono gli unici (peraltro azzeccatissimi) peccati di gola che Sade si concede rinunciando all’abituale aplomb. Con The Moon And The Sky, ballata old fashioned punteggiata dagli arpeggi di una chitarra, e con Morning Bird che si adagia su un tappeto di violini inseguiti da un pianoforte confidenziale, si rientra infatti nei ranghi (eleganti) di quest’ugola che riesce il più delle volte a tramutarsi in magico sussurro per poi struggersi in un abbraccio orchestrale (succede in Long Hard Road). Un canto che prima di riverberarsi in coro divino, addomestica il battito elettronico di Bring Me Home. La soul music, poi, è nelle sue raffinate corde come ai tempi del singolo Your Love Is King. In Be That Easy, però, si amalgama con trasparenze country (o Americana, che dir si voglia) sorprendenti; si impreziosisce flirtando con un sax jazzato mentre gli archi si innamorano di una verve interpretativa davvero speciale (In Another Time); rinasce, ovattata, rammentando in più d’un passaggio Sexual Healing di Marvin Gaye. Infine, malinconico, ecco il mood di The Safest Place. La più logica delle carezze. Bentornata Sade.Viva Sade. Sade, Soldier Of Love, Sony Music, 20,90 euro

riviste

UN GRANDE VECCHIO DI NOME TOM

BILLY CORGAN IN LOVE

JIMMY LAVALLE SUONA IN APNEA

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uesta non è una semplice biografia di Tom Waits. È un libro d’invenzione. Di fiction, come si dice. Però ogni cosa scritta qui del musicista e cantante americano Tom Waits è vera. O per vera mi è stata raccontata. E c’è anche dell’altro, nient’affatto inventato.Veramente accaduto». Con sapiente gusto favolistico, Claudio Chianura introduce così Tom Waits Blues

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educi dal sold-out milanese dei Magazzini, le Hole sembrano intenzionate a restare in scena oltre i tempi fisiologici della reunion modaiola. Impostesi all’attenzione nella burrasca del grunge, le riot girl capeggiate da Lady Cobain avevano stuzzicato tutti con sonorità punk e chitarre grezze nei primi anni Novanta. E grazie alla collaborazione di Billy Corgan, che con i suoi

icami eterei e dilatazioni sussurrate, fra arpeggi e schermaglie elettroniche, aumentando l’autorialità col (quasi) consueto aiuto di Pall Jenkins (ascoltare la bella Falling from the Sun), senza dimenticare il valore intransigente dell’approccio strumentale, esaustivo nel mostrare la persuasiva eleganza di un progetto ormai consolidato fra i migliori del genere». Marco

Claudio Chianura racconta la vita di Waits in un piacevole “biopic” ricco di spunti e citazioni

L’ex leader degli Smashing Pumpkins mette lo zampino nel nuovo disco delle Hole

“A chorus of storytellers”: il nuovo lavoro di The Album Leaf sospeso tra Eno e i Mogwai

(Auditorium, 128 pagine, 12,50 euro), biopic dedicato al grande musicista californiano che non manca di piacevolezza narrativa e cura dei dettagli. Ricco di aneddoti, testimonianze curiose e citazioni, quello di Chianura è un agile ma informato ritratto di un artista cresciuto nel mito della beat generation, dell’amor fou e della vita randagia. E naturalmente, non manca la tanta musica di un performer irregolare, capace di virare dal jazz al soul in un instancabile percorso di ricerca. Graffiante, ironico, provocatorio. Saggio ma ancora selvaggio,Tom Waits è il grande vecchio con cui tutti i giovani vorrebbero uscire per andare a fare bisboccia.

Smashing Pumpkins fu protagonista di quegli anni, le ragazze puntano in alto con Nobody’s Daughter, nuovo album che farà capolino a giugno. Secondo le anticipazioni date da Courtney a Clash Music, Corgan ha composto alcuni brani del prossimo lavoro, tra cui How Dirty Girls Get Clean, singolo in pectore che anticiperà l’uscita del disco. E sempre all’ex Smashing Pumpkins, la Love deve il riff di Samantha, altro pezzo in scaletta. Il talento compositivo di Corgan, dunque, associato al vitalismo sfacciato di miss Nirvana. La strana coppia promette bene.

Delsoldato presenta così su kronic.it il nuovo progetto di The Album Leaf. A capo di tutto Jimmy LaValle, ex chitarrista dei San Diego Tristeza che ha realizzato album solisti molto apprezzati. A trapuntare il tutto un missaggio onirico, ricco di carezzevoli echi ambient, messo a punto da Birgir Jon Birgisson dei Sigur Ros. È questo l’amalgama segreto di A chorus of storytellers, lavoro che incrocia Eno sulla strada dei Mogwai, tra geometrie musicali ferree e fibrillazioni psichedeliche che scandiscono il tempo fino a ridefinirlo in spazio meditativo. Un album che sembra suonato in apnea, mentre in cielo affiora il crepuscolo.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

IL MOTTO DELLA PIAF si addice a Osbourne di Bruno Giurato a piacere saperlo. Un figo come Ozzy Osbourne con la sua autobiografia è al numero due della lista hardcover nonfiction del New York Times. Fa piacere saperlo perché chi è spettatore di The Osbournes, il reality con la famiglia ozziana al completo (compresa la moglie egeria e i figli rompiscatole), sente che lo spirito rock si compiace in Ozzy. The madman, l’ex cantante dei Black Sabbath, l’autore di Crazy Train e di Mr. Crowley, nel reality si rivela per quello che è. Un tossico ubriacone coi tatuaggi fino al perineo, che non riesce a far funzionare il telecomando perché è fuori di testa, per di più anche stonato. Un tipo che ti aspetteresti di trovare nell’angolo più buio dei peggiori pub della carbonosa Manchester, e invece è diventato miliardario, e ora scrittore. La cosa meravigliosa e davvero rock è che Ozzy non fa niente per dissimulare la sua cialtronaggine, secondo il motto di Edith Piaf: «Usa i tuoi difetti, diventerai una star». Quanto a utilizzo dei difetti Ozzy non ha eguali. Diventò cantante abbandonando la sua precedente professione, ladro, dopo che il televisore che stava trascinando fuori da un appartamento gli rovinò addosso, immobilizzandolo fino all’arrivo della polizia. Quando cantava con gli occulteggianti Sabbath fu preso di mira da un gruppo di occultisti veri che gli indirizzavano fatture e rituali. Finì che i Sabbath si fecero costruire delle grandi croci d’alluminio da portare sul palco contro il malocchio. Durante un concerto americano gli diedero un pipistrello di gomma da dilaniare coi denti di fronte al pubblico. Risultò che si trattava di un pipistrello vero e Ozzy dovette fare una cura di antibiotici. E per caso Ozzy non si trovò col geniale chitarrista Randy Rhoads sul piccolo aereo da turismo che si fracassò nel Midwest, lasciando i rocchettari orfani di un musicista di lusso, ma con una star ancora viva, sempre stonata. E questo è il rock.

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teatro

Mishima racconta la notte di Röhm di Enrica Rosso resciuto all’ombra di una nonna discendente da un’antica stirpe di guerrieri, lontano dalla dolcezza materna e dalla compagnia dei suoi coetanei, Kimitake Hiraoka, in arte Yukio Mishima, matura presto quel senso del dovere che lo porterà, sin da giovanissimo, a spendere fiumi di inchiostro per riabilitarsi agli occhi di chi lo derideva a causa della sua salute cagionevole. Da subito si segnala negli organi della scuola per produttività e fantasia. Pubblica, ancora bimbo, composizioni in versi e novelle, per approdare, appena quattordicenne, alla stesura della sua prima opera teatrale. Un ritmo febbrile di studio dei classici giapponesi gli fa da sponda per sopportare la delusione di non essere stato giudicato idoneo all’arruolamento: si getta anima e corpo nella scrittura, intrattiene una proficua amicizia con Kawabata, debutta come attore e studia kendo. Affascinato dalla vita militare arriverà a fondare lui stesso un corpo paramilitare il Tate no kai (Associazione dello scudo). Nessuno stupore quindi se decide di dedicare un pezzo di teatro a «il suo amico» Hitler (Il mio amico Hitler, ora pubblicato da Guanda, 125 pagine, 12,50 euro). Indipendentemente dalle sue dichiarate propensioni politiche, omessa qualsiasi valutazione di ordine morale sullo statista che si limita a definire «un genio politico, ma non un eroe; in lui sono completamente assenti la limpidezza e la radiosità essenziali in un eroe», quello che lo affascina è la realizzazione, avvenuta nell’arco di poche ore, di ciò che è costato al Giappone più di dieci anni di storia: l’epurazione di tutti coloro che osteggiavano i suoi folli pro-

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getti. L’intero dramma, snodato in tre atti, si sviluppa quindi nella fatidica notte del 30 giugno 1934. In particolare Mishima tratta il caso Röhm mettendolo al centro dei fatti e tratteggiando la figura del capitano con una certa libertà rispetto all’originale. Non solo, questo dramma rappresenta per l’autore il compimento di un progetto iniziato con la stesura di Madame de Sade, testo in tre atti, abitato da sei personaggi femminili che trova nel Mio amico Hitler un ideale corrispettivo al maschile (seppure qui i personaggi siano solamente quattro), essendo entrambi dedicati a personaggi-mostri, realmente esistiti, profondamente rappresentativi delle rispettive epoche. La scrittura è come sempre vibrante, modulata su tinte forti, intensamente poetiche. Le descrizioni dei paesaggi dell’anima sono cadenzate e assumono il ritmo di un canto interiore che lascia spazio a immagini di indubbia bellezza: «Il giorno in cui gli strumenti a corda non diffondono più il suono di un’autentica vibrazione, le bandiere non s’inarcano più come pantere, la caffettiera non mostra più il nobile furore del’ebollizione, i buchi nei muri cessano di essere feritoie e soffrono di cataratta, i manifesti politici, non più bagnati dal sangue, propagandano merci in liquidazione, le calze non emanano più l’umido sentore di un animale selvatico in fuga, le stelle hanno smesso di essere calamite, le poesie non sono più parole d’ordine: poiché quel giorno è venuto… Röhm, la rivoluzione è ormai finita». Sgomentano e fanno riflettere le considerazioni sulle strategie politiche operate dal dittatore per mettere a punto il suo folle disegno: non troppo lontane dalla nostra attuale scena politica.

jazz

Per l’Académie la migliore è Roberta di Adriano Mazzoletti Académie du Jazz francese, prestigiosa associazione che ogni anno assegna premi ai migliori musicisti di ogni parte del mondo, ha scelto per il 2009 i vincitori delle dieci categorie, dal Prix Diango Reinhardt per il miglior musicista francese, al Gran Prix dell’Académie du Jazz per il miglior disco dell’anno, per il miglior libro sul jazz o per il jazz vocale. Quale miglior cantante l’Accademia ha scelto Roberta Gambarini per il disco So in Love. Nata a Torino, dopo aver studiato clarinetto ha iniziato a cantare con l’Italian Vocal Ensemble di Fabio Jegher con cui ha partecipato nel 1985 alla terza edizione della Coppa del Jazz radiofonica, mettendosi immediatamente in luce come era successo anni prima a Dino Piana. Nel 1998 ottiene una borsa di studio presso il New England Conservatory di Boston e si trasferisce negli Stati Uniti.

L’

Alcune settimane dopo si aggiudica il terzo posto nella prestigiosa Thelonious Monk International Jazz Vocal Competition. Nel 2006 incide il suo primo disco Easy to Love pubblicato da Groovin’ High - con il sassofonista James Moody che dichiara: «Ricordate questo nome, Roberta Gambarini, è la migliore cantante del momento». Il timbro della voce, l’intonazione impeccabile, la tecnica eccellente oltre alle sue innegabili capacità nell’improvvisare, le valgono immediatamente una nomination ai Grammy Award nella sezione «jazz vocal». A quel primo lavoro, dove Roberta interpreta alcuni fra i più celebri standard della canzone americana, seguono You’re There e l’ultimo So In Love pubblicato dalla prestigiosa Emarcy-Universal, che ha ricevuto il Premio dell’Académie francese. Altamente apprezzata da Michael Brecker, Herbie Hancock, Slide Hampton, Roy Hargrove, Ron Carter, presente al Théatre du Chatelet a Parigi alla conse-

gna dei premi, Roberta Gambarini si è esibita in teatri di New York quali il Kennedy Center, il Lincoln Center,Town Hall e a festival come quelli di Barbados, Londra, Monterey, North Sea,Toronto e Umbria Jazz sempre con grande successo. Ulteriore miracolo che vede un altro nome italiano aggiungersi a quelli di Rava, Pieranunzi, Giuliani, Dado Moroni, nell’ormai vasto panorama del jazz italiano così apprezzato e considerato in ogni parte del mondo. I francesi è noto, a differenza di coloro che si interessano al jazz in Italia, sono fortunatamente assai rigorosi nelle loro scelte, perciò i premi al sassofonista Stephane Guillame, originario di Haiti il cui splendido disco Windmills Chronicles ha ricevuto il Prix Django Reinhardt o quello di Billy Boy Arnold per il blues e ovviamente di Roberta Gambarini sono stati giudicati positivamente. La scelta invece di assegnare il Gran Premio dell’Accademia al pianista e cantante Alain Toussaint per il disco

The Bright Mississippi ha suscitato molte polemiche e Philippe Baudoin, pianista e professore di jazz alla Sorbonne, ha inviato una lettera Roberta aperta molto Gambarini violenta ai colleghi dell’Académie per questa scelta. Baudoin stigmatizzava il fatto che Toussaint non è musicista jazz, ma un esponente del rhythm’n’blues. Cosa direbbe il musicista francese se, recandosi il 20 marzo al Teatro delle Alpi di Porto Sant’Elpidio per ascoltare uno dei concerti del Marche Jazz Festival, vedesse annunciato Simone Cristicchi? Sì, quello che vorrebbe essere come Biagio Antonacci!


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narrativa

di Pier Mario Fasanotti invenzione che sorregge questo romanzo francese è originalissima e non va mai a ingabbiarsi nella stravaganza. Delphine è una trentacinquenne graziosa, capelli rossi, infanzia breve e intrisa di solitudine. Crea un’agenzia chiamata «Per voi». Si mette a disposizione degli altri, i clienti, e si fa pagare. È un mercante di sogni, partendo dalla presa di coscienza che tutta la nostra vita è fatta di piccoli compromessi, e che nessuno ha il diritto di definirli scandalosi. Delphine s’immerge in un gioco di ruoli: sostituisce una donna e va a trovare all’ospizio il padre di questa; conversa a lungo con una sessantenne egoista e volubile in una leziosa sala da the; assiste all’ultima stagione di un omosessuale malato che scrive un lungo diario da consegnare poi al gigolo al quale si è passionalmente legato, al fine di lasciare una traccia di sé nel momento in cui la malattia lo divora. L’inizio di questa strana professione è casuale. Un’anziana donna polacca, la signora Derovitski, ha bisogno o simula il bisogno di una badante. E sarà lei a insegnare alla ragazza Delphine, premurosa ma ignorante e sciatta, come si leggono i libri d’amore, come vestirsi con eleganza e alla fine come prendere il posto della figlia lontana e distratta. La Derovitski, colta, raffinata e ricca, scopre tardivamente una passione bizzarra, che coinvolgerà Delphine: le sdolcinate storie sentimentali raccattate sulle bancarelle. Alla ragazza dà un avvertimento: «Capirai un giorno che tutte le storie, brutte o belle, sono uguali». La morte della polacca segnerà l’ascesa imprenditoriale di Delphine: con i soldi avuti in eredità comprerà i locali destinati a «Per voi». Comincia così un andirivieni di persone che vogliono illudere se stesse prima ancora che gli altri. C’è per esempio un giovane uomo che le porta due video. Il primo è il film del matrimonio della sua ex fidanzata, il secondo riguarda la sua vita. A madame Delphine chiede di confezionarne un terzo, nel quale sarà lui, e non il ricco rivale, lo sposo felice. Nei locali dell’agenzia, una sorta di vaso di Pandora, si costruiscono finzioni. Basta chiedere, basta pagare il dovuto secondo un tariffario da commercialista e

L’

La mercante di sogni

libri

una contabilità meticolosamente archiviata. Delphine, con il cuore dentro una scorza mantenuta sempre dura, non si scandalizza mai, ben sapendo che il lavoro di «venditrice di anime» asseconda i bisogni, che poi non sono così rari, della gente che non vuole o realmente non può affrontare realtà dolorose, ingombranti, fastidiose. È sempre Delphine ad aiutare la madre di un ragazzo autistico nel tentativo di sottrarlo all’ossessione del computer, all’isolamento e all’apparente freddezza emotiva. Nel giovane lei trova parte di se stessa, così come si specchia nei giochi informatici che lui, abilissimo hacker, ruba o crea, interamente immerso in una realtà virtuale. Tu e io siamo uguali, le dice il ragazzo solo. La mercante di sogni offre anche il proprio corpo a una coppia che vuole un figlio ma non lo può concepire. Sarà lei a diventare l’utero del sogno impossibile, guardata a vista da chi le ha commissionato la gestazione. Per quasi tutti i nove mesi Delphine, pur con il pancia che si dilata, non avverte alcuna ripercussione nella propria sfera intima. È solo un incarico. Ma l’indifferenza, chiaramente autoprotettiva, s’incrina nelle vicende che la vedono testimone tenera del maturo omosessuale in agonia. Il gigolo riesce a rintracciare Delphine, si reca all’agenzia e chiede alla donna di battere al computer le pagine del diario ritrovato. Delphine in quegli appunti affronta lo shock del giudizio che l’uomo ha scritto su di lei: «Non è né brutta né bella, ma non ho mai visto nessuno esprimere così pochi sentimenti. A volte ho l’impressione che non esista, che l’abbia inventata io, tanto è poca la differenza tra quando è qui e quando non c’è». La corazza della donna s’incrina perché è lei a ribellarsi dinanzi a quelle affilate parole. Delphine sente il bisogno di amare e di essere amata, scoppia a piangere dopo anni e anni di cortesie simulate, di artefatte partecipazioni al dolore e alle illusioni degli altri. Alla fine implora, si umilia addirittura. Malinconicamente consapevole di essere proprio lei ad avere bisogno di rivolgersi all’agenzia «Per voi». Finalmente guarda se stessa in uno specchio che non è deformante. Dominique Mainard, L’agenzia dei desideri, Bompiani, 255 pagine, 17,50 euro

riletture

Suskind e “Il profumo” venticinque anni dopo di Angelo Crespi e ci fosse un Matricole dedicato alla letteratura - Matricole è quella orrenda trasmissione che mostra dove sono finiti i miti pop degli anni Ottanta (star stagionali della musica o della televisione) - ci piacerebbe sapere che fine ha fatto Patrick Suskind, da Ambach Germania, classe 1949, che venticinque anni fa ci regalò un bestseller indimenticabile come Das Parfum, Il profumo, tradotto in una quarantina di lingue e venduto in decine di milioni di copie e da cui poi fu tratto un film e la cui trama ispirò perfino una canzone dei Nirvana. Suskind, suo malgrado, è però l’autore di un libro solo, come molti nella letteratura, sebbene in seguito a quel successo planetario uscirono altri romanzi del riservatissimo scrittore tedesco che - descrivono le biografie - è tanto riservato

S

da rifiutare interviste e solidi premi come il Gutemberg. Se non ci dispiacesse distruggere con lui un altro mito degli anni Ottanta, diremmo che Il profumo e Suskind assomigliano molto alla Insostenibile leggerezza dell’essere e a Kundera, entrambi gli scrittori e i romanzi sopravvalutati e definitivamente invecchiati come quel Roberto D’Agostino che inscenava il critico arboriano, lanciando amene mode letterarie, ma che oggi almeno da cinico e nichilista direttore di Dagospia è più famoso e incide maggiormente nella società italiana dei libri che di fatto uccise rendendoli televisivamente celebri. D’altronde, Il profumo che, letto la prima volta appare un capolavoro, a 25 anni di distanza sembra risentire del clima letterario di quegli anni, e come lui i romanzi di Kundera, quelli della Allende, e di Marquez, e di Eco, e della Hart, frutto del proto marketing editoriale di un’in-

dustria culturale che stava misurando il proprio potere; e non è un caso che il libro di Suskind uscì, feuilleton, a puntate sul Corriere della Sera. Una sensazione di invecchiamento, dicevamo, che non succede coi classici, con Flaubert, Dostoevski, Proust e Mann; al contrario essi sembrano rinnovarsi decennio dopo decennio e quando li ri-apri è sempre davvero la prima volta. Certo, vale la pena consigliare di leggere Il profumo a chi non lo avesse ancora fatto, un esercizio letterario raffinato, romanzo picaresco nella Francia del Diciottesimo secolo, forse il secolo più puzzolente della storia, che sfocia nel giallo e chiude nell’horror, sorretto da una scrittura solida in grado di descrivere con le parole la cosa forse più difficile da descrivere, insieme alla musica, e cioè il profumo. Pagine intere dedicate all’ossessione del protagonista, Jean Baptiste Grenouille, deforme reietto quasi orfa-

no, ma colla virtù di un naso assoluto, capace di riconoscere e ricreare qualsiasi tipo di profumo. Solo che alla base di questo prodigioso talento, c’è un oscuro contrappasso: essere un uomo privo di un proprio odore. Un po’ come nella favola di Peter Schlemel, l’uomo senza ombra, Jean Baptiste Grenouille è destinato a una brutta fine che arriva puntuale dopo aver cercato con delirio di onnipotenza, prima di possedere il profumo più bello, uccidendo giovani donne dalle eteree fragranze, e poi di darsi lui stesso il profumo più seducente così da poter governare tutti gli altri uomini del mondo. La chiusa è degna della tragedia greca e ripropone in chiave surrealista il mito di Orfeo sbranato dalle eumenidi. Allo stesso modo Grenouille viene per troppo amore squartato e divorato da una folla di miserabili e straccioni accampati nel cimitero di Parigi.


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narrativa/2

Riflettendo con Ourika sulla diversità di Gabriella Mecucci delphi ripubblica un piccolo gioiello: Ourika di Madame de Duras. Un breve, intensissimo romanzo scritto all’epoca della Restaurazione che racconta la storia di una piccola schiava nera, portata in dono dal Governatore del Senegal al maresciallo de Beuve. La bambina cresce in Francia con l’incubo della sua diversità: il colore della pelle. Ourika ormai grande s’innamora di Charles, cerca di negarselo, pensando di amarlo come un fratello. Ma a un certo punto c’è chi le svela la natura del suo sentimento. La giovane donna avverte un terribile senso di colpa

A

gialli

per «aver infranto l’ordine della natura», per aver concepito «una passione delittuosa». Ourika, infatti, sente che l’essere nera, quindi diversa, non può che portarla a vivere ai margini della società e dei sentimenti, a essere sola. Soltanto la scoperta di Dio la salverà. E sceglierà il Chiostro. Madame Claire de Duras, autrice di questo delizioso e drammatico romanzo, era una donna malamata dal marito e in Ourika trasferisce pezzi del suo vissuto: «l’implacabile patologia della passione amorosa di cui lei stessa aveva fatto esperienza» nella vita matrimoniale, come scrive nella raffinata postfazione Benedetta Craveri. Madame de Duras si confortò dai

dispiaceri diventando una regina dei salotti della Restaurazione e una scrittrice apprezzata. Fra i suoi ammiratori c’erano straordinari letterati come Goethe, Chataubriand, Saint-Beuve. Di tutte le sue opere quella che ebbe più successo fu proprio Ourika. Pubblicato nel 1824, divenne infatti in brevissimo tempo quello che oggi si definirebbe un libro di culto, tanto che nei magasins de mode andavano a ruba i nastri, le camicette, i capelli, e i gioielli à l’Ourikà. E anche rileggerlo oggi procura la sottile vibrazione della scoperta di un’anima che soffre per amore e perché condannata alla solitudine. Madame de Duras regge al tempo, la sua opera non è

invecchiata e bene fa Adelphi a riproporla proprio nell’epoca in cui le grandi migrazioni ci costringono a riflettere sul rapporto con la diversità e con la gamma di sentimenti che l’attraversano. Ourika non può essere paragonata in nessun modo a un’extracomunitaria di oggi, ma nelle ragioni della sua disperazione rintracciamo alcuni fili sottili che arrivano sino a noi. Questo delizioso libretto ci consegna una sorta di cartella clinica di un outsider, dell’eterno straniero nella società umana, dell’altro nella sua insopprimibile e sofferente umanità. Madame de Duras, Ourika, Adelphi, 169 pagine, 13,00 euro

Ellroy? Meno “casuale” di Truman Capote di Mario Donati olo astuto maestro del genere noir o scrittore profondo? James Ellroy, con il romanzo che completa la trilogia cominciata con American Tabloyd e Sei pezzi da mille, è abilissimo a mischiare realtà storica e fantasia per giungere a un prodotto «shakerato» che, a mio avviso, fatica ad affrancarsi dal giornalismo d’effetto sia pure con il respiro lungo - forse troppo lungo - della narrazione/sceneggiatura. Con prosa affilata, a volte urticante al pari dell’immagine pubblica di chi la sbatte sulla carta, Ellroy descrive quattro anni cruciali dell’America, un paese duro, corrotto, sfiatato nell’inseguire una qualche resurrezione. Il romanzo si apre con una fulminante, e cinematografica, descrizione di una rapina in un quartiere nero (siamo nel 1964, si diceva «negro» e l’autore non

S

manuali

sgarra). Siamo al western metropolitano, ma subito dopo il pendolo, stilisticamente impazzito, si sposta su quattro personaggi-chiave che si muovono sullo stesso sfondo che vede buoni e cattivi: Edgard Hoover, Richard Nixon, John Kennedy e Martin Luther King. L’autore scortica uomini e personaggi, li rende dannati. Un girone infernale che a volte pare macchiettistico, esagerato come un cartoon a tinte fosche e terribili, dove imperano disvalori come droga, denaro, potere. Attraversa l’intero libro il torbido conflitto interrazziale, alimentato cinicamente da un sicario delle istituzioni segrete (Fbi). E qui s’innestano altre figure che traggono linfa da personaggi della cronaca. Al centro, ammesso che sia sempre visibile un centro, c’è la riuscita immagine femminile di Jean Rosen Klein, ebrea comunista chiamata «la dea rossa». Qualcuno azzarda nel paragonare Ellroy a James Joyce, per la li-

bertà strutturale e lessicale del romanzo-fiume. Altri parlano di rimodernata tragedia elisabettiana incastonata tra i grattacieli e le «luride città» dei neri americani o (pare quasi una bestemmia citarlo oggi) nella capitale di Haiti, Port au Prince, definita «merdopoli con la brezza marina». Nessuna concessione alla pietas, figuriamoci al sentimentalismo o solo ai sentimenti tout court. Come nel genere classico del noir, c’è un volgare quanto pagano Graal del Nuovo (e brutale) Continente. Dentro ci sono gli smeraldi assieme alla voglia di controllare tutto con tutti i mezzi e alla sete del potere. Cronaca come fonte di ispirazione, dicevamo, mistura tra giornalismo e letteratura. Potrebbe darsi che Ellroy abbia come maestro non dichiarato Truman Capote. Ma Capote si alzava dalle colonne dei giornali e il lettore quasi dimenticava che la sua prosa era la mongolfiere da lì partita. Lo spunto diventava casuale, per questo era un grande scrittore. James Ellroy, Il sangue è randagio, Mondadori, 859 pagine, 24,00 euro

Anche gli assicuratori credono nell’amore di Giancristiano Desiderio i ha colpito da subito il titolo. Si sa come avviene oggi nella scelta di pubblicare un libro: prima di tutto viene il titolo, che deve essere a effetto, deve incuriosire il probabile lettore-cliente, poi, dopo, solo dopo, viene il contenuto, cioè il libro. Ma il titolo del libro di Enrico Trapassi è insolito perché non rientra nella categoria dei titoli furbi: Pensando all’amore. Mi ha colpito perché il titolo giusto sarebbe dovuto essere «pensando l’amore», ossia l’amore oggetto del pensiero. Ma leggendo queste circa cento pagine di riflessioni, confessioni, versi, citazioni, preghiere, bestemmie, confusioni si

M

capisce perché il titolo giusto è Pensando all’amore: qui l’amore è ancora passione, è ancora un palpito, un bisogno, una conquista ma anche un dono. Una condizione prima che un’indagine. Insomma, è ancora vita. È al di qua della linea del pensiero, è ancora nel «mondo della vita» che pur resta la radice prima e ultima del «mondo delle idee». Enrico Trapassi - che cosa strana, Trapassi era il vero nome del Metastasio - è nato a Caserta e lì risiede e vive facendo l’assicuratore. Anche gli assicuratori hanno un’anima. Il suo libro, infatti, è l’antitesi della sua professione: è possibile stipulare un’assicurazione sull’amore? Se c’è una cosa che non si può garantire è l’amore.

L’amore - qualunque cosa si voglia intendere con questa parola di uso e abuso comune - non è al soldo dell’uomo: «L’amore è un mistero, è di tutti e di nessuno: arriva, si mostra, ci accoglie e ci oltrepassa; spesso ci abbandona, altre volte ci abita il petto per sempre ma ha, comunque, un senso più grande dei nostri pensieri e, forse, il compito che abbiamo è di non smettere mai di cercarlo in ogni cosa, dietro ogni minuto, nello scoccare di ogni secondo, nella strada che “qualcuno”ha tracciato per noi in questa vita affinché anche la morte abbia un senso». Pensando all’amore è un caso. La città ne parla. Le serate per presentare le pagine di Enrico Trapassi sono affollate. Perché? Ho il

sospetto che la nostra epoca, pur cinica e vuota ma non più di tante altre, cerchi amore o quel senso possibile delle cose e delle ansie capace di dare forma alle vite offese che siamo. Le pagine di Trapassi vanno lette senza un ordine preciso, ma facendosi guidare dal caso. Dice a pagina 37: «Amore è nudità». L’amore è nudo come gli amanti, è nudo perché - come Eros - è bisognoso e prega il suo amante perché lo accolga. Ma l’amore è nudo anche come Nostro Signore: nudo a Betlemme, nudo sul Golgota. Enrico Trapassi, Pensando all’amore. Frammenti di un uomo ancora incapace d’amore, Giuseppe Vozza Editore, 92 pagine, 10,00 euro

altre letture Dopo la fine della grande guerra, per ordine del padre un ragazzo sale sul Monte Grappa a recuperare rame, piombo, viveri in scatole; il proposito è quello di aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, in realtà le escursioni del giovane recuperante sono un viaggio di maturazione che gli fa conoscere profondamente la vita. Il Grappa si impone attraverso tutto il romanzo come un gigante inerme: come orizzonte della tradizione contadina comunitaria, arcadia dei magiari, poi come campo di battaglia. Quindi come immenso serbatoio di raccolta e recupero di materiali, presidiato dall’esercito italiano; come monte sacro della patria voluto dal fascismo. Infine come monte naturale al quale ritornano i gufi e i corvi dopo la bufera e dove riprende la vita semplice e vera animata dallo sbocciare di fiori di montagna. Quello di Paolo Malaguti Sul Grappa dopo la vittoria (Santi quaranta, 160 pagine, 12,00 euro) è un romanzo di formazione, che procede per prese di coscienza, di un ragazzo organicamente inserito in una cultura locale come quella veneta. L’organizzazione

internazionale del lavoro prevede due scenari per il prossimo anno. Uno ottimistico, uno meno. Se tutto andrà bene i senza lavoro passeranno dagli attuali 179 milioni a 210 milioni. Se andrà male saranno 230 milioni i disoccupati. Intanto gli standard di vita sono prossimi a una riduzione del 20 per cento. Tutto questo perché per decenni ci si è preoccupati di ridistribuire il reddito senza porsi il problema della sua creazione e più in generale di valore. Se le cose vanno così non è colpa del destino cinico e baro, sostiene Michele Gerace in C’era una volta il welfare (Rubbettino, 98 pagine, 9,00 euro), ma di politiche di scarso respiro e senza prospettiva. Il libro di Gerace cerca di offrire una prospettiva e una soluzione di pronto uso per la modernizzazione fondata sulla centralità della persona.

L’Inghilterra è stata la principale potenza coloniale: ancora in pieno Novecento il suo dominio si estendeva su tutti i continenti, dall’Africa all’Asia, dall’America all’Oceania. L’impero britannico non è dunque un fatto di storia inglese ma di storia globale. A questo argomento Philippa Levine dedica (in L’impero britannico, Il Mulino, 300 pagine, 25,00 euro) un profilo che presenta forti elementi di originalità, non limitandosi a tracciare una parabola politica dell’espansione coloniale, dalle sue prime formazioni alla decolonizzazione dell’ultimo dopoguerra, ma anche ricostruendo che cosa abbia significato vivere in un impero per gli uomini e le donne che vi si sono trovati tanto da dominatori che da dominati. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

“SOLE DEL MONDO” O “DRAGO FUNESTO”, ERETICO O “PROPUGNATORE DELLA FEDE”. DANTE LO AMMIRA MA LO FA BRUCIARE ALL’INFERNO. PER NIETZSCHE ERA UN PRECURSORE DI LEONARDO DA VINCI. CONSIDERATO IL SOVRANO PIÙ GENIALE DOPO CESARE, È UN MODELLO PER IL RISVEGLIO DELLA GERMANIA NAZIONALSOCIALISTA. MA CHI ERA DAVVERO L’IMPERATORE SVEVO? DUE NUOVI SAGGI CERCANO DI RISPONDERE NEL TENTATIVO DI SUPERARNE LA MITOLOGIA. UNA MISSIONE CHE APPARE IMPOSSIBILE…

Chi ha paura di Federico II? di Mario Bernardi Guardi arra la leggenda che Federico II di Hohenstaufen, sovrano assoluto in terra di Sicilia (1198), re romano-germanico (1212, incoronazione a Magonza; 1215, incoronazione ad Aquisgrana), imperatore romano (1220), re della Città Santa di Gerusalemme (1225), non è morto, ma riposa, protetto dai suoi cavalieri, nel cuore infuocato dell’Etna, l’inaccessibile Mons Gebellus. Quando i corvi finiranno di volare intorno alla cima del monte e l’albero disseccato comincerà a rifiorire nella valle, egli si desterà dal magico sopore, si rivestirà delle armi e combatterà come un leone, alla testa del suo esercito di fantasmi, l’estrema battaglia dell’Europa. Il mito dell’occulta sopravvivenza - vivit, non vivit - e del luminoso ritorno, all’insegna della pax cum iustitia, di colui che fu detto il «Sole del mondo» (così ne piange la morte il figlio Manfredi, la cui icona nessuno potrà strappare dai nostri ricordi liceali. Ricordate? «Biondo era e bello, e di gentile aspetto/ ma l’un de’cigli un colpo aveva diviso»), è una delle tante «vene d’oro» che la Tradizione, l’immaginario collettivo e la poesia scoprono nel sottosuolo della storia: anche Federico I, il Barbarossa, ha una sua montana residenza nel turingio Kyffhaüser, mentre Carlomagno dorme nelle oscure profondità del Gudemberg («Montagna di Wotan») e l’Artù dell’epica bretone (Arthurus, rex quondam, rex venturus),

N

che pericolosamente potenti, come è inevitabile ogni qualvolta si parli di terra, di sangue e di destino. E tuttavia è incontestabile il fascino suscitato dagli eroi, anche e soprattutto da quelli che sono, allo stesso tempo, creatori e distruttori e dunque, da sempre, «segno di contraddizione». Come Federico II, che non poteva non figurare tra gli emblemi di «resurrezione identitaria» nella Germania piegata e piagata dalla Grande Guerra, in quell’Impero annichilito dal Trattato diVersailles, che gli alfieri della Rivoluzione Conservatrice volevano veder risorgere dalle rovine. Sotto quali insegne? Ebbene, certamente né il Mann delle Considerazioni di un impolitico e nemmeno Spengler, von Salomon, Moeller van den Bruck, Benn, Schmitt, Jünger, Heidegger possono essere definiti come nazisti più o meno consapevoli, ma è innegabile che in essi e per essi Federico II e un altro Federico, l’oracolare Nietzsche dello Zarathustra, rappresentassero, con varie tipologie di lettura e di personale affettività, solidi punti di riferimento politici e metapolitici. Lo stesso accadeva nell’eletto circolo di Stefan George, dove, su sollecitazione del Maestro, sin dal 1922, Ernst Kantorowicz attendeva a una biografia dell’imperatore svevo. Se ne riparla adesso in due nuovi saggi dedicati allo Stupor Mundi: il primo è un sintetico profilo tracciato da Hubert Houben,

Figlio di Enrico VI e della normanna Costanza d’Altavilla, è circondato di mistero sin dall’apparire, visto che sul luogo di nascita detrattori e laudatori si accapigliano. Sul suo “riposo”, invece, si narrano leggende suggestive... soggiorna, anche lui «in attesa», nell’isola di Avalon, tra bianche lontananze.

I sogni del Medioevo attraversano i secoli, il Romanticismo dà a essi una potente riconsacrazione, i fascismi, e soprattutto il nazionalsocialismo, con la loro vocazione transpolitica (egregiamente studiata da George L. Mosse, a partire da un saggio ormai «classico» come Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, 1968), fanno propria l’immagine della patria che si desta a nuova vita sotto bandiere dai colori fiammeggianti. Suggestioni poeticamente e an-

docente di Storia medievale all’Università di Lecce (Federico II. Imperatore, uomo, mito, Il Mulino, 208 pagine, 12,50 euro); l’altro è un ponderoso tomo di Wolfgang Stürner, professore emerito di Storia medievale a Stoccarda (Federico II e l’apogeo dell’impero, edizione italiana a cura di Andrea Antonio Verardi, con una presentazione di Ortensio Zecchino, Salerno Editrice, 1128 pagine, 84,00 euro). Houben ricorda come George esaltasse nell’ultimo imperatore svevo «il signore del mondo che aveva riunito Oriente e Occidente, cultura greca e cultura romana» (op. cit., p. 173); come il germanista Friedri-

ch Gundolf, anch’egli membro del Circolo, definisse Federico «il sovrano più geniale» dopo Cesare, «l’ultimo portatore della piena sacralità medievale imperiale, e, allo stesso tempo, il primo genio statale autonomo, orientato verso la svolta del Rinascimento» (ibidem); come, nel maggio del 1924, autorevoli membri del Circolo «deponessero davanti al sarcofago palermitano dell’imperatore una corona di fiori recante la scritta: «Ai suoi imperatori ed eroi La Germania Segreta» (ib.). Di questo cuore pulsante della «Germania segreta» facevano parte anche Berthold von Stauffemberg, il cui fratello Claus, il 20 luglio 1944, avrebbe compiuto l’attentato contro Hitler (un attentato «di» e «da destra», è bene rammentarlo!) e, per l’appunto, Ernst Kantorowicz che, nella sua celebre biografia fridericiana pubblicata tra il 1927 e il 1931 (ed. it. Federico II Imperatore, Garzanti, 1976), «pervaso dalla logica dello Stato di potenza, per di più esaltata dalle suggestioni nietzschiane sul superuomo, molto elogiò la vocazione statalista e assolutistica di Federico, in particolare sottolineando “l’influenza sulla formazione del diritto degli Stati assoluti d’Europa”del Liber Augustalis che,“prima grande codificazione dopo Giustiniano e unica in tutto il Medioevo”, riscosse l’ammirazione del mondo» (Ortensio Zecchino, «Federico II tra i giudizio e i pregiudizi storiografici», in Wolfgang Stürner, Federico II…, cit., p.13).

Ma la formazione culturale e la professione di fede nazional-identitaria non salvarono l’ebreo Kantorowicz dall’ostilità del nazismo. Come documenta un’accorata lettera inviata dallo storico, che era stato privato della sua cattedra universitaria, al Ministro dell’Educazione nell’aprile del 1933. In essa, come nota Zecchino, Kantorowicz «esibisce come titoli di fedeltà al regime proprio i suoi scritti su Federico II» (ibidem). Leggiamo: «Sebbene io, che mi sono arruolato volontario nell’agosto del 1914 e ho combattuto, durante e dopo la guerra, contro i Polacchi a Poznan, contro l’insurrezione spartachista a Berlino e contro la repubblica dei Consigli a Monaco, non mi aspettassi di essere privato del mio incarico a causa della mia ascendenza ebraica; sebbene, per gli scritti che ho pubblicato sull’imperatore Federico II Staufen, non abbia bisogno di garanti, né d’allora né d’oggi, per attestare i miei sentimenti in favore di una Germania riorientata in senso nazionale; sebbene il mio atteggiamento fondamentalmente entusiasta verso un Reich diretto in senso nazionale vada ben al di là di quello comune, influenzato dagli eventi, e non si sia certo affievolito a causa degli avvenimenti recenti, pure, io, come ebreo, sono costretto a trarre determinate conclusioni da quanto sta accadendo» (ib.). Insomma, da una parte un’appassionata rivendicazione di


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titoli patriottici e fridericiani (patriottici, «dunque» fridericiani, e viceversa), dall’altra la malinconica constatazione di essere - e non per propria volontà - un corpo estraneo nel nuovo Reich. E al centro quella biografia dell’Imperatore svevo che è un «monumento» edificato alla tradizione germanica e alla rinascita del Reich.

Oggi datato, politicamente scorretto e con sopra un bel po’ di polvere poetico-mistico-superomistica? Non c’è dubbio, e sia Houben, nel suo rapido e nitido profilo che sa cogliere i tratti distintivi di una personalità indubbiamente complessa e illuminare i principali elementi di dibattito intorno alla sua esperienza politica e al suo mito; sia Stürner, che scava nei documenti, confronta, entra nel dettaglio, disegna un «tempo» e uno «spazio» con rigoroso gusto del particolare; sia Houben che Stürner, dicevamo, reso il loro omaggio a Kantorowicz, si mostrano impegnati a «superarlo». E non è facile, perché l’Imperatore Alcune raffigurazioni di Federico II; l’Italia e l’Europa come apparivano nel suo tempo; un’immagine della sua “creatura” Castel del Monte; il suo logo e le copertine dei due nuovi saggi a lui dedicati

sembra fatto apposta per essere mitizzato e celebrato come personaggio, come dire?, al di sopra della storia puramente événementielle. Insomma, anche volendo tenersi rigorosamente ai fatti, Federico sprigiona una carica di fascinazione - nel bene, nel male e oltre - «oggettivamente» antioggettiva. E non è un gioco di parole visto che il figlio dello svevo Enrico VI e della normanna Costanza d’Altavilla è circonfuso di mistero sin dall’apparire. Una domanda ricorrente: a partorirlo fu davvero la figlia di Ruggero II, primipara e ormai quarantenne? E già laudatores e detractores incominciano a litigare: Federico, attacca Salimbene da Parma, proviene da bassissimo rango, l’ha partorito la moglie di un macellaio di Jesi; no, non è vero, contrattacca il fiorentino Ricordano Malispini, l’ha generato proprio Costanza, e pubblicamente, in una tenda allestita nella piazza del mercato di Palermo. Un momento: Palermo o Jesi? Certamente Jesi, che richiama il luminoso Jesus, il nome di Dio che si è fatto uomo e redentore degli uomini. Del resto, Federico nasce il 26 dicembre 1194, nella sacralità dell’atmosfera natalizia. E la piccola città marchigiana non assomiglia a Betlemme? Batti, dibatti, controbatti. Il poeta Pietro da Eboli rilegge la quarta ecloga di Virgilio, dove si canta la venuta di un Puer che avrebbe riportato nel mondo l’Età dell’Oro, come una profezia che ben può riguardare il neonato regale. E Goffredo da Viterbo celebra nel bimbo il futuro Salvatore, il Cesare insignito di divina gloria che viene a compiere i tempi, il Re del mondo, colui che porrà l’Oriente e l’Occidente sotto un unico scettro. Ma ci sono anche i funesti vaticinii del Mago Merlino che dalle brume di Britannia aveva parlato di un «agnello da squartare ma non da divorare» e di un «leone furioso tra i suoi». E ci sono Gioacchino da Fiore e i suoi seguaci che identificano nel neonato l’Anticristo venuto a confondere il mondo, e Salimbene che affibbia al tenero pargolo la definizione di «drago funesto». Insomma, tra gli osanna e i crucifige, c’è davvero l’imbarazzo della scelta: Stupor Mundi, Reparator Orbis, Novello Adamo, Novus Dux,Vicarius Dei,Vir Inquisitor, Rex et Sacerdos, Deitas Solis, Araldo del Diavolo,Vicario di Satana, Bestia Trionfante, Serpente Immondo, Basilisco Velenoso (ovviamente concepito da «materia infernale»), Drago dell’Apocalisse… Il già nominato Salimbene, nella sua Cronaca di parte guelfa lo bolla come pestifer et maledictus, scismaticus, ereticus et epicureus, corrumpens universam terram. Gregorio IX, che lo scomunica nel 1239, gli attribuisce la negazione della verginità di Maria e sostiene che la bocca dell’Imperatore si apre soltanto per bestemmiare Dio e i santi. Eppure, lo Svevo si spenge il 13 dicembre 1250, il giorno di Santa Lucia, avvolto nel grigio saio dei Cistercensi, rice-

con la Chiesa come istituzione ebbe rapporti alterni, spesso segnati da aspra conflittualità, e che di fronte alla Tradizione cristiana si pose ora in atteggiamento d’ossequio, ora con le evidenti insofferenze di un cercatore insonne, che il luccichìo del Graal lo coglie tanto nella santità silente di una vita monastica quanto nei segreti codici degli Assassini, l’organizzazione iniziatica israelita che Hassan Sabbah, il Veglio della Montagna, temprava alle dure leggi di un’ascesi guerriera.

Un eretico, Federico? Eppure il cardinale Niccolò da Cusa lo celebra come «l’uomo nella Chiesa valorosissimo propugnatore della Fede». È vero che al presunto «epicureismo» dell’Imperatore dette credito anche Dante, condannandolo a bruciare di perpetua fiamma nel cerchio degli eretici, insieme a Farinata degli Uberti e a Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido, amico e sodale in dolce stil nuovo.Tuttavia Dante stesso nel De vulgari eloquentia, indirizza a Federico II e a Manfredi (che non è tra i «sommersi», ma tra i «salvati» dell’Antipurgatorio, in attesa di accedere ai rituali dell’espiazione), espressioni reverenti e commosse. Ed è ancora Dante a celebrare la «dignità» e l’«onore» di Federico, per bocca di Pier delle Vigne, che prima fu il consigliere più ascoltato di Federico II e poi, caduto in disgrazia per le calunnie dei cortigiani invidiosi, si uccise per la disperazione. Ma contro Federico, nella selva dei suicidi, neppure una parola di rancore da parte dell’integerrimo funzionario.Anzi, il grato ricordo e l’elogio. Così tedesco, così italiano, così romano, lo Svevo, che rinnova la gloria di Giustiniano, imperatore del diritto, con le Costituzioni di Melfi; che riordina il sistema monetario con gli «augustali», monete d’oro che da una parte portano inciso il ritratto dello Staufen con mantello cesareo, alloro e diadema raggiante sul capo, e dall’altra l’aquila romana; che si sforza di riproporre la pax augustea, l’ordine divino del mondo nel mondo, l’aurea aetas; che evoca la memoria di Giulio Cesare, comportandosi da dominatore clemente, da dux che non annichilisce i nemici vinti, ma getta ponti di comprensione e amicizia. Così, per il suo dies natalis, tutta la Sicilia è in festa: saraceni e greci, ebrei e cristiani. E poi c’è la grande festa della cultura mediterranea: il «Rinascimento» federiciano, con i castelli, i mosaici, la Scuola medica di Salerno, l’Università di Napoli, la Scuola poetica siciliana. Compone poesie, l’Imperatore, e discetta di filosofia, e scrive un trattato di falconeria. Ha studiato il latino, il greco, l’ebraico, l’arabo; e si esprime agevolmente in siciliano, in provenzale, in tedesco. C’è l’Imago Dei o il Sathanas solutus in questa vocazione all’omniscienza? Difficile, addirittura impervia, ogni risposta. Si sco-

Mann, Spengler, von Salomon, Moeller van den Bruck, Benn, Schmitt, Jünger, Heidegger... Per gli alfieri della Rivoluzione Conservatrice il re del casato Hohenstaufen fu un solido punto di riferimento politico e metapolitico vendo il viatico dalle mani dell’arcivescovo Berardo di Palermo. E allora dove sta la verità? Per quel che ci riguarda, col pur invecchiato Kantorowicz bene in mostra, noi vediamo in Federico la poliedrica figura di un rex sapiens, di tutto curioso: poesia, filosofia, astrologia, architettura, materie politiche e giuridiche, botanica e zoologia, teologia e alchimia. Un eretico? No, piuttosto un miles Christi, ricco di intellettuali stravaganze, probabilmente suggestionato dall’Islam più raffinatamente esoterico, in ogni caso un sovrano spiritualmente aperto, che

modi o meno il Superuomo (per Nietzsche, Federico II era un precursore di Leonardo da Vinci), c’è nello Svevo qualcosa che fa pensare alla «dismisura». O forse alla magnanimità di chi intende costruire «per sempre». E dunque, vocato all’eccesso, crea e distrugge. Certo, abbiamo a che fare con l’«eccezione» e resta difficile ragionare nei termini consueti di bene e male. Al punto che vien voglia di chiedere: c’è uno spazio intermedio, più luminoso del Limbo, che possa essere regale ed eterna sede per Federico II di Hohenstaufen?


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tv

video

Che tempo che fa Le verità di Albanese sulle nevrosi C di casa nostra

i sono, in televisione, comici anche molto versatili che quando entrano nel campo minato della satira modulano il loro intervento girando attorno a triti clichè. Si rispolvera il vecchio cabaret, ma spesso si rimane nel cortile domestico della spassosa chiacchiera da bar, con riferimenti alla vita privata (e inevitabilmente anche sessuale) e a quella montagna incombente e indecifrabile che è la burocrazia. C’è in Italia un comico che prima di essere un comico è un grande attore. E prima di essere un valente attore (e mimo) è una persona intelligente: che non si ostina a rimanere nel particolare, semmai lo dilata e lo deforma per disegnare un clima. Si chiama Antonio Albanese, che ora è tornato con i suoi personaggi di Giù al Nord accanto a Fabio Fazio in Che tempo fa (Rai 3, alle 20,10 di sabato e domenica). Si alterna con Luciana Littizzetto, e con lei gareggia lanciando al pubblico gli eccessi.Tutti verosimili. Una delle macchiette più riuscite è quella del professor Duccio Troller che racconta gli esami di terza media. Entra nel palcoscenico con un’andatura da depresso, con una serie di tic facciali destinati ad aumentare d’intensità e frequenza. Docente e vittima di un sistema. Stanco, rassegnato, confuso. Non si ricorda neppure come si chiama la sua scuola: Giosuè… e lunga e angosciante pausa. Poi il «Carducci», pronunciato con afflato liberatorio, da impiegato statale reduce da prolungate e sempre più aggressive vacatio mentis. Il suo nemico, quello che gli rovina la vita e il sonno, è la farraginosa macchina statale che coinvolge vari «collegi», quelli dei professori, genitori, studenti, Provveditorato,Tar, eccetera. Racconta di avere problemi con l’appello: su 37 allievi solo sette hanno un banco su cui sedersi, allora lui inventa un saltello, una giravolta. Stessa costernazione quando dà la notizia che nell’istituto dove insegna manca la luce: «Be’, è così, la mia è una scuola diurna, mica serale!». Poi gli esami, tutti condotti sul filo dell’interdisciplinarietà. Chiede al candidato: le ragioni della prima guerra mondiale, le ragioni della seconda

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guerra mondiale, il cubismo e l’arte in Picasso, il calcestruzzo come materiale di costruzione, la sinestesia come figura retorica nella poetica del Carducci, e cenni di pronto soccorso dinanzi a un uomo in preda a crisi gastrica. Con candida cupezza riconosce di non sapere ormai più nulla delle materie di esame. E promuove tutti per evitare che s’innesti la mostruosa macchina del ricorso amministrativo, con conseguente rovina delle sue vacanze estive. Una catartica liberazione avviene quando riferisce di aver bocciato l’allievo che ha risposto correttamente a tutto: una prevaricazione, un abuso, ma anche l’occasione surreale per dirsi finalmente «uomo libero». Albanese riprende anche il tema della deriva della classe politica con il volgarissimo Cetto Laqualunque, che entra in scena con una bottiglia di champagne in mano e due vistosissime ragazze al fianco, che lui chiama «le timidone». Il suo comizio è imperniato nel gridato disprezzo dei bisogni reali del paese. L’occupazione? Si risolve nell’assunzione dei figli degli amici. La giustizia e la domanda d’obbligo: esistono giudici fantasiosi che ipotizzano la «presenza nel mio partito di mafiosi?». Sbrigativamente offre, ad alta voce e con gioia, la soluzione: «Into ‘o culu» la verità. Cetto Laqualunque arringa gli elettori agitando le braccia. Al polso sinistro ha le manette, che ondeggiano come a significare che «Mani pulite» non è mai esistita. La sua grossolanità indugia ossessivamente sul suo slogan: «Cchiù pilu pe tutti». L’effetto comico si alza quando entra in una spirale di confusione identitaria: alla notizia che Fazio dà, ossia che ha vinto le elezioni, Cetto si toglie occhiali scuri, la parrucca e la giacca, s’immalinconisce, dice di non crederci, di non voler crederci. L’attore si stacca dal suo personaggio, la doppia pelle dell’umorismo registra la nevrosi di una nazione intera. Questa è l’Italia di oggi. L’Italia che muove a un riso sfrenato e triste, ma anche al ripiegamento su se stessa in cerca di qualcosa cui aggrapparsi, almeno in privato. (p.m.f.)

games

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IL NUOVO DEL PIERO È SUL WEB

RITORNO A RAPTURE

IL VANGELO DEL FARE

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ibero dall’asfissiante calotta del talent-show televisivo tutto lacrime e sangue posticcio, il web ha permesso in questi anni la valorizzazione di molti giovani promettenti. Basti pensare ad esempio alla moltiplicazione di influssi e informazioni prodotte da myspace in ambito musicale. Una formula vincente e molto vantaggiosa, che di recente è stata applicata al mondo del cal-

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equel del celebrato primo capitolo, Bioshock 2 ripropone le caratteristiche che hanno reso il titolo un must nella categoria first person shooter. A partire dall’ambientazione futuristica, che ha fatto della città sottomarina di Rapture un gioellino tecnologico. E poi la solita tensione narrativa (molto alta) e l’ottima presa della soundtrack sui momenti topici. Anche stavol-

a via d’uscita è la reciprocità. Noi preti che riconosciamo il ministero assoluto del vescovo, il vescovo che si lascia aiutare da noi. Non convincere, aiutare. Non si tratta tanto di trasformazioni dottrinali, o di ruoli. Ma di apertura. Di una Curia dove ogni prete si senta di casa, valorizzato perché dà voce al mondo. Il mondo dove, non dimentichiamolo, risuona la voce di

”Kicko.it”: il portale video che aggrega i filmati delle giovani promesse del calcio

Il secondo capitolo di “Bioshock” non delude le attese: alta tensione e grafica suggestiva

De Benedetti e De Martini filmano tre storie di sacerdoti coraggiosi e controcorrente

cio. Nuovo punto di riferimento di osservatori e addetti ai lavori è la piattaforma kicko.it, dove gli aspiranti pedatori possono postare le proprie prodezze balistiche in brevi filmati di presentazione. Una clip di tre minuti, un portfolio di contatti numeroso e referenziato, massima sicurezza e assoluta distanza da losche figure di mediazione pronte a speculare sui talenti altrui: kicko.it assicura una chance anche a chi muove i primi calci nei più scalcagnati campi di provincia. I nuovi Nesta e Del Piero hanno oggi nel web un alleato in più. E gli altri uno strumento per non sprecare gli anni migliori a caccia di un sogno impossibile.

ta il protagonista Jack potrà sperimentare la telecinesi, congelare i nemici, e servirsi di vari poteri speciali che troverà in corso d’opera. Come nel primo episodio, l’azione resta viva e al riparo dalla monotonia tipica del genere, ma alla giocabilità tradizionale si aggiunge un’interessante novità: l’introduzione della modalità multiplayer permette di variare gli schemi di gioco. Un secondo capitolo che, come di rado accade, si conferma all’altezza di un esordio scintillante. E che è valso al gioco l’imminente trasposizione cinematografica del «pirata» Gore Verbinski.

Dio, come nella preghiera e nella Parola». Don Andrea Bigalli, parroco a Sant’Andrea in Percussina, usa parole che vanno a segno. Ed è protagonista, insieme a Don Alessandro Santoro, fondatore della Comunità di base delle Piagge e Don Luigi Verdi, parroco e fondatore della fraternità di Romena, di Compagni di Viaggio-In Direzione Ostinata e Contraria. Tre volti, tre storie, l’identico impegno quotidiano nell’accogliere gli altri. Uomini d’azione che ogni giorno vivono il loro credo in mezzo a mille difficoltà. De Benedetti e De Martini filmano tre racconti di ordinaria eccezionalità, aprendo uno squarcio su un’Italia ancora capace di redimersi.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema di Anselma Dell’Olio e scene iniziali di The Wolfman, il remake del classico horror del 1941, sono stupende e fanno ben sperare. E Benicio Del Toro (Che, I soliti sospetti) quando compare con la sua splendida testona e sguardo tenebroso, sembra promettere che non rimpiangeremo l’indimenticabile Lon Chaney Jr. dell’originale. Invece è stata manomessa l’ottima sceneggiatura di Curt Siodmak. Il film del ’41, che merita ampiamente lo status di film di culto, è la dimostrazione che un canovaccio ben congegnato sopporta anche una regia di routine. Era l’apice della carriera del mestierante George Waggoner, in una felice congiuntura tra collaboratori tecnici e artistici che insieme producono qualcosa di memorabile. Wolfman è la storia di un’aristocratica famiglia che abita un maniero fatiscente nella campagna inglese. Lawrence Talbot (Del Toro) è il minore di due fratelli che, poco dopo la maggiore età e la morte della madre in circostanze misteriose, è emigrato negli Stati Uniti ed è diventato attore. Ha interrotto ogni rapporto con il padre, impersonato da Anthony Hopkins, fin troppo limato e perfezionato sin dai tempi del Silenzio degli innocenti. Talbot jr. sta terminando una tournée a Londra quando è raggiunto da un messaggio urgente di Gwen, la fidanzata di suo fratello (Emily Blunt, meglio servita in Il diavolo veste Prada). È disperata: il promesso sposo è sparito senza traccia, e chiede l’aiuto del futuro cognato per ritrovarlo. Al suo arrivo alla sede del casato, apprende che è stato ritrovato il cadavere massacrato del fratello: era stato il pasto di qualche bestia di una violenza inaudita, si presume.

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Lupi mannari

e testimoni protetti

Il missionario è una commediola francese che può fare da metadone per chi è a ruota di risate. Mario (Jean-Marie Bigard, che ricorda il compianto Lino Ventura) è libero dopo sette anni di prigione. Ha regolato i conti con la giustizia ma non con i suoi vecchi compagni malavitosi, che vogliono i gioielli che ha ben nascosto. Con l’aiuto di suo fratello sacerdote, va in un paesino sperduto per nascondersi dietro l’abito talare. Ma l’amico prete del fratello è morto nel frattempo, e Mario dovrà esercitare la funzione di pastore, molto importante nella vita sociale di un piccolo centro dove tutti sono praticanti. È una ben congegnata commedia degli equivoci, senza pretese né sbavature.

Nessun umano sarebbe capace di tanta ferocia. Gli abitanti del paese raccontano una storia che coinvolge un accampamento di zingari, la luna piena e un lupo mannaro di una forza sovraumana cui nessuna potenza terrena può resistere. L’uscita del film è stata rimandata di un anno; alcune scene sono state rigirate, è stato chiamato il veterano montatore ed esperto del sonoro Walter Murch (La trilogia del Padrino, Apocalypse Now, Il paziente inglese) nel tentativo di rimaneggiare il materiale per migliorarlo. Dopo l’intervento, il paziente è morto, nel senso che la storia, dopo le scene promettenti dell’inizio, perde forza. Ha fatto bene il regista originale Mark Romanek (One Hour Photo) a darsela a gambe prima di iniziare le riprese, per «ragioni artistiche divergenti» con la Universal. Una volta vista la trasformazione da uomo in licantropo (basta un morso del mostro per restare contagiati e temere il plenilunio) non spaventa. La storia d’amore tra quasi cognati resta senza drammaturgia: è mostrata e non resa, e il film nel suo complesso è «inerte» come qualcuno ha scritto. Invece di un mostro si è prodotto un mostricciatolo, e con tutte le buone intenzioni e il denaro speso, non coinvolge, non interessa, non convince. Dispiace per Del Toro, bravo e sensuale, sarebbe un degno successore di Chaney Jr. Almeno la Blunt ha al suo attivo il film su Vittoria d’Inghilterra; che esca presto, così ci rifacciamo gli occhi. Il film della settimana è Afterschool, debutto nel lungometraggio di Antonio Campos, un italo-brasiliano nato nel 1983. Visto al Tribeca Film Festival un

che l’esistenza dei ragazzi più giovani di uno o due anni, il primo amore, la gelosia, la droga. La genialità nel film è nello sguardo minimalista ma non noioso del regista. Non si agita con la macchina da presa, ma lascia che i personaggi interagiscono con la macchina fissa, cosa rara in un debuttante. Spesso riprende persone semi-nascoste a un lato dello schermo o con le teste tagliate. Usa poca musica e non ha fretta: niente tagli nevrotici che velocizzano, niente in colonna sonora per favorire o «suggerire» sentimenti. Robert s’iscrive a un corso audiovisivo (l’insegnante si chiama Wiseman, omaggio al noto documentarista). Ha il compito di riprendere i luoghi della scuola per un progetto comune; altri faranno le interviste. In coppia con Amy (Addison Timlin), grazie alla quale scoprirà l’amore, il sesso e il tradimento, riprende la mensa, le aule, le scale e i corridoi vuoti. Un giorno mentre girano, entrano in campo le gemelle Talbert, studentesse dell’ultimo anno, belle come top model e ammirate dalla scuola intera. Sono in preda a forti dolori, sanguinano dalla bocca e dal naso, cadono per terra. Robert corre da loro, e rimane immobile mentre muoiono tra le sue braccia: hanno preso della cocaina tagliata con la stricnina. Robert è incaricato di girare un video commemorativo da far vedere in aula magna, per aiutare i ragazzi a elaborare il lutto. Il preside (Michael Stuhlbarg, il protagonista di A Serious Man) annuncia che la droga era stata comprata fuori dalla scuola ma Robert ha i suoi dubbi. È un buon film, un ottimo contrappeso a quelli giovanili scervellati e i genitori dovrebbero vederlo, con o senza i figli adolescenti.

Dispiace per Del Toro, bravo e sensuale, ma “Wolfman” non convince. Raccomandato, invece, ai genitori di figli adolescenti “Afterschool”. E se “Il missionario” è una buona commedia degli equivoci,“Che fine hanno fatto i Morgan?” diverte in modo innocuo paio d’anni fa, racconta la vita di un collegio bene di New England. Robert (Ezra Miller) è un adolescente introverso e solitario che divide la camera con Dave (Jeremy White), ragazzo disinvolto che copia i compiti dell’amico. È troppo preso da sport, ragazze e spaccio di droghe

per annoiarsi con gli studi. Il film tratta tutti i temi di un buon highschool movie: la fissazione con il sesso, smaltito attraverso il porno in rete e la masturbazione, sognando il primo rapporto vero, l’inevitabile bullismo, le belle ragazze ambite dell’ultimo anno, che ignorano an-

Che fine hanno fatto i Morgan? vanta attori rodati della commedia romantica come Hugh Grant e Sarah Jessica Parker. I newyorkesi Meryl e Paul Morgan stanno discutendo il divorzio, voluto da lei (Parker) per le corna di lui (Grant). Mentre lui cerca di farsi perdonare, sono testimoni di un omicidio eccellente, costretti in un programma di protezione e spediti nel Wyoming. La storia ruota intorno alla forzata convivenza tra liberal metropolitani e politicamente corretti, con campagnoli cowboy conservatori, amanti della caccia, delle armi, dei matrimoni duraturi e del diritto di fumare. I più divertenti sono lo sceriffo (Sam Elliott) e sua moglie (Mary Steenburgen) con il loro buon senso contadino di coppia navigata; ospitano a casa loro i due fuggiaschi divorziandi. È un piccolo divertissement innocuo, con qualche buona risata che porta al finale in modo indolore.


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poesia

La parola come riscatto dalla caducità di Filippo La Porta

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SONO UNA CREATURA Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra e il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo

Giuseppe Ungaretti (Valloncello di Cina Quattro, il 5 agosto 1916)

uand’ero al ginnasio e lessi per la prima volta Sono una creatura ebbi quasi una folgorazione: Ungaretti incarnava, ancora più di Montale, la Poesia Moderna (oltre che un’alternativa all’insopportabile D’Annunzio). Metrica irregolare, totale scomparsa della rima e della punteggiatura. Scoprii allora che non ce n’è bisogno. Il ritmo può egregiamente supplire a entrambe. Provate a rileggere più volte questo componimento e sarete conquistati dall’uso e dalla disposizione delle parole, delle vocali, della lettera «r», in una serie aggettivale che crea un climax straordinario (il poeta stesso la leggeva in un modo insuperabile, dimesso e vibrante, così come in quegli anni leggeva in tv dei versi dell’Odissea prima della messa in onda dello sceneggiato…). Certo, nella nostra stessa tradizione il verso libero aveva dei precedenti ma qui raggiungeva una sua compiutezza espressiva. Inoltre: in Sono una creatura ritrovavo almeno due caratteristiche dell’adolescenza, tra loro solo apparentemente contraddittorie. Bisogno di essenzialità, e dunque mito dell’autenticità e della purezza, e poi una certa eloquenza (che nei versi meno ispirati diventa retorica), l’esibizione di passioni personali, di un pensiero filosofico concentrato, a volte ingenuo, intorno alla vita e alla morte (l’ultima strofa è un aforisma).

Non riuscivo a considerarlo davvero un «ermetico», come continuamente veniva definito nei manuali. O meglio: lo era per la ricerca di una parola poetica assoluta, verginea e ineffabile, libera dalla metrica tradizionale (idea ripresa dai simbolisti francesi), per la brevità dei componimenti, per il valore del silenzio e la centralità tipografica degli spazi bianchi, per l’uso sistematico e abbagliante dell’analogia (in funzione antinarrativa). Ero affascinato dalle sinestesie («Su Parigi/ s’addensa/ un oscuro colore/ di pianto», Nostalgia, 1916) e dalle espressioni metaforiche («il carnato del cielo», Tramonto, 1916). Ma la sua sintassi lirica non mi sembrava per nulla oscura e indecifrabile. Anzi, come prima accennavo, benché aspirasse a dire l’essenziale alla fine diceva proprio tutto, nominava quasi senza pudore ogni cosa e ogni sentimento: «Il mio cuore/ oggi/ non è altro/ che un battito di nostalgia» (da Oggi), o «Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita» (Veglia, 1915). Ungaretti è incomprensibile se si prescinde dal barocco (e, tra l’altro, amò Roma come città barocca e di rovine). Non tanto nel senso del marinismo e dell’ornamento quanto come percezione straziante della caducità e nullità dell’essere umano («Rulla/ la morte») e insieme della necessità di contrapporvi un linguaggio pieno, generoso, fitto di realtà e sensazioni. Il barocco come allegoria del moderno, sapore di cenere ma anche misteriosa ansia religiosa, attesa agostiniana della grazia. L’intera opera ungarettiana è chiusa, per

parafrasare un suo celebre verso, tra cose mortali e cose immortali, tra il buio e l’eternità, tra il dolore irredento della gente anonima e un sentimento di fraternità universale. Così termina il ricordo dell’amico Moammed Sceb, morto prematuramente: «E forse io solo/ so ancora/ che visse», (In memoria, 1916). E a proposito di barocco oltre ai modelli espliciti Leopardi e Mallarmé, bisognerebbe almeno richiamare il Gòngora iridescente e cromatico: «Zampilli/ di matasse radiose/ spioventi/ in masse sinuose/ di perle» (Alba, 1917).

Sempre nelle aule ginnasiali capii anche la differenza radicale tra Ungaretti e la neoavanguardia che più o meno in quegli anni imperversava. La differenza era data semplicemente dall’esperienza: l’audacia formale di Ungaretti, la sua anarchica libertà espressiva nasceva da una condizione drammatica e da una emergenza storica (la guerra e la trincea, un paesaggio umano e naturale desolato, il senso di una fine di civiltà), mentre i «novissimi», come si autodefinirono, fingevano il rischio quando non c’era più nulla da rischiare. Mi sembra anche che il poeta, via via avvicinatosi a una metrica petrarchesca e più tradizionale (Il sentimento del tempo, 1933), non abbia più raggiunto quella sintesi di emozione e canto lirico, di esperienza personale e lingua poetica, presente nelle prime raccolte, Il porto sepolto e Allegria dei naufragi. Ungaretti, educato intellettualmente a Parigi a contatto con le avanguardie (Apollinaire, futurismo), ha vissuto a lungo in Egitto e in Brasile: «nelle vene ho i fiumi/ di tante umanità diverse». E credo che sia rimasto profondamente impregnato di quello che si potrebbe definire spirito del Sud del mondo. In che senso? Il suo personaggio letterario prediletto è don Chisciotte, solitario e poetico cantore del Sud, nel quale si identifica il «faquir, il folle, il povero, l’eroe, l’ossesso del mondo arabo», e la cui filosofia si potrebbe così riassumere: una idea della vita come fallimento e naufragio (tutto è «travolto, soffocato, consumato dal tempo»). Idea anticalvinista e antiborghese. Ma, si intenda bene, fallimento potenzialmente interessante e naufragio che implica allegria, poiché l’amore può strappare al tempo l’attimo fuggente, «l’amore più forte che non possa essere la morte». Alla poesia Ungaretti chiede molto, forse troppo. Nel 1946 scrive che «la parola che si accontenta di nominare le cose non ci redime»: non deve tanto evocare o designare quanto addensarsi «come presenza e non più rinvio». Probabilmente questa ontologia poetica postsimbolista ha prodotto nel Novecento alcuni equivoci e ha creato un mainstream della lirica un po’ dogmatico. Però, ancora una volta, quel rifiuto di ogni rinvio, riporta ogni discorso (sia poetico che religioso) all’esperienza irripetibile, concreta del presente.


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il club di calliope HARLEM

UN POPOLO DI POETI

Cosa succede ad un sogno rimandato? Forse si prosciuga Come uva appassita al sole? O suppura come una ferita E si spande? Puzza forse come carne marcia? O fa la crosta e s’inzucchera Come un dolce sciropposo? Forse soltanto cede Come un carico troppo pesante O forse esplode? Langstone Hughes (da Antologia dei poeti negri d’America, a cura di Leone Piccioni e Perla Cacciaguerra, Mondadori, 1964)

QUEI LAVORI IN CORSO IN PROVENZA

Il disordine dei nonni nelle piazze: giocano a carte, babbeggiano le ore, ammazzano il tempo e sognano i sogni giovanili: le signore, che s'arrappano nei vicoli ormai. Sedute all'ingresso della morte recitano spesso «Padre Nostro». Civettano per niente e contano i granelli del rosario, briciole di vita - ciò che resta, ricordi nell'armadio: lenzuola, reggiseni e naftalina. Porta Uzeda oggi è gremita per la festa: tutti a fare coccole alla Santa. Marinella mette l'abito da sera, leggera, corre subito alla giostra dell'amore e danza. La Giostra Riccardo Raimondo

in libreria

di Loretto Rafanelli ra il 25 e il 30 marzo del 1930, tre poeti passeggiano nella zona di Avignone, durante una vacanza nella bellissima Provenza, e scrivono versi: la loro intesa e il discorrere sul senso e il fine della poesia, li sollecitano a una comune azione creativa, a una applicazione poetica chirurgicamente accorpata. Ne escono poesie formate dai versi dei tre, dove però sono individuabili quelli di ognuno. Operazione che parrebbe una forzatura senza senso, se non fosse che i tre poeti in questione sono i massimi poeti surrealisti, e tra i più grandi del Novecento: André Breton, René Char, Paul Éluard. Al libretto che ne esce danno un titolo enigmatico (o fortemente ideologico?) Ralentir travaux. Eredi in

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autoritarie… e per la propagazione del “meraviglioso” e del poetico in tutti gli ambiti del vivere». Dice Éluard: «Lasciate che le influenze giochino liberamente… date alla spontaneità il suo valore puro… una sola visione, variata all’infinito». Con Ralentir travaux essi intendono quindi dare al mondo letterario, ma non solo, una scossa, una spinta dissacrante. E il lettore potrà, oltre che gustare una così alta poesia, vedere la riuscita dell’operazione, verificando la coerenza e l’armonia (o la disarmonia) dell’insieme. Più volte non si colgono differenze di stile e di intenti tra i vari versi, pure se ognuno dei tre ha ovviamente il proprio linguaggio («In origine l’amore insegnava/ agli amanti le

“Ralentir travaux”, la raccolta chirurgicamente accorpata di Breton, Char e Eluard, con cui i tre grandi poeti surrealisti vollero dare una scossa dissacrante al mondo letterario qualche misura del movimento Dada, i tre poeti francesi volevano con questa operazione dare scandalo e mischiare le carte rispetto alla tradizione letteraria, specie quella romantica, soprattutto in relazione al pensiero della poesia come arte individuale per eccellenza. Ma essi in questo modo sottolineano anche come la poesia sia un’espressione assolutamente libera, estranea alle categorie definite. Come suggerisce il curatore Carmine Mangone (Rallentare lavori in corso, Edizioni l’Obliquo, 56 pagine, 11,00 euro), i surrealisti sono dei rivoluzionari, e lo dimostrano con una «lotta incessante e senza quartiere per l’abbattimento delle strutture

buone maniere (E)/ Le pietre seguivano la loro ombra dolce-amara (C)/ L’occhio non allentava la presa (E)/ E se lei mi chiede la vita? (B)»); altre volte si capisce che gli autori volutamente si pongono in uno spazio incerto, per portare, crediamo, in una zona d’ombra. Fa bene il curatore a ricordarci che il libro va alla ricerca di una intesa, anche per poter superare la «banalizzazione e l’impoverimento della presenza umana», e spetta al lettore quindi capire la «comunità amorosa» che scorre tra i tre surrealisti e saper abbracciare una così ricca poesia, segnata da una insaziabile volontà di eccedenza e aperta a un unitario sentire.

e se vorrai braccia protese verso una schiena scoperta che implorerà calore io ti riscalderò con quel che dentro ora tace. Sappilo. Non moriremo mai. Potrà forse perdersi il mondo tra le mille strade di queste città indaffarate: noi resteremo ancora qui corvi dimenticati che gracchieranno all’unisono. flex Domenico Valenza Vienna, 31/7/2008

Vedi navi da crociera, come luminose babilonie, e barchette solitarie, lampare. Ma è più il migrare degli aerei a dirti che vuoi partire, andare dove andare, poiché fissi il mare e non ci vedi nulla. Alla metro del porto di Catania Erminio Alberti

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


arti L’Estetica secondo Grace MobyDICK

pagina 14 • 20 febbraio 2010

mostre

ia concesso un momento di autocritica, di autoironia. Nei cosiddetti critici è sempre presente un briciolo più o meno intenso di malmostosità, di malumore o d’impazienza, appunto critica, che spesso si può anche manifestare però, ragionevolmente, a fin di costruttiva irritazione. Mi è capitato di visitare questa mostra atipica, di cui parlerò, dopo esser sgusciato via da un’altra mostra romana, irritante e deludente, come il Potere e la Grazia a Palazzo Venezia, dedicata ai Santi Patroni d’Europa. Così m’era venuto istintivo protestare mentalmente contro le code affastellate a Palazzo Memmo per Grace Kelly, mentre alle Scuderie, ripensate da Luca Ronconi, appositamente per la pittura di colore pompeiano, dominava al contrario un inquietante silenzio di pubblico e una pace persino insultante, con due o tre isolati officianti. Ma come: deve vincer sempre il glamour?, avrò certamente iniziato a scrivere, ripromettendomi di fustigare i costumi, quando ho riflettuto però che meglio era riservare più spazio alla rassegna di affreschi antichi, senza mangiarmi inutili righe nella petulanza dell’invettiva. E lasciando orfano nel computer il seguente preambolo… Allora meglio muovere pochi passi da Palazzo Venezia, e infilarsi, sempre nel Corso romano, dentro la Fondazione Memmo, che ben altri temi più austeri ha trattato, per indagare invece, con curiosità e un poco di rabbia, che mai possa sortire da quest’ostensione di Santa Patronessa, monarchico-glamour-hollywoodiana, che è appunto a Grace Kelly. Anche se si sa che è stata curata da Fréderic Mitterrand, uomo raffinato e colto, con il debole per il divismo frou frou, cronista post-paulmorandiano, che com’è ormai noto è fuggito via da mugugnato reggente diVilla Medici per sedere sulla scomoda dormeuse del Ministero della Cultura Francese, uno si sporge verso l’occasione con alquanta diffidenza. Anzi, uno calcola di fare una carrellata e via, velocissimo, tra abiti, taffetà e forfore d’una famiglia abbastanza battagliata, ed esser subito fuori a respirare altra arte. Ma è un’ingenuità, invero, perché non s’è fatto abbastanza i conti con tutto quello che Grace Kelly significa e rappresenta. Perché

S

di Marco Vallora Grace non significa soltanto la sua vita adolescenziale a Filadelfia, i filmini infantili con il fratello futuro campione canottiere e i genitori benestanti, e le prime formidabili pubblicità americano-piccolo borghese, e i quaderni infantili farciti di objets trouvés e le prime fotografie crea-mito, ma anche le lettere insolitamente dolci di Hitchcock e che come uno scimmione pacifico si fa «riprendere» nei filmini domestici di casa Grimaldi, e poi «impresta» la finta seggiola a rotelle di quel capolavoro di ribaltamento albertiano dell’arte-finestra che è La finestra sul cortile, e poi l’incontro con Oleg Cassini singolare personaggio ortodosso e colto, in odore di icone e di bizantinismi sartoriali, e poi la Callas con Onassis, e

tutta la liturgia principesca delle cerimonie sponsali, con Cocteau che scrive un poemetto per l’occasione matrimoniale e Pagnol e Maurois che stan seduti in chiesa, mischiati a nobili veri e nobilastri-gagà, e i filmini dei giovani rampolli che crescono (male) e le borsette Dior e le barbe-baffetti hemingwayani del principe Ranieri... Insomma, Grace Kelly ben setacciata è molto più interessante di quanto non si pensi, a prima vista, ed è terribilmente bellissima, sempre. Ghiacciata e doppio di sé, come sottolinea, duramente ironica. «Quando Ava Gardner sale su un taxi, il taxista sa subito che è Ava Gardner. Lo stesso vale per Lana Turner o Elizabeth Taylor, ma non per me. Non sono mai Grace Kelly, sono sempre qualcuno che assomiglia a Grace Kelly». Il potere e la grazia, anche qui, ma davvero. E l’arte del mecenatismo, con Chagall che si riceve un salmone e lo rappresenta guizzante, con un baffo di pastello, oppure con i Ballets Russes e Margot Fontaine, con Josephine Baker, dimenticata dal mondo e i suoi trovatelli da allevare e da supportare quando muore, oppure il dialogo con Andy Warhol, che crolla di fronte al suo fascino, e poi il cinema che non torna, il teatro sfiorato, l’amore del circo, Bernstein e Arthur Rubinstein, Balanchine e Greta Garbo, Cocteau sempre e la grafia femminea di Hitchcock, che l’ama scrivendo e lei che impara da lui che «bisogna girare le scene di omicidio come scene d’amore e le scene d’amore come scene di omicidio» (e intanto la grafica delle affiches compie il suo giro nel planetario del gusto. Che bello vedere come il mondo evolve attraverso il mutare delle icone!). È vero, forse Grace non è stata una grande collezionista d’arte, qui non si avverte, comunque, ma come sono illuminanti i suoi abiti, i suoi gioielli, le scarpe firmate, le borsette-simbolo, e che grande malleabile prodigio è stato il suo volto-corpo, per gli scatti invincibili di Cecil Beaton, Philippe Halsman, Howell Conant, Irving Penn: uno spettacolo! Sì esiste anche un’intelligenza della bellezza, un’arte dell’esserci. Un’arte-Grace Kelly da non perdere.

Gli anni di Grace Kelly, Roma, Palazzo Memmo, sino al 28 febbraio

diario culinario

A New York tutti pazzi per la cucina romana di Francesco Capozza a cucina romana il massimo del trendy? Secondo il New York Times non ci sono dubbi. Insomma, nella Grande Mela è ormai tutto un amatrineggiare e un coda-alla-vaccinareggiare. Al punto che il Gramercy Park Hotel ha affidato al guru Denny Meyer l’apertura di un locale di sapore trasteverino, il Maialino, che sembra destinato ad attirare il vippaio newyorkese con sapori veraci romaneschi. Una notizia che, se da un lato mette di buon umore, propone anche un suo lato oscuro legato all’uso disinvolto delle materie prime (vogliamo parlare del pecorino del Wisconsin?) che danneggia l’Italia nella sua identità profonda di paese di grandi prodotti oltre che di ricette. D’altra parte anche gli spaghetti, tanto cari al presidente Jefferson, che li introdusse nel costume alimentare a stelle e strisce, hanno subito le più stravaganti ibrida-

L

zioni una volta varcato l’Oceano. Casomai è più interessante capire perché il «formato Roma» abbia conquistato tanto favore all’interno del trend del made in Italy goloso. In principio, insieme ai nostri emigrati, la cucina italiana aveva occupato i suoi spazi con la pizza, gli spaghetti pomodoro e basilico, il ragù, il pesto dei genovesi. Poi, in anni molto più recenti (complici i viaggi a Firenze e i grandi vini) era stata la Toscana con i suoi sapori netti e rigorosi a conquistare i palati. Roma è entrata in sordina, poi in maniera prepotente in tempi relativamente recenti. Il turismo, certo, ma anche e soprattutto il cinema. Da quel lontano 1960, l’anno della Dolce vita, la Roma del turismo e di Cinecittà ha cominciato a stregare i palati. «In quegli anni andavano tanto di moda le fettuccine, gli spaghetti alle vongole, i carciofi alla giudìa, la carbonara, che è mezza americana», racconta Benito Morelli, il

«grande vecchio» di Benito al Bosco di Velletri. «Il mio amico Ugo Tognazzi portava da me le star di Hollywood e poi si finiva in cucina a provare dal vivo i piatti». La svolta arriva però negli anni Ottanta. E precisamente quando nel 1987 Antonello Colonna, il re della nuova cucina romanesca, sbarca per un tour a NewYork. A quel tempo la Mela esterofila parlava solo francese e nelle trattorie italiane non si andava molto al di là delle orecchiette e dell’ossobuco. Fu allora che questo chef geniale e irriverente si impose con amatriciana, cacio e pepe, millefoglie sbriciolato (subito ribattezzato Napoleon) costruendo il successo dei sapori romani. «Adesso le cose sono cambiate e non c’è bisogno di conquistare il pubblico Usa, perché i sapori romani, anche grazie al lavoro della mia generazione di chef, che si è sforzata di rinnovarli senza tradirne le basi, sono il massimo del mangiare al-

l’italiana. Non a caso la prima uscita ufficiale del nuovo ambasciatore Usa David Thorne è stata da me». La prova del nove? Basta un’occhiata alle foto e alle dediche appese all’Antica Pesa a Trastevere per capire il successo travolgente dei sapori romani. «New York, ma non solo, punta sui nostri piatti, perché i trend setter in visita a Roma hanno scoperto una cucina forte e sensuale», si entusiasma Francesco Panella dell’Antica Pesa. «I piatti di mio fratello Simone che vanno più forti sono il cacio e pepe - non se ne sono privati da Laura Bush (ma il piatto fa sognare anche Michelle Obama) a Jennifer Lopez, da Robert De Niro a Penelope Cruz (che se ne è sparata una doppia porzione) -, ma anche la coda alla vaccinara in versione disossata, piatto di culto di Quentin Tarantino». Come a dire che dall’«Italia alle vongole» di cui scriveva Flaiano siamo alla «New York al cacio e pepe»?


MobyDICK

20 febbraio 2010 • pagina 15

architettura

Elogio di Mies, sublime maestro di minimalismo di Marzia Marandola ies van der Rohe, per comune riconoscimento, è uno dei protagonisti dell’architettura del Novecento, non solo per le straordinarie opere realizzate, ma anche per l’insegnamento e per l’influenza che la sua personalità e la sua azione creativa hanno esercitato sulle successive generazioni di progettisti. A più di quarant’anni dalla sua morte, si può trarre un bilancio di quanto la sua lezione abbia segnato l’architettura contemporanea. Tra i grandi del XX secolo, Mies è l’architetto che più di ogni altro ha esplora-

M

to le potenzialità di un’architettura votata alla concisione e alla sublime economia dei mezzi espressivi, un’attitudine oggi chiamata minimalismo. La messa a punto di un progetto sofisticato ed elegante, materializzato da succinti elementi compositivi, è una tendenza attualmente ricorrente nel panorama architettonico globale. La sobrietà lessicale, l’uso di geometrie elementari - un rettangolo e la sua proiezione spaziale - e la meticolosa attenzione alla materia e ai modi della costruzione fanno di Mies il più moderno (e il più inimitabile) dei

archeologia

maestri del Novecento, oltre che il più duraturo modello di riferimento. Sia architetti del calibro di Richard Meier che giovani talenti dichiarano apertamente il proprio debito verso la rivoluzionaria architettura di Mies, per il sintetico disegno dei volumi: semplici e taglienti stereometrie, declinate con minime variazioni diventano preziosi scrigni di cristallo, da cui si irradia un’aura di composta, silenziosa e inestinguibile eleganza. Tra le architetture di Mies, il padiglione tedesco per l’Esposizione Internazionale di Barcellona, progettato tra l’estate del 1928 e il 1929, e ricostruito à l’identique nel 1983, rimane una delle icone più pregnanti dell’architettura del Novecento e oltre, e si riconferma tra i segni più rivoluzionari del maestro di Aquisgrana. Un’opera della quale Mies definisce con ossessiva cura ogni dettaglio: dalla scelta del sito, rifiutando quello che gli era stato preventivamente assegnato, ai materiali che allestiscono la perfetta intersezione spaziale di lucenti setti lapidei, di cruciformi pilastri-

ni di acciaio (divenuti questi ultimi una sorta di sigla dell’architetto), riflessi negli specchi d’acqua ritagliati nel podio che stacca l’architettura dal terreno. Anche gli arredi, sapientemente disposti all’interno, come l’inimitabile sedia Barcellona, sono assurti a incontrastate icone di modernità. Il padiglione, divenuto pietra miliare per i progettisti di tutto il mondo, è sopravvissuto alla fine dell’Esposizione e alla sua distruzione fisica per rinascere come una moderna fenice. Nel 1983, infatti, tre architetti spagnoli - Ignasi de Sola Morales, Cristian Cirici e Fernando Ramos - sostenuti da Oriol Bohigas, che all’epoca dirigeva il dipartimento di Urbanistica di Barcellona, mettono a punto la ricostruzione filologica dell’edificio, smantellato, come di consueto, alla chiusura dell’Esposizione. Mies attribuisce un’indiscutibile centralità alla consistenza materica del manufatto: non si tratta tanto di scegliere un materiale, ritenuto migliore rispetto a un altro, quanto di usare il materiale, qualunque esso sia, nel modo più coerente con la sua natura, adottando le tecniche e le forme più consone per ogni materia. Per Mies, come per Michelangelo, la materia non è né bruta né inerte: è viva parte del Tutto. Mies esorta a ricercare, attraverso il progetto, l’ordine nelle parti, da cui scaturisce l’armonia: poiché è nella bellezza che si vede risplendere il vero, come afferma Sant’Agostino.

La Crux che legò Oriente e Occidente

a Crux Vaticana o la Croce di Giustino è la Croce solenne per eccellenza. Utilizzata per secoli nelle funzioni solenni del Natale e della Pasqua è l’emblema del Tesoro di San Pietro e, nella sua nuova e splendente veste, post-restauro, è stata restituita all’ammirazione e alla contemplazione di milioni di visitatori e di pellegrini che ogni anno arrivano in Vaticano ad ammirare le preziosità del Museo del Tesoro di San Pietro. La mostra Vexillum Regis. La Crux Vaticana o Croce di Giustino rimarrà aperta al pubblico fino al 12 aprile 2010. La solenne Croce gemmata, presentata dal curatore del restauro e della mostra, Sante Guido, è esposta in un raffinato allestimento nella Cappella dei Beneficiati, splendente in tutta la sua straordinaria, sacrale e preziosa forma originaria. Totalmente trasformata dopo l’accurato restauro - che ha ricostruito le sovrapposizioni degli interventi subiti dall’originario manufatto nel corso dei secoli e le vicissitudini che ne hanno segnato la storia - la Croce di Giustino è caratterizzata da un prezioso corredo di gemme e di perle e dalla cappella circolare che contiene la santa reliquia di un frammento del legno della croce di Cristo. La crux invicta o croce gemmata, che arrivò a Roma da Costantinopoli fra il 565 e il 578, ha incisa anche una piccola iscrizione: Ligno quo Christus humanum subdidit hostem dat Romae Iustinus opem et socia decorem (Con questo legno, attraverso il quale Cristo soggiogò il nemico degli uomini, dona Giustino a Roma l’opera e la sua compagna gli

L

di Rossella Fabiani ornamenti). Da questo testo appare evidente l’intento votivo dell’Imperatore Giustino che, donando un tale prezioso manufatto, testimoniava la sua fede alla città di Roma mentre l’imperatrice Sofia faceva dono della teca che la conteneva. Si tratta di un rarissimo esempio di committenza imperiale di epoca bizantina. Ma il prestigio e la rilevanza di tale dono si legano alla presenza della reliquia del legno della Vera Croce. Con questo gesto l’Oriente bizantino partecipava al consolidamento della sacralità di Roma che, nel ruolo di capitale del cristianesimo occidentale e meta di pellegrinaggi sulle tombe dei Santi Martiri, andava gradualmente mutando il proprio volto e offriva alla città la più preziosa di tutte le reliquie nella veste più sontuosa. La sequenza di gemme - in origine soltanto perle, zaffiri e smeraldi prerogativa della famiglia im-

periale, come prescritto dal Codice promulgato da Giustiniano nel 549 e simbolo di incorruttibilità e purezza insieme alla materia pregiata dell’oro - non era semplicemente un ornamento, ma fungeva piuttosto da evocativo rimando alla Gerusalemme Celeste e come reverenziale omaggio alla regalità di Cristo. Durante il restauro è stata ricollocata la corona di dodici perle attorno alla Sacra Reliquia, insieme alle diciotto perle nei castoni lungo il profilo del fronte. Infatti, la precedente sostituzione degli elementi preziosi con altrettanti semi-preziosi, dichiaravano le manomissioni subite dalla Crux Vaticana nell’Ottocento e rivelavano chiaramente l’improprio rifacimento del manufatto, tale da rendere l’opera, secondo l’équipe che ha proceduto al restauro, «erronea e svilita rispetto alla sua originaria tessitura, così come certamente concepita nelle imperiali officine orafe di Costantinopoli».


pagina 16 • 20 febbraio 2010

fantascienza

di Gianfranco de Turris n realtà, il lettore cosiddetto comune se ne frega altamente delle bibliografie (per non parlare delle note in calce). Cose da professori universitari, robaccia da topi di biblioteca, adatta soltanto al palato dell’Accademia della Crusca, cioè persone ormai fuori dal tempo moderno, dall’epoca di Internet. Perché il dogma imperante è quello della velocità e, quindi, della superficialità. A che servono le bibliografie? A nulla: solo a dimostrare una presunta cultura di chi le compila e le pone in fondo ai libri che pubblica. Purtroppo, questo è il modo di pensare che pian piano si va diffondendo. E invece, no. Le bibliografie hanno un senso, uno scopo, una ragione d’essere, una utilità. Lo sapeva benissimo Ernesto Vegetti, il Bibliografo Principe della fantascienza, scomparso per una serie di fatali concause, un mese fa, il 17 gennaio: aveva appena compiuto 65 anni e moltissimo avrebbe potuto dare a questa sua passione che è la passione di moltissimi giovani di oggi e di ieri. Così la fantascienza italiana ha perduto un uomo come pochi altri e un professionista insostituibile.

I

Lettore giovanissimo, il suo pallino era quello delle classificazioni, concretizzato man mano in un catalogo di quanto è stato pubblicato in Italia di science fiction soprattutto, ma anche di fantasy e horror. Un lavoro sempre più complesso man mano che il tempo trascorreva. Da un catalogo cartaceo passò a quello elettronico prima su dischetto, poi su cd e infine, quando è diventato monumentale, dal 1998 in rete: www.fantascienza.com/catalogo. Una specie di Biblioteca di Babele, come l’ha definita giustamente Giuseppe Lippi, un infinito work in progress realizzato da Ernesto con la collaborazione di molti altri amici, con Pino Cotto-

MobyDICK

ai confini della realtà

Nel magico

regno della bibliografia singole voci non aveva sostanzialmente interruzione. Un lavoro pazzesco che Ernesto effettuava con regolarità aggiungendo man mano le informazioni mancanti che andavano sino al formato, alle righe per pagina, ai nomi degli illustratori e ad altre minuzie che per molti sarebbero apparse inutili. Il risultato è un catalogo immenso, unico al mondo, invidiato da tutti, che comprendeva innumerevoli sezioni per facilitarne la ricerca: indici alfabetici e cronologici per autore, per traduttore, per illustratore, per titolo italiano, per titolo originale, per collana. Senza contare le mi-

gli scrittori più pubblicati, e soprattutto in quali momenti; a stabilire gli alti e bassi, i picchi e i riflussi dell’editoria specializzata; a dedurre dalla distanza fra una riedizione e l’altra, quali sono le opere più amate; a fare paragoni sui tipi di ristampe, in base ai traduttori; a ricostruire anche i dati biografici degli autori, e così via. Non solo: perché nel Catalogo ci sono tutti i rimandi necessari alle edizioni originali, con tanto di mese e anno per i racconti su rivista, e la serie delle ristampe originali, sino alle più recenti, per i romanzi. Ecco perché tutti i volumi della collana Urania Biblioteca, dedicata ai classici,

nire qualche ente pubblico, qualche illuminato amministrazione locale per poter gestire e mettere a disposizione di chi volesse consultarla una libreria più unica che rara. Anche la seconda edizione corretta e ampliata della nostra Cartografia dell’Inferno, cui stavamo lavorando da quasi un anno, rimane in sospeso.

Ma, ovviamente, Ernesto non era soltanto questo. Era anche un animatore instancabile, sin dagli esordi nel 1975, dei convegni fantascientifici annuali (Italcon), era stato fondatore e presidente della World SF Italia che

Ricordo di Ernesto Vegetti, instancabile classificatore di quanto è stato pubblicato in Italia di science fiction, fantasy e horror. Il suo Catalogo, simile a una borgesiana Biblioteca di Babele, è unico al mondo. Una grande perdita per il mondo fantascientifico gni ed Ermes Bertoni in prima fila. Un lavoro praticamente senza fine perché senza fine sono le notizie che si son volute riunire nel Catalogo: infatti, non si trattava soltanto di aggiornarlo con i dati delle nuove uscite, ma di recuperare le informazioni delle migliaia e migliaia di romanzi, racconti, antologie, riviste e testate varie pubblicati negli anni passati, soprattutto prima del 1952, andando sempre più indietro, sino al Settecento. E, con il passar del tempo, grazie anche a molti appassionati bibliofili e collezionisti che riuscivano a rintracciare opere sconosciute o conosciute ma introvabili, il flusso di dati e di aggiornamenti delle

gliaia e migliaia di copertine di libri e riviste scansionate e conservate in un archivio digitale, altra cosa, questa, unica al mondo. Un lavoro, che proprio come la Biblioteca di Babele borgesiana sembrava non dover concludersi mai e che ambiva alla totalità: non per nulla uno dei due motti di Ernesto, in calce a ogni sua lettera, era Quod non est in Catalogo non est in mundo. Ma una bibliografia a che serve? E quel catalogo in particolare? A tante cose, a parte le ricerche bibliografiche personali. A capire cosa è stata la storia della fantascienza in Italia e quella italiana in particolare; a rendersi conto di quali sono stati

comprendevano le sue bibliografie. Ed ecco perché altri editori, come Elara, si rivolgevano a lui. Come anche io mi sono rivolto a lui per le bibliografie riguardanti il mensile L’Eternauta quando ho pubblicato il mio Cronache del fantastico (Coniglio, 2009). Insomma, un lavoro pazzesco sul quale pesa una terribile spada di Damocle: adesso che succederà, che fine farà, chi se ne occuperà? Ci sarà qualcuno fra i suoi amici e collaboratori che se la sentirà di portare avanti un lavoro estenuante come questo? E, di conseguenza, che sorte toccherà al suo immenso archivio, alla sua borgesiana biblioteca? Qui, pensiamo, dovrebbe interve-

riunisce critici e appassionati, era una persona pronta ad aiutare tutti, a dare consigli a tutti, a cercare di evitare, attenuare e risolvere scontri e polemiche spesso personali tanto comuni nel mondo fantascientifico italiano, riuscendo a porsi super partes nonostante fosse un convinto uomo di destra (l’altro suo motto era: Anche se tutti noi no). Eppure, la sua autorevolezza era tale che veniva chiamato sempre a moderare dibattiti e tavole rotonde, a presiedere convegni, a presentare libri. Un carissimo amico, una personalità autorevole, un pilastro della fantascienza italiana che mancherà a tutti, perché insostituibile.


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