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NON FERMIAMOCI AI GRANDI NOMI di Claudia Conforti
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Perché in Italia le grandi opere vengono affidate ad architetti famosi, possibilmente stranieri, e non si punta sulle università e sulle giovani generazioni
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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Non svaligiamo il nostro futuro di Gennaro Malgieri Roberta Gambarini alla Casa del jazz di Adriano Mazzoletti
orta tra contrasti e opposizioni, la Law Library, di Norman Foster a Sidgwick Site, il quartiere dei nuovi dipartimenti di Cambridge, ha superato il decennio, ma il tempo non ha mitigato il rifiuto della comunità per questa architettura. In linea con la tendenza dell’architettura internazionale, l’edificio di Foster è spettacolare, enigmatico e autoreferenziale. Colossale semicilindro bianco disteso sull’erba, è innervato da una struttura reticolare, rivestita da superfici vetrate lattiginose che schermano la grande hall di ingresso. Il trattamento esterno è metallico e opaco in corrispondenza dei depositi dei libri, e serialmente finestrato dove si trovano gli uffici del dipar-
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NELLE PAGINE DI POESIA
W.B. Yeats Il ritorno e l’eternità di Roberto Mussapi
timento. Un’iperbolica pensilina triangolare, che termina su un sottilissimo pilastro metallico enfatizza l’ingresso. L’interno è immerso in una luce chiara e soffusa, che invita al silenzio e alla concentrazione. Passati dieci anni dall’inaugurazione, la mole di acciaio e vetro di Foster ha conservato intatta la sua indifferenza all’ambiente, come un levigato oggetto di design dimenticato da un collezionista distratto. A essa è imputabile il permanente rifiuto che la divide dalla comunità di Cambridge. Dieci anni sono un tempo sufficiente per un bilancio su un’architettura? Credo di no: è il tempo lungo che fissa il valore delle opere. continua a pagina 2
Gabriele d’Annunzio a settant’anni dalla morte di Francesco Napoli I fratelli Coen tradiscono McCarthy di Anselma Dell’Olio
Con Castiglione alla corte di Qianlong di Marco Vallora
non fermiamoci ai grandi
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L’Almanacco di Casabella: l’estro italiano (under 50) in trenta progetti di Marzia Marandola on l’uscita del volume del 2007, l’Almanacco dell’architettura italiana di Casabella compie dieci anni: tanti sono i volumi che, con cadenza annuale, hanno registrato un’originale panorama architettonico italiano delle ultime generazioni. La formula dell’Almanacco è invariata: la rivista Casabella invita i giovani architetti a inviare le proprie opere: quelle selezionate dalla redazione accedono alla pubblicazione. Vale la pena sottolineare che, con un certo margine di elasticità ed eleganza, per giovane si intende un professionista under 50! Il volume del 2007, curato con la competenza di una decennale esperienza da Marco Mulazzani raccoglie trenta progetti di architetti e ingegneri, scelti tra duecento. Essi sono corredati da un bilancio critico del curatore e da due brevi e illuminanti saggi, rispettivamente di Claudia Conforti, storica dell’architettura, dell’Università di Tor Vergata e di Carmen Andriani, affermata progettista e docente all’Università di Pescara. Conforti passa in rassegna le opere come tappe di un viaggio immaginario, da cui l’enigmatico titolo Architetture odeporiche, che attraversa l’Italia e oltre, dal Sud al Nord. Sottili «impressioni di viaggio» cominciando dall’unica opera realizzata fuori dalla penisola: lo Showroom Cinex- Rimadesio a San Paolo del Brasile di Decoma Design, che, concordiamo, va segnalata per la qualità del progetto, fino alle efficaci soluzioni per le centrali di teleriscaldamento in provincia di Bolzano. Restano in ombra le architetture domestiche, giudicate da
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segue dalla prima Tuttavia l’affascinante biblioteca di Cambridge è un buon pretesto per alcune riflessioni che ne trascendono la specificità e riguardano il ruolo dell’architettura oggi. In primo luogo sgombriamo il campo dalla nostalgia e dai moralismi e guardiamo ai problemi che, specialmente in Italia, stanno sul tavolo. Storicamente l’architettura ha fornito la risposta a esigenze fondamentali dell’esistenza. Una risposta che, pur sollecitata spesso da richieste individuali, come nel caso di ville e palazzi, ha saputo tradursi in un vantaggio collettivo in un miglioramento visibile dell’ambiente comune, in città come in campagna. Le ville palladiane o quelle del Tuscolo romano ne sono attestato palese. Le strade e le piazze delle città sono risultato di una secolare accumulazione di architetture pubbliche e private che, ognuna per la sua parte, hanno saputo interpretare le potenzialità inespresse di quanto già esisteva e anticiparne le opportunità future. Ogni nuova costruzione entrava nella trama sottile e invisibile che irretiva le preesistenze, apportando, nei casi più felici, il germe profetico di nuovi sviluppi. Questa dinamica tra sito e progetto, tra individuo e comunità, tra architettura e città, assicurava il riconoscimento del valore comune dell’architettura, al di là degli aspri dissensi formali ricorrenti nella storia degli edifici. L’architettura sa dare
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Conforti forse troppo severamente. Andriani intraprende un’appassionante e perspicace analisi delle cause del prolungato declino dell’architettura italiana; scandaglia le trenta architetture pubblicate, mettendo in luce le difficoltà di accesso ai grandi progetti pubblici. Non è certo casuale che nessuno degli edifici selezionati sia vincitore di un concorso pubblico: si tratta infatti per lo più di piccoli e medi edifici circoscritti ad ambiti locali. Andriani sottolinea la competenza progettuale delle opere, i cui autori, pur di talento, stentano a trovare occasioni di prestigio nella professione, vittime del divario tra ciò che potrebbero e ciò che possono fare, come dichiara l’eloquente titolo Il pensiero diviso dell’architettura italiana. Entrambe, Conforti e Andriani, indicano la miopia politica e il conformismo culturale delle istituzioni tra le cause della marginalità coatta dei giovani talenti. Ogni amministrazione pubblica ambisce non a un buon progetto, che magari metta in luce giovani capaci (come accadde nel 1972 con il Beaubourg che rivelò il giovanissimo Piano) ma al feticcio architettonico di un’archistar, che rinnovi il successo del Guggenheim Museum di Bilbao. A Mulazzani, che in questi anni ha esaminato più di duemila progetti e ha curato, sempre per Electa, anche la recente edizione collettanea dei primi otto almanacchi: Architetti italiani. Le nuove generazioni, spetta il bilancio conclusivo, improntato a pacato e argomentato ottimismo. Per concludere un’osservazione solo apparentemente futile: l’Almanacco esibisce una nuova veste grafica accattivante, assecondata da un formato agile e compatto, impreziosita dalla qualità delle immagini che conferma l’impeccabile tradizione di Casabella. Almanacco di Casabella: architetti italiani 2007, a cura di Marco Mulazzani, Mondadori, 260 pagine, 25,00 euro
forma ai valori condivisi, li rende leggibili e li propaganda. Per questo Roma barocca è stata letta dallo storico francese Gerard Labrot come un vero e proprio manifesto della Controriforma. Anche la sfacciata magnificenza di un singolo palazzo, come il Farnese a Roma o il Pirelli di Milano, pur sorto per servizio di una famiglia o di un’impresa, proprio in virtù della capacità di interpretare il presente e configurare il futuro, arricchiscono la città e l’esistenza che vi si svolge. Da questa sintesi a grana grossa si ricava quanto la capacità rappresentativa e simbolica dell’architettura possa essere un formidabile strumento politico e propagandistico, da maneggiare con consapevolezza. Diversamente da quanto sta avvenendo in Italia. Dopo due decenni di torpore, negli anni Novanta, spinti dall’emulazione dei colleghi d’Oltralpe (Bilbao in primo luogo, ma anche Parigi, Barcellona, Berlino) gli amministratori italiani hanno scoperto che l’edilizia può essere qualcosa di più di un affare. Esterofilia ed emulazione sono state provvidenziali, poiché hanno acceso i riflettori sull’architettura in Italia, schiacciata negli ultimi decenni da un’edilizia forsennata e vorace, egoista e senza qualità. Lo testimoniano tante occasioni perdute: dalle nuove sedi universitarie, ai centri direzionali, agli impianti sportivi (la sciagurata avventura dei campionati del 1990!), costruiti male, in fretta e senza idee. La chiamata, delle archi-star come Renzo
Piano, Richard Meier, Zaha Hadid, Odile Decq, ha avuto il merito di far discutere sull’architettura, di riscoprirne la bellezza e le potenzialità civili e rappresentative. È mancato però il passo successivo: cioè la capacità di usare queste occasioni eccezionali, riconoscendone l’emergenza strumentale, per promuovere una nuova cultura diffusa del progetto, puntando sulle università e sulle giovani generazioni; scommettendo su di esse in grandi competizioni nazionali (come ha fatto per esempio la piccola Olanda). I dieci volumi dell’Almanacco dell’architettura italiana di Casabella sono lì, sotto gli occhi di chi vuole vedere, a dimostrare le vigorose potenzialità della cultura architettonica italiana, che ha la forza e la fantasia per uscire dalla marginalità e dall’emergenza. Lo scritto di Carmen Andriani, sull’Almanacco del 2007, argomenta con passione e competenza questa tesi, su cui gli amministratori dovrebbero riflettere. Le città, vale la pena di ricordarlo, sono organismi complessi, depositi di identità e di speranze, non esposizioni di feticci e talismani per lucrare una visibilità mediatica e consensi elettorali. Possiamo mettere fine alla conta puerile del collezionismo architettonico: Meier ce l’ho, Piano ce l’ho, Hadid ce l’ho, Nouvel mi manca, Ito mi manca, Calatrava sto per averlo?
Nella foto in copertina Renzo Piano nel suo studio di Genova
MOBY DICK e di cronach di Ferdinando Adornato
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23 febbraio 2008 • pagina 3
MEMORIA l nostro è il tempo dell’oblio. Incontriamo sulle nostre strade segni che ci sembrano afoni perché non riusciamo ad ascoltarli. Sono patrimoni la cui eredità nessuno reclama. Stanno lì, ai margini dell’indifferenza, residui di epoche vicine e lontane che non hanno la forza di attrarre l’attenzione del passante ipnotizzato da un orizzonte indecifrabile. Con le pietre del passato, ci viene detto, non si costruisce nulla. I materiali che si preferisce impiegare sono altri: meno resistenti, più economici, maggiormente malleabili. Destinati a un deperimento precoce, tanto per non avere l’incombenza della custodia, del restauro, della manutenzione. E scolora così, nella dimenticanza, il debito tramandatoci da chi ha attraversato il tempo prima di noi. Seppur s’eclissa la bellezza, resta il suo simulacro nell’abbandono cui ci dedichiamo recitando estetizzanti mantra che esaltano l’effimero come destino, tra le cui amorevoli braccia, si dice, inevitabilmente troveremo la quiete. Neppure l’arte o la musica resistono al vento della corruzione: persistono fino a che dura il lamento, ma non si riproducono nell’aridità di anime sfinite dall’estenuante opposizione alla depredazione di ciò che le rendeva ricche, feconde, seducenti. L’oblio sta vincendo la sua partita sulla memoria e trafuga qualsiasi cosa non abbia a durare lo spazio di un banale utilizzo. Economizzare il piacere o il peccato, la virtù o il vizio, la gioia o il dolore è indifferente. Ricordare è verbo da espungere dal vocabolario della modernità. Perché insopportabilmente osceno di fronte all’infinito nulla cui deve ridursi la vita affinché non abbia obblighi verso la morte e dunque nei confronti della posterità. L’attimo è l’interruzione continua di un sentiero. Come un verso che non si ritrova con il successivo. Uccidere la memoria equivale a svaligiare il futuro. La sua essenza, infatti, non è tanto quella di rinnovare il passato celebrandolo nel presente, ma volgersi all’avvenire per fornire i frutti delle esperienze, delle storie, delle passioni alle generazioni future. È «il ventre dell’anima», diceva Sant’Agostino. Mentre San Tommaso la vedeva come «il tesoro e il posto di conservazione della specie». Non è, dunque, come si vorrebbe oggi, il retrobottega di un trovarobe di ricordi, ma è energia dinamica, vitale che accompagna l’esistenza e ne amplia la capacità di comprensione davanti al nuovo.Tanto che Bergson osservava che la memoria «non consiste nella regressione dal presente al passato, ma al contrario nel progresso dal passato al presente. È nel passato che noi ci situiamo di colpo». Sulla trama dei ricordi si può innestare la costruzione di un destino; senza, ci si nega la possibilità di penetrare il tempo riducendolo a strumento del nostro spirito e della nostra intelligenza. La decadenza nella quale siamo immersi è tributaria anche del tramonto della memoria come elemento distintivo di comunità caratterizzate dall’assenza del ricordo del loro cammino perché scientificamente cancellato da chi aveva immaginato il «nuovo inizio» della storia dalla proclama-
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L’oblio è la religione della modernità. Ma solo il ricordo garantisce il progresso dal passato al presente. Sulla sua trama si innesta la costruzione del destino, perché senza il prima non può esistere il dopo
Non svaligiamo il nostro futuro di Gennaro Malgieri zione della morte di Dio. La memoria ha cominciato a svanire quando le ombre del sacro si sono ritratte alla nostra conoscenza e la rivelazione della povertà umana non ha armato le coscienze di fronte all’esposizione della sua nudità, ma ha convinto i maestri del pensiero ad ammantarla di orpelli fatui atti a dimostrare che perfino senza un passato, e dunque, senza il riconoscimento del Principio, poteva esserci un avvenire. Ecco i risultati dell’inveramento della menzogna nel popolo degli immemori. Le tracce del passato si sono cancellate, la didattica della
Ragione non prevede l’immersione nella liquidità delle origini, il sogno del futuro è abrogato dalle consuetudini che sistemano nelle menti l’orrore della memoria soltanto come etereo simbolo di scarnificati predecessori destinati a essere dimenticati in pochi decenni. La cultura del sepolcro, insomma, è l’alibi per sostenere la fine della storia, e quindi della continuità dello spirito. Come se bastasse un fiore per chiudere la bocca alla voce dei millenni. Perciò, trionfante l’oblio, quale religione della modernità, del tutto inconsapevolmen-
Le discariche sono le metafore di quest’epoca. I rifiuti come produzione di risorse riassumono la disfatta di un’umanità che ha scelto la cultura dell’evanescenza rinunciando all’amore
te consumiamo emozioni, passioni, relazioni, sentimenti come insignificanti merci i cui avanzi sono destinati all’immondezzaio. Le discariche sono le metafore di quest’epoca; i rifiuti come produzione di risorse riassumono l’allegra disfatta di un’umanità che neppure per un istante si sente dolente, usata, macellata perfino. La tendenza alla rimozione è voluttuosa. Che si sia prodotti storici, è indifferente. Anzi, non è neppure un dettaglio, ma è così, indiscutibilmente. Senza il prima non può esistere il dopo. Ma il dopo probabilmente spaventa e allora è stupido anche soltanto immaginare che c’è stato un «prima». La cultura dell’evanescenza prepara il nichilismo, l’approdo al nulla giocando sulla devastazione della memoria fino a negarla perché così l’ossessione ad afferrare ogni cosa, usarla, gettarla, farla diventare rifiuto sollecita il consumo che solo genera passioni al suo livello, cioè a dire dolori e gioie che non durano. Finzioni, insomma. Privi di memoria non dobbiamo fare i conti con noi stessi. Perché non dobbiamo tramandare nulla. E, dunque, siamo esentati dal coltivare obblighi con il passato. Negandoci questo possiamo essere liberi dall’ossessione del futuro. Noi, prodotti della civiltà, in realtà contiamo meno di ciò che consumiamo. E il fine che del tutto inconsapevolmente perseguiamo, per quanto orrendo, al punto di non ammetterlo quando ci viene fatto osservare, è la rimozione di noi stessi. L’oblio totale, assoluto, inappellabile. La condanna della memoria, sopraffatta dalla dimenticanza, lascia sul campo macerie di ogni tipo, qualcuna l’ho ricordata. Ma il tesoro più grande che disperde è l’amore. Se non si ricorda che l’essere umano è amore incarnato, è più facile accanirsi contro di lui, stravolgerlo fino ad annientarlo, togliergli i rimanenti attributi spirituali e ridurlo a un meccano o, nella migliore delle ipotesi, a una istanza materiale giustificata dalla voracità con cui si avventa su ciò che la natura o il mercato gli mettono a disposizione. Ma l’amore è dono che non ammette scambio. La memoria dell’amore è la continuità nel donarsi fino all’estasi in alcuni casi, nella sublime accensione della carnalità secondo canoni normali, nell’avvolgere di carità i bisogni degli umili e dei disperati. L’amore della memoria è la salvezza della dilapidazione del Creato cui si dedicano con efferata cura gli innumerevoli apostoli dell’apostasia che non ammette il perdono: la guerra contro la vita nel suo eterno divenire, dall’ignoto Principio alla continuità fino all’esaurimento dei tempi. Una volta udii il primo vagito di una bambina unito all’urlo di dolore di sua madre che la metteva al mondo. La puerpera e la nascitura mi sembrarono la rappresentazione della memoria carnale che nessuna potenza avrebbe potuto spezzare. Non mi sfiorò neppure per un istante il pensiero che i macellai erano e restano in agguato. La negazione della memoria è l’assassinio indecente dell’anima dei popoli, come l’aborto è il più vile degli omicidi. In entrambi i casi si celebra il trionfo dell’oblio, la fine della storia.
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ROCK
musica
L’anima black di un catanese doc di Stefano Bianchi efinirlo crooner? Suonerebbe riduttivo. Perché la sua voce, in bilico fra Bill Withers e Barry White, oltre a essere incredibile è carnosa. Di testa e di cuore. Di soul e di blues, pedinando il battito del jazz. Il groove di Mario Biondi, 37 anni, catanese adottato da Parma, non si dimentica facilmente. Un prodigio. Altro che milleluci di New York o absolute beginners londinesi. È l’Italia, bellezza. Paese di santi, poeti, navigatori e di un vocalist con gli attributi «black». Uno che la musica ce l’ha nel sangue: sua nonna, in arte Tina Adolfi, gorgheggiava in teatro e ai microfoni dell’Eiar. Suo padre, Stefano Biondi, fior fiore del folk siciliano, fu autore di Tu malatia, canzone divenuta inno di Catania. E lui, il talentoso Mario, la gavetta l’ha cominciata dodicenne, proprio dall’isola: corista in chiesa, applausi a Giarre in due edizioni del Festival della canzone siciliana, e dal 1988 in poi supporter di Peppino Di Capri, Fred Bongusto e Franco Califano al Tout Và di Taormina. Per non dire della botta di fortuna d’esibirsi al fianco di Ray Charles. E ancora, collaborazioni con Marcella e Gianni Bella, Andrea Mingardi e Aida Cooper, quintali di palco e scorza da turnista in sala d’incisione, una decina di singoli house e il progetto Was-A-Bee col musicista e arrangiatore Alessandro Magnanini. Cioè la svolta: la certezza di potersi misurare con la musica nera mettendo a frutto gli insegnamenti (via giradischi) di James Brown, Isaac Hayes, Earth Wind & Fire, Al Jarreau, Lou Rawls. Mandati giù a memoria. Di più: filtrati con spudorata facilità e rimessi in circolo come un qualcosa di unico, da ovazioni oltremanica e oltreoceano. Esagerazioni? Macché. Sono bastate le seduttive certezze del primo disco, quell’Handful Of Soul di fine 2006 stracolmo di pezzi
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in libreria
IL DESTINO DI NUREYEV a danza è tutta la mia vita. Devo portare fino in fondo questo destino: intrapresa questa via non si può più tornare indietro. È la mia condanna, forse, ma anche la mia felicità. Se mi chiedessero quando smetterò di danzare, risponderei: quando finirò di vivere». Un senso di predestinazione, maligno e glorioso insieme, che Rudolf Khametovich Nureyev si portò dietro per tutta la
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Anche una galleria di immagini nel volume di Brown Howard dedicato al grande ballerino carriera e che rivive adesso plasticamente nelle pagine che Brown Howard ha dedicato al grande maestro della danza nel suo Nureyev (Phaidon, 177 pagine, 24,95 euro). Una galleria immaginifica, che è soprattutto una fucina di suggestioni d’autore. Disposte in ordine cronologico, scorrono le foto del sodalizio artistico che legò Nureyev a Margot Fonteyn, ritratti e istantanee di famiglia, e poi i celebri scatti di Henri Cartier-Bresson, Snowdon, Anthony Crickmay, David Bailey, Martino Franck e Cedi Beaton. Nel bisogno, che Nureyev inseguì ciecamente, di fermare il tempo, e di spezzare laria insieme col respiro.
già cult: da No Mercy For Me, a This Is What You Are. Un anno dopo, il 23 e 24 ottobre 2007, Mr. Biondi conclude il tour estivo al Teatro Smeraldo di Milano. Succo dei due concerti, impreziositi dalla Duke Orchestra e dall’High Five Quintet, è il doppio cd I Love You More Live che ribadisce il sublime istinto interpretativo del siculo-emiliano: che accarezza Close To You di Burt Bacharach e s’intrufola in Just The Way You Are di Billy Joel; pizzica il funky di I’m Her Daddy (Bill Withers) per poi lasciarsi romanticamente cullare dagli archi di Slow Hot Wind (Henry Mancini). E non mancano, ovviamente, i pezzi più gettonati: dalla bossanova di No Mercy For Me al robusto swing di A Handful Of Soul. Né può sfuggire quell’innata padronanza nel giostrare umori e atmosfere: il «guancia a guancia» irrorato di soul (I Love You More), il rhythm & blues al colmo dell’adrenalina (No Trouble On The Mountain), il jazz punto e basta (Rebirth). Dopodiché, annotatevi i prossimi appuntamenti dal vivo: il 29 febbraio a Livorno (Teatro Goldoni), l’11 marzo a Trieste (Teatro Rossetti), il 15 a Ferrara (Palateatro), il 28 a Roma (Gran Teatro). Mario Biondi, I Love You More - Live, Live Tour/Edel, 20,90 euro
mondo
NAMJOO, IL DYLAN IRANIANO all’elezione di Ahmadinejad, in Iran è fatto divieto assoluto di produrre musica di stampo occidentale. La parziale tolleranza verso i concerti dal vivo mostrata da Khomeini, ha ceduto il passo alla più assoluta intransigenza, e le nuove generazioni hanno riversato la loro passione per rock, contaminazioni e cross-over sul web. A tal punto che, seppure il rocker di turno rischia di perdere il lavoro o di pagare multe
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In Iran, sempre più giovani costruiscono il loro futuro all’insegna del rock salate in ragione di ispirazioni musicali troppo ponentine, l’Iran è oggi il Paese mediorentale che conta sul maggior numero di amanti del beat. Specie a nord di Teheran, sempre più giovani aprono siti e blog in cui parlano di rock, e molti artisti emergenti si sono messi in luce postando i propri video su You Tube e My Space. È il caso di Mohsen Namjoo, definito dal New York Times il «Dylan iraniano» dopo un passaparola che ha spinto oltre un milione e mezzo di persone ad ascoltarne le canzoni. «Il futuro è collegato al presente. Scrivendo canzoni, registrandole o eseguendole in pubblico, noi lo costruiamo», fa sapere il cantante. All’insegna del rock.
riviste
OASIS PRIMI, BEATLES SECONDI porco, graffiante e terribilmente beatlesiano, il sound degli Oasis ha avuto negli anni Novanta il pregio di riconsegnare il brit pop ai fasti del passato. E di ricondurlo, disco dopo disco, a una immobile fissità fatta di riff prepotenti e ballads romantiche. Nonostante sia piombato in un loop manieristico, lo stile della band di Noel Gallagher continua però a esercitare una forte attrattiva retrospettiva. A tal punto
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La classifica degli album rock di tutti i tempi riportata da “jugo.it” che il sondaggio condotto dalla catena Hmv, riportato da jugo.it, segna lo storico sorpasso della band di Manchester sui Fab Four. I 40 mila inglesi coinvolti, hanno incoronato Definitely Maybe come miglior album rock di tutti i tempi, seguito da un altro grande successo degli Oasis, (What’s the story) Morning glory?. Disco di bronzo ai Radiohead con Ok Computer (ben vivo il ricordo del capolavoro Karma Police), e solo un quarto posto per lo strapotere iconografico dei Beatles, presenti in classifica con Revolver. In nona posizione un’altra pietra miliare, sempre più rotolante, come Dark Side Of The Moon. Classifica album rock di tutti i tempi. Fonte; jugo.it
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zapping
Ma Giovanni Allevi piace AI BERLINER PHILARMONIKER?
CLASSICA
Quell’italiano prestato all’operetta di Pietro Gallina
di Bruno Giurato Come si fa a parlare male di Giovanni Allevi? Ha un bel muso simpatico da compagno di scuola, è educato, timido e suona pure il pianoforte come il mio amico Checo Lombardo. Come si fa a pensare male di Gliovanni Allevi? Si rischia la figura degli invidiosi, dei malmostosi, degli atrabiliosi. Di quelli che odiano le zazzere libere, le felpe grigie, la goffaggine puccettona, gli occhiali da nerd con la montatura spessa. Si rischia la figura dei picchiatori puzzanti di birra che odiano il mondo, dei giustamente reietti. Come si fa a dire, per esempio, che il brano Panic assomigilia moltissimo alla sigla del cartone «Il mio piccolo pony» senza fare la figura dei lividi cercatori di peli nell’uovo? Come si fa a notare che Jazzmatic, altro pezzo alleviano, farebbe schizzare fuori dalla tomba Duke Ellington, Oscar Peterson e Theolonius Monk, che indurrebbero con solidi argomenti il buon Allevi a mangiarsi il suo Bosendorfer? Non si può. Anche perché Allevi li smonterebbe subito dicendo loro: «Il pianoforte ha ottantotto tasti, li ho contati».E poi basta leggere i commenti su Allevi lasciati nei blog, i «Riesce a mettere le sue emozioni in musica» di Rattina83, i «La sua musica mi ha riempito di serentità, le sue note mi sono entrate dentro e mi sono lasciata trasportare» di ManuLove. Come si può essere insensibili verso il gentil bimbo prodigio che a quattro (dicesi quattro) anni ha sfiorato i tasti del pianoforte e si è innamorato di quel suono? Ecco, queste cose mi domando mentre guardo le facce cupe, invidiose, atrabiliose dei Berliner Philarmoniker mentre suonano con il timido educato sorridente Allevi.
ome in ogni storia di artista che si è sviluppata a Vienna nel periodo dell’impero asburgico, anche quella del compositore Franz von Suppé (1819-1895), sebbene annoverato tra i compositori austriaci, nasconde il suo carattere cosmopolita: nacque infatti a Spalato, visse a lungo in Italia - il padre era di Cremona e la madre aveva origini ceche e polacche – ed ebbe una formazione italianissima per aver studiato al liceo classico di Zara ed essersi laureato a Padova. Pure frequentò molto la Scala di Milano, ove Rossini, Bellini e suo zio Donizetti, che incontrò per qualche consiglio e perfezionamento, furono i suoi maestri ideali per avergli trasfuso il dono di una melodia tipicamente mediterranea, sebbene più tardi, quando si trasferì a Vienna, la melodia italiana si sposò al valzer viennese con qualche eccesso nei ritmi e timbri bandistici che gli provenivano dal suo primo insegnante dalmata, un maestro di banda appunto. Nonostante la sua formazione fosse completamente italiana, quando passò a vivere a Vienna, tra l’altro per insegnarvi la lingua italiana, dopo sessanta anni non parlava ancora bene il tedesco! Per il suo primo periodo viennese, che va dal 1835 al 1860, Suppé non fu altro che buon compositore di commedie musicali. Ma quando, travolgente, giunse Offenbach da Parigi aVienna per rappresentarvi il suo Orfeo all’inferno che mandò letteralmente in visibilio l’intera città, diventò un altro: da quel magico momento adattò il modello offenbachiano alle sue creazioni teatrali che diventarono appunto tipiche operette viennesi e il cui primo esempio storico del genere è considerato il suo primo successo, Il Pensionato. Fu infatti proprio Suppé che indusse il suo contemporaneo Strauss figlio, il re del valzer, a comporre operette: è così che nacque Il Pipistrello. Dopo Il Pensionato, Suppé si consacrò straordinario compositore di altre bellissime e frizzanti operette: La Bella Galatea, Fatinitza, Donna Juanita e Cavalleria Leggera, fino al suo capolavoro che è Boccaccio. L’operetta viennese e in lingua tedesca di Suppé, nacque senza rivali, ma appunto a partire dal Pipistrello di Strauss e con Il venditore di Uccelli di Zeller, Lo studente povero di Millöker e più tardi con Lehar della Vedova allegra e infine con la Principessa della Czarda di Kálmán, egli subisce un oscuramento, rimanendo, gli altri titoli dei suoi colleghi, ancora oggi presenti nei cartelloni delle stagioni teatrali soprattutto mitteleuropee, e ciò malgrado vi sia una crisi diffusa che colpisce il genere dell’operetta. Il cd che si propone, da poco in vendita - con etichetta
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Archipel - fa parte di una serie di concerti che il noto direttore Sir John Barbirolli (il primo inglese a essere invitato a Vienna per dirigere la prestigiosa Filarmonica), realizzò nel 1957 con l’Orchestra di Hallé. In esso vengono eseguite le più celebri Ouvertures delle operette di Suppé. Stranamente nel cd vi è inserito anche il Primo Concerto op. 11 di Chopin diretto sempre da Barbirolli nel 1937 e con la presenza del leggendario Rubinstein al pianoforte; un concerto che è stato inciso infinite volte. Il mistero del perché sia stato incluso in questo disco è comunque disarmante: Chopin e Suppé sono due mondi opposti anche se diretti dallo stesso Barbirolli… Forse solo a completare una durata che era scarna per un cd? Tuttavia anche se la registrazione risente degli anni, è un piacere ascoltare la scoppiettante, galoppante (alla Rossini!) ed elettrizzante musica di Suppé interpretata da Barbirolli. Franz von Suppé, diretto da Sir John Barbirolli, Archipel Records, 13,00 euro
JAZZ
Roberta Gambarini… nemo propheta in patria di Adriano Mazzoletti inché stava in Italia, Roberta Gambarini, una ragazza torinese dotata di grandi qualità musicali e vocali, era poco apprezzata. Altre cantanti le venivano preferite. Il suo stile squisitamente jazzistico non piaceva per quella sua dedizione alle radici nere della musica americana, in un periodo in cui si erano prese strade diverse. Attraverso la musica etnica o la melodia popolare, si cercava una nuova via al jazz. Molti si sarebbero invece dovuti accorgere di questa vocalist che in Night in Tunisia, inciso nel 1989 con Guido Manusardi e Bruno De Filippi, il suo canto scat era quanto di più straordinario si potesse ascoltare da una cantante italiana, se non europea. Grande capacità nell’improvvisazione, frasi compiute, nessuna esitazione nel fluire delle idee. Eseguite con quello stile monosillabico inventato sembra da certo Joe Sims, un attore originario del Mississippi, e reso popola-
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re da Louis Armstrong e sopra ogni altro da Ella Fitzgerald. Nel 1998, Roberta Gambarini decise per il gran balzo andando prima a Boston poi a New York. In poco tempo il mondo del jazz americano si accorse di lei. Il produttore Larry Clothier chiese al pianista Hank Jones, uno dei più fedeli accompagnatori della Fitzgerald, di ascoltarla. Qualche tempo dopo erano in sala di incisione per il primo disco americano della cantante torinese. Quattordici fra standard e classici eseguiti con intensità e raffinatezza. Il disco dal titolo You are There ebbe recensioni positive negli Stati Uniti, non solo per la duttilità della voce della Gambarini, ma anche per la scelta del repertorio. Quale cantante si sarebbe azzardata a interpretare quel Suppertime che Irving Berlin scrisse nel 1933 in risposta alla languorosa Summertime di George Gershwin? Oppure lanciarsi nella struttura di Lush Life una delle canzoni più insidiose per la complessità della linea melodica? Due anni più tardi,
il secondo disco, Easy to Love, ottiene la prestigiosa nomination al Grammy Award 2006. Le celebri On the Sunny Side of The Street, Lover Come Back To Me e Smoke Gets in Your Eyes, considerate «vecchie» canzoni, nell’interpretazione della cantante italiana acquistano un nuovo profumo. Roberta Gambarini ai primi di marzo sarà a Roma, questa volta sull’onda di un grande successo. Giovedì 6 canterà alla Casa del Jazz. Il giorno successivo terrà un seminario sulla vocalità alla St. Louis School. Viene spontanea una domanda. Perché questa interprete, considerata da James Moody e Hank Jones «la migliore cantante di oggi», viene ospitata nella piccola sala della Casa del Jazz (a stento 140 posti) e non, come sarebbe più consono alla sua statura di artista, all’Auditorium del Parco della Musica? Roberta Gambarini, Easy Groovin’ High
To
L o v e,
libri
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NARRATIVA
La chirurgia sociale dell’agente
Erlendur
travet della giustizia di Pier Mario Fasanotti l giallo che viene dal freddo continua a stupirci. Scende dalla Scandinavia e vende centinaia di migliaia di copie nei paesi più popolosi dell’Europa, tra cui il nostro. La sorpresa più gradevole e innovativa si chiama Arnaldur Indridason, islandese da poco in libreria con il suo terzo romanzo (dopo Sotto la città e La signora in verde). La corda nuova toccata ed esplorata dall’autore è il dramma familiare che monta a poco a poco e poi sfocia in un delitto. È un modo di raccontare la realtà contemporanea, segnata da conflitti parentali. Nel romanzo La voce l’agente investigativo Erlendur, con i suoi due fidati colleghi, viene chiamato in un lussuoso albergo di Reykjavìk, dove c’è un confuso e allegro via vai di turisti: clima natalizio, neve, ansia che tutto vada per il meglio. In uno stanzino del seminterrato viene trovato senza vita un impiegato dell’hotel. Vestito da Babbo Natale, pugnalato al petto e lasciato lì coi calzoni abbassati: orrore misto allo scandalo, oltre al mistero di un uomo del quale nessuno dice di saper niente a parte che era introverso, gentile e capace di far sorridere i bambini col suo travestimento. Facce di ghiaccio quelle del padre della vittima, un arcigno in carrozzella, e della legnosa sorella. Altarini scoperti perché il detective annusa un andirivieni di prostitute in offerta ai clienti internazionali. Meschinità impiegatizie vissute e consumate tra le mura dell’hotel, una cameriera dal passato e presente poco limpido e oppressa da un legame familiare imbarazzante (eccolo
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il tema caro all’autore, il fondale psicologico che diventa motore della dinamica criminale). Lo stesso agente Erlendur, che abbandonò moglie e figli molti anni prima, è un uomo che ha scelto la solitudine nel tentativo di allontanarsi da un dramma infantile legato alla morte del fratello. Dinanzi alla sbandatissima figlia (drogata, prostituta e madre mancata), si sforza di recuperare la paternità. Lo fa goffamente ma lo fa. Intanto il dramma privato continua a scavare un buco nell’anima fino a renderlo emotivamente afasico con le donne. E lui scava nella vita degli altri, come un travet della giustizia: meticoloso e senza boria, convinto che questa operazione di chirurgia sociale sia lenimento alle proprie ferite. L’uomo coi panni di Babbo Natale, dalla sessualità ambigua, aveva un pesante segreto. Da ragazzino era stato una voce bianca che incantava immense platee, poi il silenzio. I rarissimi dischi con il suo canto scatenano i collezionisti. Basta questo per un delitto? Arnaldur Indridason, La voce, Guanda, 316 pagine, 16,00 euro
riletture
Il “ma” di Spirito e la fine del fascismo di Giancristiano Desiderio iò che colpisce subito di Ugo Spirito è Spirito. Ti trovi di fronte - perché un filosofo ti è sempre di fronte - un filosofo che scrive e parla dello Spirito e si chiama Spirito. I due «spiriti» si confondono. Si sovrappongono. Leggi dell’uno e pensi dell’altro, leggi dell’altro e pensi dell’uno. E ti viene da ripetere: «Ugo Spirito con il nome che aveva non poteva che essere un filosofo e un filosofo della filosofia dello spirito». Poi attacchi a leggere questo suo storico libro, La vita come ricerca, e ne resti affascinato: «Pensare significa obiettare. L’ingenuo ascolta e crede; riceve passivamente la parola altrui, così come i suoi occhi ricevono la luce. Allorché nella sua anima affiora il primo dubbio e a poco a
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poco egli ne acquista coscienza, al dogma si sostituisce il problema e sorge il pensiero». Quando apparve, nel lontanissimo 1937, questo libro di Ugo Spirito fu uno «scandalo» - per usare l’espressione di Hervé A. Cavallera - perché il più importante e autorevole allievo di Giovanni Gentile e della sua filosofia dell’atto criticava dall’interno l’attualismo pronunciando e motivando il suo «ma». La dialettica del filosofo hegeliano di Castelvetrano sembrava avesse messo le cose a posto e il mondo in ordine o, almeno, sembrava avesse fornito ai pensatori uno strumento formidabile per mettere incessantemente le cose a posto e il mondo in ordine. Spirito rimise tutto in discussione, perché non si può dire che rimise tutto sottosopra e in disordine. Mise in luce come dalla dialettica rie-
merge in eterno il momento dell’antinomia, il «ma». L’attualismo, che troppa realtà aveva fagocitato nel suo atto, quasi come fosse stato una sorta di buco nero, giungeva al capolinea per mano del filosofo più attualista di tutti. A pensarci bene non poteva che essere così. E, in fondo, la discussione tra i «filosofi amici» Gentile e Croce - aveva già anticipato cosa sarebbe accaduto in seguito. Oggi quel libro di Ugo Spirito può essere nuovamente letto e riprendere, dal suo posto nella storia della filosofia, a dare nuovo spirito al pensiero, può suscitare nuovamente i suoi inesauribili «ma». La casa editrice Rubbettino, infatti, pubblica l’edizione nazionale delle opere di Ugo Spirito e il primo volume edito dei trentasei previsti è proprio La vita come
ricerca. In questo volume, in particolare, è pubblicata anche la polemica che seguì al libro tra lo stesso Gentile e Spirito. Quando nel ’37 uscì il libro, fu pubblicata una lunga recensione di Delio Cantimori sul «Giornale critico della filosofia italiana». Gentile, invece, pubblicò in calce all’articolo di Cantimori una breve nota in cui definiva il libro di Spirito «un libro fondamentalmente sbagliato» ma assai importante come documento schietto e significativo di uno «stato d’animo» diffuso. Spirito, deluso, rispose chiedendo a Gentile un vero e proprio giudizio filosofico. Gentile rispose e fu implacabile, motivando meglio la sua intuizione di «uno stato d’animo diffuso». Ma il «ma» di Spirito - il suo stato d’animo - era l’annuncio della fine del fascismo.
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SAGGI
Se si risveglia il vulcano di Yellowstone di Riccardo Paradisi d agitare il mito del progresso - fino appena a tre decenni fa un’idea levatrice di masse e di storia - non è più rimasto praticamente nessuno. Piuttosto quella che era la certezza di un futuro migliore - nelle umane sorti e progressive - sembra essersi rovesciato in sentore apocalittico, come se ci si sentisse alla mezzanotte del mondo. Guillaume Faye - teorico francese dell’Archeofuturismo, una delle idee-forza più suggestive degli ultimi trent’anni - ha parlato di linee di catastrofi convergenti che riguardano ecologia, demografia, economia, religione, epidemiologia e geopolitica. Robert Adrey etologo e drammaturgo americano nel 1973 profetizzava: «Il mondo moderno è simile a un treno carico di munizioni che corre nella nebbia in una notte senza luna con i fari spenti». Ad assecondare tanto ottimismo circola da qualche settimana un libro di Lawrence Joseph che raccoglie tutte le fisime apocalittiche
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FILOSOFIA
degli ultimi anni: si chiama Apocalisse 2012. Un’indagine scientifica sulla fine della civiltà. Nel suo saggio Joseph non prende in analisi solo le tradizioni religiose del pianeta - da quella maya alla buddhista, dall’induismo al taoismo - tutte concordi nel far convergere alla fine del primo decennio degli anni duemila il punto in cui il pianeta e l’umanità subiranno sconvolgimenti epocali. L’autore va oltre e presenta una rassegna di teorie scientifiche che sembrano confermare la prospettiva Armageddon. Dagli anni Quaranta del Ventesimo secolo e in particolare dal 2003 - dice Joseph - l’attività solare è in pieno fermento, come non lo era dall’ultima glaciazione. Secondo gli astrofisici raggiungerà il picco nel 2012. Alcuni geofisici russi pensano che l’intero sistema solare sia entrato in una nube energetica che sta contemporaneamente alimentando e destabilizzando il sole. La Terra potrebbe entrare nella nube tra il 2010 e il 2020. Gli stessi scienziati che hanno fissato l’estinzione del 70 per cento delle
specie viventi sessantacinque milioni di anni fa, calcolano che una seconda analoga catastrofe sia già «in ritardo». Il supervulcano diYellowstone, che erutta ogni sei-settecentomila anni, è pronto a svegliarsi. L’eruzione più recente di intensità paragonabile verificatosi al Lago Toba in Indonesia 74 mila anni fa provocò la morte di più del 90 per cento della popolazione mondiale dell’epoca. Segni dei tempi o nostalgia per il paradigma dell’apocalisse che il mondo aveva perduto con la minaccia nucleare della guerra fredda? Lawrence E. Joseph, Apocalisse 2012, Il Corbaccio, 302 pagine, 18,60 euro
L’antidoto di Shaftesbury contro il fanatismo di Renato Cristin ondatore, come scrisse Croce, di un nuovo umanesimo e di una concezione virtuosa dell’uomo, il terzo conte di Shaftesbury fu una grande personalità pubblica del Settecento inglese. I suoi scritti sulla morale e sulla politica sono uno scrigno di precetti per la formazione della coscienza individuale, argomentazioni a favore della libertà politica e di pensiero, dell’uso costruttivo della ragione, della filosofia come impegno civile e religioso. Valorizzando il sensus communis come vettore del dialogo e dell’accordo all’interno dello spazio pubblico, Shaftesbury teorizza il governo civile e la struttura sociale come esiti della naturale inclinazione degli uomini a unirsi. Si contrap-
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pone a Hobbes, ma non si dimostra ingenuamente fiducioso della bontà della natura umana, bensì ritiene che vi siano in essa elementi positivi e indica i modi per attivarli. Nel Saggio sulla virtù, proseguendo sulla strada tracciata da Locke, egli elogia le virtù civili: «l’amicizia, l’amore per la collettività e per il proprio Paese» sono virtù «disinteressate» proprio perché non sarebbero essenziali alla finalità cristiana suprema, che è ultraterrena. Ma al tempo stesso ritiene necessario che la religione cristiana intervenga nelle vicende umane per promuovere il senso del bene e della verità. Se nel dialogo I moralisti, viene elaborata un’estetica del bello e del sublime che anticipa la teoria romantica del genio, nella Lettera sull’entusiasmo
viene stigmatizzato il fanatismo e delineato un ethos del sentimento che, incentivando la dignità dell’uomo, sia ragionevole e aperto, in comunicazione con gli altri e con Dio. L’obiettivo è una sorta di entusiasmo ben temperato, che permetta di «esaminare con calma la natura della nostra mente e le nostre passioni», perché «prima di elevarci alle più alte vette della divinità» dobbiamo avere «la condiscendenza di scendere dentro noi stessi» e dedicare «qualche umile pensiero intorno a semplici questioni morali». Questo è l’«antidoto» contro il fanatismo, per acquisire la serenità di spirito necessaria a pensare, giudicare, agire. Anthony Shaftesbury, S c r i t t i m o r a l i e pol itici, Utet, 627 pagine, 92,00 euro
DIALOGHI
Valéry, la salvezza è nel linguaggio «O
gni pensiero - appuntava Paul Valéry negli anni Quaranta - costituisce un’eccezione a una regola generale: quella di non pensare». In quel periodo l’autore del Cimitero marino non era più da tempo persuaso che la precisione e la ricchezza delle procedure scientifiche, a lungo inseguite, potessero prestarsi a soluzione di sintesi tra rigore e rappresentazione espressiva, tra esattezza e fantasia. Fu per Valéry una disillusione dolorosa e faticosamente metabolizzata attraverso un esercizio quotidiano di volontà e coscienza (nonostante la coscienza nei suoi pensieri regni e non governi), fu una lotta contro il nulla che ha i suoi intensi prodromi nell’Idea fissa, il volume appena dato alle stampe da Adelphi. Un’opera in forma di dialogo più somigliante a una confessione o a un’operetta morale, perché al
di Giovanni F. Accolla
tradizionale rigore consequenziale dei dialoghi socratici, i due protagonisti del libro - un medico e un paziente incontratisi per caso dinnanzi al mare - sostituiscono una «partita a carte dialettica» le cui regole sembrano decretate mano per mano. Così, presto il lettore comprende che il vero protagonista del racconto-dialogo non è la coppia di giocatori, bensì il gioco stesso, lo scambio frenetico (e francamente a tratti un po’ nevrotico), il «botta e risposta» stesso. Il movimento e il ritmo, insomma, sono parte fondamentale del significato complessivo dell’opera. Se da una parte la fissità dell’idea costringe l’essere in una morsa disumana e contraria alla vita, la salvezza (o il tentativo più efficace per un’ipotetica salvezza), in fondo risiede ancora
nelle possibilità che ci fornisce il linguaggio, o meglio la ricerca di un linguaggio possibile. La via è nell’espressione, un riscatto affatto ontologico e universale, ma di carattere privato. «Mi fabbrico la mia piccola terminologia a seconda dei bisogni dice il paziente che somiglia tanto all’autore - ma in generale la conservo per mio uso personale e privato. Sono i miei strumenti intimi. Mi faccio i miei utensili, e li faccio per me solo: il più possibile individuali e adatti alla mia maniera di concepire e combinare». Al di là del risultato letterario (a tratti compromesso dalla complessità delle tesi filosofiche), L’idea fissa ha in sé il valore indubitabile del saggio contro la falsità di certe parole e di chi dietro a queste si nasconde o si consola. Una grande lezione intellettuale di rigore e onestà che per molti versi sembra addirittura affine all’analisi della semantica metafisica di Wittgenstein. Paul Valéry, L’idea fissa, Adelphi, 152 pagine, 12,00 euro
altre letture La storia degli Stati Uniti dal 1876 ai nostri giorni non è solo la storia di una nazione. È piuttosto la storia del mondo: il Novecento è stato infatti il secolo americano, l’arco di tempo mentale e geografico in cui il nord America ha dato forma politica al pianeta. Conoscere questa storia attraverso quella degli Usa è un modo per capire come l’epoca attuale sia un’epoca anglofona. Arnaldo Testi nel suo Il secolo degli Stati Uniti (Il Mulino, 347 pagine, 20,00 euro) è uno sherpa efficace per un viaggio nella storia americana dove vengono messe a fuoco le tappe fondamentali degli Usa, come la questione sociale di fine Ottocento, le guerre culturali di fine Novecento, l’ottimismo imperialista del 1898, le grandi guerre e le grandi depressioni. La società dello spettacolo è anche la società del più sottile dominio dell’uomo sull’uomo. La sintesi è brutale ma è questo il succo del saggio di Paolo Ercolani System Error. La morte dell’uomo nell’era dei media (Morlacchi editore, 168 pagine, 16,00 euro,) che invita a riflettere sul rischio che la democrazia diffusa possa trasformarsi, come avvertiva Platone, nel suo esatto contrario. Una specie di tirannide fondata sull’ottundimento delle coscienze e la mistificazione della realtà. Il saggio di Ercolani è anche una ricognizione sul potere e l’ideologia della tecnica mediatica e sulla sua vastissima letteratura critica, a partire naturalmente dalla lezione di Debord. L’acqua bagna, il
fuoco brucia, l’uomo bianco è malvagio. Chi oserebbe mettere in dubbio assunti come questi? E chi dubiterebbe che il Nord del mondo si è arricchito tenendo in schiavitù i popoli del Sud del mondo, e si è macchiato di colonialismo, imperialismo e arroganza culturale? Il masochismo occidentale fa di questo rosario di luoghi comuni del resto una graziosa corona di spine da tenersi sul capo quando si recita la retorica terzomondista, ispirata alla convenzione folle che solo perché lontano, sfortunato e povero l’altro da sé sia anche buono. Peccato, ricorda Pascal Bruckner nel suo efficacissimo Il singhiozzo dell’uomo bianco, (Guanda, 294 pagine, 16,50 euro) che anche questo odio di sé, questo esotismo coatto e nevrotico siano una nuova maschera di quell’etnocentrismno che l’Occidente, accanto a molti suoi meriti, deve riconoscere come una sua tara.
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ritratti
ANNIVERSARI A SETTANT’ANNI DALLA MORTE
DEDICÒ TUTTA L’ESISTENZA ALLA SUA CONSACRAZIONE. PERCHÉ, SOSTENEVA, “BISOGNA FARE LA PROPRIA VITA COME SI FA UN’OPERA D’ARTE”. LA SUA FU INIMITABILE, UN CAPOLAVORO
Gabriele d’Annunzio, il “self made“ mito B di Francesco Napoli
isogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte», scrive Gabriele d’Annunzio che la sua la volle chiamare perfino «inimitabile» e ne fece un capolavoro, calcolando ogni gesto al fine di diventare un mito. E in questi tempi nei quali i miti sembrano sprecarsi oltre misura bisogna pur ricordarlo nei settant’anni della morte come il primo capace di sapersene costruire uno tutto proprio, alimentato giorno dopo giorno, se non respiro dopo respiro. D’Annunzio non aveva nessuna voglia di attendere postuma la sua consacrazione, vi lavora invece in vita. Riesce a gestire da antesignano del marketing l’immagine di sé, stando molto attento agli allora nascenti nuovi mezzi di comunicazione di massa, i giornali e la fotografia su tutte. Rapagnetta. Si sarebbe dovuto chiamare così e certo con un cognome del genere non avrebbe fatto tanta strada. Ma uno zio adottivo gli diede un provvidenziale cognome: d’Annunzio, che con quel nome, Gabriele, sembra combi-
zione. Arriva, esordiente poeta, a fingere la sua morte, a far trapelare questa notizia firmando, con pseudonimo, un articolo per spianare la strada al suo primo libro.
N e g l i a n n i d e l l i c e o , dopo varie esperienze adolescenziali con diverse donne che trasfigurerà in alcune delle protagoniste femminili delle sue prose, s’invaghisce durante l’ultimo anno di Giselda Zucconi, figlia del professore di lingue straniere. Le donne di d’Annunzio costituiscono, lo si sa, un capitolo a parte del mito: dalla prima all’ultima, dall’amore di una vita Barbara Leoni alla platonicamente amata Tamara di Lempicka, meriterebbero 10 mila e più battute a parte. Che fosse un amante infaticabile, insaziabile e fantasioso fino alla perversione non è leggenda. Lettere, poesie e pagine di diario ne sono testimonianze fin troppo evidenti. Sarà allora per questa sua focosità che in vita fu
Si sarebbe dovuto chiamare Rapagnetta, ma uno zio adottivo gli diede un provvidenziale cognome, il primo volano per il suo marketing, per la sua ascesa a Vate d’Italia narsi meglio di qualsiasi pseudonimo inventato a tavolino. Era un provinciale, Gabriele d’Annunzio, nato nel 1863 in una Pescara che solo il Fascismo di Mussolini fece diventare capoluogo di provincia e che era, ai tempi, una piccola cittadina nella circoscrizione di Ortona. Un provinciale che va formandosi a cavallo tra due secoli che segnano per l’Italia una svolta epocale in ogni campo: letterario e artistico, certo, ma anche politico, economico e sociale. D’Annunzio cresce con l’unico progetto di coltivare il culto di se stesso. «Più uomo di tutti i suoi compagni» e «dedito a farsi un grande uomo», così registra uno dei suoi insegnanti del celebre Reale Collegio Cicognini di Prato dove Gabriele entra a undici anni per compiere gli studi superiori. Qui diventa un onnivoro lettore, studente brillante, certo, ma molto indisciplinato. Non vuole essere solo il primo della classe, ma vuole essere il nuovo Vate d’Italia, soppiantare nel ruolo quel Giosuè Carducci a cui pure guarda nell’esordio poetico di Primo vere (1879). Ha in testa già un preciso istinto alla reclame e all’autopromo-
amato dalle donne e odiato dagli uomini ai quali troppo spesso rubò mogli e figlie. Prospettiva oggi capovolta se le donne non ne vogliono proprio sentir parlare e gli uomini, invece, lo riscoprono, con un pizzico di malcelata invidia. L’esordio in poesia coincide o quasi con il suo arrivo nel mondo della carta stampata sulle colonne della Fanfulla del Domenica (come dire oggi sul supplemento domenicale del Sole 24 ore) e da lì un profluvio di collaborazioni che diventano, unita-
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mente alla pubblicazione di opere, il pane quotidiano della sua vita. Si trasferisce a Roma, si fa pagare per quello che scrive, porta avanti il suo mito costruendoselo tra una amante e un libro, un salotto letterario e un’accusa di plagio. Giostra da subito con debiti e creditori, conduce una vita al di sopra delle proprie possibilità, come «pennivendolo» sempre più scontento del suo lavoro anche se confessa: «Roma mi ha vinto». Ha il tempo di sposarsi, appena ventenne, con Maria Harduoin di Gallese, duchessina di pari età e di ben più nobile lignaggio (i genitori sono i proaprietari di palazzo Altemps). Legge simbolisti francesi, Baudealaire e Mallarmè, e i parnassiani, Zola e Maupassant, Swinburne e Keats; stringe amicizia con pittori e letterati suoi coetanei, entrando nel vivo del gotha artistico romano. E lascia a casa la moglie. Angelo Sommaruga è il suo editore romano e da lui escono le raccolte di poesie di quegli anni: Canto novo (1882), Intermezzo di rime (1883) e l’anno dopo le prose del Libro delle vergini. Continua a scrivere, a cambiare alcova di volta in volta inseguito da mariti traditi, a subire duelli e a cercare come sbar-
camente in Francia dove venne subito tradotto. E fu un toccasana: d’Annunzio ne ricavò quattrini per soddisfare i sempre più numerosi creditori. Di questi anni partenopei sono anche le prime poesie di quel Poema paradisiaco verso le quali le generazioni poetiche successive guarderanno con grande interesse e una positiva recensione all’amico - non si sa bene fino a che punto - Giovanni Pascoli con il quale condivideva il predominio letterario in Italia. Nella «splendida miseria» del periodo napoletano d’Annunzio pubblica e avvia forse quella che può considerarsi il meglio della sua produzione letteraria che, oltre le opere già ricordate, vede, tra le altre, il Giovanni Episcopo, le Odi navali e quel Trionfo della morte cui attendeva da lunghi cinque anni. Cresce la fama e crescono anche i debiti che lo portano via da Napoli. Approda a Firenze dove vive alla mitica Capponcina gli splendidi amori con Eleonora Duse e scrive tanto teatro per la sua nuova fiamma. Segue la divina attrice nelle tournée e ricava da questa vicinanza più lustro di quanto sia normalmente riconosciuto. Ma le vicende d’amore di d’Annunzio si sa, hanno termine, mentre quelle finanziarie sono sempre le stesse e così, «giammai fuor d’amore e fuor di debiti», è
Le donne, i debiti, la fama, i romanzi, i versi, l’impegno politico. Fino al ritiro al Vittoriale, poeta ormai spento, sopravanzato da Ungaretti e Montale in piena ascesa… care il lunario. Nel 1887 esce una nuova raccolta, Isaotta Guttadauro che subì l’onta di una parodia attribuita a Scarfoglio (Risaotta al pomodauro) con conseguente duello e ferita a un braccio. Ma tra le sua carte covava quell’opera che certamente gli avrebbe fatto fare il gran balzo: dopo aver litigato con Sommaruga, consegnò a Emilio Treves di Milano Il piacere. All’apparire il romanzo fece scalpore e scandalo. Il protagonista, il conte Andrea Sperelli incarnava l’edonismo e la sensualità dell’autore. Così d’Annunzio riusciva per la prima volta a fare della propria vita un’opera d’arte. Il romanzo era un’aperta sfida alla morale della società ottocentesca e il preannuncio di una rivoluzione nel costume borghese e d’Annunzio ha lasciato ogni istanza verista per abbracciare appieno quella del decadentismo. Fu, come si suol dire oggi, un gran successo di pubblico realizzatosi in barba alle tante critiche avverse. A v e v a f a t t o c e n t r o , ma Treves tentennava a seguirlo su questa strada, faceva difficoltà a pubblicare le sue opere. Così, forse proprio alla ricerca di un nuovo editore, nel 1891 parte alla volta di Napoli, convinto di trovar lì, grazie anche a vecchie amicizie romane (la Serao come lo stesso Scarfoglio) collaborazioni ed editori pronti ad accoglierlo. Vi arrivò con 900 cartelle ormai definitive dell’Innocente e fu accolto con l’entusiasmo dei neofiti da nobili e artisti in una gara ad averlo nei propri salotti. Scarfoglio e Serao lo invitarono al loro Corriere di Napoli dove il romanzo dalla sua valigia passò, a puntate, sulle colonne dell’allora straletto quotidiano. Uscito, il romanzo però fu tiepidamente accolto in Italia ed entusiasti-
fuori dall’Italia nel 1911, costretto a riparare in Francia. C o l t i v a a n c o r a i l s u o m i t o in terra italica non scomparendo dalle pagine dei giornali (Luigi Albertini lo accoglie nel suo Corriere della Sera) e dà vita a un soggetto cinematografico, Cabiria, intuendo le potenzialità espressive del nuovo mezzo. La cupezza lo pervade, il sentore della Grande guerra che si avvicina lo porta alla prostrazione prima, «comincio a essere inquieto del mio avvenire», all’esaltazione poi quando nel 1914 a furor di popolo rientra in Italia e si schiera decisamente tra gli interventisti. La sua esistenza ha una netta cesura: alla prima tutta dedicata, dall’adolescenza in avanti, all’arte e all’amore, in un continuo inno alla vita subentra una seconda votata invece alla patria e dove predomina un ritmo di morte sempre più ossessionante. Va al fronte ma come è diverso il suo approccio alla guerra da quello di un allora sconosciuto Ungaretti: enfatico d’Annunzio, sempre più scarnificato il giovane poeta in erba. Della guerra d’Annunzio diventa eroe pluridecorato, con quella beffa di Buccari condotta con Costanzo Ciano e il volo su Vienna a fargli appuntare in petto le medaglie della gloria. Il venir meno della piena liberazione del territorio italiano, la cosiddetta «vittoria mutilata», fa covare sotto la cenere un’idea di ribellione e la sua azione letteraria si concentra tutta in odi e orazioni di guerra. Viene congedato nel 1919, ma Fiume è lì, con le aspirazioni degli italiani delusi a riprendersela a tutti i costi. Il sogno dannunziano di riappropriarsi attraverso la cittadina dalmata della vittoria mancata cadde definitivamente nel 1921 e il Vate, pur all’apice del suo mito, lascia la città per avviarsi a quell’esilio dorato del Vittoriale sul lago di Garda. La marcia su Roma muta radicalmente il volto dell’Italia: d’Annunzio e Mussolini, che si sono conosciuti bene, si tengono a distanza e mentre il primo saliva alle soglie del Vittoriale, il secondo andava verso quelle di Palazzo Venezia. Il Duce tenne a bada, appropriandosene ai suoi fini, l’ancor vivo e temuto mito di d’Annunzio, amato dalla destra e dalla sinistra politica italiana ma ormai spento poeta sopravanzato da Ungaretti e Montale in piena ascesa. Nel ritiro del Vittoriale il Vate completa il capolavoro di una vita donando tutto se stesso al paese, certo di alimentare il suo mito oltre la morte: «offro all’Italia questa casa, e tutto quel che di me è raccolto in questa casa: i miei libri, le mie suppellettili, le mie carte note e ignote».
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TV
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di Pier Mario Fasanotti iallo in tv: per fortuna ci sono i francesi. A competere con i fondali asettici della serie Csi, che rimbalza da Sky a Rai2 (ma Sky si tiene, per ora, Criminal Minds che è il più originale) autori e registi transalpini non rinunciano -e fanno bene - al sapore della provincia, del quartiere di grande città. A quell’atmosphére che ha fatto grande Simenon: un impasto di umanità vera, di particolari di esistenza quotidiana che entrano di diritto nel romanzo o nella sceneggiatura e riducono le distanze tra noi e la ricostruzione narrativa di un episodio. Avvertiamo una calda familiarità con la serie Il comandante Florent (domenica alle 21,30 su Rete 4) la stessa che ci ha fatto affezionare alle avventure del commissario Cordier, con la sua famiglia divertente e un poco stereotipata (per causa di un’enfatica Antonella Lualdi, noiosissima come lo sono spesso le consorti dei detective). Isabelle Florent è un comandante della Gendarmerie di Grasse, cittadina assai poco americana nel senso che mantiene le sue peculiarità europee senza la sciatteria comportamentale e ambientale del nostro Meridione. Interpretata dalla sobria e bella Corinne Touzet, 48 anni, la donna in divisa bluFrancia, per usare un’espressione giovanile, non se la tira. È garbata e quando deve fare la dura lo fa spiegando le motivazioni, senza l’isterismo umorale del tenente Kojak o del doctor House. E qui ci vuole coraggio: gli sceneggiatori calcano spesso la mano sui difetti in quanto segni più visibili di un personaggio. Non è detto che chi abbia carattere debba avere per forza un brutto carattere. La nostra Isabelle, per nulla smorfiosa ma solo naturalmente femminile, non è algida come l’altra Isabella, ossia l’italiana Ferrari in divisa. E nemmeno succube del luogo comune che per essere credibili si debba essere tormentati. Il recentissimo episodio «Violenze coniugali» poteva essere un tripudio di retorica vetero-femminista. Rischio evitato: nessuna crociata contro gli-uominiche-son-tutti-maiali e l’inevitabile solidarietà tra donne non diventa una Tien-An-Men contro le carezze e la libidine tra maschio e femmina. È divertente scandagliare i marchi nazionali posti sui gialli europei. La serie spagnola Genesis (su Fox Crime di Sky) strizza l’occhio agli americani, così bravi in psicologia e anatomopatologia, ma carica sulle sue spalle la vocazione al gotico. La poliziotta trentenne Lola Casado ha i suoi bravi dubbi, pur esperta nella «scienza» dell’anima, e se la deve vedere con i retaggi del satanismo, una forma di Inquisizione privata. Gli spagnoli schivano l’omologazione.
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Femminile, sobria non aggressiva…
Bel lavoro comandante Florant web
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COME DIFENDERE LA REPUTAZIONE
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a cosmesi identitaria a fondamento della società dello spettacolo, non poteva tardare a manifestarsi neppure in rete. Nato come luogo della libertà espressiva, anche il web ha in realtà incubato la gendarmeria privata per distorcere o cancellare alcune verità scomode da quelle che multinazionali e vip definiscono spesso come diffamazioni e complotti. Le
Fino a 400 mila dollari annuali per cancellare dai motori di ricerca notizie e foto imbarazzanti società londinesi Tiger Two e Distilled e l’americana Reputation Defender si occupano da tempo di estromettere dalle pagine web articoli negativi e foto imbarazzanti che nuocciono alla fama dei loro clienti. Più spesso famigerati che famosi, numerose personalità dello show-biz pagano fino a 400 mila euro annuali per allontanare l’onta di alcune loro prodezze dai motori di ricerca. E dare maggiore o esclusivo risalto a fatti favorevoli, panegirici e liturgie celebrative. Un maquillage linguistico interpretativo che ci consente di apprendere, per esempio, che Kate Moss è innanzitutto una meravigliosa modella. Abracadabra.
dvd
CIVILIZATION REVOLUTION il gioco che ho sempre voluto creare». Se a pronunciare queste impegnative parole è Sid Meier, uno dei guru indiscussi della storia del videogioco, le premesse perché Civilization Revolution sia un successo ci sono tutte. Meier, autore di numerosi capolavori dell’intrattenimento digitale fin dagli anni Ottanta (F-15 Strike Eagle, Railroad Tycoon, Pirates!, Alpha Centauri), è
«È
Esce in primavera la nuova edizione dell’epica saga strategica conosciuto soprattutto per la serie Civilization - l’epica saga strategica che dal 1991 a oggi ha appassionato milioni di giocatori in tutto il mondo, simulando la nascita e l’espansione di una civiltà dalla scoperta del fuoco alla conquista dello spazio. Con Civilization Revolution, Meier cerca di trasportare la magia di Civ nel mondo delle console next-generation, dopo aver spopolato per anni nel mercato dei personal computer. Il gioco uscirà in primavera per Xbox 360, Playstation 3, Nintendo Wii, Nintendo Ds e PSP. Rispolverate i vostri eserciti, ambasciatori e scienziati: è di nuovo arrivato il momento di portare la civiltà sulla Terra.
LA GUERRA VISTA DA CAPRA
A
più di sessant’anni dalla sua fabbricazione, ricercare in Why we fight un valore testimoniale equivarrebbe a studiare ortodonzia sulle réclame degli spazzolini. Sconfessato dallo stesso paradigma hollywoodiano secondo cui buoni e cattivi funzionano al botteghino tanto quanto nella realtà, il mockumentary bellico di Frank Capra riproposto in dvd, si segnala come un imperdibile saggio
Il documentario bellico del regista di “Accadde una notte” sessant’anni dopo filmato sulla manipolazione dei media. Composti in larga parte da immagini di repertorio, i sette capitoli di Why we fight, che gli Stati Uniti affidarono al regista all’inizio della seconda guerra mondiale, evidenziano i difetti strutturali del cinema di propaganda, e le storture discorsive che presiederanno all’immaginario post-moderno fondato su false istanze veritative. Anche in Why we fight, perdite, sacrifici e violenze svaporano in una leggenda interventista che subordina eserciti e immagini a una missione salvifica. Una prassi che, giunta ai giorni nostri, riconfigura la realtà. Alla luce di migliaia di voci narranti che si fanno carico di proclamare, e nascondere, il vero senso di ciò che accade.
cinema
MobyDICK
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I Coen tradiscono McCarthy di Anselma Dell’Olio fratelli Coen hanno tratto il loro ultimo lodato film, Non è un paese per vecchi, dall’omonimo, prodigioso romanzo di Cormac McCarthy (Einaudi, 2006-2007). Il libro è un thriller metafisico che racconta a capitoli alterni il progredire d’un assassino di professione, Anton Chigurh, che uccide volentieri pure gratis, e i pensieri di Ed Tom Bell, sceriffo di terza generazione, mentre riflette sulle dure esperienze di un uomo di legge e la nuova forza e forma del Male che avanza nel mondo. Il romanzo rapisce il lettore dalla prima riga all’ultima, lasciando un segno indelebile. Neanche il film ha un attimo di noia, è tecnicamente e artisticamente impeccabile, eppure non soddisfa nella stessa misura dell’opera scritta. Film e libro seguono la regola principe dell’arte narrativa, quella che non trascura l’intrattenimento: ogni scena è sorprendente, inaspettata e sembra inevitabile. La differenza è che il romanzo ha una tempra morale, un cuore vasto e inquieto come i magnifici paesaggi del Sud-ovest in cui è ambientata la storia, che la àncora e le dà spessore e significato, mentre il film è senza baricentro.Tanto da far dire a molti spettatori: «È un bel film; ma non ho capito di che cosa parli». Anche se si può provare una tremenda delusione rispetto al romanzo, va detto che il film si è lasciato vedere ben tre volte senza mai annoiare. Il thriller, la parte del libro di McCarthy che ha incantato i Coen, è la storia di un grosso affare di droga andato male in mezzo al deserto. Il protagonista è Llewelyn Moss, un saldatore che durante una battuta di caccia solitaria segue per istinto e a ritroso le tracce di sangue di un cane ferito, fino al ritrovamento di un gruppo di fuoristrada fermi, raccolti in circolo come i carri coperti nei vecchi western. Ci sono i segni di un feroce conflitto a fuoco: cadaveri di messicani e un cane morti per terra, sangue e armi abbandonate dappertutto, e un unico superstite in fin di vita che chiede Agua, por favor. Moss, un perfetto Josh Brolin (era il poliziotto corrotto in American Gangster) risorto nell’ultimo periodo dal purgatorio di pellicole e prodotti televisivi di bassa lega, risponde «Non ho agua». Con circospezione raccoglie una pistola e
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sfila il caricatore dal taschino del moribondo, e dopo un giro d’ispezione trova l’enorme carico di eroina ancora intatto sul camioncino. Si domanda dove sia finito l’immancabile ultimo uomo rimasto in piedi. Di nuovo segue tracce di sangue, e con la stessa tensione fortissima che percorre tutto il film, lo ritrova morto poco lontano, accanto a una valigetta che contiene due milioni di dollari. Calcola che sono soldi sporchi e pensa di tenerseli, ma è un uomo decente e la decisione di tornare per portare acqua al ferito, che nel frattempo è morto, sarà esiziale per lui. È un giallo, dunque, che ruota intorno all’inseguimento di Moss da parte di due uomini: lo sceriffo Bell (Tommy Lee Jones) che lo vuole salvare e Chigurh (Javier Bardem), killer lucido e psicopatico che vuole recuperare il denaro e ucciderlo. La prima
“Non è un paese per vecchi”, tratto dall’omonimo, prodigioso romanzo, è un film ineccepibile, come nello stile dei due fratelli registi. Ma non ha la tempra morale del libro… volta che lo vediamo, Chigurh è in arresto per ragioni mai spiegate, con le mani ammanettate dietro la schiena e una bizzarra pettinatura che non promette nulla di buono (sembra un Beatle che ha smarrito l’indirizzo del parrucchiere). La notizia che Bardem avrebbe fatto la parte del killer è stata l’avvisaglia che i Coen si sarebbero discostati dallo spirito, se non dalla lettera, di McCarthy. Nelle intenzioni del romanziere Chigurh è un mistero, come le origini del suo nome, materiale e sfuggente insieme. L’attore spagnolo, candidato, merita l’Oscar anche solo per essere riuscito a creare un personaggio raccapricciante nonostante l’acconciatura bislacca, che avrebbe affossato un collega meno bravo. Chigurh, come il suo nome, dovrebbe essere impossibile da colloca-
re culturalmente; evoca occhi trasparenti e il biancore e l’incorporeità delle figure in un negativo fotografico: un genio del male sfuggente e imprendibile. Mettere un ispanico come assassino in una regione che confina con il Messico, e dove i nativi sono presenti in gran numero, ha una valenza troppo specifica di malavita locale. Né i gringos li tengono in particolare considerazione. Il vice sceriffo chiede al capo perché i cadaveri nel deserto non sono stati attaccati dai coyote, Bell risponde sardonico: «Forse non si degnano di mangiare i messicani». I Coen, accorti e ironici come sono, magari con Bardem volevano sfidare il pregiudizio. Funziona benissimo, invece, l’arma del killer: un aggeggio ad aria compressa (sembra una bombola d’ossigeno), con un tubo che passa nella manica e termina in un cilindro che buca un cervello o una serratura e torna indietro, usato per macellare bestiame. Il film è un paradiso per i formalisti. Non ci sono riserve verso l’efficacia, l’eleganza, il tono e i ritmi perfetti della sceneggiatura dei Coen, del montaggio (fatto da loro con lo pseudonimo Roderick Jaynes), della fotografia (Roger Deakins), della colonna sonora (Carter Burwell), del montaggio del suono, della regia e del film stesso, tutti candidati all’Oscar. I comprimari sono così precisi che non sembrano attori: il benzinaio, la direttrice del parco di roulotte, le mogli di Moss e Bell. Manca, in tutto questo splendore, il cuore e l’anima del libro, il soffio vitale delle riflessioni dello sceriffo Bell, che si poteva realizzare con la voce narrante, che per una volta sarebbe stata giustificata. Temo che Bell sia stato ridotto a uno dei tanti personaggi perché i registi volevano tenere al minimo il suo sguardo critico, biblico e anti-relativista verso la malvagità e le debolezze umane, sempre più tollerate e politicamente corrette, del nostro tempo. Senza la sua grazia e saggezza si esce dal film, storditi dalla violenza sanguinaria e nichilista della trama nuda e cruda, che riduce la pietas allarmata dello sceriffo a pochi e stucchevoli commenti sui giovani d’oggi. È un gran film, ma del libro nessuno può dire: «Non ho capito di che cosa parli».
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Salpando verso Bisanzio
I Questo non è un paese per i vecchi. I giovani abbracciati, gli uccelli sugli alberi, generazioni morenti che cantano, cascate di salmoni e mari affollati di sgombri, pesce, carne, volatili lodano per tutta l’estate qualunque cosa si generi, per nascita o morte. Presi in questa musica dei sensi tutti trascurano monumenti di pensieri senza tempo. II Un vecchio non è che una misera cosa, un abito stracciato su una canna, se l’anima non batte le mani e canta, e canta più alto per ogni strappo nel suo vestito mortale, e non c’è scuola di canto che non sia indagare i monumenti della nostra gloria: così io feci vela sul mare e venni alla sacra città di Bisanzio. III Voi, saggi, fissi nel sacro fuoco di Dio, come incastonati in un mosaico d’oro, uscite roteando dal sacro fuoco, insegnate alla mia anima il canto. Consumate il mio cuore, che malato di voglia, e avvinto a un animale morituro non conosce se stesso, e accoglietemi nell’artificio dell’eternità. IV Una volta fuori dalla natura io non potrò riassumere da cose naturali la mia forma corporea, ma una forma d’oro battuto e foglia d’oro che sbalzano i fabbri greci, a tenere sveglio un sovrano sonnolento, o immobile su un ramo d’oro a cantare ai signori e alle dame di Bisanzio ciò che è passato, o sta passando, o verrà.
W. B. YEATS (Traduzione di Roberto Mussapi)
poesia
Yeats, il ritorno e l’eternità di Roberto Mussapi a misi me per l’alto mare aperto»: il verso con cui l’Ulisse di Dante inizia il suo ultimo, definitivo viaggio, può essere l’emblema di tutta la letteratura che sul viaggio ha la sua radice e il suo fondamento. L’archetipo, più ancora che il prototipo (i grandi libri escono dalla biblioteca per entrare stabilmente nel nostro Dna) è naturalmente l’Odissea. Ma per comprendere il senso profondo della letteratura di viaggio, dalla grande epopea di mare di Stevenson, Melville, Conrad agli esiti successivi, non possiamo eludere il nodo ulissico, tanto nella sostanza del poema di Omero quanto nella vicenda dell’Ulisse dantesco. Il senso ultimo del viaggio è un ritorno, l’impresa finale si profila a Ulisse come ritorno a Itaca, alla piccola isola petrosa e povera da cui è partito, alla moglie, al figlio, al vecchio padre: ritorno al mondo d’origine. L’Ulisse di Dante non si appaga di questo ritorno, e quindi si rimette in mare con i compagni come lui invecchiati, per un’altra partenza, salpa nuovamente: ma anche in questo caso non vuole fuggire, sottrarsi alla realtà, ma raggiungerne un’altra, ulteriore perché precedente. Ulisse cerca un definitivo ritorno, e infatti doppia le Colonne d’Ercole, la soglia vietata, l’accesso all’Oceano che porta a Occidente. Sappiamo che doppiando quella soglia, entrando nell’Atlantico, Cristoforo Colombo incontrerà un continente sconosciuto che sarà battezzato America. Ma il suo scopo era doppiare il pianeta per mare, ritornare a Oriente, all’Oro dell’India, al mitico luogo dove sorgono il sole e le civiltà. Passando da Occidente, tornare all’origine in senso contrario a quello di Marco Polo. Compie ciò che Dante aveva presentito nel suo Ulisse. Questo è il retroterra di una delle poesie più importanti di William Butler Yeats, uno dei massimi poeti del Novecento, nato nei pressi di Dublino nel 1865, morto a RoquebruneSaint Martin, in Francia, nel 1939, che nel 1923 ricevette il Premio Nobel per la letteratura e fu nominato membro del Senato d’Irlanda. Il ritorno alle fonti della vita, alla sorgente del sole. Molti conosceranno l’importanza dell’Irlanda per la poesia di Yeats. Anzi, non solo per la sua poesia, ma per il suo pensiero poetico, poiché Yeats, come i massimi poeti (tra i moderni Rilke, Eliot, Pound, Luzi, Bonnefoy e pochi altri) traverso la poesia finisce per elaborare anche un pensiero, immaginativo, in cui le ragioni interpretative si fondono con le rivelazioni visionarie. L’Irlanda non è solo la sua terra, ma il mitico luogo dell’antica sapienza druidica, dei boschi incantati, del culto della cerva, della magia. Gli irlandesi costituiscono l’anima immaginativa, mitopoietica del mondo anglosassone, come attesta il loro straordinario patrimonio di fiabe, che Yeats raccolse e riscrisse, analogamente a quanto
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avevano fatto i fratelli Grimm in Germania. Anche la mitologia dell’Irlanda medievale fu un fondamento per la sua visione poetica, un altro elemento di quell’isola di immaginazione e furore. L’Irlanda non è quindi una patria nostalgicamente amata, ma il territorio mitico su cui la poesia di Yeats s’innesta, e da cui il suo sguardo si allarga per esplorare la cultura magica del mondo, dall’Oriente all’antica tradizione mediterranea magico caldaica. E permane, l’Irlanda, come realtà impulsiva, giovanile, erotica, passionale, una sorta di terra della vitalità. In questa poesia la vediamo come paese che proprio per tale vitalità pare non più adatto al poeta che sta invecchiando. La poesia ha un senso magico, ermetico. Lampante, però, nello sfavillio dei versi. Qui, pur con i suoi salmoni e le sue mandrie, con i suoi fiumi rigogliosi e l’erba verdissima, non abbiamo Irlanda e basta, ma l’Irlanda in quanto luogo della giovinezza, con il tumulto ideale della vita. L’Irlanda è la giovinezza di visioni e sensi, quindi è la giovinezza di ognuno, non solo del poeta, così come la Danimarca del castello di Elsinore in Amleto non è la Danimarca ma il mondo, e Amleto siamo noi, così come la Verona di Romeo e Giulietta è il mondo e i due siamo noi (ognuno di noi è entrambi loro). Protagonista è l’uomo nel momento topico in cui si accorge che i suoi sensi non reggono il tumulto dell’ebbrezza giovanile (il mondo degli animali felici nei torrenti e nei pascoli), ma in quanto tali non possono soddisfare la sua aspirazione a una vita che sia nel contempo pienamente umana e ulteriore. Dove cioè vecchiaia ed eternità coincidano. Non è solo aspirazione alla saggezza, a un’orientale distanza dai sensi, ma un criptico, ardito e geniale anelito al superamento della morte: la vecchiaia non sia il ricordo turbato, nostalgico, decadente della piena sensualità della giovinezza, ma un’altra età, ulteriore, che ha consumato e fatto frutto della giovinezza mutandola in altro. La vecchiaia sia l’approssimazione all’infinito, a una dimensione oltresensuale, che la tramuti in eternità. Il corpo perda la memoria del pulsare del sangue, il vigore dei muscoli, la sua fibra si faccia d’oro, sia lamina aurea modellata da un raffinato fabbro bizantino. Il mito dell’oro, il sogno di tornare a Oriente (di cui Bisanzio notoriamente è la seconda e ultima porta, dopo Venezia), coincide con quello di rinascere là dove la luce sorge. Il grande sogno alchemico di Colombo non poteva esaurirsi nella scoperta del continente sconosciuto, doveva anche creare almeno una sua terra. Provvide Yeats, salpando direttamente verso Est. L’oro intravisto accostando le rive di Bisanzio svelava l’avvicinarsi di quel sogno, di quella terra che ci avrebbe fatto eterni.
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il club di calliope
IL CANTO ALLA GIOIA DI MARANGONI in libreria
di Loretto Rafanelli
D’inverno
S
e la poesia è una scienza nutrita di stupori, come diceva Piero Bigongiari, allora si può dire che Marco Marangoni dimori nella casa della poesia. Uno stupore che coglie il poeta sulla soglia della vita quotidiana, nella stupefacente scansione della natura, ma pure si evidenzia quando la poesia «… guarda in faccia/ chi muore/ed è memore ed è magica/ come la nebbia che s’alza/nel mattino a fine estate,/ sopra un campo, o sul mare». Quindi esiste anche lo stupore della fine, ci indica Marangoni, quando «… tutto ciò che muore/e nasce/ s’accende e piange e canta». Pure quando la morte è quella tragica del proprio padre. Perché lì, in quel momento finale, vi è la traccia di una serenità superiore, di una rinascita vicina. Di fondo poi c’è lo stupore nel guardare la vita, la città nei suoi semplici passaggi, nelle sue normali persone. Vita
Posa il vento, posano i pensieri, e ciò che gli altri dicono. È inverno, e gira l’anno: in un attimo precipiti, come un soffio, nella veridica memoria.
Il lume che Celan vedeva nel buio della notte (la poesia) è per l’autore una fede
Di lontano neve sul Soratte, bianca ombra salutare.
Giovanni Piccioni
come sorpresa continua nei segreti della rondine o dell’insetto, nello slancio miracoloso del nostro quotidiano esistere, nel sussulto per le più modeste espressioni. Milo De Angelis nella fulminea introduzione, dice che Marangoni «sa cantare la gioia», ma anche, viene da aggiungere, sa con gioia esibire un canto. Un canto dolce e naturale, che giunge a un verso musicato, a una partitura raffinata nell’accordo che fluisce, con sapiente precisione, nel labirinto della parola. Canto che è anche il canto di un amore, o forse il canto all’amore, in sintonia, pensiamo, con il dettato poetico del grande Pedro Salinas e sicuramente affascinato dalla poesia amorosa del Due-Trecento. Amore, bellezza. Amore verso la bellezza della «ragazza/che salverà il mondo» come Marangoni dice nel verso finale, quasi come un incipit, di questa raccolta «Per quale avventura» (Raffaelli Editore). Ma questo «amore della mente» chi è? Chi è la ragazza che fende la pioggia, la neve dei nostri giorni? La poesia. Il lume che Celan vedeva nel buio della notte e che l’autore vive come una fede.
UN POPOLO DI POETI Gaèiua Coglier radianze prische «in su la cima de’ cipressi», riversati in stanze d’oblio; rapprendevano percolati inchiostri perpetuo odore, giostre di mandorlo. Staccarsi al brulicar dei frutti, ai confini di stanze caravaggesche, divorati in silenzi d’arca; come gipeti calare la rabbia, già smorti forni spenti ombre di profonda immensa montagna, esagono strutturale, esametro respiratorio feuchtéon entèuten. Radicale d’olezzo, durata di germoglio, eucaristia di monade da’ mille fiori: «Dunque d’amar perché con me ragioni?» Bevuto a coppe secche, acquistato indumenti per figli mai nati né ha fatto niente, colto niente, dato niente; di là d’amore a svelarsi mareggiare senza parola, zefiro liquido.
Voi che passate innanzi alla casa delle mie ossa con passo di faina, guardate alla rosa che piega il sasso su cresta d’erba nel modulare tenerezze di vento, ricongiungete memorie di leopardo a neve, bronzi di boschi, tornate a rimirar la rosa nella bocca del cane spiccata in umor di tenebre a campire spazi e tragitti di rondini severe. Sotto fossato della necropoli, di passi sferici in fila sfumando bolle ardenti del sonoro, portavano esilio ai campi della canapa. Gaèiua ninfa affiatante, ascolta: aromi, accenti, dolori rappresi in smeraldo e auree città di notte ci stringono al senso del vivere e morire, notti su treni blu, il pane della neve e del silenzio.
E quei tardi pomeriggi nella stanza in fiore a scrutare docks laminati e cieli d’altura, col pianto in gola al pendolo del dogma su archi transoceanici. In ogni tempo il bene a noi assegnato è al volo, sintassi d’angosce e attese o largizioni, ma sempre offerta d’aria, spirito e fiore, verde di colli, rame. T’assegnerò poche gemme, smeraldi e diamanti d’un pomeriggio rapito e che sia esiliato scontento; ha epilogo il tormento e il silenzio eterna guado a memoria. Nella bellezza e nel cruccio discesi, come siamo da’ sassi e ne’ sassi, tornando al sasso della pace ineffabile, proclamo a mani protese la gaiezza di tua vita.
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
di Carmine Palma
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PITTURA
arti
Con Castiglione alla corte di di Marco Vallora na mostra spettacolare come Capolavori dalla Città Proibita, al Museo del Corso di Roma, curata da un esperto, soprattuto nipponista, come Gian Carlo Calza, per essere ben compresa nei suoi significati più reconditi pretenderebbe per lo meno la conoscenza preventiva dell’elegante e dotto catalogo Fondazione Roma, che può anche aiutare a fugare una prima prima impressione, troppo superficiale. Che si tratti cioè di una parata un poco folklorica di manufatti turistici a campionatura, tra abiti, alabarde, bandiere, vasellami e rotoli dipinti. Basterebbe invece soffermarsi sulla presenza ragguardevole di alcuni straordina-
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ri ritratti imperiali, dovuti al pennello «traditore» del milanese Giuseppe Castiglione, un artista-gesuita che si trasformò in elegantissimo ritrattista cinese (in realtà la sua prima, grande doverosa retrospettiva) per rendersi conto della rarità di alcuni apporti, dopo secoli di chiusura e segregazione della cosiddetta Città Proibita. (Curioso, magari, far il confronto con l’altra contemporanea mostra imperiale, a Milano, su Kiefer e Mao). Abbiam messo le virgolette a «traditore», perché è esattamente l’opposto di quanto avviene in quest’incredibile clima cinese di cosmopolitismo e tolleranza, con l’imperatore Qianlong (17111799) ritratto spesso a cavallo da Castiglione, come in un montaggio meticcio di un Velàzquez orientalizzato, che nato manciuro ma di tradizione confuciana, ebbe l’intelligenza e la cura (riconosciuta da Voltaire) di proteggere e convogliare tutti i credo religiosi (anche il gesuitismo di provenienza Matteo Ricci) in quell’immenso crogiuolo di civiltà in tensione e pulsioni contrastanti, che era la sterminata Cina di allora, ben più vasta della moderna Repubblica cinese. Due Imperatrici ufficiali, una quarantina di consorti, una legione di figli (che nei rotoli di Castiglione gli si affollano garruli intorno, portando cibi rituali del Capodanno cinese e mostrando le loro qualità guerriere o intellettuali), trecento milioni di sudditi, un gran periodo di pace, nonostante le campagne militari di controllo del pericolo barbari (se ne vanno l’equivalente di 4281 tonnellate d’argento) un po’ meno della metà per il rinnovamento perpetuo dell’immensa Città Proibita, la più vasta reggia al mondo, con oltre novemila tra sale e saloni. Ma non che rimanesse molto a corte, con il suo fisico mingherlino, la sua salute di ferro, la sua curiosità indomabile e la passione per gli sport en plein air e le faraoniche trasferte corali di controllo del territorio. Migravano intere città di sudditi, funzionari, soldati e concubine, e i pittori di corte (spesso influenzati dallo stile «prospettico» dell’italiano) ci mettevano anni a comporre i loro rotoli celebrativi, in mostra. Come possiamo qui ammirare la passione collezionistica di Quianlong, che al sessantesimo anno (per non superare il regno longevo del Nonno imperatore, deliziosa pietas degli antenati) lascia il suo ruolo glorioso (il Mandato ricevuto dal Cielo, che poteva anche essere revocato da segni divini, se la burocrazia non funzionava) e si dedica alle sue passioni simultanee di musico, letterato, antiquario (una giornata pienissima). Matto per esempio per gli orologi occidentali, a sancire questo suo interesse cosmopolita, che Castiglione corona, in un perfetto esotismo alla rovescia (anche se è feroce l’editto con cui risponde al re d’un «paese situato nelle più lontane contrade», che è poi Re Giorgio III d’Inghilterra, che la smetta d’inviargli carovane di doni: «la nostra dinastia si preoccupa di amministrare correttamente lo Stato e non s’interessa a oggetti rari e preziosi». Parola di Quianlong: l’Imperatore Cosmico.
QIANLONG
Capolavori dalla Città Proibita, Museo del Corso, Roma, fino al 20 marzo
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MODA
Vestite per vincere: tornano le donne in carriera di Roselina Salemi è moda e moda. Ci sono le sfilate e c’è il power dressing, il vestito giusto per vincere, indispensabile quando si scende in campo. Se tutti hanno notato che Silvio Berlusconi ha inaugurato la campagna elettorale senza cravatta e Walter Veltroni con, figuriamoci il dibattito quando Hillary Clinton esibisce una giacca gialla («energetica»!) o rifiuta di apparire su Vogue, quando i commenti si spostano dai programmi al look. Perché, vent’anni dopo il leggendario film Una donna in carriera (con Melanie Griffith e Sigourney Weaver), le donne sono tornate a rivestirsi.Via le giacchine inesistenti, gli abitini infantili da primavera perenne, i sandali da cocktail party estremo. Non parliamo poi di voile, bustier e maculati. Specie in politica, la parola d’ordine è look corporate, ovvero completi rigidi in tessuti pesanti, borse a forma di cartella, scarpe stringate, (ma i tacchi alti sono concessi, non esageriamo), i pantaloni business con la piega e persino spalle imbottite (ne ha fatte di incredibili Stella McCartney). A gentile richiesta, anche le zeppe, il plateau, i tronchetti per marciare simbolicamente verso il potere. Hillary Clinton, che ha virato sui tailleur pantaloni, oscilla tra Oscar de la Renta e Yumi Katsura, ma ci sono molte varianti nel cocktail del power dressing e soprattutto percentuali diverse di femminilità. Rachida Dati, ministro francese della Giustizia, è bellissima nei suoi perfetti tailleur color ardesia, Michelle Bachelet, presidentessa cilena, va tranquilla con i grigi, Angela Merkel, cancelliera tedesca, è felice proprietaria di giacche così rigorose da sembrare sigillata sotto vuoto, mentre l’argentina
C’
Cristina Kirchner, rallegra il gessato d’ordinanza con accesi rossetti e camicie bordate di pizzo. Nancy Pelosi, presidente della Camera Usa, spiega il senso del suo tailleur Armani: «Un modo per fare cose da maschio senza far finta di esserlo». C’è una ragione in questo, all’apparenza, frivolo cambiarsi d’abito. Un nuovo slogan, un inconscio passaparola tra working girl: «Meno forma, più sostanza». E se Anna Wintour, giustamente inorridisce di fronte al rischio di ritorni thatcheriani (la immaginiamo già, stizzita, come in una scena del film Il diavolo veste Prada), gli stilisti colgono al volo l’occasione per togliere l’ansia alle nuove star del potere al femminile. Eccole servite: pantaloni morbidi, gonne a metà polpaccio, camicie candide e severe, blazer manageriali, ma morbidi e colorati e, per il prossimo inverno, cappotti abbottonatissimi che segnano il punto vita, accompagnati da immense borse dove entra qualsiasi cosa, tranne un uomo. L’amazzone metropolitana elabora una nuova filosofia: dopo essere stata troppo maschile (anni Ottanta) e troppo femminile (anni Novanta), dopo aver provato la scorciatoia della seduzione, imbocca la strada maestra della competenza. Per farlo, sembra ci voglia un tailleur, o almeno una giacca. Dando per scontato che sotto il vestito ci sia qualcosa e non, come spesso accade, niente.
autostorie
Giro del mondo con roulotte (nel 1936)
di Paolo Malagodi ra i non pochi meriti dei piccoli editori vi è quello, grande, di rimediare alla scarsa attenzione riservata ad autori raffinati; ma ritenuti, spesso a torto, dalle maggiori case inadatti a garantire grosse tirature. Succede così che spetti a una nuova etichetta padovana colmare una di tali lacune, dando alle stampe la traduzione italiana di scritti dell’intellettuale francese Alain Daniélou (1907-1994): eminente orientalista e autore di opere sulla civiltà indiana, dalla storia alla filosofia e dalla musica alle varie forme artistiche. Di una cultura che affascinò a tal punto Daniélou da convertirlo all’induismo, divenendo nel 1949 professore all’Università di Benares e con vari rientri in Europa, per far meglio conosce-
T
re al mondo occidentale i valori di quello orientale. Un percorso che interessò negli ultimi anni della sua vita l’Italia, in parte a Venezia e in parte nella campagna romana, come viene narrato nel lavoro autobiografico (La via del labirinto, Casadei libri, 400 pagine, 25,00 euro) che descrive anche il raid che Daniélou compì, nel 1935, da Parigi a Calcutta. In compagnia di un amico giornalista e su una Ford decappottabile, spedita da Marsiglia al porto di Beirut, per proseguire in direzione di Bagdad e Teheran. Con il successivo attraversamento del deserto del Belucistan, mai tentato da una normale vettura e concluso, dopo ottocento chilometri senza oasi, nell’incuriosita accoglienza di un gruppo di predoni armati fino ai denti: «E avete attraversato il deserto con quell’automo-
bilina? Però, ne avete di coraggio». Un riconoscimento che varrà una scorta d’onore, anziché una rapina, sin verso la prima guarnigione britannica e con più tranquilla discesa lungo la valle dell’Indo a Benares e Calcutta. Esperienza che sarà ampliata l’anno dopo quando, il 5 settembre 1936, il pensatore francese e il fotografo svizzero Raymond Burnier si presentano a un’agenzia di viaggi per chiedere: «Quanto costa il giro del mondo?». Domanda dalla quale si dipana un complesso itinerario di tratte marittime e di percorsi per lo più automobilistici, che Alain Daniélou narra in un delizioso volume (Il giro del mondo nel 1936, Casadei libri, 157 pagine, 30,00 euro), corredato dai 103 disegni schizzati dall’autore nel lungo tour, nonché dalle foto scattate dall’ami-
co Burnier tra le quali spicca, in copertina, quella di una Ford cabriolet che traina una compatta roulotte. La prima a toccare suolo indiano, dopo che i due europei l’avevano acquistata negli Stati Uniti, nel corso di un attraversamento svolto su «strade larghe 20 metri, ma - come annota Daniélou - gli americani guidano male, non hanno riflessi e Ford, Packard o Buick si susseguono in malinconiche file». Ben diverso è l’impatto con «una rete viaria indiana di strade in abbandono», che viene percorsa con roulotte al seguito «nel rischio di fare ecatombe di cani, scimmie, sciacalli e paria pullulanti, che dormono e mangiano sulla strada. Ma in un paese così profondamente religioso - osserva Daniélou - che il viaggio ha sempre un’atmosfera di pellegrinaggio».
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pagina 16 • 23 febbraio 2008
CRISTALLI SOGNANTI
er arrivare a Roma in tempo ha preso tre aerei partendo da NewYork e passando per Tokio ma la fatica del jet lag sembra scivolargli addosso non appena vede la sala dell’Hotel Nazionale di Roma gremita di gente pronta ad ascoltare le sue parole. Marc Prensky ha scosso l’opinione pubblica americana mettendo al tappeto le lobby dei bigotti e dei reazionari con una serie di teorie rivoluzionarie sul videogiochi e qualche giorno fa è arrivato nella capitale per presentare l’edizione italiana Mamma non rompere, sto imparando! (Multiplayer.it Edizioni), il volume che, per la prima volta le raccoglie tutte. Scrittore, consulente, futurista, visionario, Prensky è il fondatore di Games2Train, una compagnia di e-learning che include nel portafoglio clienti marchi come Ibm, Microsoft, Bank of America, Pfizer e il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. La sua teoria di base è piuttosto semplice e non si presta a equivoci interpretativi: i videogiochi, anche i più complessi, i più violenti, i più sconsigliati, aiutano i bambini a crescere, a socializzare e a testare in un mondo virtuale tutte quelle skill che serviranno loro nella vita da adulti negli anni a venire. Purché si valuti il corretto approccio. «Noi dobbiamo immaginare la società contemporanea divisa in due categorie - dice a liberal - da una parte abbiamo gli immigrati digitali e cioè coloro che hanno trovato sulla loro strada i videogiochi e le nuove tecnologie ma sono cresciuti con i vecchi media e dall’altra i nativi digitali che sono nati con i videogiochi nella culla, che non possono immaginare che siano esistiti telefonini con il filo e che troverebbero insopportabile un
P
ai confini della realtà
I videogiochi? Introduciamoli
a scuola di Roberto Genovesi mondo i cui non si possa comunicare con sms, video o telefonate da qualunque parte del globo. Queste nuove generazioni pensano, vivono, comunicano in modo completamente diverso da noi e comprendono perfettamente quindi la differenza tra un videogioco, tra una simulazione e la vita reale. Per questo non potranno mai subire danni di sorta da qualcosa che non solo sanno controllare ma sanno perfino manipolare perché riconoscono altro dalla realtà». Gli Stati Uniti sono un caleidoscopio di sfumature culturali in cui è stato difficile far attecchire questa teoria, ma mentre sento le parole di Prensky mi viene in mente il campo minato della realtà italiana fatto di commissioni di controllo, di associazioni genitori, di giornalisti e opinionisti forgiati nella logica dell’oscurantismo e immagino come possa essere una partita quasi persa tentare di convincere anche l’opinione pub-
blica italiana. «Ma non c’è nessuno da convincere - incalza Prensky sorridendo - perché le persone che pensano ancora ai videogiochi come al male assoluto sono in via di estinzione se non altro per motivi anagrafici. Le nuove generazioni sono abituate a convivere con questi strumenti e la fase del passaggio di consegne tra gli immigrati digitali e i nativi digitali si sta compiento fisiologicamente. Quello che voglio tentare di fare attraverso il mio libro è rendere lo strappo con le vecchie generazioni il meno doloroso possibile». Uno strappo che si avverte soprattutto nei confronti del mondo della scuola che in Italia sta vivendo una fase di particolare difficoltà sul fronte della formazione degli insegnanti. «I videogiochi possono aiutarli a diffondere conoscenza divertendo. Devono solo accogliere senza timori nel pacchetto degli strumenti formativi un nuovo soggetto di cui
fino a ieri diffidavano». Lascio Prensky all’assalto dei giornalisti ma continuo a pensare che in Italia il cammino sul fronte dell’accoglienza del nuovo e del diverso, soprattutto quando si parla di tematiche di carattere culturale e sociale, sia ancora molto impervio. La politica, per non scontentare lobby potenti e numerose tende a non prendere posizioni o a prendere posizioni scontate. La stampa continua a voler affrontare l’argomento dei videogiochi soprattutto dal punto di vista sensazionalistico. Le famiglie e gli insegnanti si sentono al sicuro nel loro guscio di ignoranza. E i nostri ragazzi continuano a navigare a vista, da soli, sentendosi rassicurati solo dal calore dei compagni della loro tribù. Ma poi mi viene in mente uno degli ultimi interventi di Benedetto XVI in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali e un barlume di speranza si riaccende nel buio del quadro pessimistico che ho di fronte. «Come l’educazione in generale, quella ai media richiede formazione nell’esercizio della libertà», scrive il Papa e poi aggiunge: «Le parrocchie e i programmi delle scuole oggi dovrebbero essere all’avanguardia per quanto riguarda l’educazione ai media». Un approccio positivo dunque e non demonizzante che invita, nella sostanza, a comprendere l’universo multimediale delle giovani generazioni e non a ostacolarne lo sviluppo. I videogiochi non sfuggono alla logica della qualità così come non sfuggono alla logica della selezione di cosa e buono e cosa è meno buono. Basta capirli. E il libro di Marc Prensky sembra essere in grado di aiutarci.