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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“Invictus” di Clint Eastwood
IL RUGBY DEL PERDONO di Anselma Dell’Olio uò il rugby guarire le ferite di una nazione? Questa è la domanda che un uomo perseguitato sia riuscito a evolvere politicamente e spiritualmente Non si pone l’ultimo film di Clint Eastwood. Invictus racconta i passi durante quasi tre decenni di carcere duro. Pur riconoscendo la difficoltà di realizzare un film biografico (è raro iniziali di Nelson Mandela come primo presidente nero del si può non che facciano centro al botteghino e con i critici) c’è qualcosa di Sud Africa. La poesia omonima di W.E. Henley parla del ammirare la figura pigro nel film, che elide la vita privata dell’eroe. Nessun modo di affrontare spiritualmente le avversità, in particodi Nelson Mandela, impersonato personaggio è approfondito, nemmeno il protagonista. lare l’ultima strofa: «Sono padrone del mio destino, In gioco è la psiche collettiva della nazione africasono capitano della mia anima». I neri odiavano da Morgan Freeman nel nuovo film na. Mandela resta una figura distante, iconiil rugby, identificato con le ingiustizie del redel superosannato regista-attore americano. ca, sorridente, saggio, gran lavoratore, dedito gime di apartheid. La storia di Mandela preMa attenzione a non considerare al bene, alla pacificazione e al superamento degli senta pericoli non del tutto evitati da Invictus. Eaodi atavici tra le razze.Tra i tanti copioni su Mandela che stwood è talmente carico di onori, ormai canonizzato un’opera mediocre, hanno fatto il giro degli studios, però, questo è l’unico a essecome un Grande Cineasta, che la sua ultima, modesta opera con qualche luce, un re stato realizzato. rischia di essere scambiata per un capolavoro. Tratta dal libro di John Carlin, Playing The Enemy, e limitandosi a raccontare un breve capolavoro continua a pagina 2 episodio dell’epopea di un santo laico vivente, la storia aiuta a capire come
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9 771827 881301
00227
ISSN 1827-8817
Parola chiave Emergenza di Gennaro Malgieri Avallone: un esordio da caso letterario di Maria Pia Ammirati
NELLE PAGINE DI POESIA
Victor Hugo, le sperimentazioni del “poeta sovrano” di Francesco Napoli
Lucia, Mariù e i sogni da mille lire di Orio Caldiron Il romanzo inedito di Goliarda Sapienza di Pier Mario Fasanotti
Il Nove100 degli equivoci di Marco Vallora
il rugby del
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segue dalla prima
E quando il padre risponde con garbo che lui non ne ha il diritto, perché l’oggetto non gli appartiene, la figlia è lapidaria: «Se l’ha lasciato qui, è segno che non ne voleva più sapere». Non si fa mai il nome di Winnie, chiacchierata dirigente dell’African National Congress, il partito di Mandela; sembra un dialogo in codice per i ben informati.
Il rugby era talmente inviso ai neri, che durante le partite internazionali tifavano per gli avversari del proprio paese. È definito «uno sport per hooligans giocato da gentlemen», mentre il calcio, prediletto dalla gente di colore, è «uno sport per gentlemen giocato da hooligans». Il film è lastricato di battute gustose, come buoni canditi in un dessert mediocre. Nel 1995, quattro anni dopo il rilascio di Mandela e all’inizio della sua presidenza, il paese è diviso tra bianchi che temono che un nero possa portare il paese alla distruzione, e i neri che hanno una comprensibile voglia di rivalsa. In carcere Mandela aveva studiato bene i suoi carcerieri: il rugby era parte integrante della loro identità. Si batte con i suoi per impedire che siano cambiati i colori della nazionale e il logo (una gazzella chiamata Springbok, come la squadra) e fa un discorso edificante in cui dice che il perdono libera l’anima. Poi Mandiba (così i neri chiamano Mandela) porta dalla sua François Pienaar, il capitano della nazionale, che sta passando una brutta stagione di pessimi risultati. Si sa da subito come andrà a finire, quando si giocheranno i mondiali di rugby su territorio nazionale. Morgan Freeman era l’inevitabile scelta per il ruolo del Nobile Indigeno. (Sui manifesti, però, campeggia in primo piano la facciotta di Pienaar - Matt Damon - con Mandela-Freeman dietro di lui in campo lungo, per attirare più giovani al film.) L’eroe convince Pienaar ad aiutarlo a rendere il rugby e la nazionale, con un solo giocatore nero, qualcosa che appassioni tutti gli afrikaner, per esempio andando con i giocatori nelle townships nere a insegnare lo sport ai bambini più poveri.
Ci sono brevi accenni alla vita privata dei protagonisti. Vediamo Pienaar con i genitori e la fidanzata bianca, mentre la governante nera Eunice (Sibongile Nojila) guarda sorniona dal suo tavolo da stiro quando lui compare in una tv anti-apartheid. Mandela è visto spesso con la segretaria Brenda (Adjoa Andoh) e il film dà delle gomitate per convincerci del suo debole per la femminilità. Nota che Brenda ha cambiato pettinatura e la riempie di complimenti; poi chiede del suo abito nuovo che trova assai donante, senza nemmeno preludere alla nascita di un rapporto intimo; né ci sono accenni alla terza moglie, che sposerà a ottant’anni poco tempo dopo, nel 1998. Infatti Graça (Grace) Machel, vedova del presidente del Mozambico, morto in un incidente aereo nei cieli sopra il Sud Africa nel 1984, l’unica donna al mondo ad aver sposato due capi di Stato, è assente dal film. Sarebbe stato interessante sapere qualcosa di più di un’attivista non banale, che ha detto del nuovo marito: «Mandela è un simbolo, non un santo. Ha le sue debolezze». Ma, forse perché è un’opera aggressivamente nobile, Invictus preferisce ignorare la dimensione meramente umana del protagonista. Forse lo sceneggiatore, Anthony Peckham, o Eastwood stesso, inserendo l’attenzione alla cura femminile di Brenda, volevano rendere l’Uomo Solo he descrivono un pochino meno eunuco messianico di quanto compare nel film agiografico. È vero che si tratta di persone ancora viventi e magari gelose della loro privacy, ma la tormentata storia di Mandela con la seconda moglie, Winnie Madikizela, è stata rimossa. C’è solo un criptico accenno alla sua esistenza; una delle figlie (Winnie e Nelson si sposarono nel 1958, e hanno due figlie, Zenani e Zindzi) compare brevemente. Ha l’aria di essere sempre arrabbiata, ma non è dato sapere perché. Nella prima scena in cui li vediamo insieme, Mandela le mostra un braccialetto che «la mamma» aveva dimenticato, e le chiede di renderlo alla madre. La giovane risponde con tono villano: «Buttalo nella spazzatura».
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni
perdono
INVICTUS GENERE DRAMMATICO DURATA 134 MINUTI PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE WARNER BROS. PICTURES ITALIA
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
REGIA CLINT EASTWOOD
INTERPRETI MORGAN FREEMAN, MATT DAMON, TONY KGOROGE, PATRICK MOFOKENG, MATT STERN
La coppia era ancora sposata quando Mandela è diventato il capo della nazione ma Winnie non è mai stata First Lady. Due anni prima si erano separati, in seguito alla rivelazione d’indiscrezioni sessuali commesse da Winnie dopo la liberazione del marito. Si può capire che la disinvolta e spregiudicata ex moglie, con molte ombre sulle sue attività durante la prigionia del marito, presentava troppi nodi angoscianti in un film che vuole elevare le anime. Le macchie nere sulla carriera dell’intraprendente ex consorte hanno bisogno di una disamina ben più complicata e spinosa di quella che si è prefissata Invictus. Ignorandola il film non la oscura affatto, anzi: è come l’elefante nella stanza che tutti fingono di non vedere. Invictus ha già raccolto una candidatura come miglior film, una sciocchezza politicamente corretta dei Golden Globes, decisa dai circa novanta soci della stampa estera a Los Angeles. Non ha vinto, per fortuna, e i più qualificati e numerosi membri degli Academy Awards non si sono fatti ingannare troppo. Era scontata la candidatura di Freeman-Mandela, alla sua quinta nomination all’Oscar, questa volta come attore protagonista dopo Million Dollar Baby, l’unico vinto nel 2005 come attore non protagonista (le altre candidature erano per The Shawshank Rebellion, 1995, A spasso con Daisy, 1990 e Street Smart, 1988). È molto meno scontata, anzi è francamente incomprensibile la candidatura a miglior attore non protagonista di Matt Damon. Il suo ruolo è limitato a grugniti sul campo di gioco, costernazione per la nazionale perdente, e sconfinata ammirazione per il carismatico leader nero. È un bravo attore, Damon, come chiunque abbia visto The Informant di Steven Soderbergh può testimoniare. Forse l’hanno candidato per aver buttato giù la ventina di chili flaccidi che aveva preso per quel film, per i muscoli tonici che ha acquisito per questo, e per il suo borbottare in un accento afrikaner (nella versione originale) che pare sia corretto ma che è difficile da decifrare anche per i toni bassi da Actor’s Studio. Se si pensa che c’è un candidato allo stesso premio del calibro di Christoph Walz, l’indimenticabile nazista di Bastardi senza gloria, si può solo scuotere la testa, disarmati. Gli esperti dicono che le scene dell’ultima partita contro la fortissima squadra della Nuova Zelanda sono girate correttamente. Le immagini elaborate al computer che riempiono lo stadio di tifosi virtuali sono convincenti. Chi non sa nulla delle regole del rugby non ne ricaverà granché. Il finale della coppa del mondo è il culmine del film e quei venti minuti servono a illustrare il riavvicinamento delle diffidenti guardie del corpo nere con quelle bianche, che Mandela aveva insistito restassero dopo la sua elezione, con iniziale smarrimento e disapprovazione da parte dei bodyguard neri. Sono edificanti e illustrative le scene ricorrenti fuori dallo stadio, che mostrano un ragazzino nero prima lontano e poi in avvicinamento lento, pochi passi alla volta, all’auto di poliziotti bianchi che ascoltano la partita alla radio; quando arriva il goal finale ai tempi supplementari, esultano insieme come vecchi amici, come le guardie del corpo dentro lo stadio: un festeggiamento arcobaleno, finalmente. La delusione per un film dalla fotografia sbiadita, dai contenuti politicamente stracorretti e dalla sceneggiatura un po’ pigra, è superata dalla soddisfazione per un happy end che non può che rallegrarci e un personaggio che è impossibile non ammirare.
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MobyDICK
parola chiave
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EMERGENZA i si danna l’anima attorno all’ultima parola che ha arricchito il lessico politico: emergenza. Se provate a cercarne il significato su un qualunque dizionario della lingua italiana vi renderete conto che non ha niente a che fare con quello che oggi le si conferisce nelle discussioni, negli articoli giornalistici, nei dibattiti parlamentari e perfino nell’accezione comune. Essa qualifica ormai tutto ciò che fuoriesce dall’ordinario e che pure con metodi e sistemi ordinari potrebbe e dovrebbe essere affrontato. Emergenza sanità, emergenza scuola, emergenza criminalità, emergenza trasporti, emergenza ambientale, emergenza sociale, emergenza climatica, emergenza familiare, emergenza morale e così all’infinito. L’emergenza, insomma, non definisce più l’eccezionalità, ma la normalità, dal momento che pure la normalità non può che essere incasellata nella categoria dell’emergenza per il solo fatto di essere eccentrica rispetto a tutto il resto.
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Se un ragazzo frequenta la scuola con profitto, se un artigiano fa bene il proprio lavoro, se un medico cura con scrupolo un paziente siamo nell’ambito dell’emergenza, proprio perché «emerge» da casi ordinari la «anormalità» che, paradossalmente, non dovrebbe destare, in una società minimamente sana, «scandalo». La nostra, purtroppo, è una società molto malata, dunque in emergenza. E questa «qualità» segna l’impotenza della politica, dell’amministrazione pubblica, delle istituzioni più varie a occuparsi di ciò che è banalmente semplice, lineare. Di converso, quando ci si trova di fronte a ciò che ha oggettivamente tutti i caratteri della originalità, gravi o irrisolvibili, catastrofici o estremamente pericolosi, rischiosi o mortali l’emergenza non fa più effetto e tutto, di conseguenza, viene trattato e visto come ordinario. Ma c’è un altro motivo che fa rientrare ogni accadimento nell’ambito dell’emergenzialità: l’incapacità da parte dei pubblici poteri a risolvere alcunché attraverso le procedure previste dalle leggi e dai regolamenti. Dunque, dalla frana all’interruzione di un servizio pubblico, dalla evasione scolastica a quella del canone televisivo, dall’invasione della monnezza all’aggressività dei cani che azzannano gli sprovveduti nulla può essere affrontato senza saltare sull’emergenza e pretendere il varo di norme speciali, l’adozione di poteri straordinari, l’indizione di mobilitazioni elefantiache. Per non dire che se tutto questo rientra nella nuova fattispecie (la quale, non dimentichiamolo, assume talvolta connotazioni addirittura «morali»), a maggior ragione vi rientra un’opera dalle dimensioni colossali, oppure l’organizzazione di un evento mirabolante, ma anche un pellegrinaggio che vede coinvolti milioni di fedeli. L’emergenza, s’è capito, è molto di più del senso che ha assunto: è una vera e propria Wel-
È un termine che nella nostra società malata ormai qualifica tutto ciò che potrebbe essere affrontato con metodi e sistemi ordinari: dalla sanità alla scuola, dalla criminalità ai trasporti, dal clima all’ambiente, alla famiglia... È la normalità a destare scandalo
Ma la politica dove è finita? Dalla terra incognita non si scorge più neppure la sua ombra. Ci spiegano che è l’emergenza stessa ad averla assorbita. A che servivano, dopotutto, quei noiosi dibattiti parlamentari, quelle interrogazioni ai ministri, quelle ritualità desuete come cortei, comizi, dibattiti televisivi quando c’è bell’e pronta una scodellata di tecnocrazia capace di risolvere i bisogni di tutti, di placare le ansie collettive, di dare risposte fasulle a chi perde case, averi e fiducia nello Stato. Anche questo un’anticaglia che l’emergenza ha spazzato via. Del resto che ce ne facciamo di un ferrovecchio del genere: amministrare la giustizia, praticare un po’di politica internazionale, gestire ricorse economiche? Ma sono tutte emergenze, non lo avete (non lo abbiamo) ancora capito? Tecnocrazia, burocratismo, affarismo: una triade venerabile sulle cui gambe l’emergenza divora la società. E poco male se in questo cantuccio, riparato dalle tre membra È l’unica visione della nuova statualità (se così si può dire senza offendere del mondo possibile un’antica tradizione), s’è fatto in un tempo un nido caldo la nuova corrudove la sacralità zione, non quella esposta alle tempeste, ma la morbida, eledella convenienza gante, ammiccante corruzione è indiscutibile. che non si può più neppure E i depositari chiamare così, bensì efficientismo democratico, o, se preferidella religione te, decisionismo oligarchico al emergenziale riparo da indiscreti occhi e anofficiano cor più volgari orecchie.
La resa della politica di Gennaro Malgieri
il rito supremo della Paura sentenziando sempre e comunque che la situazione è gravissima. E dimenticano che il vero problema è morale tanschauung, la sola possibile di questi tempi dove la sacralità dell’utile, della convenienza, dell’interesse è diventata totale, indiscutibile, non trattabile, proprio come le visioni del mondo di una volta. Nel Walhalla dell’emergenza volano ombre di indecifrabili creature, difficilmente definibili politiche, ancor più arditamente accostabili agli affaristi di un tempo. Ibridazioni tecnologiche, forse, frutti di incroci sprezzanti della natura che, manco a dirlo, vogliono sottomettere, nel nome dell’emergenza naturalmente. Li si incrocia, questi mostri dalla faccia d’angelo, e li si riconosce depositari della religione emergenziale, non perché indossano una divisa, ma per l’aspetto viscido e lo sguardo corrucciato: aprono bocca soltanto per dire che la situazione è sempre comunque e inevitabilmente gravissima. Ma cosa fanno i tecnici, i ministri, i geometri, gli spazzini, i cardiochirurghi? Forse qualcosa di tutto questo o niente di tutto questo. Importante è che minino la fiducia della gente, la scarnifichino, la devastino, la lacerino. Officiano il rito supremo della Paura e su soffici poltrone televisive cele-
brano la loro gloria davanti a noi, poveruomini e poveredonne in preda al panico. Il pontificale laico dei sacerdoti di questo Walhalla tutto italiano finisce sempre con l’invocazione del sacrificio collettivo. Indispensabile. Civile. Generoso. E se qualcuno osa insinuare dubbi sulla bontà dell’operazione emergenza? Un untore, al quale il servo di turno che porge armonioso e ammiccante il microfono come un turibolo riserva lo scherno di cui è capace, come qualsiasi cameriere infedele. Non tutti, per fortuna, ci stanno. Qualcuno, rintanato in terre incognite, ha ancora la forza di ridere amaro quando sente parlare dell’emergenza puttane, dell’emergenza transessuali, dell’emergenza cocaina perché non fatica a immaginare che materie di questa natura e molte altre affini debbano essere trattate secondo le modalità correnti allertando cittadini e forze dell’ordine, militari e mass media, intellettuali e mazzieri (altrimenti dette ronde). Agli ordini, naturalmente, di capi supremi che vanno a puttane, mantengono i trans, pippano coca e fanno leggi, regolamenti e statuti per assicurare la serenità a tutti.
Avete capito benissimo, anche se come me ci siete arrivati piuttosto tardi. La sola, grande emergenza che possiamo e dobbiamo riconoscere, non riconducibile a nessuna forza politica specifica (sarebbe limitativo), ma alla putrefazione dello spirito pubblico, è l’emergenza morale. Di fronte a essa siamo tutti impotenti. Qui, in questa terra incognita, da dove osservo i movimenti sussultori di anime ingrigite dalla fuliggine del conformismo, avverto la necessità di una rivolta morale. Ma ci vorrebbe un Dio a guidarla. E dove lo troviamo di questi tempi quando anche la religione è diventata un’emergenza? No, toglieteci gli intellettuali vili e prezzolati, relegate in un pozzo nero i moralisti a borderò, seppellite sotto le le loro inutili cattedre gli accademici che non sanno articolare un brandello di pensiero. E ridateci i santi che sul carro dell’emergenza non hanno mai voluto salire. I santi e gli iconoclasti nemici della democrazia giacobina, quella officiata soltanto dai malnati demagoghi. Forse le preghiere degli uni e le violente, beffarde, blasfeme invettive degli altri attizzeranno l’esercito degli apologeti dell’emergenza facendolo venir fuori dalla sua confortevole tana, in modo che il popolo li guardi in faccia e li riconosca per quello che sono: piccoli voraci famelici prodotti partoriti da una politica senz’anima, della cui emergenza non si parla nei salotti dove non entra il fango dei disperati e nei bordelli in cui si pontifica d’una Italia che non c’è.
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cd
nni Settanta, soprattutto. Il Belpaese davanti alla cinepresa. Rapine a mano armata, sequestri, estorsioni e criminalità organizzata si trasformano in pellicole dove Milano, Roma, Napoli e Torino sono città sotto assedio schiaffeggiate da un’anarchia da Far West. Nasce il «poliziottesco», sottogenere del poliziesco e del noir che mette in scena commissari coatti e poliziotti un po’ razzisti, marchiati più dal senso dell’onore che della legge. Copie carbone dei banditi che vengono chiamati a spazzar via. Franco Nero, Marcel Bozzuffi, Luc Merenda, Franco Gasparri,Tomas Milian, Maurizio Merli e Fabio Testi sono gli antieroi della revolverata a pioggia, della sgommata sull’asfalto fradicio, della scazzottata allo stato brado. Le icone machiste dei film di serie B (oggi cult), hanno facce cicatrizzate e gesti adrenalinici: da ispettori Callaghan all’amatriciana.
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musica Calibro 35… MobyDICK
quelli che amano il poliziesco all’italiana di Stefano Bianchi Nell’Italia degli anni di piombo, le storie di piombo girate in un pugno di settimane vengono griffate dalle efficacissime colonne sonore di Ennio Morricone, Stelvio Cipriani, Franco Micalizzi, Luis Bacalov, Detto Mariano, Vince Tempera, Piero Umiliani, Guido e Maurizio De Angelis, Gianni
in libreria
Ferrio, Ritz Ortolani. Sono musiche sul filo del rasoio che rielaborano con enfasi jazz e grinta funk ciò che sonoramente va di moda: tema di Shaft di Isaac Hayes, in pole position. Quarant’anni dopo c’è chi è talmente devoto ai poliziotteschi, da essersi cucito addosso un nome ad hoc: Calibro 35. Enrico Gabrielli (fiati e tastiere, già collaboratore di Afterhours e Vinicio Capossela), il chitarrista Massimo Martellotta (Stewart Copeland, Eugenio Finardi), il batterista e percussionista Fabio Rondanini (Niccolò Fabi, Collettivo Angelo Mai), il bassista Luca Cavina (Beatrice Antolini, Transgender) e il produttore nonché deus ex machina Tommaso Colliva, nel 2008 pubblicano Calibro 35 rivisitando con talento improvvisativo e strumenti rigorosamente vintage certi memorabili pezzi da novanta: da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Morricone) a Sum-
mondo
mertime Killer (Bacalov), passando per L’appuntamento che viene ricantato da Roberto Dell’Era degli Afterhours anziché da Ornella Vanoni. Applausi. Non solo in Italia, ma da una costa all’altra d’America dove il gruppo viene chiamato a esibirsi dal vivo. Il bis, adesso, s’intitola Ritornano quelli di... Calibro 35, è stato inciso a Milano negli studi Omnia B e alle Officine Meccaniche, sfoggia una copertina realizzata da Giovanni Nistri (illustratore delle locandine dei film di Fellini, Scola, Kurosawa, Kubrick, De Sica, Petri, Antonioni, Rosi) e «spara» la bellezza di tredici pezzi. Accanto alle cover (strizzate, scarnificate) di La morte accarezza a mezzanotte (Ferrio), Milano odia: la polizia non può sparare (Morricone), Cinque bambole per la luna d’agosto (Umiliani) e Il Consigliori (Ortolani), ecco il thrilling di temi originali scritti in perfetto «poliziottesco style»: dal bollente funk di Eurocrime!, all’irresistibile vena beat & psichedelica di L’esecutore; dallo shake più danzante (Convergere in Giambellino), alle atmosfere progressive che scandiscono Il ritorno della banda Parte 1 e 2; dal funky nudo e crudo (Piombo in bocca), alle scorciatoie lounge di Gentil sesso e brutali delitti, fino all’apoteosi finale di fiati (Si dicono tante cose). Procuratevelo al più presto, questo piccolo capolavoro. Prima che Er Monnezza ve lo rubi. Calibro 35, Ritornano quelli di…Calibro 35, Ghost Records/Venus, 13,00 euro
riviste
TUTTO SUI POOH, BEATLES DELLO STIVALE
BIZKIT, LA RE-UNIONE FA LA FORZA
«M
ilioni di parole lascio dietro di me, milioni di perché. Affascinata e stanca la mia anima va verso la libertà. E se per caso a voi giungesse ancora la voce mia direte questo a lei: “un uomo è vento quando vola”», cantava Facchinetti nell’Anno, il posto, l’ora. E di vento ne è passato, da quel 1973 che con Parsifal consacrò la carriera dei Pooh. Una brezza che ha attraver-
I
l tiramolla era stato estenuante e le smentite del caso, a proposito dei Bizkit, erano valse il classico adagio che negare significa dare una notizia due volte. E così, dopo il ritorno di Borland tra i compagni di avventura nel nu metal, ora c’è la conferma. I Limp Bizkit torneranno a giugno con un album nuovo di zecca. «Sarà il nostro lavoro che creerà maggiore dipendenza», aveva
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Quarant’anni di musica e successi sfilano in un prezioso book dedicato a Facchinetti e soci
Gli alfieri del nu metal tornano a giugno con un nuovo album spiazzante: “Gold Cobra”
Il successo all’Art First di Bologna riaccende i riflettori sulla tournée teatrale dei Kuntz
sato quattro decadi di storia italiana, e che continua a soffiare nonostante il recente scioglimento della band. Una storia di successo, cominciata in un cascinale bolognese nel 1966, che può essere piacevolmente ripercorsa nel pregevole book illustrato Pooh (Rizzoli, 280 pagine, 49,00 euro). Corredato da foto d’epoca, raffinate illustrazioni, testimonianze e da un interessante diario della band compilato nel corso del tour d’addio del 2009, il volume è come un’agile fotogallery dell’immaginario italiano, capace di raccontare la Penisola tramite una delle più smaglianti icone musicali nazionali. Non a caso, in molti, li hanno definiti i Beatles dello Stivale.
commentato Fred Durst nei mesi scorsi. Gold Cobra si preannuncia spiazzante. «Il disco sarà una sorta di compilation di ritmi da party, è un po’ come il nostro vecchio repertorio ma con dei ritmi alla Daft Punk», fa sapere Borland. Un ritorno in scena, a cinque anni da The Unquestionable Truth, che potrebbe far storcere il naso, nell’olimpica indifferenza dei sodali di Durst. «Siamo coscienti che tra di noi vi è una energia unica che non abbiamo mai trovato da nessuna altra parte. Questo è il motivo per cui i Limp Bizkit sono tornati». La re-unione fa la forza.
ne teatrale (ascoltate la versione italiana di Here Comes The Sun). Achille Trittoni presenta così su Musicaedischi il lavoro di Godano e compagni che raccoglie l’emozione di una delle più riuscite tappe della scorsa tournée della band di Cuneo in Cercavamo il silenzio. Alla luce del successo riscontrato all’Art First di Bologna, una buona occasione per tornare a parlare di un cd + dvd che testimonia la buona salute della band, a dispetto di quanti la danno da qualche tempo per bollita. Atmosfere rarefatte, pischedelia, cover di qualità e un sound sempre più maturo. Il grande spettacolo di uno dei più interessanti combo italiani degli ultimi vent’anni.
a cura di Francesco Lo Dico
SE I MARLENE CALCANO GLI ASSI nche questa volta i Marlene Kuntz non si smentiscono, e si apprestano a regalare alla nutrita schiera di fans le gioie inedite di un live. Registrata al teatro Sannazaro di Napoli, l’esibizione dal vivo svela soprattutto nella versione video una nuova e lucente pelle della camaleontica band, a suo agio anche con le atmosfere intime e scarne e i volumi smorzati dell’esibizio-
MobyDICK
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zapping
IL KAFKA & ROLL degli uffici stampa di Bruno Giurato er prima cosa scrivi al webmaster del sito, se hai fortuna quello ti dà non il telefono (troppa grazia) ma la mail dell’ufficio stampa del cantante X. La capa dell’ufficio stampa non risponde alla mail. Finalmente, per altre vie, di solito passando attraverso una ricerca su Paginebianche e qualche stagista, riesci a trovare il telefono. Non il cellulare (troppa grazia) ma il fisso, al quale la capa dell’ufficio stampa non risponde mai. Si ricomincia. Richiami la stagista che nel frattempo è cambiata (il mercato delle stagiste ricorda la tratta delle bianche, o il traffico di organi), tiri fuori il meglio del tuo spirito da venditore di contratti telefonici, accampi urgenze inesistenti, la inviti a cena, hai cura di millantare pedigree di giornalista affrettato («facciamo le cose sempre “per ieri”»). Alla fine ottieni che la stagista chiami la capa, dopodiché la capa ti richiamerà. La capa ti richiama, da numero nascosto. Le spieghi che dovresti sentire il cantante X, ma prima, con metodi da Stasi, le estorci il numero di cellulare. Ti dice di scriverle una richiesta via mail, e poi che il cantante X è in tour, e che bisogna pigliarlo in un momento di calma. Scrivi la mail e aspetti. Quella non risponde. Riscrivi. Quella risponde che vedrà il cantante X fra dieci giorni e ti farà sapere. Dopo dieci giorni telefoni, ma la capa non risponde, l’ammazzassero. Le rimandi una mail. Finalmente ti risponde: ti ho chiamato, ma non hai risposto forse perché non hai riconosciuto il numero (è una balla, rispondi sempre anche ai numeri sconosciuti). Si prosegue ad libitum. Il rock italiano è una corsa di spermatozoi. E l’ovulo è fuori stanza.
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jazz
teatro
Tra Werther ed Emma un’estasi inutile di Enrica Rosso opo la collaborazione dello scorso anno il cui frutto sono state Le relazioni pericolose andate in scena al Teatro Sala Uno, ritorna l’accoppiata Paravicini-Felli. Alzando la posta la Paravicini si ingaggia in prima persona e vagheggia l’incontro di due icone della letteratura di tutti i tempi al punto da farsene testimone e comporre una scrittura che li faccia dialogare. Nasce così il testo di L’estasi dell’anima, un’ora scarsa di un ossessivo rincorrersi di parole intorno al tema dell’amore assoluto. In scena Madame Bovary (la stessa autrice) dardeggia infiniti sospiri nell’inutile attesa di un amante che non verrà, intrattenendosi con il giovane Werther, punto addolorato, che ha le fattezze di Marco Rossetti. Sul fondo uno schermo tondo invoca lo scadere della pena suggerendo il quadrante di un orologio che trascolora, a tratti, per lasciare spazio al volto sfocato della povera Lotte promessa sposa di Albert, unico, incontrastato e mai posseduto oggetto del desiderio di Werther, piuttosto che dell’inconsapevole Charles Bovary. «Cosa è mai il nostro cuore il mondo senza amore? È come una lanterna magica senza luce! Ma appena tu vi introduci la lampada, le più belle immagini compaiono sulla parete bianca…» confidava all’amico Wilheim attraverso le parole di Johann Wolfgang Goethe il povero ragazzo in preda al delirio amoroso di cui era vittima. Era il 1774 e I dolori del giovane Werther si rivelò essere la punta di massima espressione dello Sturm und Drang (tempesta e impeto). Di temperamento emotivo e passionale, colto, raffinato, incline alla bellezza e alla malinconia, totalmente in balia dei sentimenti amorosi che lo abitavano al punto di rinunciare alla vita, segnò un’epoca con la sua toccante storia al punto da dar luogo, secondo i sociologi, al ferale «effetto Werther» che sta a indicare le circa 2.000 morti autoprocurate avvenute per suicidio mimico da parte dei giovani lettori del tempo. Altrettanto toccante la vicenda narrata da Gustave Flaubert nel suo celebre romanzo, quel Madame
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Bovary che appena uscito nel 1856 finì sotto inchiesta per oltraggio alla morale. La triste Emma è una donna semplice che sposa il facoltoso medico Charles per tentare la scalata sociale e accedere a un’esistenza più agiata che la distolga dalla prosaica vita della provincia francese. Ma «la sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene». Così dopo aver fallito la sua missione materna dando alla luce una femmina anziché l’agognato maschio, avendo dilapidato una fortuna, essendosi spesa tra le braccia di vari uomini, in preda alla più cupa disperazione, si toglierà la vita ingurgitando arsenico. Immersi in una scena nera, aspaziale, due poltrone in plexiglas trasparente parcheggiate eccentriche, abbi-
gliati con improbabili abiti simil-epoca, comunque entrambi belli da vedere, i nostri due eroi si incontrano e, tralasciando l’attitudine di Madame alle frequentazioni giovanili, fino alla fine ci chiediamo perché. Troppo diversi per sensibilità e ideali, i due procedono monologanti, obnubilati dalle proprie intenzioni senza nessun moto dell’anima che faccia trapelare la minima curiosità verso l’altro, salvo congiungersi dopo tanto penare, in un pudico bacio. Meglio sarebbe stato non chiamarli in causa.
L’estasi dell’anima, Teatro Argot di Roma, fino al 7 marzo, info 06 5898111 www.teatroargotstudio.com
Tre serate al Black Hawk con Shelly Manne
di Adriano Mazzoletti al 12 al 24 settembre 1959 il batterista Shelly Manne guidava un suo quintetto al Black Hawk di Los Angeles. Era un club oggi scomparso, passato alla storia del jazz solo per quel breve periodo in cui Manne vi suonò. Per il batterista era solo un momento di passaggio in attesa dell’inaugurazione di un suo club, lo Shelly Manne’s Hole a Hollywood, che aprì le porte l’anno successivo e che Manne diresse per dodici anni. Nel breve periodo passato al Black, il complesso comprendeva la tromba Joe Gordon e tre musicisti residenti all’epoca in California, il saxtenore Richie Kamuca, il pianista Victor Feldman e il contrabbassista Monte Budwig. Complesso interrazziale, Gordon era di colore, che Manne assai coraggiosamente presentò in un periodo in cui nei club, nei teatri o nelle sale da ballo i gruppi misti era-
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no accettati con enorme difficoltà. Ma quel gruppo era per l’epoca realmente straordinario. Shelly Manne era con Max Roach il più imitato, stimato e amato dalla maggior parte dei batteristi. Richie Kamuca, di origine filippina, suonava con grande energia e il suo stile costruito con frasi di apparente semplicità, era originale anche se basato su quello di Lester Young e Don Byas. Gordon nato a Boston, ma scomparso a Santa Monica in California a soli trentacinque anni per le gravi ustioni riportate in un incidente, era un solista inizialmente influenzato da Dizzy Gillespie, che in seguito
modificò stile e sonorità. Quel sestetto durante il soggiorno al Black Hawk fece sensazione. Semplici appassionati, musicisti, star di Hollywood ogni sera si recavano ad ascoltare Shelly Manne e i suoi uomini e la stampa ne riferì spesso con entusiasmo, tanto che la casa discografica Contemporary decise, nelle sere del 22, 23 e 24 settembre, di trasferire tecnici e apparecchiature nel locale per registrare il complesso. Furono messi su nastro magnetico ventisei brani per un totale di oltre quattro ore e mezza di musica, in parte successivamente pubblicati in quattro long playing, mai
più ristampati e diventati da tempo pezzi da collezione. Dopo cinquant’anni, finalmente, la registrazione integrale di quelle quattro serate viene pubblicata da American Music Classics in un cofanetto di quattro cd. È possibile dunque oggi ascoltare quelle quattro ore e quarantanove minuti di musica che Shelly Manne e i suoi quattro musicisti suonarono in quei giorni di settembre di cinquantun anni fa. Ciò che colpisce in queste registrazioni dal vivo, sono le esecuzioni assolutamente perfette senza errori o esitazioni che possono sfuggire all’ascolto immediato, ma che rimangono nella registrazione. Ebbene quei ventisei brani sembrano essere stati realizzati in sala di incisione, ma con una aggiunta di grande importanza, la presenza di un pubblico entusiasta che galvanizza i musicisti.
Shelly Manne and his Men. Complete Live at the “Black Hawk”, America Jazz Classics, Distribuzione Egea
libri Gioventù bruciata MobyDICK
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narrativa
esordio di Silvia Avallone per Rizzoli, con il romanzo Acciaio, sembra destinato oltre che a far parlare a lungo, a divenire un caso letterario. Il caso si presenta per la giovane età della scrittrice nata nel 1984, oltre che per il tema inconsueto per un giovane autore italiano, dedicato com’è alla vita di fabbrica anche di giovanissimi operai. Già qui la storia attrae per un’antropologia da noi non esattamente conosciuta e che ci aveva lasciati lontani, ai tempi di una classe operaia fatalmente estinta, mentre oggi la fabbrica, con i temi però ancora caldi dell’alienazione e della povertà, ha incapsulato una modernità inquietante. Nelle Acciaierie Lucchini di Piombino, per esempio, è entrata la droga, in particolare la cocaina. E non è questo un particolare secondario di un romanzo corposo e corale, dove situazioni sociali al limite rappresentano spesso la normalità. Una normalità che più che a valori simbolici ci riporta continuamente alla vita reale, al quotidiano vissuto dai lavoratori della fabbrica. È questo un punto di forza del romanzo, lo scenario di rappresentazione dei luoghi dove la storia si narra, i grandi casermoni di via Stalingrado, la periferia condominiale che da terga vede le Acciaierie col fumo e il fuoco dei metalli, e davanti guarda il mare e le isole. Un paesaggio duplice e scisso che accompagna i protagonisti del romanzo dall’inizio alla fine, e che definisce anche i perimetri di ciò che si fa e ciò che si può fare. La storia è una storia di gioventù, di moderna gioventù italiana, stretta fra l’esigenza di crescere bene e i desideri troppo grandi amplificati dal ritmo di consumi sempre nuovi.
L’
nelle acciaierie di Piombino di Maria Pia Ammirati
Due le protagoniste, due quattordicenni belle e smaliziate, attorno alle quali ruotano famiglie e amici. Se la storia di questi ragazzi, che potrebbe essere simile a quella di tanti altri coetanei sparsi nel globo, è una storia dura di soprusi, violenze familiari taciute e represse, di un’educazione sessuale profanata dalla morbosità o dalla fretta, da una parte si pone alla nostra lettura per un piglio sicuro e forte, dall’altra ammicca a temi d’appendice, storielle amorose intrecciate, pruderie di vecchi arnesi. Un romanzo dove sembrano comporsi e confrontarsi due romanzi a loro volta: quello di natura neorealistica, dove assistiamo alla rapida decomposizione della realtà; quello di formazione, dove gli intrecci si moltiplicano senza sosta. Tanto ci incuriosisce la prima versione quanto ci deprime la seconda. Tanto è interessante scoprire questo demoniaco rapporto tra uomo e fabbrica, tanto resta stucchevole seguire una ragazzina dallo spogliarello ingenuo, alle botte col padre, alla prostituzione. Anna e Francesca, le due protagoniste, sono come le chiavi per entrare nel mondo di Piombino operaria, bambine in procinto di trasformarsi in donne bellissime, schiacciate dalla loro appartenenza sociale, vittime senza riscatto. Una dura realtà che sembra limitare il campo d’azione dei personaggi vincolati non solo al loro destino, ma alla recita della loro parte in commedia. Stridente ancor di più la tipicizzazione, lo stereotipo, calato dentro il tessuto vivo e palpitante di un romanzo maturo ma ridondante. Silvia Avallone, Acciaio, Rizzoli, 357 pagine, 18,00 euro
riletture
La nostra vita raccontata da Sciascia
di Claudio Marabini ono due libri che ora ci riportano uno degli scrittori più vivi e forse anche più amati e apprezzati: quel Leonardo Sciascia che va ben oltre quella Sicilia, che soprattutto grazie a lui, sempre più (rileggendolo) sentiamo nostra. I due libri, editi da Adelphi, sono totalmente fra loro diversi: Il consiglio d’Egitto, narrazione perfettamente storica, misurata non solo sulla validità dei fatti narrati e sulla totale immersione nel clima evocato e ricostruito; e quei Fatti diversi di storia letteraria e civile, che appaiono in edizione più corposa e in veste che a noi pare più sciolta e giustamente giornalistica: essendo il libro, chiaramente, una raccolta di pagine giornalistiche in ogni senso, dalla scelta dei temi alla vivissima varietà che anima la realtà tutta e il lettore cu-
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rioso e partecipe della sua vivacità ammiccante. Infatti se Il consiglio d’Egitto si presenta nelle forme e nella scrittura un pretto trattato, forte anche di una narrazione controllatissima, il secondo volume è una piacevolissima scorribanda nella storia letteraria e civile, come dice il titolo, ed è ricco di temi, di occasioni dove entra in ballo il nostro presente: le nostre curiosità, le attese, le curiosità del più vasto pubblico, con in più i personaggi più noti e rari, dal «calzolaio di Messina» a Mattia Pascal, da Majorana a Courbet. Se Il consiglio d’Egitto resta fatalmente un libro di storia, i Fatti diversi restano tali anche se la storia letteraria e civile sembra frantumarli secondo le norme del più ricco divertimento. Della più varia e ragionevole fantasia, che i fatti diversi alimentano e sembrano nutrire: anzi, ogni volta attendere quasi al varco. Perché questa sembra esse-
re la norma: sminuzzare i fatti, magari anche frantumarli, ma sviscerarli, e cavare dalla loro compattezza la «fantasia» che occorre: che amiamo, e che ci fa amare la realtà, ce la rende vitale, frutto nostro delle nostre giornate: della nostra vita. La storia letteraria e civile ci dà quanto desideriamo, ci apre finestre e porte, e ci fa amare e quindi conoscere il mondo che ci è vicino: fatti diversi, cioè la varietà della giornata che viviamo e del mondo che si offre a noi. Ma in questa storia è la nostra vita: le giornate che ci hanno atteso, le ore e i giorni. Li chiamiamo fatti diversi ma subito dopo ci soffermiamo sulla storia letteraria e civile. Perché il libro «nostro», nato dalla nostra vita (si può dire?) è infine un libro di storia: delle giornate nostre e della vita così come l’abbiamo vissuta, e del paese in cui viviamo e senza il quale non potremmo
vivere. Diciamo fatti diversi ma è la nostra vita così come l’abbiamo vissuta, amata, attesa ogni momento. Era vita letteraria e civile ma era la vita nostra, e la nostra storia letteraria e civile è fatta della nostra giornata, della nostra curiosità, dei nostri desideri, delle nostre attese anche rimandate: le ore più vuote, sempre che vi possa essere qualche ora vuota! E così nei fatti diversi c’è tutta la nostra vita, le attese e la sicurezza del presente. E un libro di storie, un libro esattamente come questo, ci dà la varietà di tutte le cose. La storia è questo: aspettare. Un libro di storia è fatto soprattutto di presente e di attesa.Tutti i nostri giorni messi l’uno a fianco dell’altro. Si tratta di aspettare. Ciò che arriverà, i fatti diversi, sono la nostra vita. Le giornate sono tutto quello che è stato: ciò che siamo stati, che vorremmo continuare a essere, che anche saremo.
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religione
Le verità della fede e le sfide della modernità di Mario Arpino o avuto il privilegio di incontrare il Cardinale Mario Francesco Pompedda (scomparso nel 2006) in più occasioni. Alcune conviviali, durante le quali la profondità e la modernità del pensiero - unitamente all’affettuosa semplicità del tratto - mi avevano davvero impressionato. Altre nella sua terra d’origine, la Sardegna, che amava profondamente e dalla quale aveva tratto forza e tenacia. Cultura e fede, scienza e fede, binomi sui quali la Chiesa di Roma non sempre si è trovata in posizioni di avanguardia, non hanno mai spaventato l’autore. Sono argomenti di cui ha sempre accetta-
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società
to e apertamente discusso le sfide continue prospettate dal nostro tempo. A volte, in modo che potremmo addirittura definire borderline, anticipando anche di molto le posizioni ufficiali del Vaticano. Ne faceva elementi per la sua ricerca, mantenendo ferma l’ottica religiosa, senza però mai trascurare le sfaccettature diverse di una libera visione laica di ciascun problema. «Una solare sardità - commenta in una testimonianza Giuseppe Pisanu - vissuta intensamente anche come dimensione dello spirito e proiettata nell’orizzonte più ampio del Mediterraneo e della nuova Europa». Il tema attualissimo del travaglio per la difficile costruzione europea è ricorrente. Uno degli
scritti, che riguarda il dibattuto tema delle radici cristiane, mette in guardia su alcuni pericoli che, come sempre quando il percorso si trova di fronte a un bivio, vanno individuati per tempo per essere adeguatamente evitati. Nel senso che le nostre radici non vanno staticamente contemplate come nobiltà delle origini, ma dinamicamente proiettate nel cuore dell’impianto costituzionale iniziale. Proprio ciò che, almeno fino a ora, non è avvenuto. Altro tema, ma sempre afferente, è quello dell’unità della cultura tecnica e umanistica - come esigenza del vero sapere. Anche qui, l’autore individua un pericolo grave, ovvero lo squilibrio individuale e sociale che può essere
prodotto dalla separazione in atto nei giorni nostri tra la scienza applicata, la tecnologia, e la cultura «non specializzata», il pensiero della cui nutrizione l’animo umano sempre necessita. «Coniugare l’approccio scientifico del giureconsulto alle verità della fede con una rara capacità non di imporre, ma di spiegare con la limpidezza dell’esempio personale, nella consapevolezza di una grande fiducia nell’uomo». Marco Cecilia, che è stato uno dei collaboratori più stretti, così inquadra la figura dell’autore nella presentazione del libro. Mario Francesco Pompedda, Il Vangelo della Giustizia, Luciano Editore, 356 pagine, 30,00 euro
Il grande romanzo della scuola italiana di Giuseppe Lisciani icola D’Amico è stato vice provveditore a Milano, provveditore a Varese e poi a Genova, infine sovrintendente interregionale agli studi del Piemonte e della Valle D’Aosta. Ha lasciato la scuola per la redazione del Corriere della sera, dove ha scritto molti autorevoli commenti di politica scolastica. All’attività di giornalista ha affiancato quella di saggista e ora ha chiamato a raccolta tutte queste sue anime culturali, e ha prodotto un libro a sua immagine e somiglianza, una «imponente opera» - come la definisce nella prefazione Giuseppe Tognon, docente della Università Lumsa di Roma - che racconta la scuola italiana dalle radici greco-romane ai giorni nostri. E non alla maniera soli-
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ragazzi
ta, quasi una scuola senza sangue e senza nervi. No. La scuola di Nicola D’Amico è scoppiettante e ciarliera: adeguatamente contaminata dal cosiddetto «teatrino della politica», sapientemente organizzata dalle ragioni della società e della storia, opportunamente argomentata nelle sue movenze pedagogico-didattiche. Una scuola in perenne condizione di crisi dialettica, tra precarietà e stabilità, tra spinta etica di pensatori impegnati e cinismo di politicanti arrivisti… Un esempio. Il capitolo II del libro è dedicato alle vicende della scuola nell’Italia preunitaria. Vi troviamo il peso negativo di guerre e carestie dei primi anni dell’Ottocento, e poi le vicende del regno lombardo-veneto, del ducato di Parma, del ducato di Modena, dello Stato pontificio, del regno di Napoli e via dicen-
do: il tutto, integrato da interventi funzionali alla comprensione del clima culturale del periodo, come i box dedicati a Gioberti, Rosmini, Pestalozzi, Romagnosi, Capponi, ecc. o lo spazio riservato a Bell e Lancaster, operanti nei paesi di lingua inglese (il cui metodo di mutuo insegnamento fu introdotto anche in Italia intorno al 1830 da Luisa Amalia Paladini). Per non dire, poi, di pregevoli tabelle, come quella sulla situazione politico-educativa in Italia ai giorni del congresso di Vienna. A mano a mano, poi, che si va nel XX secolo, la danza dei nomi della politica e della cultura si moltiplica e si intreccia con le vicende della scuola, in una sorta di «lucido groviglio» interattivo. Alla fine, ne viene fuori un libro da leggere come un romanzo, da meditare come una indagine, da consultare come una enciclopedia. Nicola D’Amico, Storia e storie della scuola italiana dalle origini ai giorni nostri, Zanichelli, 800 pagine, 59,00 euro
Tentazioni del male in forma d’Argilla di Mario Donati a
a cittadina di Felling pare sia inventata. Invece è il luogo dove è cresciuto David Almond che i critici non osano definire uno dei più grandi romanzieri inglesi, specializzato nella letteratura per ragazzi. Attenzione, però: il termine «per ragazzi» è riduttivo dato che la sua prosa compete con quella di Road Dahl e Stephen King. Sì, siamo nel cerchio del mistero. Dove però le apparizioni e i «mostri» somigliano alle nostre paure, sono le proiezioni del nostro intimo. Più precisamente della parte della nostra mente che cresce e rimane poi dentro di noi. Dopo il successo di Skelling, ora l’editore Salani
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ci propone Argilla (Clay, in inglese), un romanzo che risente delle suggestioni del poeta William Blake. È la storia di Davie, un ragazzino invischiato in rivalità tra bande (cattolici contro protestanti) e nell’incipiente interesse per l’amore. Assieme ai suoi amici incontra un coetaneo o poco più, Stephen: strambo, solitario, maniacalmente impegnato a creare statuette di argilla. Con un passato familiare da far rabbrividire, cerca la complicità di Davie nel farsi creatore e plasmare un Frankestein d’argilla, un servo che sia in grado di realizzare i desideri più nascosti. Tra questi c’è l’eliminazione di un ragazzo violento e disadattato, che nella sua rozzezza detta la legge criminale.
Tutto giocato sul vero, sul verosimile e sul visionario, il romanzo registra il turbamento di Davie quando s’accorge che l’uomo-argilla si alza, cammina e si dice disposto a servire il padrone. Arriverà a scaraventare in un burrone l’odiato ragazzo della banda rivale. È solo argilla o un vero mostro? Qui si narra della follia che arriva a convincere alcuni della distrazione di Dio, della possibilità di piegare l’arte dell’invenzione artistica al servizio di «un sogno che diventa realtà». Quale è il limite della nostra immaginazione o folle arroganza? Siamo davvero, noi uomini, «spirito e sporcizia insieme»? Davie asseconda l’amico venuto da lontano, accantona faticosamente dubbi e timori
anche se questi poi riaffiorano ciclicamente. Si commuove nell’ascolto delle disgrazie che si sono abbattute su Stephen, salvo poi ascoltare la sua ghignante confessione di un delitto intensamente pensato e forse davvero compiuto. E qui prova orrore, disgusto, voglia di seppellire per sempre il mostro chiamato Argilla. Ma è difficile perché quella terra che cammina con le sembianze approssimative d’un uomo non è altro che il lato oscuro di un ragazzo che s’interroga sul concetto di normalità. Non c’è il lieto fine: il male è sempre da qualche parte. Ad aspettarci, a tentarci. David Almond, Argilla, Salani editore, 220 pagine, 13,00 euro
altre letture In tempi come questi dove sembra evaporato nel nulla l’elogio del mercato, refrain ossessivo di tutti gli anni Novanta e Duemila e dove si riaffacciano i vecchi fantasmi del dirigismo e della collusione tra impresa e Stato si dà volentieri il benvenuto a un aureo libretto che la meritoria Liberilibri ha tradotto e pubblicato in Italia. Si tratta di La ricchezza della nazione di Anders Chydenius, (48 pagine, 13,00 euro), opera in difesa del libero mercato pubblicata a Stoccolma nel 1765, undici anni prima della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Le proposte di Chydenius anticipano la visione del sistema della libertà naturale caro a Smith. Per Chydenius affinché un’economia possa fiorire è necessario non intralciare con leggi e regolamenti lo spirito di intrapresa, limitare al minimo l’ingerenza dello Stato, abbattere premi, privilegi e incentivi perché distorcono i mercati. Rapporto sulla società italiana, a cura di Raimondo Catanzaro e Giuseppe Sciortino (Il Mulino, 266 pagine, 22,00 euro) fornisce al lettore un’interpretazione approfondita, fondata sulla migliore conoscenza empirica disponibile, di alcuni fenomeni sociali selezionati sia per la loro rilevanza sociale sia per il grado insoddisfacente di attenzione che ancora riscuotono nel dibattito pubblico. Fenomeni come la bassa fecondità, il cambiamento dei sistemi migratori italiani, il perché gli imprenditori italiani non vogliono crescere, la disuguaglianza dei redditi personali, il livello di preparazione degli studenti italiani meno bravi degli altri. Nel pieno della maturità Erwin Chargaff, grande scienziato dai vasti interessi, compie un’acrobazia sorprendente e inizia a denunciare con veemenza i pericoli insiti in una ricerca scientifica sempre più spregiudicata. A suo dire la scienza sta violando due nuclei quello dell’atomo e quello della cellula oltrepassando un punto di non ritorno, un limite che avrebbe invece dovuto temere, compiendo un atto che in altri tempi sarebbe stato definito un sacrilegio. L’accusa di Chargaff, formulata nel saggio Mistero impenetrabile (Lindau, 232 pagine, 22,00 euro) si indirizza in particolare nei confronti dell’ingegneria genetica, che procede con passo spedito verso la creazione della vita umana artificiale, scardinando l’ordine naturale e configurando un futuro da incubo. a cura di Riccardo Paradisi
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OTTANT'ANNI FA NASCEVA IL CINEMA SONORO E S'INAUGURAVA LA STAGIONE DEI DIVI CANTERINI, DEI TENORI E DEI BARITONI DEGLI ANNI TRENTA E QUARANTA. MENTRE L'INTRECCIO TRA CINEMA, RADIO E INDUSTRIA DISCOGRAFICA SEGNAVA IN MANIERA INDELEBILE L'IMMAGINARIO NAZIONALE. ECCO COM'È ANDATA…
costume
Lucia, Mariù e i sogni da mille lire
a canzone dell’amore (1930) di Gennaro Righelli, «il primo film italiano sonoro, cantato e parlato al cento per cento», non perde occasione per celebrare la novità tecnologica. Nella grande sala déco della Casa dei dischi, che è insieme luogo di vendita e studio di registrazione, dove il pubblico può assistere in diretta al «miracolo» dell’incisione, ostenta con calcolata civetteria i meccanismi della riproducibilità tecnica. Il produttore Stefano Pittaluga - che riorganizza i vecchi stabilimenti Cines dotandoli di apparecchiature sonore - coinvolge nell’operazione anche Luigi Pirandello, autore della novella da cui è tratto il soggetto. Lo scrittore siciliano, che solo pochi mesi prima aveva sprezzantemente inveito contro «il film parlante», «voce di macchina e non umana, sguaiato borbottamento da ventriloqui accompagnata da quel ronzìo e friggio insopportabile dei grammofoni», si complimenta con «l’esperto régisseur» che aveva diretto il film e loda «il riuscito collaudo degli impianti e delle capacità degli artefici». L’enorme successo del film deve molto a So-
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di Orio Caldiron prima dalla Za Bum n. 8 di Mario Mattoli. Sullo sfondo degli arredi altoborghesi firmati da Gastone Medin, gli attori si aggirano in frac e cilindro, mentre per le signore sono d’obbligo la pelliccia e l’abito lungo con lo strascico. Quando nel salone dell’automobile gli impiegati della filiale cantano in coro How Do You Do, Mister Brown?, la caricatura strizza l’occhio al modello americano già dominante nell’immaginario dell’epoca. Se Mattoli intuisce per primo le qualità dell’attore e le sue propensioni per lo spettacolo leggero, Mario Camerini contribuisce in modo determinante a indirizzare il personaggio De Sica verso i tratti della riconoscibilità realistica sin da Gli uomini, che mascalzoni... (1932), ambientato negli stand della Fiera di Milano, tra le scritte della cartellonistica e le prime avvisaglie della pubblicità di massa, suggerendo lo spazio paradigmatico in cui De Sica in bicicletta che insegue Lia Franca sul tram diventa un’immagine proverbiale della nostra identità collettiva. Se anche questa volta canta, è solo per dare la replica all’organino della trattoria sui laghi. Parlami d’amore Mariù di C.A. Bixio ed
Anche Pirandello, che ispirò con una sua novella il primo film italiano sonoro - “La canzone dell’amore” - dovette cambiare idea sul cinema parlante. Fu un successo, anche grazie a “Solo per te Lucia” di Bixio e Cherubini lo per te Lucia, la canzone di Cesare Andrea Bixio e Bruno Cherubini, destinata a sua volta a diventare popolarissima.
Il cinema canoro italiano trova in Vittorio De Sica il suo primo divo, il solo che dal teatro riesca a passare al cinema, arrivando ai dischi e alla radio, attraverso una strategia di rimandi e di sinergie multimediali che si delinea sin dall’inizio degli anni Trenta sullo sfondo di un’industria culturale più smaliziata di quanto solitamente si creda, pronta a soddisfare se non a promuovere i consumi del pubblico borghese. Due cuori felici (1932) di Baldassare Negroni guarda strabicamente al prototipo tedesco che risente del gusto mitteleuropeo dell’operetta e alle riviste musicali allestite pochi mesi
Ennio Neri è la canzone feticcio a cui nel corso degli anni l’attore deve almeno in parte la sua tenace popolarità di divo: «Come sei bella, più bella/ stasera, Mariù;/ splende un sorriso di stella/ negli occhi tuoi blù!/ che se avverso il destino/ domani sarà, oggi ti sono vicino,/ perché sospirar?/ Parlami d’amore, Mariù:/ tutta la mia vita sei tu!/ Gli occhi tuoi belli brillano,/ come due stelle scintillano./ Dimmi che illusione non è; dimmi che sei tutta per me!/ Qui sul tuo cuor, non soffro più,/ parlami d’amore, Mariù». Nel divismo femminile dell’inizio anni Trenta, Isa Miranda - l’unica attrice che viene dalla parte del pubblico ma è lanciata come una sorta di sintesi impossibile tra Marlene e Greta - resta il solo mito internazionale
dello stardom italiano, imprigionato nella camicia di forza della donna fatale sin da La signora di tutti (1934) di Max Ophuls, in cui canta con la sua voce inconfondibile la canzone omonima di Ruggero Lerchi e Daniel Dax: «Tutto è finito, finito è l’amore,/ non tornerà mai più!/ Svanito è per sempre il mio sogno d’amore/ nel tempo che già fu!/ Io sono la signora di tutti/ ma tanto infelice perché/ io sono l’amore del mondo/ nessuno, nessuno è per me!/ Io sono la signora di tutti/ ma l’anima piange perché/ io cerco esiliata nel mondo/ l’amore, l’amore per me». L’esibizione feticistica del disco, che all’inizio accompagna la transazione commerciale avviata dall’agente Franco Coop con il produttore Mario Ferrari («Non è una voce meravigliosa questa? Sì o no?»), è soltanto uno degli ingredienti del puzzle mediologico di un film in cui il melodramma - tra sofisticati movimenti di macchina e incessante frastuono delle rotative - diventa lo scenario privilegiato della costruzione/decostruzione della diva della riproducibilità tecnica, esaltata dall’ipnotico sonnambulismo dell’attrice. Quasi l’emblematica metafora d’avvio dei complessi rapporti tra immagine e musica nel cinema italiano degli anni Trenta.
Alida Valli entra giovanissima, e già dotata di una straordinaria fotogenia, nell’ingranaggio della produzione cinematografica, interpretando una dopo l’altra un gran numero di commedie. La più fortunata è Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld, un telefono bianco d’ambientazione finto-ungherese in cui con la sua aria svagata ascolta la canzone di A. Sopranzi e C. Innocenzi cantata alla radio da Anna Doré, una sorta di sigla musicale del costume dell’epoca: «Che disperazione,/ che delusione dover campar,/ sempre in disdetta,/ sempre in bolletta!/ Ma se un posticino/ domani, cara, io troverò,/ di gemme d’oro/ ti coprirò./ Se potessi avere/ mille lire al mese,/ senza esagerare, sarei certo di trovare/ tutta la felicità!/ Un modesto impiego,/ io non ho pretese,/ voglio lavorare per poter alfin trovare/ tutta la tranquillità!/ Una casettina/ in periferia,/ una mogliettina/ giovane e carina, tale quale come te». Solo più tardi il suo temperamento drammatico trova finalmente modo di rivelarsi in una nuova e più matura stagione della sua attività, di cui Stasera niente di nuovo (1942) di Mattoli rappresenta uno dei momenti più suggestivi. Alida vi canta sommessamente Ma l’amore no di Michele Galdieri e Giovanni D’Anzi, la canzone cult della sua carriera: «Ma l’amore, no./ L’amore mio non può/ disperdersi nel vento con le rose/ tanto è forte che non cederà non sfiorirà./ Io lo veglierò/ io lo difenderò/ da tutte quelle insidie velenose/ che vorrebbero strapparlo al cuor, povero amor!». Il mito del tenore italiano è all’origine di una vasta fioritura di film in cui la canzone si affianca e talora prevale sulle romanze delle opere liriche. Il cantante più celebre è Beniamino Gigli, uno dei più grandi tenori di tutti i tempi. Se è clamoroso il successo di Mamma (1941) di
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Da sinistra, in senso orario, Vittorio De Sica in “Gli uomini, che mascalzoni”, Alida Valli, Alberto Rabagliati, Tito Schipa, Beniamino Gigli, ancora Alida Valli in “Mille lire al mese” e Isa Miranda
Guido Brignone, che lancia la canzone omonima di C.A. Bixio e B. Cherubini, Silenzio, si gira! (1943) di Carlo Campogalliani è tra i suoi titoli più interessanti. Il film sfrutta l’ambientazione nei teatri di posa di Cinecittà, mescolando abilmente il mito del tenore con i capricci da star, il gioco del doppio che anima la vicenda, le strizzate d’occhio al mondo del cinema e alle tecniche della registrazione sonora, per cui il protagonista sente non visto le sospirose effusioni della sua protetta con l’attor giovane. Il gusto metacinematografico esplode in Cinefollia, la canzone di C.A. Bixio e Alvaro Ferrante De Torres, che accompagna il balletto finale mentre sullo specchio-schermo scorrono i volti dei divi: «Oh cinemà,/ incanto e splendore della vita,/ la cara vita,/ il miraggio favoloso d’ogni cosa./ La sartina, il colleggial,/ il borghese, il provincial,/ tutti pensano al cinemà./ Oh cinemà/ tutti sognano la celebrità./ Oh perché?/ Perché/ nulla può fare sperare palpitare come te cinemà./ Oh cinemà,/ la pellicola che gran novità/ gira e va,/ l’illusione sei davver cinema». «Vivere/ senza malinconia/ vivere/ vivere/ senza più gelosia/ senza rimpianti,/ senza mai più conoscere cos’è l’amore,/ cogliere il più bel fiore,/ goder la vita e far tacere il cuore./ Ridere/ sempre così giocondo,/ ri-
duettare con Marthe Egghert, il vero tenore non resiste più e si mette a cantare fuori copione per ristabilire la verità, richiamando l’attenzione sul potere mistificatorio delle nuove tecniche. La voga del baritono risale a Retroscena (1939), con cui Alessandro Blasetti gioca a rifare il verso alle commedie hollywoodiane in bilico tra verità e finzione, vita e spettacolo, scena e platea. Nei battibecchi tra il baritono Alberto De Sanni (Filippo Romito) e la pianista Diana Martelli (Elisa Cegani), il modello di riferimento («Cosa crede la signorina Martelli, che le commedie americane le sa fare soltanto lei?») non è solo l’involucro dello spettacolo, ma lo spettacolo stesso, sorvegliato dallo sguardo attento del maître che dirige il traffico come un regista cinematografico, mentre si aprono e si chiudono le porte girevoli del grand hôtel. Come ogni baritono del cinema, oltre ai brani del suo repertorio lirico, anche il protagonista si cimenta con motivi più leggeri come Se l’amore fugge di G. D’Anzi. Ma quando un noto critico stronca le sue qualità canore, finge di essere il grande artista polacco Soblonscky, subito portato in trionfo, sbeffeggiando senza pietà l’esterofilia del pubblico italiano. Come si fa un film con un baritono? Fuga a due voci (1943), di
De Sica chansonnier con Camerini, Alida Valli con “Ma l’amore no”, Gino Bechi con “La strada nel bosco”, Gigli con “Mamma”... I volti e i suoni di un’epoca in cui cominciarono a diffondersi i prodigi della riproducibilità tecnica dere/ delle follie del mondo». Così canta Tito Schipa con la sua voce profonda nell’orecchiabile canzone di Bixio che fa da leit-motiv a Vivere! (1936), il film di Brignone, uno dei maggiori successi degli anni Trenta, replicato subito dopo con Chi è più felice di me! (1937).
Il film più importante di Giovanni Manurita, un altro dei grandi tenori dello schermo, è La voce senza volto (1939), di Gennaro Righelli, ambientato nel set del film canoro in cui Carlo Romano, che impersona un tenore di successo, perde improvvisamente la voce. Il regista Romolo Costa risolve il problema servendosi del documentario sui cantieri navali che vede per caso alla moviola negli studi. Manurita, l’operaio dall’ugola d’oro, viene subito scritturato con un contratto capestro che gli impone di non parlare con nessuno del suo lavoro. Di fronte alla boria del finto tenore, che nella sua incoscienza sogna di
Carlo Ludovico Bragaglia, risponde brillantemente alla domanda mettendo in scena con disinibita spudoratezza le difficoltà di un produttore e dei suoi sceneggiatori, impegnati a escogitare la trama di un film che abbia come protagonista un baritono. Il doppio piano del film nel film esce dal set per contaminare anche il resto della commedia, dalla sequenza della stazione ai tentativi di pernottamento. Gino Bechi che canta in piazza Soli, soli nella notte di C.A. Bixio e Nisa vale come una esplicita dichiarazione di poetica della finzione, in cui tutto è costruito, falso, artificioso: un gioco di specchi. Non meno celebre diventa La strada nel bosco di C.A. Bixio, Nisa e E. Rusconi, l’altro motivo cantato da Bechi nel film: «Vieni, c’è una strada nel bosco,/ il suo nome conosco,/ vuoi conoscerlo tu?/ Vieni, è la strada del cuore,/ dove nasce l’amore/ che non muore mai più./ Laggiù, tra gli alberi, intrecciato coi rami in fior,/ c’è un nido semplice/ come sogna il tuo cuor». Nessuna sorpresa se, in uno strepitoso finale alla Woody Allen, la protagonista abbandona il fidanzato per raggiungere il cantante sullo schermo.
Il mito dell’America domina l’intero periodo, nonostante le intenzioni polemiche e le ambizioni parodiche di molti film. Primo amore (1941) di Carmine Gallone, con la sua oscillazione tra Pietro Redi e Peter Reed, jazz e musica classica, Italia e America, finisce con l’essere un documento d’epoca a suo modo curioso e paradossale, soprattutto all’inizio degli anni Quaranta in cui trionfa lo «stile Rabagliati». Il clamoroso successo di Alberto Rabagliati arriva al cinema con un gruppo di film in cui si ripropone il personaggio del cantante idolatrato dal pubblico femminile. Nella sequenza del calesse di La vita è bella (1943) di Carlo Ludovico Bragaglia, fingendo che la voce provenga dall’apparecchio radiofonico sulle sue ginocchia, canta Mattinata fiorentina di G. D’Anzi e M. Galdieri («È primavera svegliatevi bambine,/ alle Cascine, messer Aprile fa il rubacuor») e Lontano di D’Anzi-Bracchi («Lontano quando la notte tutto tace/ io sento ancora la tua voce/ che mi accarezza l’anima»). Il ruolo emergente del medium è al centro di Quando la radio, la singolare canzone metalinguistica di Carlo Prato e Riccardo Morbelli dello stesso periodo, che rievoca il romanzetto sentimentale in cui gli innamorati si servono di un alfabeto a chiave per comunicare tra di loro, basato sulla complicità della radio: «Quando la radio trasmette da Torino/ vuol dir stasera ti attendo al Valentino/ ma se ad un tratto si cambia di programma/questo vuol dire “attento c’è la mamma”./ Radio Bologna vuol dire il cuor ti sogna,/ Radio Milano ti penso da lontano,/ Radio Sanremo stasera forse ci vedremo/ e Radio Igea vuol dir lontano da te mi sento morì./ O quanti appuntamenti amore mio ci siamo dati/ per mezzo della Ternini, di Alberto Rabagliati,/ senza volerlo tutti ci hanno dato un po’ una man/ perfino Petralia, la Fioresi e il Trio Lescan».
MobyDICK
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Il secondo romanzo postumo della Sapienza riporta alla sua formazione catanese
libri
Goliarda-Gabin racconta… di Pier Mario Fasanotti
icorda una frase del suo professore e la tramuta nel perno della propria esistenza: «Non bisogna lasciare che la vita distrugga il sogno». Poi riflette, e a lungo, sul fatto che la vita «è economia e sogno»: per questo la giovanissima Goliarda Sapienza si dà da fare per ottenere due lire - ma non come elemosina: roba da cenciosi - così da poter andare a vedere al cinema Mirone di Catania uno dei più bei film di Jean Gabin. È lui, l’uomo dagli occhi marcatamente azzurri anche quando la pellicola è in bianco e nero, che può insegnare ad amare le donne. Non certo quelle che somigliano a Margaret Thatcher, già legnoso premier britannico e risultato di un certo femminismo traditore, omologante e appiattente. Eh no. Altro apprende dal mitico Gabin, bandiera anarchica in tempi totalitari: «I suoi occhi sognavano una donna che fosse come un fiume, un grande fiume languido e vertiginoso che andava a nutrire con le sue acque limpide il mare… questo ho imparato da lui, per me la donna è stata sempre il mare… un mare segreto di vita, avventura magnifica e disperata, bara e culla, sibilla muta e risposta sicura, spazio immenso in cui misurare il nostro coraggio di individualisti incalliti».
R
La citazione, in stupendo stile, è tratta dal secondo romanzo postumo della Sapienza, Io, Jean Gabin, per fortuna pubblicato ora da Einaudi (124 pagine, 17,00 euro). Romanzo che ebbe continui rifiuti editoriali. Erano gli anni di piombo, ma questo non giustifica. E non assolve gli editori, spesso così distratti dinanzi all’ancora non del tutto esplorato serbatoio letterario del Novecento. Goliarda, pur orgogliosa del successo, anche sul mercato straniero, di Lettera aperta, s’era proprio stufata di pietire consensi, di fare anticamere, di convincere o addirittura di cercare uno sponsor, come si dice oggi, o un padrino, come si diceva un tempo (l’editoria si muove sovente con l’olio delle raccomandazioni, ipocritamente tradotte in «presentazioni»). La scrittrice, catanese poi adottata da Roma, con una passione smodata per il cinema (sposò il regista Citto Maselli e con lui lavorò), fu rinchiusa in carcere per uno stupido furto di gioielli a casa di amiche. Voleva comunque proseguire in prosa il racconto del suo percorso formativo di donna indipendente, figlia di socialisti libertari, e nello stesso tempo tornare nei «bassi» di Catania, lei così disinvolta nel conversare con ladri, mendicanti e prostitute. Nella postfazione, Angelo Pellegrino, che la conobbe bene, racconta un episodio
Non bisogna lasciare che la vita distrugga il sogno. Specialmente se si nutre degli occhi azzurri dell’attore francese. Un felice meccanismo identificatorio ma anche un’occasione per tornare con la memoria nei vicoli dell’infanzia della scrittrice che illumina il carattere di quella «carusa tosta». Nel 1967 Goliarda venne convocata dall’editore Rizzoli, negli uffici romani di via Veneto. Il commendatore aveva captato la notizia che una scrittrice siciliana aveva da poco pubblicato da Garzanti un libro difficilmente etichettabile, una specie di autobiografia «col coraggio insolito, per le italiane del tempo, di mettere a nudo se stessa senza metafore, soprattutto l’originale e curiosa infanzia passata nei bassifondi della sua città d’origine». Con piglio rozzamente milanese, Rizzoli le propose un contratto per sei romanzi «che devono avere per tema la vita delle bambine siciliane, senza tralasciare l’aspetto sessuale». Goliarda lo interruppe chiedendo il compenso. Rizzoli indicò una cifra. E lei: «È meno di quello che do in un anno alla mia donna di servizio. Poi non credo di esserne capace». Dieci anni dopo, delusa per i rifiuti del suo Arte della gioia, scriverà una frase che troviamo nel romanzo fino a oggi rimasto inedito: «…non guadagnare riducendo il sogno a raccontino commerciale, non accettare compromessi… non ti venderò… Jean, non ammorbidirò… la tua immagine e le tue tragedie per fare piacere a “loro”. Da oggi che sono scesa con te nelle nebbie del tuo fato, o ti racconterò com’eri, bello e atroce, onesto e
disonesto, crudele e dolce come un gabbiano e come la vita stessa che è un grande gabbiano vorace ed elegante, o non aprirò più la bocca anche a costo di morire di fame nel cantone più buio». Jean Gabin diventa occasione per tornare con la memoria nei vicoli lerci e chiassosi della sua Catania, anzi Civita di Catania. Un borgo apprezzato anche da lettori israeliani, che dichiaravano di essersi riconosciuti in quella bambina descritta dalla Sapienza.Applausi dalla Francia e da Israele, tiepidezza o rifiuti o commerciali compromessi in Italia. E lei, fiera di essere figlia di un avvocato che si batteva per i poveri e di Maria Giudice, figura storica del socialismo italiano prima del conflitto 1914-18, scrisse praticamente per sé. Con «linguaggio tellurico e impietoso» come annota Pellegrino nella postfazione. Goliarda si considerava ormai «postuma».
La fascinazione del mondo femminile attraverso gli occhi di Gabin si deve, per dire la verità, ricondurre al non-rifiuto della Sapienza a corteggiare le donne. Esperienza che tuttavia arricchì, senza deviazioni definitive, le sue autentiche pulsioni erotiche. Comunque mantenne un’attenzione sempre particolare per il mondo femminile, che ebbe a definire
«indecifrabile». Scrivendo di uno dei suoi fratelli, sa bene, o immagina così bene, l’effetto del suo fascino: «…d’inverno usa il bergamotto quello stracciacuori di caruso, perenne minaccia a tutte le femmine del quartiere». La ragazza Goliarda dice allo zio di volere l’indipendenza sentimentale, lei che vagheggia d’essere come l’eroina Angelica, ma sa d’essere cresciuta in tempi cambiati: «non si usavano più la spada, la corazza, i cavalli e con dolore avevo dovuto abbandonare lo scudo e il mantello». Eppure nelle sue rabbie fa a cazzotti con l’aria. Le chiedono: «Si può avere l’onore di sapere con chi ti battevi così furiosamente, bella pupa? Giuraddio ca Angelica parevi: tutta capelli e furia come a lei quannu s’appressa a dare sfida…». Ovviamente si mette al fianco di Zoe, la cameriera che è stata rifiutata dal promesso sposo, il carabiniere che s’era accorto che la fidanzatina torinese era in realtà figlia di un bandito sardo. Goliarda le dice di comprendere il sangue che poi fu versato. E s’oppone alla pur dolce tentazione di delegare tutto a un padre o a un dio: «La grande libertà di se stessi e dei propri pensieri non è una cosa straziante da non dire?». In questo è spalleggiata dai familiari. Goliarda ricorda: «Mio padre ha ragione, quella monaca del delitto è molto intelligente». Sempre a proposito di Zoe, socialmente scomoda e perennemente attaccabile e ricattabile, la Sapienza riferisce il commento di un’altra donna, selvaggia e onesta anche quando rubacchia: «Quella era la punta estrema del movimento per la causa della donna. Altro che suffragette o quelle sciocche delle Balabanoff, Kuliscioff, Zetkin, eccetera, che speravano di abbattere la tirannide sanguinosa dell’uomo combattendo coi fiori». Le rassegnate, le schiave e le leziose complottano contro Jean Gabin, l’uomo che sugli schermi andava a cercare il senso e la ragione di se stesso e del mondo. Gabin è il meccanismo identificatorio che consente a Goliarda di salvare «il lato onirico in sviluppo». Sì, proprio il Gabin dalle labbra affilate come lame, ma capace di aprirsi immediatamente in «un sorriso splendente e tenero». La frase diviene interamente veritiera se non si dimentica una precisazione: «Raramente però, molto raramente». Come quando l’attore di Alba tragica «volge il viso indifferente condito da un pizzico di noia davanti alle smancerie di una pupa qualsiasi». Goliarda non era «una qualsiasi», a costo di manifestare una libertà un po’ sguaiata: ah, «non s’addice a una signorina quel galoppo continuo con tutte le gambe di fuori».
video Grande Fratello MobyDICK
tv
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al peggio non c’è mai fine! on mi sfiora mai l’idea di diventare fan del Grande fratello o di altri reality. Perlomeno: facendo zapping, per lavoro e per curiosità (cose che spesso coincidono), concordo sempre di più con quella coppia di quaranta-cinquantenni che, al figlio palestrato che reclama il diritto culturale di seguire lo squallore e la banalità della casa-gabbia televisiva, replicano all’unisono e a voce alta: «Ebbene sì, siete sei milioni di coglioni». Risposta del miglior ragionier Fantozzi. La scena è tratta dal film di Veronesi, Genitori e figli. Ma il Grande fratello (GF per chi è ormai «intimo» e informatissimo) s’infila dappertutto, come il gas nervino durante l’assalto di una squadra speciale tipo Swat: nelle colonne dei giornali, nelle notizie gossippare dei vari siti web, nei discorsi da autobus e da bar. Se si vuole capire meglio l’inclinazione dello scivolo culturale di chi si fa vedere per il gusto di esserci e di chi s’appassiona al nuovo fotoromanzo globalizzato, allora è meglio riflettere sulle nuove cronache italiane. Tutto viene enfatizzato. Tanto per dare l’idea delle sciagure sentimentali alle quali stiamo per assistere, vale la seguente frasetitolo: «Donne sull’orlo di una crisi di nervi: ci scappa il sangue…». È vero che siamo un paese di faide mafiose, ma tiriamo un sospiro di sollievo quando capiamo che il dramma deriva da Sarah
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web
«che molla una pizza in faccia a Mauro», mentre Carmen, provocata da Alessia, donna «insopportabile», sembrava posseduta da un demone». Non siamo nelle Notti bianche di Dostoevskji, ma nell’insonnia sciattona del plexiglass, dei riflettori, degli urletti isterici, dei pizzicotti sul sedere, delle boccacce, dei dispetti, di rivalità che poggiano sulle dimensioni mammarie o sulla carica seduttiva. O soltanto su un «vaffan…», che in quella sede è scoppio catartico e a volte regolazione dell’idraulica emozionale. Noi cronisti siamo morbosamente attratti dalla notizia forte, un po’splatter un po’trash. Insomma, l’horror di Halloween incapsulato in un finto condominio. Sì, perché siamo stati in grave apprensione alla voce di uno stupro. Per fortuna accompagnato dall’aggettivo «simulato». Per giunta smentito, così come sono state smentite le minacce di rissa. Consoliamoci nell’attesa di qualche bacio saffico, che è tanto di moda oggi. Più ancora dell’outing dell’omosessuale. Da precisare che rivelazioni di tal fatta si chiamano «perle»: è il nuovo gergo. Mammamia, pare che Sarah (sempre quella con la acca finale) e Mauro, che fa il salumiere, si siano sfiorati e «annusati» un po’troppo. Nel linguaggio politicomilitare si parla di «pistola fumante» (smoking gun: ricordate Saddam Hussein?), qui invece si adotta un linguaggio meno western: «prova provata». E giù discussioni, anzi no: balbettanti accenni di un fraseggio tra il salumiere e la ex playmate. Con tale Giorgio che stuzzica pronunciando parole che potrebbero causare valanghe: «Deficiente lo dici a tua sorella». Apprendiamo che una di quelle
games
che sognano di diventare starlet è siciliana: non può mancare il luogo comune sulle femmine diTrinacria, con sangue di fuoco. Ma no, scusate l’antiquato lessico, ora si dice «caliente», fa molto flamenco alla Leonardo Pieraccioni, con la toscanità triviale e lo sfottò dell’accento postdantesco. Cerchiamo però di essere un po’ comprensivi: in quegli ambienti angusti i nervi saltano, siamo nel mezzo di una tragedia vittoriana. Perché poi non credere a chi, lì dentro, segnala ad assenti pompieri che «c’è un mix esplosivo di personalità»? Siamo ben oltre Pirandello. Oltre il verismo post-Verga dato che la coatta coabitazione ha una ricaduta sugli ormoni. C’è chi sa o prevede: daje e daje, qui ci scappa la consumazione. Che non è proprio da intendere cappuccio e cornetto al bar. Manca la poesia? No. Merito di tale Veronica che s’appiccica a Sarah. C’è una dichiarazione, in dolce stil novo: «Sei la persona più importante, a parole non posso spiegartelo». Signorine, prego: spiegatevi certe cose quando tornate nei vostri tinelli. E poi il crescendo che lascerebbe prostrato uno come Petrarca: «Sei la mia anima, la mia pelle… siamo una persona unica». Baci veri o solo provocazione? La parola provocazione è cult: se manca vuol dire che siamo al romanzetto ultra-popolare, che schifo. Arriva sempre il momento della verità: il salumiere è sbigottito: dopo il regalo dell’anello fa cadere la mannaia di un giudizio da Corte di Cassazione: «Sei un uomo mancato». La casa televisiva rischia di saltare in aria come nel film di Antonioni. Siamo allo Zabrinsky Point del piccolo schermo. Che più piccolo di così proprio non si può. (p.m.f.)
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IL FEMMINISMO CHE VIENE DAL SUD
NEL SALOTTO DEGLI AZTECHI
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l sottotitolo è più esplicito di qualunque presentazione: Storie di egemonie culturali e pretese uguaglianze. Dal margine: nel tempo in cui tutti dicevano di avere capito. È da questa premessa che muove femminismoasud.org, osservatorio che affronta numerose questioni legate alle discriminazioni di genere, alla luce dell’attualità italiana che non è certo avara di spunti. Gli
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er quanti amano i giochi di ruolo, spendere cifre esorbitanti per titoli che spesso non mantengono ciò che promettono non è così indispensabile. La riprova è nel gratuito Native Kingdoms, browser-game ambientato ai tempi del leggendario periodo azteco, che in un breve lasso di tempo ha fatto registrare più di 300 mila iscrizioni. La missione del player è chiara e
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Un osservatorio nato nel Mezzogiorno che affronta le tante discriminazioni della Penisola
Un browser-game che trascina il giocatore nel difficile mondo della società precolombiana
Harlan racconta il cinema di Kubrick in un documentario ricco di testimonianze celebri
articoli che sfilano sul sito, si compongono di svariate suggestioni, tutte rigorosamente documentate: dalla manipolazione maschilista di alcune voci di Wikipedia legate ai temi della genitorialità, ai sempre più fitti stupidari sessisti ingranditi dagli imbecilli dei social network come da rilevanti protagonisti della politica. E poi anche i temi scottanti della violenza e della mercificazione, gli echi della condizione femminile nei Paesi a conduzione patriarcale, e la sempre più nauseante discriminazione delle precarie in ambito lavorativo, che spesso in Italia abbinano la gioia del parto al dolore del licenziamento. Uno spazio meritorio, che viene dal Mezzogiorno.
concisa: scalare la piramide sociale nel tentativo di arrivare ai più alti ranghi della gerarchia. Si parte da una condizione di semi-schiavitù: il lavoro in miniera non gratifica, ma pian piano è possibile conquistare la fiducia dei propri datori di lavoro. E magari mettere da parte un gruzzoletto per tentare il grande salto nel mestiere di artigiano. Di pari passo aumenteranno competenze e rispetto da parte della comunità, fino a che si potrà sperare di essere accolto in un clan azteco, una salotto buono da cui spiccare il volo verso i vertici. Gradevole e ben congegnato.
neggiature originali buone sono capolavori che si trovano una volta sola nella vita». Meticoloso e quasi inavvicinabile, Stanley Kubrick concesse pochissime interviste nel corso della sua esistenza, così che sul suo metodo di lavoro sono fiorite numerose leggende e più abbondanti misteri. Jan Harlan, che ne fu il produttore di riferimento, getta alcune interessanti luci sul grande regista in Stanley Kubrick- A life in picture. Ricco di testimonianze celebri, da Woody Allen a Tom Cruise, passando per Jack Nicholson e Nicole Kidman, il lavoro di Harlan ricostruisce con passione e precisione alcuni snodi chiave della filmografia kubrickiana. Preziosa lezione di cinema.
a cura di Francesco Lo Dico
A LEZIONE DA STANLEY el fare film una delle maggiori difficoltà cui si va incontro è trovare delle buone storie. Ciò ha inizio già con il fatto che un romanzo non è una sceneggiatura. Pochissima gente ne scrive di originali. Gli scrittori lo fanno raramente. E ci sono ancor meno registi che possono essere considerati buoni scrittori, a parte Allen e Bergman. E ci sarebbe Truffaut, se vivesse ancora. Sce-
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poesia
Romantico, sperimentale Hugo di Francesco Napoli l primo giugno 1885 Parigi celebrava i più imponenti funerali del secolo: si seppelliva Victor Hugo il poeta sovrano. Per dieci giorni l’intera stampa preparò l’opinione pubblica francese ed europea (…) La lingua che Victor Hugo stesso aveva arricchito di tante espressioni elogiative, pareva povera ai giornalisti, per cui essendo chiamata a tradurre la loro ammirazione per “il più gigantesco pensatore dell’universo” si ricorse all’immagine. Un foglio della sera, a corto di vocaboli, rappresentò in prima pagina il sole morente nell’oceano. La morte di Hugo era la morte di un astro. “L’Arte era finita!”». Così polemicamente racconta Paul Laforgue il cordoglio per il padre della letteratura francese Otto-Novecento, e non solo francese, la cui salma fu vegliata da dodici poeti nel Pantheon di Parigi.
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IL FUOCO DEL CIELO I Non lo vedete il fianco nero di quella nube, Che passa accesa a tratti e pallida, e splendida alla vista, Come un’estate sterile incupita? Si direbbe che insieme, sul vento della notte, Tutto il frastuono e il vapore ardente Fuggano, di una città incendiata. Forse è sorta dall’acqua, dai cieli o dalle cime? Sarà il carro di fuoco che i demoni conduce A una vicina stella? E perché mai, orrore, dal caos misterioso Del suo seno a momenti un lampo furioso, Come una lunga serpe si scatena? (…) Victor Hugo (da Orientali)
V i c t o r - M a r i e H u g o (1802-1885) è stato tutto: poeta, drammaturgo, romanziere, saggista, colui che ha lanciato il Romanticismo e colui al quale tutti i Simbolisti, da Baudelaire a Mallarmé, hanno sempre riferito il loro fare. La prima infanzia è segnata da grandi eventi storici - Napoleone Bonaparte fu proclamato imperatore due anni dopo la sua nascita - e accesi contrasti famigliari che lo segnano: il padre Leopold era un alto ufficiale dell’esercito, un ateo repubblicano che considerava Napoleone un eroe, mentre la madre Sophie era una fervente cattolica realista. Come molti giovani scrittori della sua generazione, Hugo è stato profondamente influenzato da Chateaubriand, tanto che aveva deciso di essere «Chateaubriand o niente». La sua prima raccolta di poesie (Odi e altre poesie) è stata pubblicata nel 1822 e gli valse una pensione reale da Luigi XVIII. Anche se quella silloge fu da subito ammirata per fervore e spontaneità della versificazione, sono le Odi e ballate di quattro dopo a consacrarlo come maestro. L’anno successivo con il dramma Cromwell Hugo entra nel vivo del dibattito tra Classicismo e Romanticismo portando il suo contributo all’affermazione di quest’ultimo: l’opposizione romantici versus classicisti divenne con lui anche liberali versus conformisti, repubblicani versus monarchici. I suoi romanzi hanno una profonda influenza sugli scrittori successivi come Camus, Dickens e Dostoevskij anche se la critica è stata generalmente ostile, in particolare ai Miserabili: Taine lo trovò insincero, Barbey d’Aurevilly si lamentava della sua volgarità, Flaubert aveva trovato in quell’opera «né verità né grandezza», Goncourt biasimò la sua artificiosità e Baudelaire, nonostante i suoi giudizi favorevoli sui giornali, avrebbe castigato in privato come di «cattivo gusto» l’epopea. Come detto, Victor Hugo scrive versi fin dalla prima giovinezza nei quali da subito saranno ben presenti i suoi temi portanti: attualità, storia, religione ma
in particolare profonde riflessioni di poetica. Le allusioni a una dimensione contemplativa, estranea al mondo, risolta in solitudine e silenzio non sono infrequenti. Nella lirica Enthousiasme il «povero poeta» sa bene che sono vani i suoi impulsi bellicosi, che i suoi giorni se ne vanno «di sogno in sogno». In un altro luogo, poi, À un poéte, stabilisce la connessione tra spazi nascosti e proiezione solare «Lascia la tua poesia andare verso il sole!»; in un’altra ancora, Heureux l’homme…, lo spirito di chi passa il suo tempo leggendo e pregando è «pieno di sogni», solo creature angeliche si chinano su di lui, il presente e il mondo sembrano lontani e assenti. Baudelaire sa cogliere la qualità del poeta Hugo nei suoi esiti espressivi e formali e in Italia Pascoli e Carducci ne sono certo influenzati. Il lettore più refrattario non può non stupirsi di fronte all’orchestrazione magistrale del suo superbo arsenale retorico messo in piedi per raggiungere insoliti effetti fonici e ritmici. Sul piano poi della sovrabbondanza verbale di quelle che Baudelaire chiama le «accumulazioni» che affollano il «franare spumeggiante» dei suoi versi, c’è un indubbio limite mentre non ha limiti l’immagine dell’abisso, del gouffre, ricorrente ancor prima che in Baudelaire in Hugo che profila nei suoi versi una natura accogliente e un’umanità sofferente con uno stridente pathos contraddittorio tra le parti.
D o p o a ve r r i p r e s o la sua intera produzione raccogliendo in un unico volume i suoi componimenti con le Odi e ballate ricche di affreschi storici, evocazione dell’infanzia, dove affiora il mito mutuato dal padre di Napoleone e una religiosità più tollerante affiancata da un monarchismo più liberale, successivamente si allontana dalle preoccupazioni politiche per concedere spazio all’arte per l’arte. È la volta delle Orientali (1829) nelle quali fin dal titolo è evidente il gusto per l’esotico. L’esotismo, il fascino di un mondo lontano, misterioso danno carattere, colore, movimento. Ma soprattutto risaltano la varietà di registri, di situazioni e personaggi, l’alternarsi di forza e grazia, la capacità dell’autore di manipolazione ardita e di controllo della materia verbale con effetti a volte opposti: dai più sonori accenti eroici ad altre più tenui voci di magica dolcezza. Da «straordinario fabbro di lingua poetica» (Giudici) o come «più grande inventore di ritmi lirici che abbia avuto la poesia francese dopo Ronsard» (Sainte-Beuve), nelle sue Orientali fa rifluire versi da prodigioso sperimentatore di forme e metri. La raccolta apparve al tempo dei manifesti e delle battaglie romantiche di Hugo quando lui era ormai, nonostante la giovane età, figura di riferimento per un’intera generazione letteraria. E nella prefazione alla raccolta proclama la libertà della poesia e dell’arte perché nel «grande giardino della poesia - dice non ci sono frutti proibiti».
MobyDICK
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il club di calliope CHENGDE Il primo incanto nella campagna povera, il sospeso via vai dei ciclisti, la diga, le donne ai bordi che vendono la frutta. Era prestissimo e il formicolio mi aveva sorpreso lucente come se da uno squarcio fossi caduto dal sonno al sole quieto e gentile di un mondo leggero. Maurizio Cucchi
BANCHETTANDO CON LA LUCE IN CERCA DI DIO
UN POPOLO DI POETI In giardino mettevamo Nell'alba il vento del mare Era la lotta dei bambini E il cane veniva vicino, La città a un passo lontano, Così pura l'aria e il sole Cieco per le vie negli occhi Che oggi non ricordo più Chi ero e con chi.
Dino Campilli
in libreria
di Nicola Vacca erek Walcott è tutt’altro che un poeta religioso, ma è convinto che lo scopo della poesia «dopo tutto e al di là di tutto è di glorificare Dio». Non è forse assai diversa la poesia da qualsiasi forma di preghiera, e il poeta, qualsiasi poeta, è alla ricerca di Dio. Francesco Maria Di Bernardo Amato è un poeta della contemplazione pura. Nella sua poesia la vita spirituale è il necessario equilibrio dal quale nessuna anima può prescindere se si vuole stringere tra le mani qualche certezza nel grande mare della precarietà nel quale ogni giorno si affoga. Gli attraversamenti che il poeta ci propone in Elegia delle Beatitudini (Book editore, 80 pagine, 12,50 euro) vanno nella direzione di un’interrogazione divina del senso delle cose. Il poeta, come il viandante, si
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sia inizia la sua attività di scavo nel cuore dell’uomo con una sensibilità minuziosa grazie alla quale egli riesce a scorgere la rivelazione delle cose celesti che la mediocrità degli occhi nudi, appannati dalla materia, quasi mai riescono a mettere a fuoco. Di Bernardo Amato ama la poesia che guarda alla bellezza. La sua elegia in nessun caso cede al vuoto fine a se stesso, che l’insensibilità rende fisicamente visibile. «Ora questo presente che ci tiene saldi all’apparente/ Verso il futuro si protende a ciò che non si vede/ Amore/ E dentro da Oriente a Occidente/ L’Invisibile non è luogo ma speranza». Il poeta banchetta con la luce e si affida alla sensibilità della poesia per resistere «nel silenzio assoluto della storia» al senso di terrestre impotenza che domina i nostri impulsi. La poesia di
Il cielo è spoglio e l'alba si sente nei convogli nella piazza scura del suolo lavorato, è l'ora in cui il freddo si sente sibilare fra i pioppi il rumore delle auto giunge forte nella casa di via Galileo e odora di erba la banchina del porto così come nei mercati si stringe l'urlo quasi perso dei venditori antichi, cambia troppo il passaggio della vallata per sentirsi lieto.
Rossano Lafi
Il percorso di scavo di Francesco Maria Di Bernardo Amato nel cuore dell’uomo, per scorgere i segni della rivelazione. Perché solo la cura dell’anima ci può salvare mette umilmente in viaggio sul sentiero della vita per conoscere attraverso la parola che nasce da dentro il sale della terra di ogni piccola beatitudine. Con grande speranza nella conoscenza, Di Bernardo Amato scende fin dove il sentiero si fa stretto, accarezzato dalla verità della poe-
Francesco Maria Di Bernardo Amato è contemplazione e preghiera che mira ad apprezzare le cose buone e belle della vita. Per fare questo il poeta invita il lettore a prestare attenzione alla cura della propria vita spirituale. Fare anima è l’unica intelligenza che ci può salvare dal vuoto cosmico nel quale si precipita. Franz Kafka era convinto che l’esistenza del mondo dello spirito ci toglie la speranza e ci dà la certezza. Di Bernardo Amato è un poeta in cerca di Dio che si abbandona alla «profondità densa della discesa / dove la luce regge il contatto con le cose». Il poeta si avvicina al divino non ignorando mai l’umano che attraverso la poesia dovrebbe scoprire l’eccesso di sapienza che tutto attraversa e nulla rende vano.
Le grandi finestre gialle i luoghi freddi nella valle di nero le sento come armonia che mi invade di una melodia, che sento come velluto che amo nel suo minuto andare come oro, e dico chi sono loro che sanno amare che sanno disfare questo mondo mangiato come la vita come uno iato.
Lory Soccini
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
arti Il Nove100 degli equivoci MobyDICK
pagina 14 • 27 febbraio 2010
mostre
orse è la formula così ambiziosa ed equivoca e imperialista di «Novecento», a porre qualche problema e lasciare più di una perplessità (anche nella trovata più pubblicitaria di Nove100, gridata dai manifesti disseminati per tutta Parma, soprattutto per distinguerla dal Movimento di Novecento vero e proprio, che fu guidato da Margherita Sarfatti, e poi di Sironi, presente in mostra e anche debitamente monumentale, di Funi e compagni). Presenti o assenti in mostra, il problema non è quello classico dei dizionari, o dei giochini tipo figurine Panini, c’è o non c’è, ce l’ho o non ce l’ho, se ne saranno mai ricordati? Non vogliamo fare le pulci, ma la perplessità è più globale, sta proprio qui l’equivoco rischioso del titolo, perché poi uno, legittimamente, di fronte a quel Nove100, disteso come una bandiera sui manifesti, pretende d’avere una visione complessiva o riassuntiva del secolo. E poi soprattutto: è possibile parlare di Novecento, come secolo e non come movimento, senza un vero futurista, che sia Boccioni o Balla o Carrà e senza dover aspettare il revival di Schifano, oppure rinunciando a Casorati, a De Pisis o Morandi? C’è il rischio che uno non si raccapezzi, in una mostra che schiera soltanto Ceroli o Tadini, Guttuso o Adami, Scialoja o Afro. E non si può pensare nemmeno al secondo Novecento, visto che episodicamente altri maestri te li trovi, a confondere la cronologia. Forse sarebbe stato meglio dire esplicitamente, o far intendere, il «Novecento» di Arturo Carlo Quintavalle: cioè quello che lui ha potuto frequentare od ottenere da artisti viventi, in questa titanica impresa di raccogliere archivi in via di disfacimento, in questa sua capacità golosa di chiedere e ottenere, di convincere artisti riluttanti o generosi, e poi provvidenzialmente di tesaurizzare materiali «minori» (come disegni tecnici di architettura e progetti operativi di oggetti di design, o maquettes legate per esempio alla moda). Diciamo insomma che questa è la prima occasione vera di assaggiare l’enorme patrimonio «quasi sterminato» (si parla di cifre inimmaginabili, pantagrueliche, dei pezzi raccolti: preferiamo non proferire nemmeno la cifra di cui si parla, tanto risulta esorbi-
F
di Marco Vallora tante) confluito nello Csac di Parma, iniziato da Quintavalle in anni insospettabili e oggi diretto da Gloria Bianchino. Se con l’arte vera e propria il discorso è appunto davvero troppo complesso ed episodico, e magari avremmo l’occasione di ritornarci sopra, sulla fotografia e l’architettura qualche osservazione un po’ più organica si potrà avanzare. Per la fotografia, un’osservazione: non si può negare che Quintavalle sia stato uno fra i primi critici ad accorgersi anche del patrimonio quasi regionale di grandi artisti segreti, che poi sarebbero diventati più alla moda, e di tardivo dominio pubblico, come Ghirri, Jodice o lo straordinario genius loci bolognese Nino Migliori, grande nell’anticipare ricerche astratte, informali, di «strappi» alla Rotella, ch’è inutile, tanto son suggestivi, stabilire davvero chi è arrivato prima (anche se le date parlano chiaramente). In mostra, anche qui, qualche equivoco si pone, perché mentre stai vagando tra grandi protagonisti italiani, quasi regionali, improvvisamente hai qualche sobbal-
autostorie
zo, «ma guarda, come ricordano qui Evans o la Lange», per quelle modernissime campagne di documentazione, nelle plaghe della depressione americana, il modenese o il reggino come New Mexico? Ma no! è che senza nessuna soluzione di continuità siam passati da Giacomelli a Ben Shahn, da Basilico a White, e sono proprio loro, i maestri di tutti: da Man Ray a Florence Henry, precocemente acquistati, e sia reso il merito. Ma qui però si squilibriano non poco i rapporti. E ancora più, questo, si manifesta con l’architettura, raccolta in quella magnifica scuderia della Pilotta, che ha ancora sapore di mangiatoia. Tutti mescolati, non sai se per un calcolo ermeneutico o per una kermesse non-filologica, Alpago Novello con i suoi arredamenti fintocastello, accanto alle novità tecnologiche di Giò Ponti e Nervi, a Italia 61 o al Pirellone. Giuseppe Samonà-littorio (magnifico quel suo progetto introduttivo di Casa del Fascio) a pochi passi dal post-moderno irritante di Mendini, che fa un po’ Fluxus con la sua installazione della Bruciatura della seggiola, il genio compendario di Nizzoli (e i suoi inizi pittorici) a contatto con le provocazioni «paperinesche» di Sottsass jr, Gardella senior e junior, per la stessa ditta alessandrina di Borsalino, le provocazioni di Enzo Mari e gli arredamenti demodée di Pulitzer, per il transatlantico Conte di Savoia, le pesciere e le forchette di Sambonet con le lampade di Castiglioni, i prodigi un po’ datati della Brionvega, tra Zanuso e lo stesso Castiglioni, e i manifesti-choc di Italo Lupi, per far conoscere Alvar Aalto. Sì, molte cose son datate, come il Gazebo Archizoom per il Che Guevara, o altre perenti o divertenti provocazioni: i vasi tantrici, i sedili-allunaggio, i reggilibri futurista-spiaccicati di Branzi, gli «scherzi» sottilissimi di Munari, accanto alla sobria perfezione di Albini, o al gesto perentorio di Nervi, magari per un Pavesi sull’autostrada Torino-Milano. Sì, tutto questo è stato il nostro Novecento architettonico. Ma è giusto raccontarlo così, con l’allegra confusione di una città d’oggetti senza scrupolo «urbanistico»?
Ettore Sottsass Jr., “Casa con alloggio a due piani” (1945)
Nove100, Parma, varie sedi, fino al 25 aprile
Dalle origini al Duemila, all’ombra della Madonnina di Paolo Malagodi olitamente associate a Torino, le vicende dell’automobile hanno invece contato a lungo su un’altra città italiana di elezione. Pressoché in parallelo allo sviluppo industriale del capoluogo piemontese, divenuto sede nel 1899 del più importante costruttore nazionale, dall’inizio del secolo scorso Milano ha vantato un ruolo di primissimo piano. Nel variegato panorama di una produzione automobilistica che «se pure con caratteri di grande frammentazione, diede vita a un’industria che fu a lungo vitale e feconda e che soltanto fattori oggettivi la profonda crisi economica nazionale alla fine degli anni Venti, il secondo conflitto mondiale con le conseguenti distruzioni - portarono a un drastico regresso, poi ampiamente recuperato ne-
S
gli anni del boom economico». Come affermano Francesco e Giacomo Ogliari, cui è sembrato opportuno «proporre una panoramica della produzione automobilistica ambrosiana, dall’epoca pionieristica ai giorni nostri, non tanto dal punto di vista tecnico quanto analizzandola nel contesto dell’evoluzione della società e del lavoro milanese». Compito svolto dai due autori in un lavoro (Milano in automobile: l’industria automobilistica a Milano e in Lombardia dalle origini al Duemila, edizioni Selecta, 144 pagine di grande formato, 35,00 euro) che considera, in sequenza alfabetica, le caratteristiche delle aziende meneghine che hanno svolto varie attività in campo automobilistico. In una lunga sequenza di marchi legati sia alla produzione di vetture complete, sia all’elaborazione su prodotti altrui ma di tale entità da dare luogo a modelli pratica-
mente nuovi. Sono altresì compresi i costruttori di vetture da corsa o per scopi specialistici, prodotte in serie limitata se non in esemplare unico. Attraverso due sezioni, dalle origini al 1940 e dal secondo dopoguerra al 2000, vengono così passate in rassegna anche molte aziende oggi del tutto dimenticate. Con la curiosità, tra le altre, di una Ausonia che dal 1902 al 1910 produsse a Sesto San Giovanni automobili, oltreché furgoni per merci e omnibus per servizi d’albergo, a trazione elettrica. Tipo di propulsione che, in avvio del Novecento, ebbe grande vivacità e con semplice ricarica delle batterie dall’impianto elettrico di casa, per un’autonomia sino a sei ore dei veicoli Ausonia, utilizzati anche nei servizi postali milanesi. Ben più note sono, ovviamente, le vicende di altre marche e a partire da Alfa Romeo, sorta nel 1910 come «Anonima
Lombarda Fabbrica Automobili» e assorbita nel 1986 dal gruppo Fiat, con progressiva cessazione delle attività nell’area lombarda. Di universale fama fu, inoltre, la milanese Isotta-Fraschini fondata nel 1900 e che negli anni Venti realizzò vetture di gran lusso. Parimenti interessanti sono le vicende, nel secondo dopoguerra, di aziende come l’Autobianchi costituita nel 1955 dalla omonima Bianchi insieme a Pirelli e Fiat, o dell’Innocenti che dal 1960 al 1972 costruì su licenza le versioni italianizzate della britannica Austin. Il tutto esposto in un ben documentato volume, arricchito inoltre da pregevole e raro materiale fotografico che illustra le complesse vicende di un’industria automobilistica ambrosiana dagli innumerevoli marchi, alcuni dei quali sono stati per diverso tempo affatto secondari rispetto a quelli torinesi oggi in attività.
MobyDICK
27 febbraio 2010 • pagina 15
moda
Reggerà Milano al low cost (e ad Anna Wintour)? di Roselina Salemi ià da prima che iniziasse Milano Moda Donna, si parlava moltissimo del pamphlet L’ultima sfilata, di Luca Testoni (Sperling & Kupfer), che comincia con un annuncio shock datato 1 febbraio 2015: «Con grande rammarico il Comitato di Presidenza ha deciso di annullare l’edizione ormai prossima di Milano Moda Donna. Dopo oltre quarant’anni, Milano perde le sue sfilate». Non è ancora successo, ma potrebbe succedere. Perché è finita un’era. Quella dei grandi stilisti, delle top superpagate, del miracolo industriale, del made in Italy che conquistava Hollywood e dettava le tendenze in tutto il mondo. E le passerelle sono, più che altro, uno spettacolo, una fiera delle vanità. Per vedere i vestiti ci sono showroom, video, fotografie, i buyers anticipano gli ordini, il mercato ha fretta. Contano i testimonial, coccolatissimi: Rania di Giordania in Armani Privè al Festival di Sanremo, Mary J. Blige in Gucci per i Grammy Awards e Withney Houston in Krizia. Non puoi più presentare alla fine di febbraio una collezione che arriva in vetrina già dopo ferragosto. Milano sta perdendo centralità, il sistema scricchiola. Colpa, secondo Testoni, di una «casta» che per troppo tempo ha coltivato il proprio lussuoso orticello senza guardare al futuro. Un settore incapace di sostenere l’urto di una moda sempre più low cost e low
G
architettura
luxury, tiranneggiato da personaggi come Anna Wintour, potentissima direttrice di Vogue Usa. Da anni la signora non nasconde la sua predilezione per gli stilisti americani e prova a ridurre i giorni dedicati alle sfilate di Milano, da sette a cinque, poi a quattro, e in questo 2010 giusto un long weekend (dal 26 al 28 febbraio). Già che c’era, ha invitato Parigi a stringere il suo, di calendario, perché lei ha molto da fare, tipo presenziare alla notte degli Oscar. A Milano c’è stata una mezza rivolta (il sindaco Letizia Moratti, il presidente della Camera della Moda, Mario Boselli, Giorgio Armani, che ha protestato su Repubblica), accompagnata da una rivisitazione last minute del calendario. I giorni sono rimasti cinque, ma a fatica. Anna Wintour è diventata un caso politico. Alla domanda: «Ma chi crede di essere?», la risposta è: quella che detta le regole. Quella che rilancia le pellicce quando gli altri cedono a imbarazzi
A sinistra, Rania di Giordania in Armani Privé al Festival di Sanremo. Accanto, la temibile Anna Wintour a una sfilata
animalisti. Quella che, se non arriva, lo show non comincia. Quella che ha ispirato Il diavolo veste Prada, ma la realtà supera la fantasia. Anna Winotur è capace di considerare grassa una modella filiforme come Caroline Trentini, di fare la faccia straziata davanti ai tormenti creativi di Stefano Pilati,
direttore di Yves Saint Laurent (è nel documentario Il numero di settembre, di R.J. Cultler), di obbligare Oprah Winfrey a perdere 20 chili per avere la copertina di Vogue e di scaricare Hillary Clinton che l’aveva rifiutata. Ma guai a pensare che sia lei l’ago della bilancia (è troppo facile). Sul banco degli imputati ci sono un po’ tutti. E se non arriva il famoso «scatto di orgoglio», forse l’epigrafe l’ha già scritta Valentino: «Me ne sono andato dalla festa quando ancora c’era gente».
L’uomo nella Metropolis: gli stili del Ventennio a giornata dell’uomo del XX secolo è scandita dal ritmo metropolitano, dal lavoro, dalla colazione e dagli incontri: le luci artificiali annunciano le funzioni e il tempo, e sostituiscono il ciclo naturale degli astri. Al cambiamento degli stili della vita in Italia nel ventennio fascista, tra il 1922 e il 1943, è dedicato il libro, davvero sorprendente, curato da Lupano e Vaccari. Al centro è la moda, nel significato più esteso, durante il fascismo: modelli di abiti e di calza-
L
ture che evocano forme, immagini e colori in serrato dialogo con l’arte, la grafica, il design e l’architettura più d’avanguardia. Durante il regime la moda diventa in Italia veicolo di propaganda della modernizzazione che il fascismo persegue, e dell’orgoglio nazionale, che non intende sottostare alle tendenze imposte dalla Francia, tradizionale fucina di novità sartoriali e non solo. In questo volume la moda italiana del ventennio, che è un rifles-
di Marzia Marandola so del vivere in Italia, è ripercorsa attraverso un prodigioso repertorio di immagini, tratte da riviste di moda, femminili, di cinema, di mondanità; archivi fotografici di sartorie, riviste di architettura e di design. Il volume si qualifica come «saggio visuale» - tale lo definiscono i curatori - che illustra i cambiamenti repentini di quegli anni, e dimostra il potere delle immagini di raccontare un’epoca ormai remota. Misura, modello, marca e sfilata sono le parole chiave che guidano la lettura. La misura, che approda alle taglie degli abiti, è il risultato del rigore scientifico introdotto dalla produzione industriale, ma misurate sono anche le forme pure e le griglie prospettiche che definiscono gli spazi. Si veda ad esempio il progetto di Vito Latis per il palazzo della moda, pubblicato su Casabella del 1934. I fondali a griglia geometrica sono gli scenari privilegiati nei quali fotografare modelle eleganti, dagli abiti modernissimi. Modelli di abbigliamento e di comportamento sono promossi dal fascismo, ma in piena libertà espressiva. Negli anni Trenta architetti del calibro di Gio Ponti, Franco Albini, Giuseppe Pagano e
Giuseppe Terragni progettano nuovi arredi: dallo «spogliatoio per signora» di Albini alla «stanza per un uomo» di Albini e Pagano, prototipi pionieristici che guideranno il design e l’architettura degli anni a venire. Le firme degli stilisti (allora semplici couturier) avviano la cultura del made in Italy e costruiscono un’identità nazionale. Le firme di Ferragamo, Borsalino, Gucci, Luisa Spagnoli sono vanti nazionali, come le italianissime fibre tessili. Soprattutto fibre artificiali, di produzione autoctona, tra cui la più commercializzata e pubblicizzata è il rayon. Gli stabilimenti della Snia Viscosa, che producono le fibre, diventano direttamente immagine della modernità e del progresso tutto italiano, dove l’estetica industriale si mescola con le direttive del progetto governativo. Infine le sfilate, che condividono lo spirito delle coreografie delle parate militari del regime, mostrano con orgoglio il moderno stile di vita italiano. Il volume (che viene presentato oggi a Milano, alle 16.00, al Kaleidoscope di via Giovanni Masera) illustra visivamente come l’ingegno italiano abbia saputo produrre, nonostante il fascismo, memorabili e libere innovazioni, grazie allo sforzo promozionale del regime.
Una giornata moderna. Moda e stili nell’Italia fascista, a cura di Mario Lupano e Alessandra Vaccari, Damiani, 400 pagine, 45,00 euro
pagina 16 • 27 febbraio 2010
i misteri dell’universo
MobyDICK
ai confini della realtà
di Emilio Spedicato e non viene esercitata, la memoria diminuisce… recita un noto detto latino, che ha la sua verità ma non dice tutto. Con il passare del tempo il cervello perde i componenti cui è associata, in un modo alquanto misterioso, la memoria. Il grande Hans Bethe, il fisico che fu fra i primi a occuparsi dei processi nucleari, sia all’interno delle stelle che nelle bombe atomiche e nei reattori nucleari, il quale, uso a recarsi ogni giorno al suo ufficio dell’Università di Princeton anche quando aveva di gran lunga superata quella che in Italia è considerata l’età pensionabile (negli Stati Uniti un’età massima per il lavoro è stata dichiarata incostituzionale) diceva, a 99 anni, poco prima di morire, che non aveva più la bella memoria dei suoi 90 anni. Conosco ultranovantenni dalla memoria virtualmente perfetta, come il soprano Magda Olivero e la principessa Topazia Alliata, già moglie del grande antropologo Fosco Maraini e madre della nota scrittrice Dacia Maraini. Sulla natura biologica della memoria umana ancora poco si sa. Agli inizi della mia carriera lessi il libro The memory system of the brain, che tentava, in un modo che mi apparve fumoso e poco convincente, di spiegare come la memoria funzioni. Sappiamo che è associata ad aree diverse del cervello, quella più stabile forse non nella corteccia, che nei casi di Alzheimer appare alterata da strane placche, ma in regioni interne del cervello; e questo spiegherebbe come tendano a conservarsi più a lungo le memorie musicali e, curiosamente, quelle delle parolacce (forse associate a forme di difesa).
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Non tutte le persone nascono con lo stesso potenziale di memoria. Questa nota nasce dalla lettura, su un giornale qualche tempo fa, della scomparsa, a 58 anni nello Utah, di Kim Peek, l’ispiratore del personaggio interpretato da Dustin Hoffman nel film Rain Man. Peek era affetto da autismo, problema psicologico con base neurale la cui realtà è stata accettata invero da non molti anni. Chi ne è affetto ha spesso enormi problemi di comunicabilità con gli altri, è incapace di fare operazioni banali per la maggior parte delle persone (come vestirsi, pettinarsi, lavarsi…), ma ha in certi campi intellettuali doti straordinarie. Peek incominciò a leggere a poco più di un anno, a sei anni aveva memorizzato la Bibbia, poteva leggere due libri contemporaneamente, sino a 9 al giorno, e pare avesse memorizzato complessivamente oltre 12 mila libri. Un caso certo straordinario, anche se forse il record di memorizzazione spetta a un russo, su cui un neurologo scrisse il libro L’uomo che non dimenticava nulla, caso spesso citato dal neurologo americano Oliver Sacks nei suoi libri. Il russo ricordava momento per momento che cosa era successo praticamente ogni giorno della sua vita (come era il tempo, le persone incontrate, le cose viste…). Fatto che per nulla gli piaceva, dato che erano incancellabili anche i ricordi spiacevoli. A parte Pico della Mirandola, fra i grandi studiosi noti per la
I perché della memoria
Secondo gli antichi, per non diminuire deve essere esercitata. Ma sulla sua natura biologica ben poco si sa: è associata ad aree diverse del cervello, probabilmente nelle regioni più interne. Di certo tra i più dotati spiccano i musicisti. Uno per tutti: il caso straordinario di Toscanini...
memoria cito John Von Neumann, che considero il più grande scienziato del Ventesimo secolo (sarà forse un giorno seguito in questa valutazione da Kary Mullins, il premio Nobel che scoprendo la reazione di polimerase ha dato via all’ingegneria genetica, di cui ora vediamo solo gli albori). Von Neumann ricordava, pare, ogni pagina che leggesse e sembra che avesse memorizzato l’enciclopedia storica in 50 volumi che il padre gli aveva regalato da ragazzo; e si capisce allora come frequentasse volontieri lo storico Arthur Koestler, il cui straordinario libro I sonnambuli fu in realtà il frutto di lunghi colloqui che i due ebbero le domeniche nell’isola fluviale dove Koestler aveva la sua villa.
Celebri per la memoria sono i musicisti. Pare che Toscanini (ne abbiamo parlato in un precedente articolo) conoscesse millecinquecento opere, liriche e sinfoniche, a memoria, ricordando visivamente lo spartito, anche con le eventuali macchie e abrasioni: Oliver Sacks, da me sollecitato a questo proposito, mi scrisse di considerarlo un fenomeno senza confronti, perché la sua memoria era analitica e capace di confronti. Altri direttori di orchestra italiani dotati di memoria straordinaria sono Victor de Sabata e Giuseppe Patanè. Su de Sabata ricordo il seguente episodio, che scoprii essere sconosciuto anche a sua figlia Eliana. Una volta, durante un ricevimento, vide un tale, lo chiamò al pianoforte e suonò l’inizio di un pezzo, chiedendogli se sapeva cosa fosse. Alla risposta negativa, riprese e finì il pezzo, ripetendo la domanda. Alla seconda risposta negativa, disse: ma è la composizione che hai portato al tuo esame al conservatorio! Su Giuseppe Patanè, figlio del direttore Francesco e padre del soprano Francesca, donna di grande cultura e bellezza, ricordo il seguente episodio, raccontatomi da Enrico Pituello, promotore di Caruso e del museo a lui dedicato che dovrebbe aprirsi a breve a Lastra a Signa, nella Villa Bellosguardo già di Caruso. Un giorno Pituello si trovava nello studio di Patanè, tappezzato di spartiti. Patanè gli dice: prendi lo spartito che vuoi, aprilo e dimmi a che pagina sei. Pituello prende lo spartito di una dimenticata opera del Settecento, dice la pagina e Patanè ne solfeggia il contenuto. Chiudiamo con un aneddoto su Glazunov, compositore russo che diresse per una ventina di anni il conservatorio di Leningrado, fu maestro dei grandi pianisti Sofronitski e Judina, e amico di Shostakovich, dalle cui memorie prendo questo episodio. Una volta fu invitato un compositore che doveva suonare sul pianoforte una sua sinfonia. Glazunov fu fatto nascondere in una stanza vicina con la porta chiusa. Finita l’esecuzione, il padrone di casa disse: abbiamo qui un altro compositore. Entrò Glazunov e al piano ripetè esattamente la sinfonia eseguita dall’altro. Episodi simili possono trovarsi con riferimento a italiani del Settecento nello straordinario libro Viaggio musicale in Italia, di Charles Burney, che viaggiò in Italia nel 1770, visitando Torino, Milano, Brescia, Verona, Padova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Napoli...