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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Nicola Fano ire che fatta l’Italia ci fossero da fare gli italiani era solo una mezza verità. D’Azeglio sapeva che l’Italia come entità geografica preesisteva all’idea stessa di Risorgimento. E sapeva che a quell’idea preesisteva un complesso e articolato concetto identitario (culturale e linguistico) chiamato Italia. Di Dante e della sua meravigliosa utopia sappiamo tutto (e pure D’Azeglio lo sapeva). Ma il fatto è che molto prima del Risorgimento l’Occidente sapeva a che cosa si era riferito Dante: tanto per dire, Shakespeare parla di «Italia» e di «italiani» assai spesso. E non solo per definire gli infingardi in Otello o i preti in Enrico VIII. E se lo sapeva Shakespeare era perché lo sapeva il suo pubblico a volte anche rozzo e ignorante del primissimo Seicento inglese; figurarsi gli uomini informati e di cultura! Questo per dire che la mitica massima di D’Azeglio era «a effetto» ma molto ambigua: Italia e italiani erano già bell’e fatti. Semmai andavano educati. A questo, appunto, all’educazione degli italiani avrebbero pensato i migliori intellettuali di questo nostro meraviglioso e contraddittorio Paese. I quali dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta dello scorso secolo si sono preoccupati non solo di unire il popolo e di educarlo e di informarlo, ma anche di dargli l’opportunità di valutare la ricchezza prodotta dall’Unità a fronte della povertà indotta dalla Disunità. Insomma: in quest’ottica il catechismo laico prodotto da Cuore di De Amicis equivale all’acculturazione di massa propugnata Con dalla Rai di Bernabei; l’emotività artistica condivisa il suo mitico di Grassi-Strehler manuale operò

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Omaggio a Pellegrino Artusi cent’anni dopo

una rivoluzione democratica: annullare i privilegi che fino ad allora l’arte culinaria custodiva e fornire a tutti le stesse opportunità di mettere insieme, in modo soddisfacente, corrisponde alil pranzo l’utopia educativa di con la cena Giovanni Gentile, ecc. Gli

L’ITALIA FATTA DALLE MASSAIE Parola chiave Multiculturalismo di Sergio Belardinelli Adele, se il soul ha il cuore rotto di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Gli azzardi di Boine, maestro in ombra di Francesco Napoli

Benjamin e l’incantesimo dell’omino gobbo di Vito Punzi 127 ore e 99 minuti à bout de souffle di Anselma Dell’Olio

esempi possono essere molti e varii: ma forse uno di quelli sui quali ci si è soffermati di meno è l’idea di «massaia italiana ideale» accarezzata a lungo da Pellegrino Artusi. Senza ago e filo ma con casseruole e padelle. E allora proviamo a vedere l’Italia da questa prospettiva. La Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi uscì per la prima volta nel 1891 a spese del proprio autore il quale su se stesso fece il migliore degli investimenti dopo molte disavventure editorial-letterarie (ma questo lo vedremo a suo tempo).

Le Madonne operose del devoto Vitale di Marco Vallora


l’italia fatta dalle

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Il libro di Artusti è assai più che un ricettario e contiene in sé una deliziosa ambiguità che ne fa per ciò stesso un manifesto di italianità. Perché la cucina non è una scienza nel modo più assoluto: piuttosto è un’arte. E mangiar bene non è davvero un’arte: piuttosto un’opportunità o, accordandosi con i principi del nutrizionismo positivista, questa sì una scienza. Ecco: mescolare e confondere le carte è sommamente italiano, ora, centocinquanta, centovent’anni fa e sempre. La cucina non è scienza perché è imperfetta e non bastano le formule matematiche a fare una buona pietanza: tante e troppe sono le circostanze che devono verificarsi perché un piatto, ancorché scientificamente riprodotto in cucina, sia un buon piatto. Anzi. La filosofia di Artusi è opposta alla scienza che egli furbescamente finge di propugnare: seguendo pedissequamente le mie indicazioni - ripete in moltissime occasioni - forse non preparerete pietanze sublimi, ma certo farete la vostra figura. È un invito che Artusi fa a tutti indistintamente, evitando di perorare la perfezione delle sue indicazioni (semmai il contrario) e sapendo che nella cucina è fondamentale l’estro. L’arte insomma. Mentre chi mangia non è che abbia da bearsi di questa eventuale arte, ma solo gli può capitare di coglierla, se ha strumenti per farlo.

Per dire: di fronte a Guernica di Pablo Picasso non tutti hanno la capacità (o la voglia o la possibilità) di districare l’arte dall’orrore. Lo stesso - per esempio - si può dire del risotto d’oro di Gualtiero Marchesi. E sostenere che Marchesi non è Picasso, in questa circostanza, non ha senso né interesse. Il risotto d’oro di Marchesi bisogna avere la capacità di capirlo, ma anche la voglia e soprattutto l’opportunità di apprezzarlo. Se non andate nei suoi ristoranti, potere solo sentirne parlare. Se non andate a Madrid non potete vedere Guernica, potere solo sentirne parlare. O guardarne una foto, il che fa della pittura, nell’epoca della riproducibilità, un’arte «popolare» e della cucina, in ogni tempo, un’arte elitaria. Ebbene: proprio contro quest’essenza elitaria Artusi lancia gli strali di quella che egli stesso solo polemicamente chiama scienza. Un atto destinato ad annullare i privilegi e fornire a tutti le medesime opportunità culinarie (ditemi voi se non è rivoluzionario tutto ciò). Diciamo allora che la «scienza» di Artusi pare quella comunistissima teorizzata da Brecht nel suo Vita di Galileo: come è noto, nell’edizione originale del testo, Brecht insistette sul tormento di Galileo costretto a porre un freno alla propria «voglia di conoscenza» per avere anno IV - numero 8 - pagina II

salva la vita e poter continuare segretamente nei suoi studi. Mentre nell’adattamento che l’autore medesimo fece per lo storico allestimento del Berliner Ensemble (in piena utopia comunista) Galilei biasima se stesso perché non è riuscito a mettere la sua scienza al servizio del popolo. Mentre Artusi la sua «scienza» la pone a disposizione di chiunque voglia acquistarla direttamente dall’autore a modico prezzo. Il che spiega, comunque e in modo definitivo che Pellegrino Artusi non era comunista. Anzi era un bel signore paffuto e moderato che aveva a cuore la mescolanza delle tradizioni culinarie della Penisola che solo da pochi anni dalla compilazione della sua opera s’era identificata in uno Stato unitario. Banalmente: l’Unità d’Italia a tavola. Maccheroni e polenta, acciughe e radicchio, carciofi fritti e risotti. Anche se poi, sotto sotto, la vocazione «democratica» di Artusi (per quanto può essere democratico un pranzo, legato

com’è alle risorse, siano esse alimentari o economiche) viene fuori da uno degli aspetti più apertamente rivoluzionari del suo manuale. Prendiamo il metodo del quasi coevo Auguste Escoffier, per intenderci. Il grande cuoco francese compone la propria apoteosi con un metodo ad escludendum: non tutti possono essere buoni cuochi. E comunque Escoffier non dà indicazioni per oneste massaie bensì regole ferree per chef di primissimo livello. Non vi dice come cucinare un buon arrosto ma come preparare un fondo da accompagnare a una carne arrosto o a un volatile o a un pesce che poi cucinerete un po’ come vi pare. Perché quel che conta è il fondo, ossia l’intingolo che dovrà insaporire di sé il manzo o la faraona o l’orata che gli vorrete accompagnare.

Intendiamoci: Escoffier insegna a inventare combinando sapori base (per quanto si possa insegnare a inventare, in ogni contesto possibile) mentre

Artusi vi insegna a soddisfare l’esigenza quotidiana di mettere insieme il pranzo con la cena. E lo fa tenendo a mente sia le necessità del palato, sia quelle delle buona società, sia quel-

le dell’igiene alimentare (e solo in questo ultimo ambito, appunto, la sua diventa una «scienza» applicata alla cucina). Giacché, figlio perfetto del suo secolo, Artusi è un positivista dell’alimentazione, un cuoco che vi invita a limitarvi nel mangiare non solo per gustare più pienamente i sapori ma anche - se non soprattutto - per non pregiudicare il vostro apparato digerente e, in ultima analisi, il vostro corpo. Nozioni di base della chimica, in Artusi, si mescolano a quella che dopo di lui sarebbe stata l’educazione domestica nell’ordinamento scolastico gentiliano: libro e uncinetto. Il tutto saltando da Sud a Nord nella ricerca di sapori e specificità; talché la fonduta diventa cacimperio oppure il cous cous diventa cuscussì. Dunque, ora sono cent’anni che Artusi morì a Firenze quando aveva novantun anni (il che testimonia, per inciso, che la sua arte culinaria si rivelò anche sana su lui medesimo). Da vent’anni aveva pubblicato il suo libro sublime che, va

massaie detto, nessun editore gli volle stampare al punto che Artusi lo vendeva - per così dire - in contrassegno: ossia dietro diretta richiesta del lettore. E così, con questa semplice formula artigianale, se ne stamparono dozzine di edizioni per un venduto che sfiorò le centomila copie. Qualcosa di impensabile per l’Ottocento. Ma se vi capiterà di leggere La Scienza della cucina e l’Arte di mangiar bene vi colpirà anche un altro elemento: il divertimento letterario dell’autore che sovente cita Dante Alighieri per dare sostanza ai sapori che vuole evocare (incredibile come la Divina Commedia sia zeppa di riferimenti alla buona cucina!).

Già, perché Pellegrino Artusi, nato a Forlimpopoli nel 1820 e morto a Firenze nel 1911 nella vita era un letterato. Di lui si ricordano una serie di sfortunati libri sulla letteratura italiana tra i quali una Vita di Ugo Foscolo che testimonia per altro verso la passione dell’autore per l’italianità. Salvo che questo suo meravigliosamente lodevole sentimento il nostro lo sublimò più descrivendo sartù, cibreo e cassoela che analizzando i versi dei Sepolcri. Il che dimostra solo che a fare un popolo la poesia ha il medesimo peso delle uova sode, delle rigaglie di pollo e degli zampetti di maiale. Che è un modo molto concreto per capire che si vive di poesia come di cibo. Ditelo a quelli che ci governano oggi e si faranno una disgustosa risata in faccia alla nostra storia (e al povero Pellegrino Artusi). Una risata in faccia a Artusi se la fece anche Stefano Pelloni, detto il Passatore, brigante cortese, che rubava ai ricchi per arricchire non i poveri ma se stesso. Il Passatore all’inizio del 1851 occupò Forlimpopoli, ne depredò i possidenti (gli Artusi fra costoro) e istituì in paese una cosa a metà tra il granducato e il regno dei briganti. Sicché Pellegrino trentenne fuggì e ricominciò la vita da capo. Il che spiega il passaggio dalla Romagna alla Toscana e la predilezione per la cucina emiliana nel suo libro mastro. Si fece commerciante, Artusi, e così cogliendo similitudini e differenze dei suoi clienti compilò il suo sontuoso elenco di meraviglie culinarie. È da notare, comunque, che egli raggruppò i suoi saperi culinari (naturalmente tutte le testimonianze concordano nel dire che era un cuoco eccellente) solo intorno ai settant’anni, come un uomo cui non resti altro che vivere e godere nella memoria. A meno di non voler dar retta a quell’altra possibilità: che Pellegrino Artusi volesse davvero fare gli italiani dopo che altri avevano fatto l’Italia. Anche perché sapete dove abitava in Firenze il nostro? In Piazza Massimo D’Azeglio. Più chiaro di così…


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parola chiave

26 febbraio 2011 • pagina 13

MULTICULTURALISMO e dinamiche socio-culturali seguono una logica solo in apparenza paradossale. Può accadere così che la crescita in termini di libertà individuale si accompagni con la crescita di colossali pericoli per la libertà, che l’emancipazione individuale faccia crescere il bisogno di legami sociali, che il relativismo e il multiculturalismo, divenuti ideologia dominante, finiscano per ridare vigore alla tematica dell’universalità e alla ricerca di ciò che è comune in tutte le culture; precisamente, credo, quanto sta accadendo nella nostra epoca. Se fino a ieri la parola multiculturalismo indicava semplicemente l’esistenza di diverse culture, oggi la stessa parola, da un lato, si è arricchita di significato, dall’altro si è fatta equivoca, fino a scadere in cattiva ideologia. Al pluralismo delle culture si è aggiunta la consapevolezza del pluralismo insito in ogni cultura; è sempre più difficile pensare la cultura come un monolite chiuso in se stesso; l’universalismo chiuso che contrassegnava le culture del passato è stato soppiantato da un «universalismo sensibile alle differenze», come lo chiama Habermas, capace di interagire, di imparare e di essere tollerante con l’«altro». Siamo passati insomma dalla incommensurabilità delle diverse culture a una concezione della cultura sempre più consapevole della porosità dei suoi confini, della pluralità dei suoi valori e, in ultimo, dei suoi ineludibili tratti «multiculturali». Tutto ciò ha contribuito senz’altro ad arricchire il significato del multiculturalismo. Al tempo stesso, però, ne ha anche smascherato certe tendenze degenerative: ad esempio l’identificazione di multiculturalismo e relativismo, quasi che ogni cultura, ogni valore, ogni stile di vita debbano essere considerati sullo stesso piano; oppure l’uso della pluralità delle culture come una sorta di arma per gettare discredito sia sulla tematica dell’universalità, sia, più ancora, su quella dell’identità culturale, quasi che nell’epoca della globalizzazione tali tematiche siano declinabili soltanto come esclusione dell’altro o come imposizione all’altro di parametri non suoi. Siamo insomma di fronte a qualcosa che assomiglia molto alla fuga da se stessi, anzi all’odio per se stessi e per la propria identità culturale, denunciato alcuni anni fa da Benedetto XVI e ripreso nelle scorse settimane dal premier inglese David Cameron con parole molto preoccupate.

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Come ben sappiamo, siamo ormai passati dall’epoca moderna all’epoca postmoderna. E l’epoca postmoderna fatica non poco a conciliarsi con l’idea dell’universalità, ritenuta incapace di rendere ragione della molteplicità e della eterogeneità dei discorsi e quindi delle culture. Il posto che ieri occupavano le grandi narrazioni universalistiche (l’illuminismo, l’idealismo, il materialismo storico) è stato preso oggi dal pluralismo dei giochi linguistici, tutti ugualmente possibili, aperti alla differenza e alla molteplicità. Nessuno è più in grado di prescrivere un ordine delle cose; tutto è diventato fluido e, almeno in apparenza,

Luci e ombre di una dinamica sociale divenuta ideologia dominante, occasione di arricchimento ma con pericolose tendenze degenerative. Amministrabili solo con un criterio: la dignità della persona

La differenza indifferente di Sergio Belardinelli

Al posto delle grandi narrazioni universalistiche (l’illuminismo, l’idealismo, il materialismo) troviamo oggi il pluralismo dei giochi linguistici, tutti possibili, aperti alla diversità e alla molteplicità. Nessuno è più in grado di prescrivere un ordine delle cose; tutto è diventato fluido e ugualmente legittimo ugualmente legittimo. Ma se sul piano della molteplicità delle culture, la modernità sbagliava nel voler sottomettere differenze e eterogeneità ai suoi parametri universalistici - l’esperienza del colonialismo ne è forse l’espressione più violenta e più amara -, oggi si corre il rischio di cadere nell’errore opposto, di ritenere cioè che non ci sia più alcun criterio in base al quale poter misurare la validità dei diversi discorsi e delle diverse culture. Ogni discorso, ogni cultura sembrano rivendicare una sorta di riconoscimento a priori, quali che siano i loro contenuti concreti. In questo modo

però, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è detto che venga facilitato il dialogo o lo sviluppo di una sempre più necessaria sensibilità per le differenze. Può accadere piuttosto che, proprio perché tutto vale allo stesso modo, le singole posizioni si irrigidiscano, oppure che la differenza diventi, in quanto tale, indifferente. Dobbiamo dunque uscire sia dalla logica moderna dell’assimilazione, sia da quella postmoderna e ideologicamente multiculturalista dell’equivalenza e dell’indifferenza (la logica denunciata da Cameron), sapendo che il dialogo tra le culture è co-

munque tanto necessario quanto difficile. Necessario, perché il mondo si va facendo sempre più piccolo e perché le culture sono sempre più mescolate nei diversi contesti socio-culturali; difficile, perché la consapevolezza che tutte le culture abbiano qualcosa di importante da dire non si è sviluppata allo stesso modo in tutte le culture, né può significare una sorta di neutralità o di diritto da parte di qualsiasi cultura ad affermare la propria differenza, comunque questa si manifesti. La mia idea, in estrema sintesi, è che per fronteggiare questo problema abbiamo una sola risorsa: la dignità della persona umana. In quanto espressione umana, infatti, in ogni cultura è l’uomo che si esprime; quindi, al di là delle differenze culturali, anche quelle più profonde, c’è in ogni cultura un tratto comune. L’uomo deve essere il vero metro di misura, il rispetto della dignità dell’uomo il vero criterio normativo di ogni cultura. Altro che relativismo multiculturalista. Con le parole dell’enciclica Fides et Ratio, potremmo anche dire che «le culture, quando sono profondamente radicate nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo all’universalità e alla trascendenza». Universalità dell’umano e pluralità delle culture: ecco dunque i poli all’interno dei quali soltanto ha senso porre il problema di un dialogo autentico tra le culture.

Per certi versi trovo sconcertante che una cultura come quella occidentale, la quale senz’altro ha sviluppato al proprio interno una sorta di naturale disposizione al dialogo e alla discussione, oggi fatichi così tanto a districarsi nei suoi conflitti. Ma la cosa forse si spiega, se pensiamo alla stanchezza da cui ci siamo fatti prendere. Parole come ragione, verità, giustizia, dignità dell’uomo, che pure stanno alla base della nostra cultura liberaldemocratica, sono diventate poco a poco quasi impronunciabili nella loro dimensione universalistica. Il multiculturalismo ideologico le ha praticamente neutralizzate tutte. Al loro posto troviamo la retorica di un «cosmopolitismo» senza identità e di un’idea di libertà, la quale, declinata in termini individualistici come libertà di fare semplicemente ciò che ci piace, anziché ciò che dobbiamo, non riesce più a distinguere i nostri diritti dai nostri desideri. Ma poi è arrivato il brusco risveglio dell’11 settembre 2001; è arrivata la biopolitica, la costrizione a prender partito su questioni di vita e di morte; sono arrivate le grandi migrazioni, la crisi economica mondiale e altro ancora. Si è incrinata così l’aura debole che schiacciava come un macigno la nostra cultura e, seppure smarriti, abbiamo ricominciato a cercare, a guardarci intorno, ma anche dentro. Abbiamo compreso, così almeno spero, che indebolendo le nostre radici e la nostra identità, odiando addirittura noi stessi e le nostre radici cristiane, contrariamente a quanto pensano i più accaniti sostenitori del pensiero debole e del multiculturalismo, non si rende il dialogo più semplice, né più fruttuoso; ci si mette semplicemente in balia dei fanatici.


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Pop

musica

RIACCENDETE LIGABUE! (Meglio elettrico che acustico) di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi dele, i suoi dischi, è abituata a catalogarli. «La ragione che mi ha spinto a intitolare il primo 19», ha spiegato, «è stata quella di scandire ciò che mi era successo e ciò che ero allora». Dopo 19, scritto e inciso quando aveva diciannove anni, ecco 21: composto e registrato a quell’età, esce a poca distanza dal 5 maggio quando di anni ne compirà ventitre. «Tratto le cose in maniera diversa, ora. Sono più paziente, onesta, tollerante. E più consapevole dei miei difetti. Credo sia una questione fisiologica, dovuta al tempo che passa. È per questo motivo che ho intitolato l’album 21». Oltre a farmi dare i numeri, dannazione, questo è un disco che mi ha messo knock-out: perché Adele Laurie Blue Adkins, nata nel quartiere londinese di Tottenham, è di una bravura mostruosa. Talento puro. Di anni ne aveva quattro, quando ha cominciato a cantare scimmiottando le Spice Girls e le Destiny’s Child di Beyoncé. Poi, crescendo, ha colto fior da fiore Ella Fitzgerald ed Etta James. Le prime canzoni, le ha fatte ruotare su MySpace. Hometown Glory, Chasing Pavements, Cold Shoulder e Make You Feel My Love, sono stati i suoi singoli d’oro. Adesso, se le domandate chi ha ispirato 21 (primo in Inghilterra con più di novecentomila copie vendute, mentre 19 è rientrato in circolazione al quarto posto superando il milione), vi risponderà snocciolando una raffica di nomi: Wanda Jackson, Yvonne Fair, Andrew Bird, Mary J Blige, Mos Def, Elbow, Tom Waits, Kanye West… E se le chiedete di descrivere il suo stile, vi butterà lì heartbroken soul che tradotto significa soul music straziata ma non le rende giustizia, visto il repertorio tutt’al-

A

Jazz

zapping

a queste parti siamo contro le svolte acustiche. Bob Dlylan si presentò ai suoi tempi al festival di Newport con una band elettrica (e che band, si trattava di The Band) e si beccò bordate di fischi. Invece la mossa classica del rockettaro o presunto tale per accreditarsi è il concerto acustico. Come dire: non so solo fare chiasso, sono un musicista anch’io, sono un sublimato del rock. La sindrome della svolta acustica è iniziata alla fine degli anni Ottanta con la moda dei dischi Unplugged. Per un Eric Clapton, che in fondo la musica acustica l’ha sempre frequentata, abbiamo avuto un celebre disco dei Nirvana unplugged. Niente aggiungeva, anzi qualcosa toglieva agli splendidi Nirvana punk, elettrici e grandi esecutori, ma il maglioncino infeltrito di Kurt Cobain fece epoca (probabilmente è stata una delle cause del suo suicidio). Una vena non eletttrificata percorre la storia del rock, certo. I Led Zeppelin con cordame, tamburelli e strilli hanno fatto capolavori sinceri. Da Gallows Pole a Bron y Aur stomp. Ma non tutti hanno legittimità, e per esempio un Vasco Rossi si guarda bene da fare concerti unplugged. Ma il Ligabue da Correggio no. Anzi in chiusura dell’ennesima (non fossero bastate le precedenti) tournée acustica (con bouzuki, tamburello, chitarra dobro ecc.) leggiamo sul Mattino che il buon Luciano è stato stregato dal teatro San Carlo di Napoli, e che ne ha ricevuto una vera e propria «sindrome di Stendhal». Verrebbe da commentare con un parla come magni. Ma forse siamo stati contaminati anche noialtri da una certa sublimazione linguistico-filosofica. Speriamo gli riattacchino la corrente.

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Adele, se il soul ha il cuore rotto

tro che plumbeo. Etichette a parte, il benedetto 21 (descritto da un critico inglese come sottofondo ideale a un pigro pomeriggio in una caffetteria) che Adele ha registrato a Malibu e a Londra e fatto produrre dal leggendario Rick Rubin (Johnny Cash, Jay Z, Red Hot Chilli Pepe da Paul pers) Epworth (Plan B, Bloc Party, Florence And The Machine), è nero come la pece. Rolling In The Deep, già di per sé un classico, è un viavai di gospel e blues che si danno di gomito. Idem, in chiave gospel, per quanto riguarda One And Only (che fila fin lassù, in Paradiso) e Take It All (magistrale botta e risposta di voce e pianoforte). Rumour Has It e I’ll Be Waiting, invece, sono rhythm & blues da assalto alle coronarie: diabolico e terribilmente sensuale il primo, fiati a cascata e retrogusto anni Sessanta per il secondo. Adele, con la voce, ci dà dentro che è un piace-

re. Senza sforzarla, però, come succede a tutte le altre che vogliono far vedere quanto sono brave. Lei è brava e basta: al naturale. Ascoltatela, ve lo consiglio, quando si mette sulle tracce di He Won’t Go, impeccabile soul music innervata dal funky. Centellinatela, quando si concede un po’ di respiro accoccolandosi su un pianoforte accarezzato da morbide orchestrazioni (capita in Turning Tables); quando si screpola, da Rod Stewart in gonnella, nella maiuscola ballata Don’t You Remember; quando si specchia (spontanea, senza narcisismi) in Set Fire To The Rain: altra ballad, ma più energica. Ed è impossibile resisterle, quando pesca Lovesong dal repertorio dei Cure (anno di grazia 1989: aveva appena compiuto un anno!), la rallenta e la trasforma in bossanova. Eppoi, con Someone Like You, chiude in bellezza il disco tratteggiando cromatismi vocali alla maniera di Annie Lennox. Un’autentica forza della natura. Ecco cos’è Adele. Adele, 21, XL Recordings/Spin-Go!, 16,90 euro

Quell’indimenticabile “suono Shearing”

unedì 14 febbraio a New York è scomparso un altro grande del jazz: il pianista inglese, ma naturalizzato americano, George Shearing, nato a Batterstea (Londra) il 13 Agosto del 1919, che dopo aver debuttato in Inghilterra, si era trasferito negli Stati Uniti già al termine della seconda guerra mondiale. Aveva trascorso gli anni di guerra a Londra suonando nel Quintetto che Stéphane Grappelli aveva formato nel 1940 quando aveva abbandonato Django Renhardt e il celebre Quintetto dell’Hot Club di Francia. Quel giovane pianista, cieco dalla nascita, aveva affascinato il violinista francese che lo volle immediatamente con sé e, con Grappelli, suonò per cinque anni incidendo anche i primi dischi. Al termine del conflitto quei dischi giunsero negli Stati Uniti e Leonard Feather, uno dei critici più impor-

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di Adriano Mazzoletti tanti dell’epoca - anch’egli inglese - che viveva negli Stati Uniti già da molti anni, lo invitò a New York imponendolo all’attenzione del pubblico e degli stessi musicisti. Fu Sarah Vaughan la prima, dopo averlo ascoltato durante un concerto con Buddy De Franco, a volerlo immediatamente come pianista. Nel 1949 - a trent’anni - abbandonato il ruolo di sideman, costituì un complesso che per i successivi vent’anni fu ammirato e imitato tanto da divenire uno dei più famosi al mondo.

Il «suono Shearing», non solo proveniva dal suo modo di suonare il piano, spesso a «blocchi di accordi», ma dalla formazione stessa del complesso, con chitarra, vibrafono, contrabbasso e batteria. L’enorme successo era anche dovuto alla musica dai colori tenui e sfumati. Il jazz proposto da questa formazione aveva il suo carattere distintivo nei particolari impasti sonori tra il pianoforte e il vibrafono e negli unisono di chitarra, piano e vibrafono con cui venivano esposti, all’inizio e alla fine

di ogni esecuzione, i temi eseguiti. Quelle composizioni, oltre trecento, conquistarono anche un pubblico enormemente vasto. Motivi che entrarono nel repertorio di una infinità di orchestre e musicisti e, per anni, Lullaby of Birdland, il suo maggior successo, To be or not to bop, Midnight Moon, So this in Cuba, vennero eseguiti in tutto il mondo. Ma Shearing diede nuova e indimenticabile forma a molti standard della canzone americana, come September in the Rain, Sweet and Lovely, The Continental e centinaia d’altri, e i suoi dischi sono stati venduti a milioni di esemplari. Successivamente si esibì anche con orchestre sinfoniche distinguendosi, negli ultimi anni, per l’impegno profuso nella didattica musicale. Malgrado la sua straordinaria popolarità, si esibì raramente in Europa e una sola volta in Italia.


arti Mostre

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aveva già sostenuto l’imprescindibile «cronista d’arte bolognese» Malvasia, nel Seicento, che per visionare le celebri Madonne di Vitale degli Equi, così «bononiense» da esser passato alla storia quale Vitale da Bologna, e così noto per le sue dolci opere di devozione mariana, da esser ricordato quale «Vitale delle Madonne», per ammirarlo in epoca ben più tarda bisognava piegare verso qualche chiesa del circondario, «ove per lo più si vedono innocentemente relegate talora simili anticaglie, non per altra colpa, che del cresciuto lusso, ambizioso di quel primo posto, che dentro la Città a queste diedesi». Colpa della Moda, come sempre. Del resto già Malvasia (mentre Vasari spavaldamente ignorava questa «enclave» più provinciale, ma certo non meno nobile e fiorente di quella fiorentin-giottesca. Semplicemente più affabile e meno aulica) era stato sedotto da quell’inedita dolcezza «psicologica» degli incarnati, cantando d’«una non più veduta delicatezza e gratia ne’ volti». Addirittura rifacendoci a una sorta di angelicata «cucina» delle epidermidi sante, lattee. «Ammirandosi un colore di carne così fresco, che sembra di pochi giorni impastato, e il manto di un azzurrino così vivace e brillante, che somiglia (massime tutto tempestato di griffi d’oro, quasi fiammeggiante di stelle) un pezzo piuttosto di cielo, che un finissimo oltremare». Magnifico: come se il pittore, non già stesse lì a mesticar con vasariana «fatica» i chimici colori di bottega, ma piuttosto avesse divinamente accolto un «pezzo» di sera piovuta, con far di cherubino, sulla sua tavola, «griffata» d’oro.

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ma-adolescente), anche Longhi favoleggia, immaginando. Ch’egli stia prelevando dal gotico «gueridon» un flaconcino d’essenza: «rara invenzione di un Bimbo che sceglie fra le ampolline sullo sgabello, come se, a guisa di principino orientale, stesse ascoltando dalla madre la prima lezione di arte dei profumi». Ora, la preziosità d’una mostra minima ma preziosissima di epifanie, come questa, al Museo Medievale di Bologna, così con passione condotto da Massimo Medica, ch’è anche il garante di questo pellegrinaggio fra Madonne operose, non sta soltanto nell’affilamento filologico, che sottrae magia al trasognare, da miniatura persiana Mille e una Notte, d’un Longhi, per avvederci che qui il Bambino, molto più casalingamente, collabora con una Madonna «dell’ago» e al dipanarsi frusciante del filo dal rocchetto. Ma sta proprio nel fatto di accostare alcuni apporti preziosi, e di ristudiare alcuni testi smembrati (protagonisti d’un gusto gotico-provinciale, ma d’altezza europea, «avignonese») in una di quelle auspicabili mostre-studio, che ruotano intorno a un unico quadro da indagare, e che l’immodesto Umberto Eco, in una modesta mostra sulla Venere d’Urbino, credeva d’avere inventato da sé, lamentando che non fossero mai esistite, prima del suo apporto provvidenziale. No, esistono, per fortuna: hanno ben poche ambizioni economiche, e sono quanto mai remunerative, anche per il pubblico colto, che accorre. Né riman spazio per elencare i doni di questo festoso convegno di Madonne, intorno all’eburnea ma umanissima Vergine dei Denti, ove forse s’intravvede, e pour cause, la martire-sdentata Apollonia. Sedotti da quell’angelo, che caracolla appoggiandosi alla cornice d’affresco, o quel pellegrino smagrito, con la vasta conghiglia-copricapo, «caricato».

Le Madonne operose del devoto Vitale

Archeologia

di Marco Vallora Ecco perché il «bolognese» Pasolini, che voleva con Longhi portare a termine la sua tesi (poi perduta su un trenino friulano) e che pure lui dipingeva, senza colori, con pezzi di vita (cenere di sigaretta, mollica o macchie di vino) si sentiva così affine a questa dolce pittura domestica, che il suo Maestro giudicava straziata tra le folate d’un «vento secco ed acuto», che veniva di Bisanzio, e quello «lirico e profumato, favoleggiante, delle corti regale e papale di Parigi e Avignone». Con il disorientato Vitale, sorpreso per via (da buon pellegrino del gusto, in quel vorticare di spifferi d’influenze) che si fa, tra molti, l’«iniziatore di quei sensi, talora fra sé contrastanti, di vivace naturalezza, di

grazia costumata, di improvvisa favoleggiante liricità, che dal Piemonte a Milano, a Verona a Treviso e Udine, fanno del Trecento padano un mondo estetico incomparabile certamente a quello di Toscana, ma non perché più scarso, soltanto perché diverso». Ed è divertente, perché anche Longhi, di fronte quella toccante e fragile Madonna, planata sin qui dal Poldi Pezzoli (in quella postura umile di paesana, che s’accrocchia sulla nuda terra per ascoltare una favola, con la portatile Santa Caterina, protettiva, alle spalle del forbito baldacchino, che brandisce il frammento di ruota, quasi una lira e il Bambino divertito che fa le fusa, solleticato sotto il mento dalla mam-

Lo strano destino delle monete di Akragas

n po’ tutti abbiamo pensato prima o poi che gli oggetti siano dotati di un’anima, che improvvisamente possano sparire, nascondersi, farsi rubare, causare eventi più o meno nefasti. O che, molto semplicemente, vogliano vivere in pace, dimenticati da tutti». E forse questo pensiero di Andrea Camilleri accompagna anche una piccola moneta (la favolosa Akragas) al centro della vicenda La moneta di Akragas (Edizioni Skira, 136 pagine, 12 tavole a colori, 15,00 euro), narrata dallo scrittore siciliano con la sua abilità linguistico-letteraria e il fascino dei suoi romanzi storici. E ancora una volta Camilleri ci descrive alcuni scorci della Sicilia aprendo finestre temporali che distano millenni. La storia inizia intorno al 406 a.C., quando Akragas (l’antica Agrigento) cade in mano ai Cartaginesi e il mercenario Kalebas, al servizio d’Akragas e agli ordini dallo spartano Deixippos, scampato all’eccidio portando con sé un sacchetto di monete d’oro che rappresentano il compenso per otto mesi circa di lavoro, cerca di fuggire. «Sono monete appositamente coniate, da un lato c’è un’aquila ad ali aperte e una lepre, dall’altro un granchio e un pesce. Ognuna pesa 1,74 grammi d’oro, comprensivo anche della quotidiana razione di grano, perché negli ultimi mesi

«U

di Rossella Fabiani ad Akragas è stato più facile trovare oro da fondere che frumento ed equivale a sei giorni di paga. Nel sacchetto di Kalebas di queste monete ce ne sono trentotto», racconta Camilleri. Kalebas, morso da una vipera, muore, ma prima sparge le sue monete scagliandole lontano. Millenovecentotto: «Quasi duemilacentosettant’anni dopo Akragas, un’altra città siciliana viene distrutta dalle fondamenta. Ma stavolta si tratta di cause naturali», dice Camilleri. La città è Messina e la causa il terremoto. Drammatiche vicende legate a questo evento portano alla luce una moneta tanto piccola quanto di grande valore: è una delle monete coniate ad Akragas considerata l’unica del suo genere, probabilmente una di quelle di Kalebas, e alla fine arriva nelle mani dello Zar, numismatico per passione. Millenovecentonove: passa soltanto un anno e uno zappatore trova un’altra moneta d’oro, dal valore inestimabile. Ma lui non lo sa e neppure può rendersi conto che questo ritrovamento sarà la sua sfortuna. Il suo desiderio sarebbe regalarla al medico del paese, il dottor Gibiliri, per sdebitarsi con lui - notoriamente appassionato collezionista, affasci-

nato dalla straordinaria scoperta - ma per una serie di coincidenze sfortunate la moneta sembrerà sfuggire a questo destino. «La spiegazione è questa - dice il medico del paese - che la moneta esprime la sua volontà di non riapparire al mondo, di tornarsene nuovamente dentro quella terra dalla quale un giorno l’hanno tirata fuori. E comunque, in linea subordinata, di non andare mai, per nessuna ragione, a finire nella sua povera collezione. È come se un’imperatrice si rifiutasse giustamente di abitare in una stamberga». E come accade nelle favole, anche la storia di Camillieri ha una sua morale che - senza troppo scomodare gli oggetti fatati della tradizione - mostra come la moneta diventa strumento e scopo ultimo di una serie di eventi. Non tanto l’oggetto utilizzato per realizzare sogni quanto quello che può servire a modificare la realtà, sia negativamente che positivamente. Dipende dalle mani in cui si trova, da chi la utilizza. Se l’uomo che ne viene in possesso è buono la moneta farà del bene attraverso lui, viceversa potrà diventare strumento del male. Insomma, una moneta antichissima per i temi eterni dell’umanità: la distinzione tra ciò che è eticamente corretto e ciò che non lo è, la relatività del possesso dei beni materiali, il premio - non garantito a tutti, però, perché esiste sempre l’imponderabile - per coloro che sapranno gestire questi beni materiali con generosità e oculatezza. E infine la forza eterna del potere e la necessità di sottostare al volere di aristocratici e governanti.


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il paginone

BENJAMIN

e l’incantesimo dell’omino gobbo Il destino avventuroso dei suoi scritti sembra risentire dello sguardo di quello stesso personaggio che abitò la sua infanzia berlinese, e che rendeva le sue vittime inesorabilmente maldestre. E mentre in Italia escono un altro tomo delle Opere complete e i “Sonetti e poesie sparse”, in Germania si lavora alla ricomposizione del lascito dello scrittore-filosofo di Vito Punzi ifficile dire quanto sia in grado, ancor oggi, di suscitare interesse. Certo è che l’impegno di Einaudi non manca. Così negli ultimi anni l’opera di Walter Benjamin è tornata a fiorire. Si vedano le riedizioni di scritti narrativi come Immagini di città, Infanzia berlinese, di saggi brevi come Sull’haschisch, o di opere monumentali come I Passages di Parigi. È dal 2000 che l’editore torinese ha deciso di riprendere l’edizione completa dell’opera dell’ebreo tedesco; una riedizione avviata allora da Giorgio Agamben, ma interrotta dopo la pubblicazione di pochi volumi.

D

A garanzia della bontà dell’operazione, l’editore torinese ha chiamato a raccolta gli stessi cu-

ratori dell’edizione tedesca, Rolf Thiedemann e Hermann Schweppenhäuser, oltre ovviamente all’«interno» Enrico Ganni. Dopo la pubblicazione del primo volume, Opere complete I (2008), comprendente gli scritti

voluto confermare la scelta originaria di Agamben di compilare l’opera seguendo un ordine cronologico, vista la contrarietà degli curatori tedeschi, motivata dal fatto che le date di redazione dei testi sono spesso incerte e Benja-

ne Amburghese per il sostegno della scienza e della cultura. E tuttavia nel caso di Benjamin c’è da chiedersi che cosa s’intenda quando si parla di «lascito». Gran parte degli scritti del berlinese apparvero dopo la sua mor-

Difficile ricostruire la diaspora dei suoi testi: lasciati nelle case di Berlino e di Parigi, consegnati a Bataille o spediti ad Adorno, talvolta non sono stati neppure cercati. Altri invece si spera ancora di rintracciarli giovanili, quelli redatti cioè tra il 1906 e il 1922, tra i quali spicca il bellissimo saggio su Le affinità elettive di Goethe, ecco ora Opere complete III e Sonetti e poesie sparse, entrambi usciti nel 2010. Tutto bello e utile. C’è invece da chiedersi perché Einaudi abbia

min tornava più volte sullo stesso scritto. E proprio in relazione alle carte dello scrittore-filosofo meritano di essere ricordate alcune vicende a loro legate.

Nel 2008 Suhrkamp, l’editore tedesco, ha iniziato a pubblicare una nuova edizione critica dell’intera sua opera sotto il titolo Werke und Nachlass (Opere e lascito), finanziata dalla Fondazio-

te e dunque il destino della sua opera è stato sempre nelle mani degli editori, ciascuno dei quali si è comportato secondo le proprie convinzioni. Un problema, questo, aggravato dal fatto che non tutti i testi pubblicati in vita sono stati menzionati dall’autore e dunque accade ancor oggi che vengano rintracciati scritti sconosciuti (tra gli ultimi recuperati un’intervista rilasciata alla rivista polacca Wiadonosci Literacki nel 1927 con a tema la sua

traduzione in tedesco di Proust, pubblicata di recente dalla Frankfurter Allgemeine).

L’imponderabilità della situazione relativa al Nachlass benjaminiano è stata del resto confermata appena poco più di un anno fa con un numero speciale di Text und Kritik, nel quale i collaboratori dell’Archivio Benjamin di Berlino pubblicarono importanti documenti sulla storia del lascito: è stato così accertato, per esempio, che non è mai stato trovato (e neppure cercato) ciò che lo scrittore-filosofo lasciò nel suo ultimo appartamento berlinese nel 1933, quando decise di abbandonare la capitale. Ancora più impenetrabile è poi il destino delle sue carte parigine. Ciò che si conosce con certezza è la storia avventurosa di quei testi che Benjamin lasciò a Parigi nella sua ultima casa, in Rue Dombasle, quando nel giugno 1940 abbandonò la capitale per raggiungere Marsiglia. Quei documenti gli furono portati a Lourdes da quella Erna von Pustau che nel 1948 avrebbe poi pubblicato inIn alto, da sinistra: Walter Benjamin, Stefan George, l’Angelo necessario visto da Paul Klee, la tomba di Benjamin. A destra: le copertine dei libri recentemente editi da Einaudi

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se ne sono occupati hanno dovuto persuadersi della grande dispersione subita dal lascito di Benjamin. Una dispersione di carte che richiama alla memoria quell’essere «maldestro» così ben ricostruito da Hannah Arendt nel suo splendido saggio Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle (in H.A., Il futuro alle spalle, Il Mulino): tra i ricordi d’infanzia del berlinese a dominare era l’«omino gobbo» conosciuto in un libro per ragazzi. Era lui a dominare, poiché chi è oggetto del suo sguardo, ha scritto lo stesso Benjamin, «non fa attenzione» e «resta costernato davanti a un mucchio di cocci». La sua vita, ha spiegato la Arendt, «si potrebbe senza difficoltà raccontare come una serie di questi “mucchi di cocci”, e non c’è quasi dubbio che Benjamin stesso l’abbia vista così». Se questa è stata la sua vita, come poteva essere diverso il destino dei suoi scritti?

sieme a Pearl S. Buck il libro Dialoghi sul popolo tedesco. Oltre a questi, si sono conservati quelli che lo stesso Benjamin consegnò, sempre a Lourdes, alla sorella Nora prima di partire per Port Bou, da dove sarebbe dovuto uscire della Francia. Del tutto sconosciuto è invece ciò che venne requisito dalle autorità tedesche d’occupazione nell’appartamento parigino. Si sa per certo che venne trasferito in Germania e anche di recente Detlev Schöttker, esperto benjaminiano, ha sostenuto essere possibile rintracciare quel materiale, «poiché allora il sequestro degli oggetti di regola veniva documentato con estrema precisione». Una ricerca del genere, però, non risulta essere mai stata effettuata.

La rete delle persone che tra il 1940 e il 1942 a Parigi potevano essere informate circa il lascito di Benjamin era piuttosto fitta e oltre a Felix Noeggerath, sul quale ha indagato a lungo Gershom Scholem, va citato George Bataille, cui lo scrittore tedesco consegnò documenti che avrebbe voluto fossero affidati alla cura della Bibliothèque Nationale. In realtà una parte del materiale venne inviata nel 1947 ad Adorno, negli Usa, e dunque oggi si trova nell’Archivio berlinese di Benjamin. Ma anche in questo caso la storia sembra essere tutt’altro che chiusa. Bataille non

inviò tutto il materiale in suo possesso negli Stati Uniti. E nel 1981 fu Giorgio Agamben, allora curatore dell’edizione italiana delle opere benjaminiane, a trovare altri documenti a Parigi, nella Bibliothèque Nationale e presso la casa di Bataille. Cose di non poco conto, visto che tra gli altri scritti c’era anche una versione sconosciuta delle Tesi sul concetto di storia. Tutto chiarito? Neppure per sogno. Dando per assodato il fatto che Agamben si sia preso correttamente cura e abbia trasferito

Gravi sono state e continuano a essere anche le difficoltà che si affrontano nel tratteggiarne la personalità. Sempre con la Arendt, si deve riconoscere che per descrivere Benjamin «bisognerebbe fare un gran numero di constatazioni negative»: se ne deve cioè sottolineare l’enorme erudizione, ma si deve altresì dire che non era allievo di nessuno, si deve ricordare che lavorava sui testi, ma anche che non era un filologo; che era attratto dalla teologia, ma non era un teologo; che era un narratore, ma la sua massima ambizione era piuttosto produrre un’opera di sole citazioni; che ha tradotto Proust, ma non era un traduttore; che ha scritto sul barocco tedesco, ma non era uno storico della letteratura; che recensiva, ma non era un critico letterario. E quando si è trovato nella necessità di scegliere, è stata proprio quest’ultima l’unica definizione che ha cercato di dare di se stesso, volendo intendere più o meno espressamente il critico letterario come un alchimista. E

rappresentato da cinquanta sonetti, ordinati secondo una sequenza stabilita dallo stesso autore, mentre una seconda raccolta, di appena nove poesie, risulta avere come tratto comune il ricordo dell’amico di gioventù Christoph Heinle, suicidatosi poco dopo l’inizio della prima guerra mondiale. Un ultimo blocco di quattordici sonetti è ugualmente dedicato in prevalenza all’amico poeta e tuttavia venne distinto dallo stesso Benjamin dalle altre composizioni senza motivi evidenti. Heinle, una figura molto prossima alla sensibilità degli adepti del vate Stefan George, il berlinese l’aveva conosciuto nel 1913 durante gli studi universitari a Friburgo, e la loro intensa, seppur breve amicizia riconduce a una verità «scomoda» in buona misura ancora da mettere bene a fuoco: «la sconvolgente influenza di Stefan George», come la definisce Tiedemann, su Walter Benjamin. E non solo su di lui, se è vero che la critica più recente è portata piuttosto a estendere l’influsso del «sacerdote» della «Germania segreta» su un’intera generazione: «Per uno studio serio della storia letteraria - ha scritto Gert Mattenklott - c’era forse, tra il 1905 e il 1925, una scuola migliore di quella del circolo di George?». In uno scritto del 1928 (ora in Opere complete III, Einaudi, XIV-536 pagine, 90,00 euro), a proposito di George, Benjamin parla di una «scossa» che l’aveva raggiunto e aggiunge: «mai dalla lettura, ma sempre solo da quelle poesie che in certi momenti decisivi sentivo sulla bocca dei miei compagni di allora, e un paio di volte sulla mia stessa

Dal punto di vista poetico è indubitabile che Walter Benjamin subì l’influsso del “sacerdote” Stefan George. Nella cui cerchia dimorò «troppo a lungo per non arrivare a conoscerne un giorno anche l’orrore» integralmente i documenti consegnatigli, resta aperta la domanda «se dalla vedova Bataille gli venne dato effettivamente tutto» (ancora Schöttker). Ed è chiaro che se il dubbio si pone ancor oggi è in ragione delle difficoltà contro le quali i ricercatori cozzano nell’accesso ai lasciti dei citati personaggi. Qua e là, in corrispondenze varie, solo qualche accenno a «manoscritti in Svizzera», a «un commerciante di Parigi», a «due leggendarie valige provenienti da Sanremo». Una cosa è certa: tutti coloro che

a questa figura ci si può rifare ora per affrontare la sua non poco sorprendente produzione poetica (W. Benjamin, Sonetti e poesie sparse, a cura di Rolf Tiedemann, Einaudi, 228 pagine, 15,00 euro), fino a oggi ignota al lettore italiano e affidata per la quasi totalità alla traduzione di Claudio Groff. Stando alla testimonianza dell’amico Gershom Scholem, Benjamin si dedicò alla stesura delle sue poesie tra gli anni 1915-1925. Suddivise in tre blocchi, quello più significativo e cospicuo è

bocca. Legato a quei compagni non dalle sue poesie, ma piuttosto da una forza della quale parlerò un giorno. Era la medesima forza che alla fine mi separò da quell’opera». Lo stesso mancato ingresso di Benjamin nell’accademia ebbe una qualche relazione con il circolo georgiano (che, è bene ricordarlo, era frequentato non solo da aspiranti poeti, ma anche da critici, storici e scienziati di varia provenienza culturale). Il berlinese bruciò l’unica chance che ebbe di approdare alla

carriera universitaria scrivendo il saggio su Le affinità elettive di Goethe (ispirato dalla polemica suscitata dal Goethe di Friedrich Gundolf, altro adepto georgiano). Pensando al mondo universitario e culturale tedesco Benjamin parlò di «orrenda desolazione» e in questo ottenne molta più comprensione da Gundolf e dagli altri del circolo di Stefan George («la cui visione del mondo gli era molto familiare sin dalla giovinezza», ha scritto ancora la Arendt) che dai signori dell’«ufficialità». In virtù della sua problematica condizione di ebraotedesco, Benjamin si chiese anche perché all’interno del circolo georgiano ci fossero così tanti ebrei e la risposta che riuscì a darsi, nel 1927, fu questa: «Nella cerchia che nel corso degli anni Novanta si formò intorno a Stefan George per la prima volta si offrì agli ebrei la possibilità di porre in un fecondo rapporto con la Germania le loro tendenze conservatrici».

Per tornare alla scrittura poetica, Benjamin ha ammesso che l’influsso di George sulla sua vita fu «legato alla poesia nel suo senso più vitale», e che, per quanto preso da «sospetti e resistenze», venne attratto da quella «scienza sacerdotale della poesia» che era il tratto caratteristico del poeta del «nuovo regno». Lui stesso poi usa una metafora molto georgiana quando definisce composizioni come Il canto del nano o Il rapimento «poesie che nel massiccio della germanicità appaiono come quelle fenditure che secondo la leggenda si aprono solo ogni mille anni per concedere uno sguardo nelle viscere dorate della montagna». Benjamin dimorò «troppo a lungo» nel contesto delle poesie di George, per, come ha scritto lui stesso, «non arrivare a conoscerne un giorno anche l’orrore». E per quanto distacco abbia poi cercato, la raccolta einaudiana è lì a dimostrare che dietro il rigido schematismo dei suoi sonetti arde un «fuoco» che non è difficile definire d’ispirazione «georgiana»: «Ora il velo è scostato/ scruto il cuore del mondo/ come non dovremmo limpido/ vidi il fuoco là dentro palpitare/ quando circonfuso dal riflesso/ l’eterna fiamma che rischiara/ mi assale con gelido respiro/ mi sento ingannato nel profondo/ ero immerso nell’osservazione/ di un fuoco che se stesso cela/ l’universo sotto le sue ciglia/ non si è compiuto il mio destino/ accecato minacciava di scordare/ la sua vita quella a me concessa».


Narrativa

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Nemesi

a Weequatic

emesi era una dea greca. Secondo alcuni figlia di Zeus, secondo altri di Oceano e Notte. Némesis significa sdegno, indignazione, ma anche vendetta o castigo. Secondo il mito avvertiva: «E io avrò biasimo degli uomini». È proprio nell’accezione di castigo - così misterioso e insondabile - che Philip Roth ha scelto questa parola per intitolare il suo ultimo romanzo. Qualche critico, riferendosi all’insistenza dell’autore sul punto di rottura dell’uomo e sul mix di angoscia e humour, l’ha accostato a Kafka. È vero solo in minima parte. Il romanzo di Roth semmai ci fa venire il mente La peste di Albert Camus. Non occorre essere geni per mettere subito a confronto le tematiche, visto che quella di Roth è il flagello della poliomelite a Newark negli anni del secondo conflitto mondiale, una decina di anni prima della scoperta del vaccino. A far pensare contemporaneamente allo scrittore francese e a quello americano, che raccontano il contagio, la morte, i lutti, la paura e i pregiudizi verso presunti «untori», è anche il drammatico e dolorosissimo interrogativo sul ruolo e la responsabilità di Dio. La sonda di Camus va in profondità, quella di Roth non così tanto, semmai procede per imitazioni. Nel 1916 c’era già stata una grande epidemia di polio, a Newark. Mentre le forze armate americane arruolano i giovani per spedirli in Europa o in Estremo Oriente a combattere nazisti e giapponesi, il morbo ha una terrificante impennata. Pare scelga un quartiere piuttosto che un altro. Quello di Weequatic, ove c’è la Cancellor School e il più alto tasso di concentrazione di abitanti ebrei, è come un albero che attira i fulmini. Muoiono ragazzini di dodici anni e Bucky Cantor, ventitreenne insegnante di ginnastica ed educatore, assiste con sgomento crescente alla morte di Alan, un fuoriclasse in tutte le materie e con l’ambizione di diventare un nuovo Pasteur (ironia della sorte), di Herbie e di altri. Nessuno sa l’origine della malattia che attacca i muscoli e il sistema respiratorio, quindi in quasi tutti si fa strada la tentazione di trovare un capro espiatorio. Serpeggia tra case, strade e campi sportivi una sorta di caccia all’«untore», ignorando tuttavia quale sia il bersaglio, ammesso che ci sia. Bucky, con una tormentata storia genitoriale alle spalle, afferra l’ancora dei ricordi mi-

N

Il bibliofilo

Ricorda Camus il romanzo di Philip Roth su un’epidemia di poliomelite a Newark. E riapre interrogativi sul ruolo di Dio di Pier Mario Fasanotti gliori: il nonno saggio che fino a quando morì insegnò al nipote la dignità, la nonna che dolcemente si è fatta madre. Ha, è vero, una deliziosa fidanzata, Marcia, ma l’oscuro senso di colpa intrecciato con un senso del dovere spinto e l’incalzare delle domande sui disegni del Creatore, lo spinge a cercare affannosamente il «perché» e il «che cosa fare». Philip Roth, con un linguaggio cronachistico sempre lontano da lirismi (talvolta risulta piatto), descrive be-

libri

Philip Roth NEMESI Einaudi, 183 pagine, 19,00 euro

ne il clima del lutto e della paura. Se da un lato c’è l’esaltazione della vitalità di Alan e della sua esistenza che pare a tutti invidiabile proprio perché «sconfinata», dall’altro c’è lo smarrimento di una città intera assieme alle grida animalesche di madri e padri. Chi è il colpevole? Da inventare: quindi spuntano gli atroci pregiudizi che le democrazie occidentali stanno combattendo proprio in quel momento. Sono gli stessi ebrei vittime e untori? È colpa di un gruppo di bulli italiani che al campo sportivo sputano e si vantano di voler infettare la comunità? Rimangono minacciosamente in piedi, oscillanti come fantasmi neri, le domande sulla «coscienza di Dio». L’autore anticipa in un certo senso il quesito che molti si posero dopo Auschwitz: «Ma come può un ebreo pregare un dio che ha fatto scendere una maledizione come questa su un quartiere di migliaia e migliaia di ebrei?». Bucky ha il tormento di trovarsi dinanzi al «divino come ostile al nostro essere qui», si guarda attorno e dentro di sé e non sa come affrontare «un demonio onnipotente che può inventare la polio». Sfiora la bestemmia, s’avvicina al rifiuto di un disegno superiore, e nemmeno l’amore per Marcia, quando scoprirà d’essere lui stesso involontaria fonte di contagio, avrà la forza di indurlo a guardare con speranza e serenità al proprio futuro. Roth riprende il personaggio Bucky venticinque anni dopo. Un ex alunno (sopravvissuto) s’indigna, affettuosamente: «Non ho mai conosciuto nessuno che tragga il tuo stesso conforto dal castigarsi!». Tuttavia nel vederlo solo, storpio e col giavellotto in mano, agguerrito nella sfida tutta personale, muscolare e di coscienza, dirà: «Ci sembrava invincibile».

Jacques Guérin, un proustiano ante litteram acques Guérin è stato uno dei più importanti bibliofili e collezionisti del Novecento. Titolare di una fabbrica di profumi e amico del drammaturgo Jean Genet, Guérin venne alla ribalta della scena internazionale quando, negli anni Novanta, quasi centenario, decise di mettere all’asta la sua straordinaria collezione di edizioni originali e autografi.Tra i cimeli raccolti nell’arco di una vita figurava anche il manoscritto originale di Une Saison en Enfer di Arthur Rimbaud, considerato fino a quel momento irrimediabilmente perduto. Guérin era invece riuscito nella miracolosa impresa di scovarlo presso un antiquario londinese nel 1938 e di acquistarlo parecchi anni dopo, quando riuscì a raggranellare la somma sufficiente per il grande passo. «È stato nel 1950 che il prezioso manoscritto è entrato nella mia biblioteca: non si è più mosso di lì. Non ne ho parlato con nessuno, volevo essere l’unico a godermi quel capolavoro!» raccontava compiaciuto il collezionista qualche anno prima di morire. Oltre ai poeti simbolisti Guérin aveva una spiccata predilezione per le opere di Proust. Una serie rocambolesca di circostanze lo mise nella condizione di allesti-

J

di Pasquale Di Palmo re un’incredibile collezione di cimeli proustiani, comprendente manoscritti e lettere, prime edizioni e finanche oggetti appartenuti allo scrittore. Riuscì nell’intento di ricomporre, con i mobili originali, la stessa camera di Proust, compresa «la scialuppa», il letto in cui era stata composta gran parte della Recherche. Guérin riuscì perfino a mettere le mani sul cappotto appartenuto allo scrittore, diventato pressoché leggendario tanto da ispirare pagine di Cocteau e Morand. Queste e altre vicende sono ora raccontate, con dovizia di particolari curiosi, nel pregevole libro di Lorenza Foschini intitolato Il cappotto di Proust (Mondadori, 112 pagine, 17,00 euro) che riprende e amplia l’eponimo lavoro, uscito per i tipi di Portaparole nel 2008. La giornalista, che ha al suo attivo la traduzione di alcuni inediti proustiani pubblicati da Studio Tesi con il titolo Ritorno a Guermantes, ricostruisce le varie vicissitudini che portarono Guérin a formare la sua inimitabile collezione di rarità proustiane: dal casuale incontro nel 1929 con il chirurgo

Un’ossessione letteraria animata da un senso di missione, raccontata da Lorenza Foschini

Robert, fratello di Marcel, che sottopose il giovane Guérin a un intervento di appendicite, alla frequentazione con un rigattiere che, alla morte di Robert Proust, rilevò dalla vedova di quest’ultimo i mobili e altro materiale appartenuto a quello strano personaggio, sofferente d’asma, che trascorse gli ultimi anni dell’esistenza in una camera insonorizzata a cercare di fissare sulla pagina, con la precisione di un entomologo, i particolari di una memoria sfuggente. Jacques Guérin era ossessionato dalla figura di Proust (e non a caso il sottotitolo del libro è Storia di un’ossessione letteraria), tanto da far scrivere alla Foschini: «Quest’uomo così attaccato alle proprie “conquiste”, alle carte salvate con tanta tenacia, ai minuti oggetti accarezzati fino a sfiorare il feticismo, ai grandi personaggi sconosciuti, ma amati con un’ossessività a volte maniacale, per cui è arrivato a investigare e confondersi, come nel caso di Proust, tra i parenti e gli amici pur di carpire un ricordo, un frammento della vita dello scrittore, per più di mezzo secolo ha tenuto nascosti i suoi tesori». Guérin considerava infatti questa sua attività alla stregua di una missione, tanto che la Foschini asserisce che «il sentimento che lo muove non è quello del collezionista, è piuttosto quello del salvatore».


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poesia

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el vivo contrasto tra tensione anarchica e caduta delle certezze indotta dalla fine del Positivismo e il senso di un immanente disfacimento della società coeva, Giovanni Boine (Finale Marina 1887 - Porto Maurizio 1917), cercò rifugio nella letteratura, tra rime e prose, forse mai decidendo verso quale delle due sponde era più incline. Si è così ritrovato a fare i conti, tra desiderio di controllo del pensiero e veemenza allucinata, con l’angosciante densità del pensiero di Nietzsche, accettata in pieno, e la rassicurante schematicità crociana, rifiutata con altrettanta pienezza. E sono le filosofie neospiritualiste e quelle irrazionalistiche dei primi del Novecento ad attrarlo, forse perché le uniche in grado di soddisfare la sua ricerca di spiegazioni sulla contradditorietà dell’esistenza.

N

Gli azzardi di Boine, maestro in ombra di Francesco Napoli lombardi e vociani come Soffici e Papini partecipò in modo originale e personalissimo, talvolta contradditorio, al dibattito filosofico e letterario. Sin dal 1909 deve ritirarsi a Porto Maurizio, vicino Imperia, per i primi segni di quella tisi che lo condurrà alla morte. Dall’eremo di quel lembo estremo d’Italia, però non rinunciò a vivere intensamente, tra amori turbolenti e attività culturali significative, mostrando alla vigilia della prima guerra, come la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani dell’epoca, un fervente interventismo culminato nei Discorsi militari (1914) accesi e pieni di attese per un avvenire che non ci sarà. Ed è dal 1914, e per due anni, sulla Riviera ligure di Mario Novaro, che Boine tiene quella rubrica di recensioni, «Plausi e botte» che gli valse l’ammirazione di tanti e l’odio di altrettanti. Perché Boine non guardava in faccia nessuno, stroncava o esaltava senza partito preso e, allo stesso tempo, senza rispetto di gerarchie precostituite. I suoi Frantu-

mi appariranno postumi nel 1918 e proprio in queste pagine Boine dà sfogo pieno alla sua libertà inventiva e stilistica. Leggendoli ci si trova di fronte alle più coerenti applicazioni della poetica del poème en prose, non le prime prove in tal senso (aveva letto, ammirandoli, i Canti orfici di Campana), ma certo molto affini ai quasi coevi Trucioli di Sbarbaro seppur con una inusitata inclinazione al morale.

La generazione vociana, della quale Boine è pietra miliare, comprendente per lo più poeti e scrittori che si affacciano alla vita e alla letteratura nel primo decennio del Novecento, fu tormentata e inquieta, assillata da interrogativi pressanti, ribelle e innovatrice nel tentativo di creare nuovi linguaggi e stili quanto cosciente di una lacerazione epocale che esortava a una nuova moralità Sono frammenti, ma frammentaria è l’epoca in cui dell’atto poetico. Questi poeti, «maestri in ombra» secondo una felice definizione di Pasolini, da Rebora a Boine agisce; vi si riconosce appieno la statura della poeMichelstaedter, da Jahier a Sbarbaro e, perché no, a sia ivi presente e la loro intrinseca liricità. E Boine gioca Campana, hanno regalato alla nostra storia letteraria d’azzardo anche sul piano linguistico, con certe formule un lascito in parte ancora da mettere in luce. E tra quedalle forti tinte espressioniste, già rilevate da Contini, e sti Boine merita sicuramente un approfondimento critidalla forte energia stilistica, come quel «sgretolo-frana» co più attento di quanto fatto finora. «La statura di Boiletto nell’esemplare riprodotto. Tutta la sua opera, poi, ne - uno dei veri, pochi grandi del nostro Novecento, ognasce dal contrasto tra tensione anarchica, libertaria, e gi poco conosciuto forse perché così poco consumabile un’esigenza di organicità e ordine. Tra i vociani forse fu - deriva dall’asciutta forza, mocolui che sentì maggiormente la rale e poetica», ha dichiarato, caduta delle certezze che derivanon senza ragioni, Claudio Marono dalla fine del Positivismo e gris perché è proprio vero che ne dedusse una visione della vita AREZZA Giovanni Boine è stato uno depriva di valori e significati, con gli intellettuali più eminenti del un avvertito senso dell’imminengruppo dei vociani e tout court te disfacimento della società I ripugnevoli tempi che lo sgretolo-frana degli abbandoni, del nostro primo Novecento. contemporanea. La sua poesia m’ha giù inerte varato per l’immobile belletta del nero disgusto, Studiò a Milano dove ebbe copiù autentica la si ritrova sopratme compagni Clemente Rebora, tutto in alcuni frammenti di proche tanta parte ebbe nella sua sa descrittiva dove si vede lo spente onde, giungono a volte le lente sere della malinconia, formazione, e Antonio Banfi. sforzo nel cercare l’equilibrio tra che vado zitto per l’ombre e, tutto è scordato. Saggista e polemista di rango, il desiderio della lucidità, il conassai rimpianto da Montale sia trollo della ragione e la veemenper la sua capacità di lettura za delle allucinazioni. In questo Quasi in dolcezza, dentro si levano i radi gemiti («Era un critico d’oro nella rassenso Giovanni Boine può forse come il notturno canto del chiù. segna spicciola dei libri») che essere visto come il più nietzper la sua poetica («un poeta schiano degli scrittori italiani, che sapeva affascinare con certi perfino più del conclamato supeM’allacci allora senza parola, t’appoggi allora così lievemente, moti e certi sospiri di stanchezromista D’Annunzio, anche per che appena ti sento, appena… Vuoi dir che ci sei? za che sgorgavano dalle sue paquel suo deliberato allontanarsi gine tra linea e linea»), poetica dai rassicuranti schemi crociani. alla quale il grande Nobel pur Si accostò allora con interesse a Ma torno piano dalla lontananza, ma tocco piano il dolce viso, deve un tributo non solo e non quelle filosofie irrazionalistiche guardo i fedeli occhi che guardano me. tanto per i singoli prestiti, il che meglio gli apparivano in gra«meriggiare» è tutto di Boine. do di soddisfare la sua probleNegli anni così complessi e tumaticità critica ma anche di spieGiovanni Boine multuosi di inizi Novecento Boigare meglio la complessità di ne aderì dapprima alle posizioni un’esistenza trascorsa quasi (Da Frantumi) dei cattolici modernisti per poi sempre in lacerazione e in urto staccarsene in una polemica decol mondo intero: «gli uomini le cisa e proprio con i modernisti cose: ci urto come a spigoli».

C

il club di calliope

ADDIO A MICHELE, COL SUSSURRO DI UNA BREZZA in libreria

Il dono della luce per le strade che non riesco a sapere torna grato Grazie per questo giorno che ricuce e mitiga le posture di gronda e dà rilievo ai tetti e ai pochi rami, grazie per l’eleganza delle ore così chiare da cogliere serbare nella misura ambigua del loro transito Marco Vitale (Da Canone semplice, Jaca Book)

di Loretto Rafanelli

milio Coco sa che deve rendere la verità di una sofferenza e di una perdita, «di una preghiera che si rompe in pianto», per questo non usa artifizi od oscurità calcolate, ma batte il tasto della forma diretta, semplice, chiara. Perché si tratta di dire della morte del caro fratello Michele.Versi attraversati dall’amore e dal dolore che sgranano i caldi giorni di luglio e agosto 2008 nell’ospedale di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo e che egli fissa in Il dono della notte (Passigli), libro struggente, intenso, di rara emozione. È l’estremo atto di devozione e di affetto che Emilio Coco porge al fratello che lotta con il «dragone dalle fauci orrende», una lotta impa-

E

ri che non prevede vittorie. Egli, con gli occhi spalancati pronto a fare «un muro con i corpi», quasi una fisica resistenza per «ancora un altro giorno, un’altra notte,/ e formiamo tutti insieme una barriera/ per sbarrarle il passaggio». Una diga per salvare quell’uomo mite, per non perdere quella speciale, viva, intimità dei cuori. Per non disperdere quella coppia di poeti e di raffinati, noti, traduttori (Michele dei classici latini e greci, Emilio, il più grande ispanista, premiato dal re Juan Carlos I). E la dolcezza del ricordo e dell’amore ricorre in ogni verso, come quel soffio leggero della madre sui capelli di Michele, che pareva «il soave sussurro di una brezza».


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di Enrica Rosso obbiamo a Manuela Metri se Menopause, il musical è sbarcato in Italia l’8 marzo 2006. Jeanie Linders, la sua mamma americana, lo ha fatto nascere nel 2001 a Orlando, in un teatrino che non raggiungeva gli 80 posti e da lì, come un’onda, dopo aver girato per 42 città americane, è stato messo in scena in 7 Paesi del mondo. In Italia arriva con il patrocinio del Ministero della Salute e la collaborazione dell’Associazione Italiana Donne Medico. Nonostante la traduzione e l’adattamento della stessa Manuela Metri complici Antonella Laganà e Paola Tiziana Cruciani, l’operazione denuncia a chiare lettere la sua matrice americana. Per entrare nel vivo dell’argomento, prima dell’apertura del sipario, un grande televisore in proscenio ci rimanda una serie di interviste lampo a tema. Scopriamo così che: «Una donna in menopausa si trasforma come doctor Jekyll e mister Hyde»; «Il climaterio è la fase in cui la donna non può più procreare e arrivederci ragazzi»; «Gli estrogeni non si comprano» e amenità di questo tipo, e si sa, gli altrui strafalcioni ci fanno sentire migliori e ridere di gusto. L’effetto in sala è raggiunto, ma la trovata, a nostro avviso, è discutibile. A questo punto il pubblico è caldo e si può cominciare. Grandi magazzini, reparto lingerie, come dire l’eden di chi si contenta. Sul banco delle promozioni un pezzo unico: un irresistibile, scontatissimo, indifeso, reggiseno in pizzo nero; intorno a lui come erinni, quattro rappresentanti del gentil sesso over 40 pronte a tutto pur di accaparrarselo. Fioretta Mari, donna manager; Fiordaliso, attrice di soap, Emanuela Aureli, casalinga e la stessa Manuela Metri nel ruolo della figlia dei fiori. Così nasce la sfida ed è subito musical. Nulla più di questo. Si parte sulle note (eseguite dal vivo) della gettonatissima Fever night diventata ahimè Sveglia sarai con ritornello «suderai/ suderai/ suderai/ come un ele-

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Televisione

Musical Sulle note (scontate) della Menopausa MobyDICK

spettacoli DVD

LA FAVOLA TRISTE DELLE GEMELLE DEL MARE i chiamavano Michelangelo e Raffaello, e furono le ultime navi che negli anni Sessanta collegarono l’Italia all’America. Alle gemelle dei due mondi, le più grandi mai realizzate, era stato affidato il compito di trasbordare lo stile italiano sulla rotta per New York. Ma il jet DC 8 dell’Alitalia vantava già nel 1960 il record di otto re da Roma a Manhattan, e la vita dei due transatlantici declinò miseramente. Sulle tracce della Michelangelo e della Raffaello, misteriosamente scomparse, si è messo Giotto Barbieri nel bel documentario Mal de ma - Mal di mare, favola malinconica assai suggestiva.

S

PERSONAGGI

fante» (praticamente una iattura servita dalle protagoniste schierate in proscenio stile Village People con indice teso a indicare le signore presenti in sala), si prosegue citando la celeberrima La bamba che qui diventa, indovinate un po’ Ahi, la vampa e si continua con «Ho messo su grasso a più non posso perché un bignè è come un amplesso». Dulcis in fundo, il capitolo sul calo del desiderio sessuale con Only you mi dai di più, interpretata con microfono a gelato travestito da roseo vibratore. Le quattro protagoniste inarrestabili hanno carattere ed energia da vendere, recitano, cantano, accennano coreografie, ammiccano al pubblico - che le ricambia con affetto e calorosi applausi si scatenano, ma la struttura del testo rimane elementare e l’allestimento lascia a desiderare: scena fissa un po’ triste e

senza sorprese, luci tirate via, da varietà - con un uso smodato dell’occhio di bue - costumi così così, indicativi del personaggio, ma senza una reale scelta cromatica d’insieme, un po’ come se ognuna di loro avesse scelto cosa indossare lì per lì. In ultimo le interpreti invitano sul palco una nutrita rappresentanza di donne a dar vita a una festosa cordata, come dire «Mal comune mezzo gaudio». Alfine sciamiamo verso l’uscita, alcuni lamentano un’acustica distorta che non rende giustizia al talento delle interpreti. Nel foyer, ad attenderci distribuzione di ventagli cartonati con il logo di un rimedio per contrastare i disturbi della menopausa.

Menopause il musical, Roma,Teatro Ambra Jovinelli fino al 6 marzo, info: www.ambrajovinelli.org - tel. 06.83082620

QUEI CINQUE GIORNI IN COMPAGNIA DI LUCIO ell’ultima intervista concessa da Lucio Battisti, si è sempre parlato nelle numerose biografie a lui dedicate. Ma solo oggi Renato Marengo, il giornalista che penetrò nella cortina di silenzio creata dal cantautore nell’ultima fase della carriera, racconta quei cinque giorni del 1974 trascorsi con Lucio negli storici studi della Numero 1. Un incontro-scontro fertile e ricco di spunti e aneddoti, che l’autore rivive in Lucio Battisti - La vera storia dell’intervista esclusiva (Coniglio Editore, 174 pagine, 14,50 euro). Testimonianza preziosa.

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di Francesco Lo Dico

Spartacus: sangue, sabbia e effetto Hollywood iniziata su Sky 1 la serie Spartacus, dedicata al più famoso ribelle dell’antica Roma. Credo sia fatica sprecata spiegare a certi registi americani che i romani, così come i greci, combattevano in modo diverso dai samurai. L’effetto Hollywood non si ferma mai. Basti pensare al film Troy, dove Brad Pitt-Achille si muoveva come Bruce Lee, mischiando judo e thai-kondò. Il serial (13 episodi, girati in Nuova Zelanda) che riguarda lo schiavo della Tracia ha come sottotitolo Blood and Sand (sangue e sabbia). La casa di produzione è la tv via cavo Starz. Che sta già preparando la prossima tornata e ridurrà il peso della violenza e del sesso così da poterlo proporre in prima serata. Spartacus è interpretato dall’attore australiano Andy Whitfield. Un volto intenso, a volte anche troppo, anche se bisogna perdonarlo date le condizioni di schiavitù e di battaglia. Una

È

di Pier Mario Fasanotti vita d’inferno, senza dubbio. Come oggi sovente capita l’emozione è tutta a favore del ribelle e dei suoi seguaci. Roma antica è vista come un branco di imperialisti corrotti e rammolliti. Che i romani avessero fama di «sgozzatori del Mediterraneo» è pur vero, ma per svariate ragioni (compresa l’astuzia politica) rispettavano etnie diverse. Imperava la legge del civis romanus, ma s’in-

globavano tutte le culture. A patto che rispettassero lo jus. In Spartacus i romani sono descritti come tardo-imperialisti, quando invece in epoca repubblicana vigeva la sobrietà dei costumi. Lo Spartacus televisivo è arruolato nelle file degli ausiliari dopo un patto di alleanza. Un drappello di traci, al seguito delle legioni, ha il compito di arginare la pressione dei barbari, da Nord. Ma il legato Glabro, genero del potentissimo senatore Albinio - che nel serial si comporta, ahi ahi, come un imperatore - vuole un’affermazione personale e si spinge a Est per contrastare la potenza di Mitridate. I traci, i cui villaggi vengono bruciati dai nordici, si sentono traditi. Glabro, volto da upper class, appare come un arrogante e anche insicuro militarmente. Se Spartacus ha una compagna bruna, Glabro è sposato a una donna biondissima. Tanto per

rimarcare - poco importa quanto ci insegna la storia in fatto di etnie - la differenza tra i brutti-neri e i belli-biondi. Il sesso abbonda. Per entrambi. Addirittura la moglie del legato si presenta nell’accampamento della Tracia avvolta da una pelliccia. Gli dice maliziosa: «Il più bel regalo per te ora sono io». Sotto la pelliccia niente. Se l’amore e la passione per la coppia ribelle paiono autentici, il legame tra i due notabili romani è inficiato dai giochi di potere, dall’ambizione e da un clima che ricorda un po’troppo la cortigianeria bizantina. Ci chiediamo: se i romani erano davvero così, come mai riuscirono a creare un impero dalle dimensioni spaventose? Già, gli schiavi ribelli sono un po’ come i buoni dei film western, mentre i romani sono gli indiani vecchia maniera: predatori, cinici, traditori. Spartacus è insomma un cartone animato virato sull’alta definizione. Cieli e paesaggi poco credibili. Una volta si diceva «fondale di cartapesta». Poco è cambiato da allora se badiamo all’effetto scenico. Risultato: caricature.


Cinema

MobyDICK

26 febbraio 2011 • pagina 21

di Anselma Dell’Olio

eri è uscito un film fortissimo: 127 ore, sei candidature all’Oscar, tra cui quella per miglior attore per lo slurpissimo, ex-carciofo James Franco. Non avremmo scommesso un cent su un futuro di premi per il sosia di James Dean.Visto la prima volta in Tristano e Isotta, stentavo a credere che avesse vinto un Golden Globe per il biopic tv sul mito della Valle dell’Eden. L’ho catalogato come sexy e insipido. Errore. Era già buono come amante di Sean Penn in Milk, ma con Pineapple Express s’è scoperto un comico naturale e un attore vero. Anche chi conosce la storia di Aron Ralston (Franco), incluso l’apice shock, passerà 99 minuti incollati alla poltrona. È noto l’episodio terrificante dello scalatore, outdoorsman superbo, schiacciato da un masso e lontano da ogni soccorso, costretto ad amputarsi da solo l’avambraccio. Il film di Danny Boyle (Trainspotting, Il milionario) comprime in modo sublime le 127 ore dell’esperienza traumatica di un individualista al cubo; cinque giorni in trappola, senza cellulare e senza aver detto a nessuno i suoi programmi da escursionista fieramente autonomo. Parte su una mountain bike con gli attrezzi per scalare e discendere crepacci, caverne e alture nelle splendide distese selvagge di Bluejohn Canyon, nel parco nazionale di Canyonlands (Utah).

I

Tratto dal libro dell’ingegnere meccanico e sportivo (Between a Rock and a Hard Place, Atria Books, 2004), si temeva di non reggere un film con una sequenza tanto impensabile: al Toronto Film Festival c’erano stati un paio di svenimenti e un attacco epilettico. La sola idea di sorbirsi gore e splatter realmente accaduti (già soffro durante film horror di plateale fantasia) era proibitiva. Già uscito in America, sarebbe uscito in Italia tra non molto: fatto il segno della croce, entro in sala. L’eccezionale capacità narrativa del regista e la perfetta aderenza al ruolo di Franco incatenano subito al racconto. La fantastica riuscita del film si deve in primis a Ralston stesso: un fuoriclasse di gran carattere, completo, neo-rinascimentale per quanto lo possa essere un überamericano del Colorado. Il giovanotto unisce un’ottima laurea con lode alla rinomata Carnegie Mellon University, con prestazioni di livello nelle discipline sportive del campus. Franco, Boyle e i due direttori della fotografia ci fanno entrare immediatamente sotto la pelle di Aron. La preparazione tecnica, la gioia e la fiducia nella propria fisicità perfettamente allenata, la grazia naturale del protagonista, preparano il terreno psicologico e caratteriale. Prima di arrivare sul luogo dell’incidente e a «quel macigno che mi stava aspettando da tutta la vita», in una mattinata briosa e scintillante di sole, RalstonFranco corre spedito in mezzo allo scenografico paesaggio, spesso fuori pista, saltando crepe e dislivelli con gustosa disinvoltura sulla bicicletta fuoristrada. Persino quando ha una caduta tremenda, si rialza, massaggia brevemente il polso e risalta in sella con una grazia da gazzella. Sulla strada incontra due giovani escursioniste. Fa caldo, e dopo una breve chiacchierata, Aron le introduce a un tesoro nascosto del territorio che conosce palmo a palmo: una piscina natu-

127 ore

e 99 minuti à bout de souffle

rale di acqua cristallina nascosta, a cui si accede lasciandosi cadere tra due ravvicinate pareti di roccia verticali. È una scena stupenda. Si sente il brivido del lasciarsi cadere nel vuoto, lo spruzzo e l’impatto con l’acqua turchese, il freddo frizzante che ritempra i corpi sudati; è un inno alla gioia, allo spirito d’avventura e alla scoperta di un piacere inatteso, una celebrazione della giovinezza, della primavera della carne nel suo fulgore. Terminato il godurioso fuori programma, le due ragazze lo salutano, dopo aver invitato il loro benefattore a una festa. Mentre Ralston s’allontana spedito con i muscoli ancora più tonici dopo la nuotata,

Tiene inchiodati alla poltrona il film di Danny Boyle sulla scioccante avventura dello scalatore Aron Ralston efficacemente interpretato da James Franco. Che contenderà l’Oscar a Jeff Bridges, magnifico Grinta nel remake dei fratelli Coen. Da non perdere anche “Un gelido inverno”

Kristi (Kate Mara) dice a Megan (Amber Tamblyn): «Nella sua giornata, noi non figuriamo nemmeno». Senza preavviso, avviene il rotolamento in fondo al maledetto crepaccio lungo e stretto, la mano bloccata da un inamovibile masso fino all’avambraccio. L’ingegnere affronta la disgrazia con la calma e la logica di chi ha davanti una serie di sfide tecniche. Ha una borraccia d’acqua, corde, una videocamera che fa da diario e interlocutore, e un aggeggio multiuso di poco prezzo e mal affilato (il fido coltello svizzero era rimasto a casa). Le cinque giornate passano tra sogni e incubi, l’acqua che finisce ed è sostituita dalle urine, deliri e fantasticherie. Ha sete: un nubifragio possente manda torrenti d’acqua attraverso la gola che riempiono la boraccia; ma è solo un sogno. Gli tornano immagini dei suoi genitori, pentimenti per la sicumera, la hubris che lo ha fregato, costringendolo a usare tutte le doti naturali e acquisite di cui era fiero. Boyle e il suo co-sceneggiatore Simon Beaufoy (The Full Monty, Closer, Il milionario) hanno costruito un racconto articolato, à bout de souffle, senza un attimo di noia. La fisicità e l’umorismo congeniti del californiano Franco lo rendono credibile e sempre accattivante nei vari passaggi, come i pochi momenti nel giorno in cui la luce del sole lo riscalda in quella fessura, o l’immaginario talk-show nel quale è presentatore e ospite insieme. Ripassando gli errori che lo hanno portato lì, sopratutto quello di non aver detto a nessuno dove andava, arriva a una sintetica, asciutta, sdramatizzante conclusione da fumetto: «Oops». È un avvincente thriller, con solo alcune scene difficili da guardare ma dalle quali è impossibile staccare gli occhi. Dopo essersi liberato con caparbia e metodica determinazione, questo campione psicofisico, espressione dello spirito can-do americano (Thoreau ed Emerson sono i suoi mai menzionati numi tutelari) ha la forza di issarsi in superficie, calarsi con la corda per circa venti metri per tornare in piano, e poi camminare per dodici chilometri finché non trova aiuto, il braccio tagliato sotto il gomito avvolto in uno straccio. Oggi è sposato con un figlio, lavora e continua le sue temerarie avventure, attento a dire dove andrà. All’epoca della prova, Ralston aveva 27 anni. Da non perdere.

Ci sono altri due film da non perdere, ora che sono finite le secche invernali. Il Grinta dei fratelli Coen (10 nomination) è il remake del film che ha dato l’Oscar a John Wayne. È assai più bello del primo, e più fedele al postmoderno romanzo western di Charles Portis (1968). Mattie Ross (Hailee Steinfeld) ha 14 anni ed è decisa a vendicare il padre, assassinato dal balordo Chaney (Josh Brolin). Assolda lo sceriffo grintoso Rooster Cogburn (Jeff Bridges) al quale si aggiunge un ranger texano, cacciatore di taglie (un sempre più stupefacente Matt Damon). Un gelido inverno (4 nomination) di Debra Granik ha un’altra teenager protagonista (la splendida Jennifer Lawrence). Ree Dolly si trova capofamiglia senza soldi a 17 anni: ha una madre catatonica e due fratelli minorenni a cui badare e insegnare la sopravvivenza. Il padre, arrestato per droga, ha impegnato la casa per pagare la cauzione ed è sparito. Ree deve trovarlo, vivo o morto, o finiscono tutti sul lastrico; significa trasgredire rigide regole tribali che governano la ruvida, antica comunità montanara degli Ozarks. Eccezionale.


Camera con vista

pagina 22 • 26 febbraio 2011

i sono libri che sostano sul mio comodino più a lungo degli altri, per motivi vari. In genere sono libri di amici, e questo vuol dire che sono portatori di senso di colpa. Perché potrebbero non piacermi e allora mi sentirei in imbarazzo a dire la verità, ma anche a non dirla. Così traccheggio e ne rimando la lettura cacciandomi ogni giorno di più nei pasticci, perché intanto la pila aumenta e divento di giorno in giorno più manchevole e colpevole di lesa amicizia. Capita anche che mi metta a leggerli tutti insieme, nel senso: qualche pagina di ognuno un po’per sera per non far torto a nessuno e portarli avanti in gruppo. Ma non è una tecnica indovinata. Accade infatti che un libro s’imponga su tutti gli altri e chieda la precedenza distruggendo i buoni propositi di non far torto a nessuno.

MobyDICK

ai confini della realtà

C

Mi è successo con Ritratto in bianco e nero (erreciedizioni) di Leone Piccioni, che ho trascurato a lungo, direi per eccesso di stima. Perché credevo, a torto, di aver letto abbastanza dell’autore da non esserne più sorpresa, perché alcuni suoi precedenti saggi mi avevano avvicinato, con eleganza d’altri tempi e un delicato autobiografismo, a autori italiani da me piuttosto trascurati, Fogazzaro, Cardarelli, ma persino Gadda, per non parlare di Soffici e Papini. Questo Ritratto invece, che è in realtà un autoritratto costruito con materiali eterogenei («pagine legate - dice il curatore Santino G. Bonsera - a momenti ed esperienze diverse dello scrittore: viaggi negli Usa con note di jazz e con il lungo studio sulla figura contraddittoria di Malcolm X…, i viaggi in Brasile e nella musica brasiliana; e, ancora, pagine di confessioni….»), mi ha catturata per la giovinezza della voce. E non perché si tratti di un’antologia di scritti che risalgono anche agli anni Cinquanta e Sessanta, quando Piccioni, nato nel ’25, era davvero un ragazzo o poco più, ma perché giovane è lo sguardo che conserva tuttora e che non era lo sguardo di un comune giovane di allora. Poco somiglia la mia cultura (soprattutto musicale) alla sua, non sono per esempio cultrice di jazz come è lui, e il suo Brasile non è simile alla mia India, per citare due Paesi esotici cari alle nostre differenti sensibilità, ma nemmeno i suoi States sono attraversati da lui con gli umori della mia generazione ribelle. Eppure, quando dice dell’arrivo a New Orleans - «la discesa all’aeroporto pareva l’incontro con una stanza termale, piena di vapori umidi» - le esperienze si saldano e mi sento avvolta dallo stesso calore sulla pelle che mi accoglie a Delhi o a Bombay tutte le volte. E non parla forse di me, di com’ero anch’io

New Orleans alias Bombay di Sandra Petrignani alla fine degli anni Sessanta quando descrive le «figlie dei fiori»? «Un poco allucinate, un poco sorridenti, irresponsabili, anche, ma drammatiche e vive, e insieme impastate di saggezza che le invecchia, di follia che le rinnova»? C’è giovinezza nei due momenti del libro in cui ricorda suo padre, come in un congedo ancora adolescente o quando descrive, con gli occhi del grande amico Ungaretti la mimosa: «caro annuncio d’inquietanti primavere». Un altro caso per cui il libro di un amico sosta a lungo sul mio comodino è l’incomprensione. Mi è successo con L’angelo ri-

che cambia in continuazione vita e destino, e ora fa il mantenuto a Parigi, ora s’imbarca, cuoco raffinato, sulle navi da crociera per sbarcare a LasVegas dove si sperimenta «una festa senza fine» e poi torna nella sua Bergamo e ricomincia da capo, e ogni volta ha fortuna, ma non gli basta, spinto da una febbre di cambiamento, da un’inquietudine da capogiro sostenute dalla scrittura affrettata, sincopata, velocissima. Una girandola d’incontri, di donne, di esperienze in cui la superficialità del protagonista mi sembrava riverberarsi sulle pagine fino agli incontri decisivi capaci di

Viaggio letterario in compagnia di amici: negli States e in Brasile con Leone Piccioni, all’inseguimento del volubile protagonista del romanzo di Angelo Roma e immergendosi nel mirabolante gioco similpoliziesco immaginato da Franco Mimmi nel suo “Corso di lettura creativa” belle (Tropea) di Angelo Roma, di cui avevo amato i precedenti Il meticcio (PeQuod) e Le confessioni di un egoista (Tropea). Ho faticato a entrare nella storia del protagonista Gabriele Borsoni

fermarlo ormai anziano, ma sempre irredento: un ragazzo down, unica creatura capace di felicità, e una figlia piovuta dall’incoscienza del passato.Troppo bella quella figlia modella, troppo scontata,

mi aveva irritato. Ho dovuto leggere e rileggere per capire la coerenza del racconto, la sua disperazione, la sua ragionevolezza. E anche la generosità a mettersi in gioco, a provare nuove strade letterarie, dell’autore, questo Angelo Roma, che in realtà non è proprio un amico, ma un mio lettore con cui ho scambi epistolari, nato a Brindisi nel ‘69, ma radicato al nord, a Bergamo appunto, e che non ho mai incontrato di persona, ma ho imparato a stimare da quel che scrive e dalla passione che mette in tutto quello che fa.

Se poi l’amico è veramente tale, e si dà il caso che abiti in un’altra città, un altro Paese addirittura, come succede a Franco Mimmi, bolognese che ora sta in Spagna, ma è vissuto molti anni in Brasile, ex giornalista, autore di molti romanzi sofisticati fin dal ’79 (Premio Scanno Opera prima con Rivoluzione), il suo libro resterà sul comodino lungamente perché è un modo per tenere la persona lontana vicino e perché, devo dirlo subito, il suo nuovo romanzo, Corso di lettura creativa (lampi di stampa) che è appena uscito, io l’ho letto in anteprima già da qualche mese e ne sono assolutamente entusiasta. Anzi mi sento indignata che l’editoria italiana non riservi un posto migliore a un autore tanto vario, intelligente, spiritoso come lui, che da anni si contenta dell’editoria in rete. Ma veniamo al libro, così lo cercate tutti quanti su Internet e lo acquistate per 12 euro e gli decretate il successo che merita. Come s’intuisce dal titolo, il suo Corso di lettura creativa è una parodia dei tanti corsi di scrittura che fioriscono un po’ ovunque ai nostri giorni su modello americano. Ma qui s’insegna a leggere, e a leggere un ipotetico romanzo, analizzato minuziosamente, di tal Giorgio (o forse Giorgina, il sesso è incerto) Ulivò, autore/autrice di un fondamentale Entropia. E così, questo mirabolante gioco letterario, che ricorda i salti mortali di Nabokov e gli incastri vertiginosi di Perec, si snoda allegramente in una ricerca che ha del poliziesco sulle tracce della letteratura, seminata di insegnamenti, riflessioni, sciarade, connessioni, in una specie di processo dove sono chiamati a testimoni numerosissimi altri scrittori in un fuoco di fila di citazioni memorabili e insegnamenti da segnarsi sul taccuino, fino alla domanda, drastica, commovente e conclusiva, che ogni autore pone ai suoi lettori: «Sarete capaci di capirmi?».


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