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MEDIAMORFOSI Le nuove frontiere della tv Le nuove frontiere della tv di Francesca Parisella
Il 2008 resterà come l’anno digitale. Iptv, webtv, tv digitale mobile… Tutto sui nuovi mezzi che rivoluzioneranno per sempre il nostro “focolare domestico”
9 771827 881301
ISSN 1827-8817 80301
Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Divisi dal mistero di Sergio Valzania Combattenti della scrittura di Maria Pia Ammirati
omputer, macchine fotografiche e molti degli elettrodomestici che usiamo in casa funzionano grazie alla tecnologia digitale, un’evoluzione importante che in breve tempo ha saputo migliorare la qualità della nostra vita, spesso condizionandola. Una vera e propria metamorfosi tecnologica che negli ultimi anni sta notevolmente contribuendo anche all’evoluzione del settore televisivo, l’unico ambito che finora sembrava essere rimasto estraneo alle innovazioni tecnologiche, fatta eccezione per il rivoluzionario passaggio dalle trasmissioni in bianco e nero a quelle a colori,
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NELLE PAGINE DI POESIA
Vita di un uomo soldato nel Carso di Francesco Napoli
avvenuto nel lontano 1977 (nella Rai di Ettore Bernabei). Per molti esperti di comunicazione, il 2008 resterà negli annali della televisione come l’anno digitale, in cui assisteremo a un veloce abbandono dell’analogico ai ricordi di quanti il 3 marzo del 1954 si lasciarono affascinare dalla prima trasmissione non sperimentale del Programma Nazionale, oggi Rai Uno. Un’evoluzione importante per quella scatola magica che presto fu ribattezzata il «focolare domestico». Chissà cosa avrebbero pensato gli spettatori americani, che nel 1928 osservarono i continua a pagina 2
Nannarella, il giorno della memoria di Claudio Trionfera Persepolis: a scuola di veterocomunismo di Anselma Dell’Olio
Le mitografie di Sam e Larry Shaw di Marco Vallora
mediamorfosi
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segue dalla prima primi timidi passi dell’invenzione elettromeccanica - la televisione appunto se gli avessero detto che in meno di un secolo avrebbero guardato la televisione in Hd - high definition - quindi con un’eccellente qualità di immagini e suoni, e che sarebbe arrivata comodamente nelle loro case grazie alla fibra ottica senza doversi più porre il problema di installare sul tetto un’ingombrante antenna. Il loro parere non lo conosciamo, ma il nostro è certamente molto positivo. Seguire oggi i nostri programmi preferiti non è più un calvario fatto di interruzione di segnale e bassa qualità audiovisiva e il futuro - si spera prossimo - si prospetta ancora più roseo con il potenziamento in termini di fruibilità e di contenuti dell’iptv, la televisione visibile in formato digitale grazie alla connessione internet a banda larga, la tv digital mobile, che si può vedere comodamente sul proprio videofonino, e la webtv facilmente visibile tramite internet. Nuovi modi di vedere e pensare la tv che stanno facendo proseliti. Insomma l’inizio della televisione è analogico - l’informazione elettronica varia in modo continuo assumendo un alto numero di valori - ma il suo futuro parla decisamente in formato tecnologico e digitale, che si basa su un sistema di trasmissione/ricezione numerico utilizzando un codice binario e per questo più semplice da codificare. La prima alternativa alla televisione analogica è arrivata in Italia nel 2003: la tv satellitare, che si serve del segnale emesso da trasmettitori posti su satelliti per telecomunicazioni geospaziali. Al satellitare analogico si è quasi completamente sostituito quello digitale, garantendo così un’alta qualità audiovisiva - meglio definita Hd. Oltre ai canali a pagamento, che facevano inizialmente parte del pacchetto Tele+ o Stream, oggi inglobate da Sky, si sono diffuse un gran numero di emittenti gratuite - free to air - che hanno implementato l’offerta televisiva. Nel breve tempo la tv satellitare, che per contenuti e numero di canali disponibili ancora rappresenta una valida alternativa ai canali generalisti - e il successo di pubblico lo conferma -, si è sempre più definita come una piattaforma tematica: ogni singolo canale tratta esclusivamente generi e argomenti selezionati.
Una valida soluzione sia per lo spettatore, che sa di avere una programmazione mirata a soddisfare i suoi gusti, anche in termine di messaggi pubblicitari, sia per le aziende che, puntando sul passaggio televisivo per aumentare le vendite, hanno in questo modo certezza dell’interesse del bacino di utenza. Al momento la tv satellitare è l’alternativa preferita dagli italiani alla televisione generalista che sembra sempre più cosciente di essere sul viale del tramonto tanto da aver appiattito i suoi contenuti ormai privi di novità. Una situazione, questa, che ha favorito l’interesse del pubblico nei confronti anche dei nuovi media
quali l’iptv, la webtv e la tv digitale mobile, il vero laboratorio creativo della televisione. Lanciata in Italia da 3Italia nel 2006 per i mondiali di Calcio, la tv digitale mobile in Dvb-H, una tecnologia di broadcasting (di fatto, è il digitale terrestre adattato alla fruizione in mobilità sui Tvfonini), permette di raggiungere potenzialmente un’audience illimitata.
Rispetto allo streaming Umts, ovvero alla trasmissione punto-punto, il DvbH ha notevolmente migliorato la qualità in termini di ricezione, con immagini di qualità digitale, e in termini di ricchezza di contenuti. Infatti, oltre alla programmazione dei migliori canali Rai, Mediaset e Sky, la tv digital mobile offre nuovi canali autoprodotti in studi tv interamente tapeless, senza bisogno cioè di registrare su nastri magnetici. Secondo un rapporto condotto da Ims Research, entro il 2010 i servizi per la televisione sul cellulare saranno utilizzati da circa 120 milioni di utenti, una previsione che in termini di fatturato si dovrebbe tradurre
sione via protocollo internet - rappresenta la nuova frontiera televisiva che sfrutta il segnale a banda larga. Una diffusione, quella dell’iptv, agevolata dalla sempre maggiore diffusione dell’Adsl. Recenti stime valutano che nel 2009 la tv via protocollo internet conterà ben 8,7 milioni di spettatori, grazie alla sua semplicità di fruizione e alla possibilità che ogni utente ha di gestire il proprio palinsesto, video on demand - Vod - elemento che segna una netta contrapposizione alla regola fondamentale della televisione dove il palinsesto è deciso dall’editore lasciando all’utente come unica possibilità di scelta quella di cambiare canale. L’iptv inoltre promette di arricchire i propri contenuti video con funzionalità interattive che favoriscono la partecipazione e il coinvolgimento degli utenti della rete, basandosi sul feedback, ovvero conoscere in tempo reale i programmi seguiti da ogni singolo spettatore, un auditel reale e non basato su famiglie campione. Il feedback diventa così una garanzia anche per gli investitori, in quanto i messaggi
diretta gli utenti, promuovendo la loro partecipazione nella creazione del proprio palinsesto, come dimostrano i fenomeni Current tv, Babelgum, Joost, You Tube. Mandare in onda contenuti creati dallo spettatore senza doversi preoccupare di effettuare grossi investimenti è la rivoluzione che offre la web tv, un fattore determinante in grado anche da solo a rivoluzionare il concetto di televisione. Possedere una webcam e una buona connessione alla rete basteranno perché ogni spettatore si possa trasformare in un «editore televisivo».
La web tv si presenta quindi come l’ultima grande sfida alla pigrizia intellettuale. Canali illimitati, digitale e varietà di programmazione gli ingredienti che daranno nuovamente visibilità alla televisione? Possibile se non fosse per la difficoltà di connessione quando più utenti in rete seguono lo stesso contenuto. In un simile panorama mediatico - che seppur con dei limiti promette grandi rivoluzioni - poco interesse desta il digitale terrestre, un progetto che negli scorsi anni sembrava destinato a un brillante futuro. Soltanto Mediaset continua a credere nel ddt e alle sua potenzialità. Che bello sarebbe avere una televisione intelligente che, registrando tutte le nostre scelte in termini di programmazione, potrebbe proporre contenuti e pubblicità mirate al nostro gusto. E quanto vi piacerebbe poter dare il vostro parere semplicemente pigiando i tasti del telecomando? Un desiderio che al momento non intende trasformarsi in realtà dacché il dtt - la televisione digitale terrestre - è l’unica innovazione in grado di offrire, oltre a nuovi canali tematici - a pagamento-, un’eccellente qualità del segnale.
Nell’immagine a fianco, un’opera di Mario Schifano
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Recenti stime valutano che nel 2009 la tv via protocollo internet conterà ben 8,7 milioni di spettatori, grazie alla sua semplicità di fruizione e alla possibilità di gestire i palinsesti in profitti annuali per 5,4 miliardi di dollari. Un mercato interessante quello del Dvb-H - digital video broadcasting handheld - se si tiene in considerazione che solo in Italia la tv digitale mobile di 3Italia ha segnato un incremento di 800 mila nuovi abbonati negli ultimi diciotto mesi. Perché questo trend possa continuare a essere positivo è stata elaborata una nuova formula di abbonamento come il triple-pay (internet, chiamate e tv). Sarà per calmare i propri figli in lacrime o per migliorare la qualità dei tempi di attesa, però una cosa è certa: i clienti della tv digital mobile la guardano ogni giorno per circa 60 minuti. Senza realmente sperimentare la tv via cavo, che in America ha avuto un’ampia diffusione, agevolata anche dalla semplicità di trasmissione del segnale attraverso i cavi del telefono già ben distribuiti sul territorio americano, l’iptv - la televi-
promozionali possono essere mirati e quindi più efficaci perché rivolti a un’utenza interessata. Due sono ancora i grandi limiti della televisione via protocollo internet: subisce il fenomeno della digital divide - ci sono zone in Italia dove non è possibile utilizzare la connessione a internet -, e, essendo una piattaforma proprietaria, quindi una tv a pagamento, c’è bisogno di sottoscrivere un abbonamento con la compagnia prescelta alla quale sarà legato il set-top box. La webtv, invece, che non si basa su una tecnologia proprietaria, e grazie alla tecnologia usata può avere un numero infinito di canali per offrire una varietà di programmazione molto più ampia, sfruttando e potenziando nello stesso tempo le caratteristiche distintive dell’audiovisivo: la forza persuasiva e le potenzialità emozionali. Da non sottovalutare è infatti la possibilità di coinvolgere in maniera
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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23 febbraio 2008 • pagina 3
MISTERO ualche settimana fa un collega della radio mi ha raccontato una piccola ma significativa avventura linguistica che gli è capitata. Nel corso di una trasmissione culturale aveva usato la locuzione «è un mistero» in senso del tutto discorsivo, per significare «si tratta di un fatto difficile da capire», senza nessuna accezione legata a fenomeni paranormali o ultraterreni. Dopo pochi minuti è arrivata la telefonata di protesta di un ascoltatore: lamentava il cedimento del conduttore a una visione non scientifica, e quindi primitiva, del mondo che il semplice uso della parola mistero avrebbe comportato. Forse l’ascoltatore radiofonico protagonista della vicenda esagerava un po’. Non sempre pronunciamo le parole attribuendo loro la pienezza del significato che le caratterizza, piuttosto le utilizziamo in senso metaforico. Quando diciamo che «è un peccato» di solito non intendiamo esprimere un giudizio morale su di un’azione qualificandola in senso religioso, vogliamo solo intendere che ci dispiace per quello che è accaduto e che si sarebbe potuto fare di meglio. Ugualmente bisogna riconoscere all’improvvisato censore linguistico una notevole sensibilità filologica. La sua critica semiologica coglie un punto nodale del pensiero contemporaneo. Mistero è una parola spartiacque, di quelle che dividono gli uomini in due insiemi. Da una parte stanno quanti credono che le origini prime del mondo non siano conoscibili, dall’altra si trova chi pensa invece che tutto abbia una spiegazione razionale, scientifica, legata alle leggi della natura e che prima o poi arriveremo a impadronircene.
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Quando ci avviciniamo al concetto di mistero ci troviamo in prossimità dei fondamenti dell’essere, del nostro modo di concepirli. Tutti ci troviamo quotidianamente, si potrebbe sostenere anche in ogni momento della nostra vita, di fronte a fatti e situazioni che trascendono almeno in parte le nostre capacità di comprensione. Non mi riferisco solo ai grandi temi, la vita e la morte, l’odio e l’amore, il dolore e l’ingiustizia, l’arte e la bellezza. Più semplicemente sostengo si debba riconoscere che ogni più piccola sensazione, ogni debole sentimento di appagamento, soddisfazione, fastidio o irritazione contiene una componente della quale non riusciamo a darci del tutto ragione. Fosse anche semplicemente il piacere di un raggio di sole che ci riscalda mentre camminiamo verso l’ufficio d’inverno. Perché la ragione per cui un po’di tepore in una giornata fredda faccia piacere è chiara, ma ci sfugge il complesso meccanismo di consapevolezze, sensazioni, emozioni, distanze e partecipazioni che si attivano nel nostro renderci conto di ciò che proviamo, nel bene e nel male. Capita che le nostre emozioni ci stupiscano, ad esempio quando proviamo istintiva simpatia per una persona che ha compiuto una trasgressione o antipatia per qualcuno di cui pensiamo di condividere le idee. Proprio nell’atteggiamento di fronte alla percezione prima, immedia-
È uno di quei termini che divide gli uomini in due insiemi: quelli che credono che le origini del mondo non siano conoscibili e quelli che invece pensano che tutto abbia una spiegazione razionale, scientifica
Lo spartiacque di Sergio Valzania ta del mondo si annida la differenza di posizione nei suoi confronti fra chi ha sviluppato una visione religiosa e crede quindi in un mistero fondante, continuamente ripetuto e attualizzato, e chi invece vive nella convinzione che la realtà che conosciamo si autogiustifichi e funzioni come una macchina molto complicata delle cui modalità operative verremo prima o poi completamente a capo. All’origine del creato si troverebbero degli enigmi, per i quali esiste una soluzione, e non dei misteri, fatti per essere contemplati. Infatti la divinità si manifesta all’uomo attraverso di essi. La contemplazione di questi punti di massima vicinanza comporta di per sé un aumento di consapevolezza attorno alle ragioni ultime dell’essere. Attraverso questa pratica il devoto
progredisce nella strada della consapevolezza, che è cosa diversa dalla conoscenza e con essa deve convivere.
In molti credono ancora che le nostre emozioni siano la dimostrazione dell’esistenza di una dimensione che trascende la materia, nella quale si manifestano fenomeni come la sensibilità artistica o la profondità degli affetti. Altri preferiscono invece pensare che gli uomini non siano altro che sofisticate macchine funzionanti su di una doppia base, chimica ed elettrica, la cui autoconsapevolezza non è che la risultante di un meccanismo fisico non ancora scoperto. La differenza delle premesse, degli atteggiamenti, si risolve in una divaricazione radicale nell’assetto con il
La divinità si manifesta all’uomo attraverso il mistero. Contemplarlo e trarre da esso consapevolezza significa accogliere la presenza di Dio, in qualunque forma lo si voglia immaginare
quale ci si rapporta alla vita stessa. Accettare l’esistenza di un mistero di fronte al quale l’uomo non può che raccogliersi nella contemplazione significa accogliere la presenza di Dio nel mondo, in qualunque forma lo si voglia immaginare, foss’anche nello scorrere permanente di un fluire dell’essere di cui noi scorgiamo solo le apparenze. Altrimenti l’universo diviene il luogo della meccanica, delle leggi fisiche, delle probabilità, nel quale l’uomo aumenta la propria comprensione e la capacità di dominio, secondo una progressione in teoria inarrestabile. In breve è l’uomo a essere la divinità proprietaria di questa creazione, che in effetti ha prodotto con la propria immaginazione e che continua a plasmare sulla base del proprio desiderio di potenza. Privare il mondo del mistero lo impoverisce, ma ne fa una preda possibile per la conquista da parte dell’uomo. Edipo che risolve l’enigma proposto dalla Sfinge acquisisce il dominio sul mostro, che infatti si getta dalla rupe. Il mistero invece non può essere sciolto, trascende la misura delle possibilità umane, è posto prima e al di là del tempo e della creazione. È a esso che fanno riferimento tutte le scritture sapienziali. Giobbe nel suo dramma si confronta con il mistero dell’insondabilità dell’agire divino. Lo fa con una forza tale da riuscire a evocarlo, ma solo per sentirsi dire che la sua volontà non è comprensibile per l’uomo. Alla domanda attorno alla giustizia dell’agire divino, ossia delle cose del mondo, Giobbe si sente rispondere: «Dov’eri quando gettavo le fondamenta della terra?».
Il tema che viene posto è proprio quello della natura del creato, della sua derivazione dal caso o da una volontà. Né si può sfuggire all’opposizione attraverso il sofisma di immaginare un Dio che crea il mondo per poi abbandonarlo a se stesso, in balia delle leggi fisiche che gli avrebbe imposto. Un tale Dio sarebbe ben pigro e distratto, oltre che prigioniero in modo inspiegabile del tempo come appare a noi, che viviamo all’interno di questa modalità di presentarsi dell’essere, che però sappiamo essere relativa al nostro punto di osservazione. Anche in Qoelet troviamo la tensione fra il ricordare che «unica gioia per l’uomo è mangiare e bere e godere i frutti del suo lavoro» e che «ho messo tutte le mie forze per indagare e scoprire il senso di tutto quello che accade in questo mondo, ma devo concludere che ogni sforzo è stato vano». Ma anche se «tutto è vanità» esistono situazioni e contingenze diverse, ciascuna delle quali legata con la forza del mistero all’azione che deve essere compiuta. Altrimenti che senso avrebbe «tempo di nascere, tempo di morire»? Possiamo concludere che almeno per un motivo l’ascoltatore che ha telefonato al mio collega avesse perfettamente ragione: pronunciare la parola mistero evoca di per sé problematiche che per un rigoroso scientista, fiducioso nel fatto che oltre la materia non esiste niente, è bene rimangano nascoste.
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POP
musica
ReGeneration Il beat italiano riletto dai Pooh di Stefano Bianchi iente pregiudizi, please. Che i Pooh vi vadano a genio o di traverso, con quel pop pluridecennale formato famiglia, poco importa. Diamo merito a Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian e Stefano D’Orazio di aver confezionato con Beat ReGeneration il migliore omaggio possibile (a quarant’anni tondi dal ’68) a quel beat italiano che li vide fulminei protagonisti con Brennero ’66 e Per quelli come noi, canzoni che indagarono con coraggio il terrorismo altoatesino e la contestazione giovanile. Titolo double face, Beat ReGeneration: da una parte la citazione alla Generazione Beat letteraria (non a caso il libretto del cd si apre con la frase di Jack Kerouac ««La beat generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo»); dall’altra la musica beat che si rigenera in un impeccabile restyling che solo i Pooh avrebbero potuto esibire. Apro e chiudo parentesi: qui non suonano semplici «poohizzazioni» di pezzi che
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fecero epoca, bensì attualizzazioni che quasi sempre mantengono intatto lo spirito del beat. Il primo disco di rivisitazioni del quartetto (anzi, «cover di cover», giacché negli anni Sessanta parecchi gruppi «italianizzavano» le canzoni americane: vedi La casa del sole dei Bisonti, «figlia» del folk di The House Of The Rising Sun), passa in rassegna Rokes, Ribelli, Corvi, Formula 3, Sorrows, Bisonti, Quelli, Califfi e Orme infilando in pole position la bontà degli impasti vocali, un’interazione fra elettricità e archi che non fa una grinza e Dodi Battaglia: libero di maneggiare la chitarra come si deve, puntando al sodo e (tecnicamente) a Brian May dei Queen. Rileggendo quel clima di rivoluzioni e sperimentazioni, i Pooh non cadono nella trappola dell’effetto-nostalgia ma si tolgono lo sfizio di «griffare» col proprio stile certe canzoni, rispettando filologicamente l’identità di altre. I Rokes, vengono metabolizzati con leggerezza «pop» (È la pioggia che va) e poi incorniciati da una vena intimista denudata dal
in libreria
pianoforte (Che colpa abbiamo noi). L’Equipe 84 si rimaterializza col sitar suonato da Aldo Tagliapietra (29 settembre) e l’abbraccio disarmante degli archi (Nel cuore e nell’anima). Archi che ritroviamo ad amoreggiare con le voci «a cappella» (Eppur mi son scordato di te: Formula 3), prima che un giro di blues ci faccia scuotere (Mi si spezza il cuor: Sorrows). E se Pugni chiusi dei Ribelli di Demetrio Stratos viene dolcemente sdrammatizzata, un irresistibile bisogno di «progressive» timbra La casa del sole (Bisonti) e Un ragazzo di strada (Corvi). La scorza beat di Per vivere insieme (Quelli) e l’orecchiabilità contagiosa di Così ti amo (Califfi), non fanno che anticipare l’epilogo più logico del disco: Gioco di bimba delle Orme, rivisitata con sommo rispetto. Le chicche di Beat ReGeneration debutteranno dal vivo il 29 marzo dal Palabam di Mantova, per poi proseguire in aprile e maggio. Pooh, Beat ReGeneration,Tamata/Atlantic, 20,90 euro
mondo
riviste
OMAGGIO A NINA SIMONE
MELODIE DA CANI
LA RINASCITA DEL VINILE
orirò a settant’anni perché dopo non c’è che il dolore». Fu proprio così che Nina Simone se ne andò il 21 aprile di cinque anni fa. Dopo una vita in salita, una voce straordinaria mai incrinata da infausti eventi, e la voglia indomabile di cantare la sua gente fino all’ultimo. Nonostante l’America degli anni Trenta, in cui a una donna nera non era permesso studiare canto, nonostante
aturate tutte le fasce di mercato comprese fra gli zero e i novant’anni, el imprese mondiali traggono sempre più incoraggianti profitti da articoli di consumo per animali domestici. E così, dopo i dolciumi, le linee d’abbigliamento e le birre specialistiche, adesso è il turno della musica da cani. A fare da apripista ci ha pensato un’etichetta discografica neozelandese, che grazie ai buoni riscontri
l disco in vinile non è ancora trapassato, e anzi sta vivendo un piccolo rinascimento. Rianimato dai produttori di disco-music, il vecchio caro long playng ha il pregio di mantenere ancora, nell’era dell’immaterialità del suono, la sua fisicità ingombrante che ne consente la manipolazione. Grazie alla necessità dei mestieranti della console, il 33 giri viene ancora ristampato in eleganti edizioni
La biografia della grande cantante scomparsa cinque anni fa, tra successi e clamorosi silenzi
Esce un disco singolo dedicato a un nuovo mercato: quello dei migliori amici dell’uomo
Old Jim Crow e Mississippi Goddam che vibrarono nei ghetti insieme alle parole di Martin Luther King. Nonostante i suoi dischi poi stampati di rado negli States, lei non smise mai di levare la sua voce cupa e raffinata sopra i flutti mutevoli dell’essere. Nina Simone, una vita (Kowalsky, 439 pagine, 17,00 euro) racconta la storia di questa sirena dolente, circonfusa di sogni e di roche speranze, ferita da amori ingannevoli e clamorosi silenzi. Fu amata poi, incoronata regina del canto, da chi oggi ne sente trepidare gli assoli e l’inconfondibile timbro. All’autore Brun-Lambert David l’onore di averla riconsegnata ai posteri.
ottenuti in patria, esporterà anche negli Usa e in Australia il disco singolo A very special nigh. Registrato su basse frequenze fruibili soltanto dai cani, la canzone parla di temi cari al pubblico di riferimento, ed è studiata per attirarne l’attenzione. I migliori amici dell’uomo non sono sembrati finora troppo allettati dalla qualità del sound, e se alcuni hanno opposto una paciosa indifferenza, altri hanno manifestato uno schiumoso dissenso. È il caso del cane di Bob Kerridge, dirigente di un’associazione animalista. Non appena è partito l’intro del brano musicale, l’animale si è scagliato contro lo stereo danneggiandolo irreparabilmente.
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Su “grindain. com“ tutto sul ritorno dei long playng e dei giradischi che restituiscono i classici del rock e del jazz alla loro dimensione storica. In parallelo ha ripreso vigore anche la fabbricazione di giradischi, che sull’onda di un pubblico di nicchia molto esigente, ha ripreso a suonare brani malinconici e insuperati secondo il caratteristico fruscio che ne fece la fortuna. Filologia romantica che si concede però qualche vezzo tecnologico come elaborati bracci meccanici e testine ipersensibili dell’ultima generazione hi-tech. Se ne parla nella sezione musicale di grindain.com. La renaissance del vinile, insospettabile e imprevista, è il piccolo viaggio della musica verso casa.
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1 marzo 2008 • pagina 5
CLASSICA
zapping
Gli Zu, storia di un trio
FUORI DAL GIRO
Vivaldi e l’incerta paternità di Motezuma di Jacopo Pellegrini
di Bruno Giurato
trano mese febbraio per la fioritura; eppure, una c’è stata, quella del «nostro glorioso Settecento operistico», tanto per dirla coi vari Torchi, Torrefranca Malipiero Toni & C., pionieri - a inizio Novecento - degli studi musicologici nostrani. La storiografia recente, reagendo alla loro ottica nazionalistica, tende piuttosto a considerare l’opera italiana del Diciottesimo secolo, seria o buffa che sia, un genere internazionale, praticato da musicisti di varia provenienza e contraddistinto da certe peculiarità formali (prima tra tutte, l’alternanza recitativopezzo chiuso, per lo più aria solistica) e dall’uso d’un unico idioma. Sennonché, intorno alla standardizzazione della fase metastasiana (1730-60 ca) sta tutta una varietà di fenomeni; forzando al massimo il ragionamento, si può sostenere che il secolo dei Lumi conobbe tanti tipi d’opera italiana quanti furono i centri di produzione, e che questi tipi, pur imparentati, non coincidevano del tutto tra loro. Un esempio lampante di prassi localistica ha offerto di recente, tra Reggio Emilia e Napoli, la Cappella della Pietà de’ Turchini, riportando alla luce L’Alidoro (1740) di Leonardo Leo (1694-1744), frutto succulento della partenopea «commedia per musica», nella quale parecchi personaggi si esprimono in dialetto. Non ho visto lo spettacolo, pertanto non posso dirvene alcunché, ma assistendo al Municipale di Piacenza a una replica del Motezuma (scritto proprio così, senza la n di prammatica), musicato da Vivaldi nel 1733 per il S. Angelo di Venezia su versi scombiccheratissimi di Girolamo Alvise Giusti, ho solidarizzato alquanto coi poveri compositori settentrionali (da Vivaldi, appunto, al «londinese» Handel), costretti, a partire dal secondo decennio del Settecento, a misurarsi col nuovo stile melodico molcente e sensuale della cosiddetta Scuola napoletana. Anche sul Motezuma poco m’azzardo: ritenuta perduta e riscoperta nel 2002 a Berlino, la partitura di questo «dramma per musica» ci è giunta in uno stato assai lacunoso (mancano ampie porzioni degli atti I e III); la versione che un Alan Curtis efficiente, attendibile, e, more solito, poco incline a un fraseggio più libero e articolato all’interno, da circa un annetto porta in giro per l’Europa (il 29 e 30 marzo sarà a Modena) integra le lacune con musica presa a prestito da altri lavori del Prete rosso oppure stilata, sulla base di eventuali frammenti superstiti, dal violinista Alessandro Piccolini. Nulla da eccepire sull’esito complessivo (artigianato di alta
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iamo in settimana sanremese, quella delle larghe intese musicali, della democrazia delle sette note, delle «strofe langude di tutti quei cantanti/ con le facce da bambini e con i loro cuori infranti» (Finardi dei tempi belli). Siamo in settimana sanremese, quindi - ovvio ci serve la proposta musicale che dia una mano a dimenticare. Trovato, gli Zu. Gli Zu garantiscono su tutta la linea. Non hanno le rime baciate, anzi di solito non hanno voci: sono un gruppo strumentale, un trio jazz punk con sassofono, basso elettrico e batteria. Non hanno messaggi gentili e corretti, anzi sono discepoli di Dioniso. Il loro concerto romano di qualche mese fa al Circolo degli artisti rischiò di trasformarsi in un baccanale (e forse ci riuscì). Vengono da Ostia e hanno collaborato con la crema dell’avanguardia contemporanea jazz e rock, da John Zorn al Jeoff Farina dei Karate. Hanno anche registrato due dischi di stornelli romani, a nome Ardecore, in collaborazione con il cantautore folk Giampaolo Felici, con cui hanno vinto il premio Tenco. Dal 3 al 7 marzo saranno in tournée italiana insieme a Mike Patton, l’ex cantante del Faith No More (le date su www.zuism.com). Il buon lettore può star sicuro che non ci saranno rime baciate. Poi c’è un particolare. Nonostante le collaborazioni prestigiose, nonostante il fatto che all’estero sono conosciuti e hanno un certo prestigio, gli Zu in Italia sono fuori dal giro dei festival jazz. Latitanti a Umbria Jazz, assenti a Berchidda (il festival di Paolo Fresu), mancanti a Roccella Jonica, e così via. E qui si dimostra che i grandi festival jazz italiani sono più o meno come Sanremo. E non hanno nemmeno la Osvart.
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JAZZ
fattura, con qualche gemma sparsa: così è sempre il teatro di Vivaldi), ma, senza un regesto dettagliato delle paternità, a chi attribuire il merito di quel disegno ostinato agli archi, semplice quanto squisita allusione al moto ondoso, in «Là su l’eterna sponda», ovvero dei plastici recitativi accompagnati appannaggio di Mitrena, la moglie del re azteco, parte tagliata su misura per le non comuni doti espressive di Anna Girò, la musa canora dell’autore? I vari interventi solistici del personaggio compongono un barlume di ritratto psicologico (cosa rara nell’opera seria del tempo, basata su un’astratta teoria degli «affetti»), al quale conferisce spessore non comune l’interprete designata, Mary-Ellen Nesi. Dopo e dietro di lei, il ruolo eponimo esibisce con Vito Priante doti naturali da affinare (via la voce dal naso!); alla Chierici e alla Gottwald non difetta il temperamento, ma quasi tutto il resto sì; la Bertagnolli incappa in parte troppo bassa, la Baka non lascia grandi tracce di sé. Elogi al Complesso Barocco e all’impianto fisso di Lorenzo Cutuli; censure ai costumi da esotismo baraccone (Heinreich), alle luci smargiasse (Cavina) e al responsabile della messinscena, il regista Stefano Vizioli, così poco fiducioso nelle ragioni della musica da soffocarla sotto un’alluvione di scene e controscene, piume strascichi e saliscendi che neanche la Osiris buonanima…
La musica nera dal ‘600 ai Public Enemy di Adriano Mazzoletti
Ovviamente il traduttore avrebbe dovuto scrivere tromba o cornetta. Piccoli errori che però stato finalmente pubblicato anche in denotano la scarsa conoscenza del linguaggio Italia un libro di Eileen Southern fonda- dei musicisti jazz bianchi e neri. Nel libro della mentale per la conoscenza della musica Southern (1920-2002), pianista, musicologa, dei nero americani. La traduzione e revisione ricercatrice prima docente di colore a Harvard, italiana di Melinda Mele, che si è avvalsa della non si parla solo di jazz, ma anche degli innucollaborazione di Corinna Baschirotto e merevoli generi e stili musicali che costituiscoSimone Francescano, basata sulla terza edizio- no la musica afro-americana degli Stati Uniti. ne del volume (1997), è assai fedele all’origina- L’autrice, in questa sua opera che, come scrive le e soprattutto è immune da quegli errori che il musicologo Samuel Floyd «ha ribaltato lo spesso si riscontrano nelle traduzioni di testi studio della musica nera», parte dal lontano su musiche non accademiche dove alcuni ter- agosto 1619, quando una nave da guerra olanmini anglosassoni, se tradotti letteralmente, dese vendette i primi venti schiavi neri ad alcuhanno un significato diverso. Nella prima edi- ni coloni della Virginia. Era il primo sbarco di zione italiana dell’autobiografia del clarinetti- uomini di colore nelle colonie britanniche sta Milton Mezzrow (Really the Blues) il tra- della costa orientale degli odierni Stati Uniti. duttore italiano scriveva che Bix Beiderbecke Di grande interesse la prima parte sull’eredità o Louis Armstrong suonavano «il corno». africana e sulla musica in Africa Occidentale, Mezzrow nel suo volume utilizzava il termine terra da cui vennero razziate le molte migliaia horn, che letteralmente significa corno, ma che di uomini che andarono a popolare il Nuovo nello slang dei musicisti americani indica Mondo. Ogni villaggio aveva i propri maestri genericamente uno strumento a fiato. musicisti, cantanti e strumentisti, incaricati di
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far musica nelle occasioni formali della vita comunitaria. Non ci si deve perciò troppo meravigliare se già alla fine del 1600 troviamo musicisti neri in grado di eseguire su strumenti ad arco, arie popolari in cui la musica africana iniziava a fondersi con tradizioni musicali bianche. Eileen Southern riporta sul pentagramma alcune linee musicali di origine africana da lei raccolte in cui evidenzia, leggendo le note della melodia di base e delle successive ripetizioni, come gli esecutori variassero la melodia. Presupposti dell’improvvisazione. Il volume procede con un racconto affascinante, godibilissimo anche per un profano di musica, attraverso l’età coloniale, la guerra di secessione, la musica religiosa nata nelle chiese battiste e metodiste, la minstrelsy nera, il blues, il jazz, la Harlem renaissance, la rivoluzione nera e le correnti di fine Novecento. Eileen Southern, La musica dei neri americani. Dai canti degli schiavi ai Public Enemy, Il Saggiatore, 686 pagine, 45,00 euro
libri
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NARRATIVA
Autrici italiane
combattenti della scrittura
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di Maria Pia Ammirati
a sorpresa in questo ultimo decennio di una montante marea di libri, e in particolare romanzi, scritti da donne, ha aperto oltre che piccoli fuochi di dibattito, spiragli nelle classifiche dove oggi almeno due titoli scritti da donne campeggiano sia nella narrativa straniera che in quella italiana . A Dio piacendo non è il caso di parlare (e meno che mai di pretendere) di quote. Però il dato è entusiasmante, soprattutto quando uno scrittore come Giuseppe Genna, considerato con il suo ultimo libro Hitler, un bestesellerista, si cimenta nella costruzione di un’antologia di scrittici italiane, Tu sei lei (Minimum fax) e con enfasi introduttiva scrive che «le scrittrici italiane … stanno trainando il carro dell’innovazione culturale, della sperimentazione dei linguaggi e dei temi». Un’affermazione forte e fondata perché i temi di una scrittura solo privata o solo lirica o solo intimista sono stati abbandonati da tempo, e la narrativa (ma anche la poesia) delle donne si è andata indurendo senza temere scabrosità, arditezze linguistiche per affrontare senza remore il verso del tragico. Proprio questo elemento che Genna rintraccia nelle otto autrici antologizzate, è una pista per entrare nel folto della scrittura femminile contemporanea: il tragico come tema non sacrale ma come nucleo indiziario dell’esistere contemporaneo. Il tragico poi va sintetizzato e declinato e contaminato come avviene nell’ultimo testo di Milena Agus, scrittrice rivelazione con Mal di pietre, che oggi pubblica Ali di babbo. E nell’ultimo romanzo di Chiara Gamberale La zona cieca. Proprio questi due ultimi titoli nella loro estrema diversità si apparentano per
una sorta di disinibizione e crudezza, ma nei loro punti di distacco ci danno bene a vedere come questa scrittura non possa più essere nemmeno definita solo scrittura femminile: gli esiti sono diametralmente opposti, gli stili diversi, gli strumenti della narrazione lontani anche quando si tratta di temi simili come l’amore e i rapporti familiari. Con questi due libri si tocca il cuore di due mondi: uno, quello della Agus arcaico, tanto arcaico da evadere il presente, da scolorirlo. L’altro, quello della Gamberale, tocca il cuore gelido e incandescente del presente. Da una parte senti il richiamo caldo del mare, la scomodità di un passato zeppo di segreti, dall’altra il caldo soffocante delle città, l’impraticabile vita. Le storie corrono parallele solo nella scelta, nell’elezione, della protagonista, sempre una donna, sorta di combattente nel deserto di sentimenti amorosi o negati o contraffatti. Madame, la protagonista di Ali di babbo, è la vera chiave del romanzo della Agus, una figura grottesca segnalata dall’io-narrante come un’ignorante quasi analfabeta, proprietaria di un albergo dove per lo più Madame attrae i suoi amanti: l’amante numero uno, numero due, il ferito. Lidia, la protagonista di La zona cieca, è appena uscita da una clinica psichiatrica e si imbatte nella sua prima vera storia d’amore, neanche a dirlo tormentata ma non banale. Anzi la storia della Gamberale ha una modernità frenetica e frammentata che via via si stratifica. Il sesso è una chiave importante per entrambi i romanzi: sesso carnale e palpitante, esplicito ma spiato quello della Agus, più freddo e «calcolato» quello descritto dalla Gamberale, ma per le due protagoniste un modo per rientrare nel mondo della normalità, per farsi accettare dagli altri e, a loro modo, per lasciare un segno.
Chiara Gamberale
Milena Agus, Ali di babbo, Nottetempo, 142 pagine, 13,00 euro; Chiara Gamberale,, La zona cieca, Bompiani, 254 pagine, 16,00 euro
riletture
I principi di Dio e quelli di Goldwater di Gennaro Malgieri uando il giovane senatore americano Barry Goldwater, alla fine degli anni Cinquanta, si pose alla testa del movimento conservatore con il chiaro intento di «modernizzarlo» e di dargli unità politica, molti furono gli scettici che lo criticarono. Il conservatorismo era, al tempo, non più che una parola. In pochi lo vivevano come una concezione del mondo e della vita, seguendo gli insegnamenti di Edmund Burle. Goldwater che comprese prima di altri la portata della decadenza che minacciava gli Stati Uniti, iniziò un lungo cammino per dare un’anima al partito repubblicano e, dunque, legarlo, quanto più possibile all’idea di conservatorismo, riserva, a suo giudizio, di energia cui attingono i popoli nelle
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loro ore più drammatiche. Qualcuno lo trattò da ingenuo. Poi si fece strada. Senza Goldwater non ci sarebbero stati Nixon, Ford, Reagan, i due Bush e la storia americana sarebbe stata diversa. Le sue idee il senatore repubblicano le raccolse in un libro che in Italia venne pubblicato nel 1962 dalle Edizioni del Borghese: Il vero conservatore, nella straordinaria traduzione di Henry Furst. Non divenne un caso per via del conformismo che dominava la cultura del nostro paese. Pochi se ne accorsero, ma il libro ha avuto, comunque, una fortuna postuma, nel senso che esso ha attraversato quasi mezzo secolo sotterraneamente, più citato che effettivamente letto a dire la verità. In esso Goldwater si proponeva di dimostrare come il conservatorismo rappresentasse, burkianamente, la «salvezza nazionale», di fronte all’incedere della malattia
sociale che stava contagiando l’America e l’Occidente. Respingeva, il senatore, l’idea secondo la quale il conservatorismo fosse antiquato. Perché tutt’altro che antiquate erano «le leggi di Dio e della natura». Infatti, a suo giudizio, «i principi sui quali si fonda la posizione politica conservatrice sono stati stabiliti da un processo che non ha nulla a che fare col paesaggio sociale, economico e politico, il quale muta di decennio in decennio e da un secolo all’altro. Questi principi sono derivati dalla natura dell’uomo e dalle verità che Iddio ha rivelato intorno alla sua creazione». Per Goldwater insinuare inattualità della filosofia conservatrice sarebbe come dire che i Dieci comandamenti o la Politica di Aristotele non hanno più senso. Al contrario, desumendo le sue ragioni da idee immutabili, il conservatorismo non è altro che il tentativo di «applicare la sag-
gezza, l’esperienza e le verità rivelate del passato ai problemi d’oggi». In altri termini: applicare le verità di sempre ai problemi contemporanei. Goldwater offrì una speranza al movimento conservatore americano e gli diede una prospettiva politica. Di lì a poco «fuse» tutte le tendenze antiprogressiste nel Grand Old Party e pose le premesse della rinascita americana dopo la stagione kennedyana. Lanciando, nel contempo, una sorta di religiosità politica del conservatorismo. Inequivocabili le sue parole: «La prima cosa che un conservatore ha imparato a proposito dell’uomo, è che ciascun individuo rappresenta una creatura unica della specie. Il bene più sacro che un uomo possegga è la sua anima individuale, che ha un lato immortale, ma anche un lato mortale». Come dire l’irruzione del sacro nella politica. Un tema attualissimo.
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SAGGI
Zizek: dietro il pacifismo, la violenza di Riccardo Paradisi rovocatorio, abrasivo, mai consolatorio Slavoj Zizek, filosofo sloveno già autore di Tredici volte Lenin e Contro i diritti umani non è un pensatore debole. È un marxista dichiarato che ha in uggia quelli che lui chiama i comunisti liberali e più in generale gli apostoli di una globalizzazione progressista marciante al ritmo del relativismo morale e all’insegna della virtualizzazione delle vite. Se ne sentiva la mancanza di gente tosta come lui. Di marxisti vecchia maniera. Gente che ancora ti costringe a fare i conti con quella che il vecchio Marx - chi avrebbe mai detto che l’avremmo per certi versi rimpianto - chiamava appunto la struttura sociale. Cioè la dura realtà dei fatti sempre più mistificata e anestetizzata dalla società dello spettacolo. È su questa realtà che Zizek punta il riflettore con il suo La violenza invisibile. La tesi del libro è in breve questa: che uomini bomba, attentati in grande stile, tumulti di piaz-
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PERSONAGGI
za, conflitti internazionali, rappresentano solo la violenza che vediamo, quella più superficiale. A lato di questa violenza se ne affianca un altra più pervasiva e sistemica: quella violenza che nutre i nostri stessi sforzi di combattere la violenza e promuovere la tolleranza. Un attacco a chi pretende di dare un ordine giusto al mondo naturalmente ma anche alla buona coscienza del pacifista occidentale che nel suo attivismo per i diritti umani dimentica che è impossibile eliminare la violenza quando la vita stessa è materiata di violenza. Zizek pensa che il sistema capace di fare maggiore economia di violenza e ingiustizia sia il socialismo realizzato. Ma non è la soluzione cui aderisce Zizek a interessare quanto l’analisi che lui fa della forza applicata alla politica, il suo tentativo di andare alle radici del problema, la sua radiografia del potere: «Quella cosa cercata, dice Zizek, per non essere dominati dagli altri e che diventa lo strumento, una volta ottenuto, per dominare gli altri». Un bel dilemma. Che dimostra
semmai che l’alternativa non è tra capitalismo e socialismo, ma ancora e sempre tra Cristo e il principe di questo mondo. Slavoj Zizek, La violenza invisibile, Rizzoli, 237 pagine, 12,00 euro
D’Annunzio politico visto da Guerri
di Mauro Canali el suo recente lavoro su d’Annunzio, Giordano Bruno Guerri non trascura d’inserire il complesso percorso esistenziale del poeta pescarese in quello più ampio delle avanguardie artistiche e filosofiche che, nel primo scorcio del Novecento, contribuirono alla crisi del positivismo filosofico e delle sue filiazioni politiche, il determinismo socialista e il riformismo giolittiano. Nel respingere gli stereotipi limitativi dello scrittore stravagante e chiuso nel suo edonismo, che hanno da sempre circondato la vita di d’Annunzio, Guerri sembra orientato a trovare un nuovo punto di equilibrio nel giudizio sui rapporti tra lo scrittore e il personaggio mondano, valutando le modalità dell’esi-
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stenza turbinosa del Vate importanti quanto la sua produzione letteraria nella formazione, in ampi settori della piccola e media borghesia, di una cultura politica ostile al liberalismo. D’Annunzio seppe interpretarne «le aspettative e i desideri», e, insieme, proporre loro «un modello d’eccezione in cui la letteratura si fondeva con una sfavillante offerta di vitalità e di creatività». Era dunque inevitabile il conflitto con l’Italia politica giolittiana, caratterizzata, sul piano della prassi, da un programmatico trasformismo, e su quello dei valori dalle spinte anti-elitarie dell’egualitarismo socialista e dall’assenza nelle classi dirigenti liberali d’una concezione politica di potenza. Il personaggio d’Annunzio, nelle sue componenti artistiche e mondane, rappresentò dunque il sintomo e,
insieme, la causa del diffondersi tra le classi borghesi di valori antidemocratici, bellicisti, nazionalistici, con la convinzione che la direzione del paese spettasse di diritto a una élite di uomini colti e audaci. Il dannunzianesimo dunque come precursore del fascismo. Gli stessi miti e riti, che tanto contribuirono alla sacralizzazione della politica fascista, furono un’eredità trasmessa in linea diretta dai rituali dannunziani elaborati a Fiume dal Vate per i suoi legionari: il discorso dal balcone, l’eja, eia alalà, il dialogo retorico con la folla, il saluto romano, l’appello dei «martiri» della causa e l’uso delle loro relique nelle cerimonie pubbliche. In definitiva la marcia su Fiume antesignana della marcia su Roma, e la carta del Carnaro ispiratrice del programma di San Sepolcro. Giordano Bruno Guerri, D’Annunzio, Mondadori, 336 pagine, 19,00 euro
FILOSOFIA
Totalitarismi: tutta colpa dello gnosticismo di Renato Cristin el 1968, in un manoscritto qui pubblicato, Eric Voegelin (1901-1985) scriveva: «La liberazione è all’ordine del giorno e i movimenti gnostici di massa giocano un grande ruolo nella politica del nostro tempo: per questo motivo non è mai troppa la cautela nel momento in cui ci apprestiamo all’analisi dell’evento ontico e alla determinazione del suo significato». I segnali dell’agitazione sessantottina e il carattere dell’ideologia a essa retrostante furono colti e decifrati da Voegelin con sguardo lungimirante, tanto che oggi possiamo riconoscere nella sua analisi l’intuizione della verità storica. Contro le semplicistiche apologie della rivoluzione, egli elaborò una teoria che individuava in quei movimenti caratteri escatologici e manicheistici. Non solo: il nodo rappresentato dal pensiero gnostico sarebbe da un lato il paradigma latente di tutta la modernità in quanto allontanamento dalla tradizione platonico-aristotelica e dall’altro il fonda-
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mento di tutte le pulsioni di purificazione presenti nelle concezioni rivoluzionarie. In questi saggi Voegelin, storico delle idee e delle formazioni culturali, avverso a qualsiasi riduzionismo sia deterministico sia idealistico, conferma la sua peculiare posizione nel panorama culturale della seconda metà del Novecento: alla critica dei totalitarismi affiancò una valutazione non meno critica dei movimenti di massa, visti come privi di baricentro storico e preda delle retoriche demagogiche. Lacerato il velo ideologico, marxismo e nazionalsocialismo si svelano come forme di gnosticismo moderno, che trasformano l’originaria spinta a uscire dal mondo in una volontà apocalittica di distruzione del mondo dato per costruirne uno nuovo, rivelandosi in ciò come «ideologie dell’uccidere». A questo sguardo demistificante Voegelin affianca una costante ricerca del terreno concreto come base per la comprensione della storicità: «Lo storiografo non produrrà in nessun modo storia se non facendola emergere dall’incontro diretto con i fatti».
Sarebbe infatti a causa della malattia spirituale dell’idealismo che «l’uomo moderno è diventato un abisso vuoto». Eric Voegelin, Che cos’è la storia?, Medusa, 255 pagine, 27,00 euro
altre letture La seconda
«ondata yogica» in Occidente arrivò con gli anni della constestazione. A milioni i giovani se ne andavano in India «a cercare se stessi», sulle orme dei Beatles ma anche dei guru che a plotoni venivano in missione nella Vecchia Europa e nell’America ricca e infelice. Gli europei che per primi scoprirono lo Yoga furono quelli delle élite colte che tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 incontrarono questa disciplina filosofica attraverso lo studio comparato della linguistica indoeuropea. È quello il momento in cui viene ri-construito il ponte spezzato tra Oriente e Occidente e teorizzata l’idea di una cultura primordiale dei popoli di lingua indoeuropea. La terza ondata avviene ai nostri giorni. Dove lo Yoga è diventato per gli alienati dalla nevrosi produttivista e dell’orrore economico un’alternativa alla valeriana e al prozac. Per conoscere la storia dello yoga dai tempi più antichi alla nostra epoca è comunque utile e agevole il libro appena uscito di Giorgio Renato Franci Yoga, (Il Mulino, 130 pagine, 8,80 euro).
La questione
delle 4 giornate di Napoli è aperta da mezzo secolo. Enzo Erra, storico revisionista, scrisse qualche anno fa per Longanesi un libro che addirittura si intitolava Le quattro giornate che non ci furono: la tesi era che ci fossero stati nel capoluogo partenopeo alcuni regolamenti di conti dopo che i tedeschi se ne erano andati e prima di questo solo qualche focolaio di tensione. Insomma nessuna epopea. Ora a tornare sull’argomento è Giovanni Artieri con Le quattro giornate, breve storia di un’epopea (Le lettere, 99 pagine, 8,50 euro) dove si parla di un’insurrezione cruenta e aspramente combattuta dai napoletani contro i tedeschi. Quello che è certo è che l’insurrezione napoletana comunque la si voglia giudicare - fu un moto spontaneo, che non ebbe la regia delle organizzazioni antifasciste. Tanto che Pietro Secchia, il capo dell’ala dura del Pci, rimproverò agli insorti, come ricorda Francesco Perfetti nell’introduzione, di non aver colto l’occasione della partenza dei tedeschi per anticipare gli americani nell’occupazione della città.
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ritratti
ANNIVERSARI / ANNA MAGNANI A CENT’ANNI DALLA NASCITA PER ANNI È STATA ESCLUSA DAGLI OMAGGI, DA CICLI E “PERSONALI”. COSÌ IL GRANDE CIRCUITO INTELLETTUALE ITALIANO HA TRASCURATO LA SUA ATTRICE PIÙ “EPOCALE”…
NANNARELLA
il giorno della memoria di Claudio Trionfera ent’anni dalla nascita, una manciata di mesi in meno dei trentacinque dalla morte. Numeri rotondi, geometrie, rimandi strani ed echi un po’ arcani tra gli orologi esatti della vita. Dicono che quell’applauso, lungo, piangente e pieno d’amore che l’accompagnò al funerale nella Roma del ’73 paralizzata e smarrita, fosse il primo tributato a un’artista nelle circostanze di un addio. Non possiamo dire con certezza se il primato sia attendibile. Di sicuro quel giorno Roma era più sola e l’Italia e il mondo avevano perduto un pezzo di sé. Perché Anna Magnani era entrata, anche con la prepotenza e la forza del suo essere persona/personaggio, dentro la gente, «fisicamente» e non solo in termini d’immaginario collettivo. «Icona» e «mito» sono definizioni che spunterebbero da sole se si volesse restare nella densità pregnante delle parole e nel distacco accademico di una commemorazione. Difficile evitarle riferendosi a una donna che, nelle sue qualità di attrice, ha rappresentato in Italia e all’estero un pezzo di Storia, non solo cinematografica, dalle molte facce, sofferta, ridente, pensosa, comunque densissima; ma citarle sarebbe come farla morire di nuovo, fissandone al passato un’immagine che, viceversa, va conservata nella sua attualità e nella sua permanenza vitale. Proprio come vuole la specifica essenza del cinema, che a ogni passo, a ogni inquadratura, stabilisce un patto di immutabilità e di eterna giovinezza con l’attore, replicandolo all’infinito com’era, quindi com’è. Ancora oggi. E come, naturalmente, sarà domani.
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Gli amici la chiamavano Nannarella. Non solo loro, poi. Un modo per sentirla più vicina, la gente l’amava, proprio come lei voleva: «Ho seguito la carriera di attrice aveva detto - perché sentivo il bisogno di essere amata, di ricevere tutto l’amore che avevo sempre mendicato nella vita». Certe cose si avvertono, nei rapporti. E non casualmente era nato con quell’entità che si fatica a chiamare pubblico anziché «popolo» un legame talmente saldo da diventare davvero unico nella storia del divismo cinematografico. Anche qui, difficile definizione. Divismo sì, ma «popolare». Ed è un fatto singolare, esclusivo. Che, in fondo, male si accorda con un altro fatto, altrettanto esclusivo e singolare, stavolta in negativo: «Nannarella», per
anni, è stata dimenticata. Esclusa, per così dire. Da ricordi, omaggi, cicli, «personali». Il grande circuito intellettuale italiano, che con una certa regolarità rievoca - giustamente e in piena legittimità - registi e attori spesso di terre lontane o impercettibili codici espressivi provenienti da cinematografie emergenti, ha trascurato quasi subito la memoria della sua attrice più «epocale». Limitando l’impegno, se mai, a qualche stanca ricomposizione di un percorso circoscritto al Neorealismo, a una ennesima rivisitazione di Roma città aperta, insomma alla banalità di uno steccato di per sé assai restrittivo. Non che il capolavoro rosselliniano o la corrente della quale è divenuto simbolo siano «banali», è ovvio; banale e privo di elaborazione critica è il modo automatico e, appunto, acritico, di sovrapporre sempre Anna Magnani al suo costrutto interpretativo più celebre, quello di Pina abbattuta dalla raffica di
è eccezionale e attrice meravigliosa», ricordava il produttore Hal Wallis. Per il quale la stessa Magnani provava una riconoscenza sterminata, riconoscendogli durezza e intelligenza: «I primi giorni sul set americano - ebbe a dire - mi sentivo squilibrata e fuori ambiente. Quando Hal mi ha vista così è venuto da me col regista e insieme mi hanno fatto questo discorso: “Noi ti sentiamo infelice dentro, vogliamo che tu sia la Magnani-Magnani, non la Magnani-Hollywood. Perciò butta fuori quello che hai e sentiti te stessa”. Forse il mio Oscar è nato anche da lì, da quella comprensione». Una traccia indelebile a Hollywood. Al di là delle qualità artistiche espresse dalla sua magnifica Serafina del film di Mann. Tennessee Williams confessò: «Mi sono chiesto più volte come abbia fatto Anna a vivere nella società e a rimanere nel contempo così libera dalle convenzioni. È stata la donna più anti-
Riduttivo sovrapporla sempre alla sua interpretazione più celebre, quella di Pina in “Roma città aperta” e all’esperienza del Neorealismo. Diva ma popolare, il suo è stato un fenomeno artistico e sociale unico, misterioso mitra mentre insegue il camion nazista che porta via il suo Francesco. Pure, naturalmente, nella riconosciuta, assoluta suggestione di una tecnica di ripresa che ribalta nella soggettiva tutte le consuetudini della visività filmica; e all’interno di un film «rivoluzionario» e fondamentale per tutto il cinema moderno. D’altra parte il cinema italiano, a più riprese, l’aveva tenuta un po’da parte. Lei guardava a quello americano, anche se in generale non corrispondeva del tutto alle sue inclinazioni drammatiche. Le aveva però consegnato un Oscar nel ’56 per La rosa tatuata diretto da Daniel Mann, dopo che Tennessee Williams l’aveva a tutti i costi voluta nel film, tratto dalla sua commedia. Nannarella non conosceva una sola parola d’inglese. Fu proprio Williams a darle le prime lezioni durante la traversata atlantica: si era imbarcato con lei a Napoli e per dieci giorni (e notti) la fece studiare duramente. Poi in California, fino al giorno d’inizio delle riprese si provò e riprovò. E Anna Magnani recitò le sue scene «in modo eccezionale, così come donna
convenzionale che abbia mai conosciuto, guardava chiunque si trovasse davanti ben diritto negli occhi e per tutto il periodo in cui fummo amici non udii una sola parola falsa uscire dalla sua bocca». Vera, istintiva, generosa, gelosissima, sensibile, buona, passionale, sincera, spontanea all’inverosimile. Le definizioni tornano nelle parole di tutti quelli che le sono stati accanto, nel lavoro e nella vita. «Donna meravigliosa e attrice formidabile» aveva detto di lei Rossano Brazzi, che le aveva lavorato accanto in Vulcano e l’aveva difesa con il regista William Dieterle che non sopportava i suoi ritardi: «Anna non si alzava mai prima delle due del pomeriggio, ma la sua sincerità e spontaneità, unite alle sue straordinarie qualità di attrice mi spinsero più volte a prenderne le parti». Già, Vulcano. Opera non memorabile. Per la Magnani era un momento terribile nel 1948. Rossellini l’aveva appena lasciata per Ingrid Bergman, con la quale stava girando Stromboli. E quel film, era a tutti gli effetti una «ripicca», un dispetto, una concorrenza sentimentale,
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come tutti sapevano, anche se la Magnani, ovviamente, negava e diceva di averlo fatto solo perché «pagata in maniera molto… brillante». Ma in verità aveva voluto fare lo stesso soggetto di Stromboli, su un’isola vicina, girando a volte le stesse scene, come quella della tonnara per la quale le due troupe si sono trovate addirittura insieme. Ricordava ancora, Brazzi, di sentirsi «imbarazzato» perché a Hollywood era stato testimone «dello sbocciare dell’amore tra Roberto e Ingrid e, all’inizio della mia carriera, avevo avuto come partner Regina Bianchi, l’attrice per la quale Goffredo Alessandrini aveva lasciato la moglie, appunto la Magnani. Ritrovarmi accanto ad Anna in un momento così delicato per lei mi paralizzava: era come se, per uno strano gioco del destino, io fossi in qualche modo responsabile delle sue disavventure sentimentali».
Gli amori. Goffredo Alessandrini prima, che aveva sposato nel ’35 e al quale l’impetuosa Nannarella ruppe un giorno una bottiglia sulla testa; Roberto Rossellini; Massimo Serato, il «vero grande amore di Anna» come hanno detto e scritto in molti, compresa Jone Tuzzi, leggendaria segretaria di produzione di tanto grande cinema italiano: «Durante la guerra abbiamo fatto Quartieri alti di Soldati, con Serato e lei era sempre lì, a telefonare, sempre a venire. Serato era un tipo rotto a tutto, secondo me un cinico che non l’ha mai amata. La Magnani fu soppiantata dalla Padovani, come poi con Rossellini dalla Bergman». Amori sfortunati, amori sofferti, amori tempestosi. Molta solitudine, anche. Pure se fu proprio Rossellini, quando la Magnani si ammalò, a starle accanto come nessun altro avrebbe potuto fare. Ricordare i film? Il teatro? Si può, senza cadere nel biografismo in una circostanza come questa, più adatta a una rilettura «impressionista» e maculata di una vita fatta anche di episodi, di ricordi personali di Anna Magnani e di quelli di chi le è stato vicino o l’ha solo sfiorata. Punti di vista e di contatto, striature di memoria o ragionate analisi di un fenomeno artistico e sociale complesso e unico, per molti versi addirittura misterioso. Come il luogo della sua nascita e perfino la data, divisa fra le fonti del 7 e dell’11 marzo 1908. Quanto al luogo, si è scritto di Roma ma tante voci, accreditate anche dalla stessa Magnani, vogliono Alessandria d’Egitto, da un padre d’origine egiziana e da una mamma riminese. A Roma, in questo caso,
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Anna sarebbe arrivata a cinque anni. Per cominciare dieci anni dopo a recitare, a fare avanspettacolo e teatro, insomma la migliore scuola per un attore, come la Magnani amava raccontare: «Chi vuole diventare attore deve avere il coraggio di fare il generico, di cominciare da “la signora è servita”, di esordire dal gradino più basso». Il teatro importante lo affrontò all’inizio della carriera alle Arti di Roma con Anna Christie di O’Neill; e lo riprese ad alti livelli sono nella metà degli anni Sessanta con La lupa di Verga per la regia di Franco Zeffirelli e Medea di Anohuil per la regia di Giancarlo Menotti. Nel mezzo, e poco dopo, il cinema. Dall’esordio nella Cieca di Sorrento di Nunzio Malasomma a tre film intepretati all’inizio degli anni Quaranta, tra i quali Teresa Venerdì di Vittorio De Sica, nei panni molto marcati di un’attrice di varietà prodiga e volgare, legandosi a un «tipo» che sarebbe riaffiorato in altre prove di quel periodo, come Campo de’ Fiori con Aldo Fabrizi, attore con quale la Magnani non è mai andata d’accordo: «Litigavano sempre - raccontò Tino Scotti ognuno faceva per conto proprio, ognuno aveva la sua personalità. Io stavo in mezzo, allora, subito e cercavo di fare da cuscinetto. E loro: “tu taci, che sei milanese…”. Avvenivano di queste cose. Era sempre Fabrizi che cercava di prevalere. Se non avessero fatto così, sarebbero diventati una grandissima coppia». Dopo Roma città aperta tutto cambiò per la Magnani. Grazie all’eccezionale popolarità raggiunta con quel film, tutti i suoi personaggi successivi, anche quelli meno calibrati e più leggeri, acquistarono un’imprevedibile nobiltà, grazie all’autenticità e alla forza di un personaggio che si faceva strada perfino tra favole ovvie e leggere. E, a maggior ragione, in spunti di diversa forza drammatica, come nei due episodi dell’Amore quando recitò il celebre monologo di Cocteau La voce umana di Rossellini o s’impegnò nel personaggio del Miracolo diretto da Fellini. Poi una decina d’anni di relativo silenzio, durante i quali la grande produzione sembrava essersi dimenticata di lei, fino all’altra svolta della sua carriera, con Bellissima di Luchino Visconti, col quale avrebbe dovuto già lavorare in Ossessione: lui l’aveva scelta, all’inizio degli anni Quaranta, ma la lavorazione subì una serie di rinvii e, quando ogni cosa fu pronta, lei dovette rinunciare perché era incinta e il suo posto fu preso da Clara Calamai. Con Bellissima Anna Magnani impose un personaggio tridi-
mensionale, un’altra creatura viva come la Pina di Roma città aperta che l’artista disegnò dando la misura esatta delle sue sterminate qualità espressive, in una varietà di toni e mezzi toni che segnavano il perfetto trapasso da un sentimento all’altro, tra sfrontatezza popolana, civetteria, tenerezza, accoramento, disperazione. Come dimenticare il suo volto dietro il rettangolo luminoso della saletta di proiezione, e il gesto con il quale copre il occhi della figlioletta mentre veniva ferocemente sbeffeggiata? «Nonostante i suoi difetti, e ne ha tanti, ma tanti - disse la Magnani - mi sono trovata bene con Visconti. Mi ha lasciato le redini sciolte. Del resto, sapeva che era l’unico mezzo per farmi recitare…».
L’incontro con il cinema internazionale, nell’arco degli anni Cinquanta, le consegnò l’Oscar della Rosa tatuata dopo averla snaturata con La carrozza d’oro di Jean Renoir e prima di legarla, francamente senza esiti indimenticabili, a Selvaggio è il vento di George Cukor e Pelle di serpente di Sidney Lumet. D’altra parte la sua sede naturale, «biologica» era il cinema italiano, tanto che un’altra delle sue migliori prove la dovette verso la fine del decennio a Renato Castellani con Nella città l’inferno, dove visse la sua prostituta Egle con formidabili dosi di slancio e di abbandono. L’altra perla della sua galleria di capolavori, forse la terza in ordine di merito, ma è molto difficile stabilirlo, fu Mamma Roma di Pasolini. Definito il classico «punto di non ritorno» di una carriera, l’autore le costruì attorno un personaggio completamente immerso nello spazio del mito, la Madre Mediterranea, la Lupa che, perso il figlio, si aggira disperata per una Roma luttuogena dove il futuro è sparito e i congegni del Tempo possono camminare solo all’indietro e ripetersi con i suoni di incubi metallici e cigolanti. Un grande testamento cinematografico e poetico. Prima di quello che Fellini volle farle scrivere in Roma quand’era già ammalata, nel grande tramonto del ’72. Una specie di commiato straziante e superbo, realizzato seguendola mentre, di notte, sfiora i muri di palazzi patrizi in una città devastata dalla storia definendola «lupa e vestale, aristocratica e straccionesca, tetra e buffonesca». La macchina da presa la segue fino al portone di casa sua, il regista vorrebbe interrogarla ma lei non si fida, risponde con una battuta sfottente e il portone si richiude, simbolicamente, su un’epoca che non c’è più.
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TV
di Pier Mario Fasanotti
Da Colorado ad Artù
nche chi non frequenta la psicoanalisi sa che l’essere ossessionati dalle tette rimanda al mondo infantile. Per carità, viva l’infanzia. A patto che l’adulto la collochi in uno spazio non invasivo. Chi produce spettacoli di varietà punta tutto sull’ossessione mammaria degli italiani. Ormai non c’è programma senza la sfilata di belle ragazze in bikini, e giù zoomate lunghe su quelle che un tempo si chiamavano «le forme». Qualcuno può obiettare: ma anche Fellini, con la tabaccaia dai seni enormi di Amarcord… Eh già, ma lui era un artista vero e descriveva i sogni d’un ragazzino coi calzoni corti. La nostra televisione ci intrattiene con la ciccia femminile, correttamente bianca, nera e ambrata. La democrazia della «gnocca», parola ormai sbattuta in prima serata. E noi dobbiamo fare i «moderni» con i nostri figli preadolescenti. È il caso di Colorado ( giovedì alle 21,10 su Italia 1, la rete più seguita dai giovani), la cui nuova versione è arrivata all’ottava puntata. Il conduttore Braida, nei panni dell’uomo goffo che fa ridere, è il Caronte delle gnocche. Accanto a lui Rossella Brescia, fisicamente generosa, ma all’opposto del canone erotico: la si guarda e non viene mai da sognare il disvelamento della donna e dei suoi segreti. Lei è lì, come un poster per camionisti, e guai se lei fa allusioni verbali perché paiono sempre pesanti o comunque scontate (quanto ci manca Vanessa Incontrada di Zelig!). Gli ammicchi al sesso son quasi più frequenti delle parole stesse. I nostri figli penseranno: ecco il mondo degli adulti, con bandiere a forma di giarrettiere o di reggiseni, con l’inno al «trombare» (parola ormai sdoganata alle 21), con i giorni finalizzati sul «Punto-G», che per fortuna ora si sa bene dov’è. Di bel altro stampo il varietà Artù (giovedì alle 23,20 su Rai 2), condotto da quel Buster Keaton della Bassa emiliana che è Gene Gnocchi (parola da non confondere con…).Tante battute, tra il surreale e il velenoso. Per esempio: «Castro si è ritirato a 80 anni, a Diliberto invece mancano otto anni di contributi». Ma anche qui sbucano le ragazzotte, e diventano il Viagra dell’umorismo casereccio. Un accenno al Festival di Sanremo, il ricordo del verso famoso «si può dare di più» con il corollario «si può darla di più». Gnocchi scherza sulle notizie. Dopo la proposta del ministro Di Pietro di ridurre Mediaset a un solo canale, «ci sarà un esubero di gnocche». Un comichetto-spalla ne fa entrare altre, tutte «in passerella». E avverte: «Nessun problema, queste son già passerellate».
A
l’umorismo casareccio delle ragazze Viagra
web
games
INCURSIONI PERICOLOSE artito il baillamme in vista delle elezioni, l’addomesticamento dei media rischia di essere terribilmente complicato sulle pagine web, tradizionalmente esposte ai malumori e all’interventismo liberato della controinformazione. Recenti alterazioni e manomissioni da parte di hacker e buontemponi, hanno messo in risalto la vulnerabilità di molti siti web ufficiali legati alle principali forze politiche.
P
I siti ufficiali delle principali forze politiche presi di mira da hacker e buontemponi Sfruttando alcune falle nei codici web, il Partito democratico ha già subito più di qualche incursione, mentre sulle pagine web dei Radicali italiani ha fatto capolino il divertente e di sicuro effetto «Vogliamo Paperino al governo». Non va meglio all’Udeur, oggetto di pericolose infezioni che inoculano bizzarri virus nel codice di sicurezza. Oggi più che nel 2001, internet è ormai per gli strateghi dell’endorsement popolare uno scacchiere di fondamentale importanza, e i maggiori partiti italiani, finora con scarso successo stanno affidando alle mani di esperti la messa in sicurezza delle proprie pagine web. Resisteranno da qui al 13 aprile?
video
GRAN TURISMO PROLOGUE solo un antipasto, ma Gran Turismo Prologue sembra in grado di stimolare l’appetito famelico dei possessori di Playstation 3, da mesi alla ricerca di un «piatto forte» in grado di giustificare il costoso acquisto del loro gioiello next-gen. L’ultimo (mezzo) episodio di una serie che ha fatto impazzire i fan delle console Sony appassionati di simulazioni di
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Esce per la Playstation3 l’ultimo (mezzo) episodio della serie di Kazunori Yamauchi guida, aspettando il «vero Gran Turismo» previsto per la fine del 2008, è un vero piacere per gli occhi: 1080p per 60fps, grafica fotorealistica, motore 3d che finalmente sfrutta (tutte?) le potenzialità della Playstation 3, cura impressionante per i dettagli, cinque piste e decine di vetture diverse da personalizzare. Il tutto, tenuto insieme dalla solita, maniacale, ossessione per un modello di guida ai limiti estremi del realismo. La nuova fatica del grande disegnatore Kazunori Yamauchi, insomma, stupisce ancora una volta. Ma cinquanta euro non sono pochi, per un antipasto.
dvd
L’EPICA NEGATA DEI NAVAJO oi sappiamo che l’uomo bianco non capisce i nostri pensieri. Egli è uno straniero che vive nella notte e prende dalla terra qualunque cosa gli serva. Egli tratta sua madre, la terra e suo padre, il cielo, come cose che possono essere comprate, sfruttate e vendute come fossero pecore o perline colorate. Il suo appetito divorerà la terra e lascerà dietro solo un deserto». Demonizzati come popolo brutale, i nati-
«N
“500 Nations”, il bel documentario di Kevin Costner dedicato ai nativi americani vi americani raccontati da Kevin Costner nel magnifico documentario 500 Nations, rivivono come ombre di un tempo e di un luogo lontano, tenuto nascosto dalla storia e mistificato nell’apologetica epopea del far west. Maja e Navajo, le battaglie e le stragi, la deportazione dei Cherokee, la vitalità di una cultura poetica e raffinata. I Nativi americani delle 500 nazioni non riceveranno mai giustizia per il genocidio perpetrato nei loro confronti, e così la voce appassionata di Costner non può che narrarcerne imprese e danze come in una favola macabra e suadente.Toccante e profondo, 500 Nations è l’epica negata. Lo spirito di un popolo spogliato dei suoi figli e del suo canto.
cinema
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Persepolis o del veterocomunismo di Anselma Dell’Olio ersepolis è un film d’animazione tratto dall’autobiografia omonima di Marjane Satrapi, un romanzo a fumetti di successo, scritto e diretto con Vincent Paronnaud, fumettista francese. Alla prima visione si rimane folgorati dall’eleganza formale e innovativa di un racconto animato in un insolito bianco e nero e dalla stringata e coinvolgente sceneggiatura di 90 minuti secchi. Se in Francia, suo paese d’adozione, il suo graphic novel è un successo di culto, in America è esploso. Kathleen Kennedy, pupilla di Steven Spielberg, lo ha co-prodotto per lo schermo, un colpo gobbo per una regista debuttante. Sembra curioso che nessuno abbia commentato l’ideologia veterocomunista che pervade il film. L’insistita vena antioccidentale non è stata colta da alcun recensore. Strano, poiché la cultura popolare più amata dalla protagonista è yankee o europea dall’inizio alla fine, presente come la sua sempre rivendicata cultura politica marxista. All’inizio del racconto, poco prima della caduta dello Scià Reza Pahlevi, Marjane ha nove anni, porta le Adidas ed è pazza per i BeeGees, fino alla trionfale canzone di chiusura, Eye of the Tiger, del gruppo rock americano Survivor, scritta per Rocky III del reaganiano Sylvestor Stallone. Forse la svista dipende dalla forza impetuosa della recente storia iraniana: la speranza di democrazia dopo la rivoluzione, subito sconfitta dal fondamentalismo islamico repressivo. Rivista alla moviola, stupisce che siano sfuggiti ai recensori i parallelismi tra due ideologie totalitarie, presenti in tutto il film: quella dell’integralismo islamico e quella del comunismo. Solo che la prima è presentata in tutto il suo orrore liberticida, mentre la seconda è riverita, accarezzata e rivendicata con orgoglio fino all’ultimo fotogramma.
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La famiglia di Marjane discende dall’aristocrazia iraniana, con un nonno principe e comunista che ha passato un terzo della vita in prigione perché voleva rovesciare l’impero Pahlevi. Figlia di agiati intellettuali di sinistra e nipote amatissima di Anoosh, attivista comunista liberato dopo anni di galera con la cacciata dello Scià, lo zio avrà un’influenza decisiva nella formazione dell’autrice. I genitori di Marjane,
Pregevole ma ottuso il film d’animazione, opera prima di Marjane Satrapi. L’eleganza formale appanna la marcata vena antioccidentale che stranamente nessuno ha finora rimarcato
no riunire la gente». Ma il nuovo regime è molto più feroce di quello dello Scià filo-americano, e lo zio stavolta è condannato a morte. Ma il fatto che i prigionieri politici siano saliti da 3000 sotto lo Scià a 300 mila con i mullah, quasi tutti giustiziati, o che delazione e leggi repressive abbiano imperato pure in Urss, non cambia l’analisi. Zio e nipote non colgono che i comunisti, in prima linea nel cacciare lo Scià, sono le prime vittime perché propongono un regime totalitario in diretta concorrenza con l’islamismo. Scoppia la guerra con l’Iraq. Impauriti dai bombardamenti e dalla figlia punk sempre messa in castigo dal regime per comportamenti «occidentali», i genitori mandano l’adolescente a Vienna. Va in un convitto di suore, dipinte come megere arcigne nei loro simil-chador perché sgridano Marjane quando s’ingozza direttamente dalla pentola davanti alla tv. Fugge, cambia spesso casa, diventa donna. La sua educazione anticapitalista continua con gli intellettuali viennesi: legge Freud, Sartre, Bakunin. Il primo amore si scopre omosessuale, il secondo la tradisce, «ma l’amore è un sentimento piccolo borghese», si consola. «Il capitalismo corrode la società». Cade in depressione, litiga con l’affittacamere, dorme per strada, rovista nelle pattumiere per mangiare, si ammala e sviene. Raccolta da sconosciuti, ricoverata e curata, decide di tornare in Iran.
Detto tra noi, non ha tutti i torti». «E come devo fare?», chiede il padre dello Scià. Risponde l’inglese: «Tu ci dai il petrolio e noi ci occuperemo del resto». Marjane è rapita dalla lezione di geopolitica. Un altro zio uscito di prigione racconta di torturatori «ben addestrati dalla Cia». Anoosh assicura che, senza lo Scià, «da ora in poi pace e giustizia regneranno nel nostro paese. Come ha detto Lenin, il proletariato trionferà». Con un dottorato preso in Urss in marxismo-leninismo, lo zio continua l’indottrinamento quando alla radio i mullah annunciano che «il popolo ha votato democraticamente al 99,9% per la Repubblica Islamica». «È normale», chiosa. «Ogni rivoluzione ha un periodo di transizione. Metà del paese è analfabeta. Il nazionalismo o la morale religiosa sono le sole cose che posso-
Di nuovo in Iran, s’innamora. Il fidanzato vuole espatriare, ma lei dice no: «In Occidente puoi crepare per strada e nessuno se ne frega», dimenticando che a Vienna era stata salvata da mani pietose. Ma in Iran la stretta autoritaria è sempre più soffocante. Alla fine i genitori la mandano a Parigi, e per sempre. Prima di partire Marjane giura sulle loro tombe che renderà nonno e zio fieri di lei, che resterà «integra e coerente» con i parenti comunisti perseguitati. Ora che ha ricevuto una calorosa accoglienza in Usa, pare ricredersi, ma in maniera manichea, alla moda tra progressisti europei, operando una comoda e spuria distinzione tra americani buoni e cattivi. Speriamo che la formazione di un’artista di talento non finisca con questa pregevole e ottusa opera prima.
guardando la manifestazione di giubilo in corso sibillano: «Ora lo Scià potrà fare le valigie e raggiungere i suoi compari a Washington. Pagherà per tutto il male che ci ha fatto». Lo zio Anoosh rincara la dose appena liberato, raccontando all’adorante nipotina come il padre dello Scià voleva instaurare una repubblica iraniana sul modello Ataturk. Si vedono degli inglesi caricaturali convincerlo a fare l’Imperatore: «Un paese come il tuo ha bisogno di un uomo forte alla guida». (Un concetto identico è ripetuto oggi dagli odiatori progressisti di Bush, ritenuto stupido e malvagio poiché pensa che tutti gli uomini della terra siano pronti per la democrazia. Questo sfugge a Satrapi.) Lo zio continua a istruire la pupa, illustrando malefici inglesi in divise barocche con accenti da Stanley e Ollio: «E poi, il clero è contro la Repubblica.
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poesia
Giuseppe Ungaretti,
SAN MARTINO DEL CARSO Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
di Francesco Napoli
C
Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato GIUSEPPE UNGARETTI
da L’allegria
QUANDO IL MITO SI RACCONTA in libreria
A
omponimento tra i più celebrati e antologizzati, perfino nelle scuole elementari viene preso ad esempio, resta nella memoria per alcune ridondanze (queste/qualche, tanti/tanto, cuore/cuore) ma ancor più per l’incisiva descrizione dei funesti effetti della guerra sugli uomini e sulle cose. La poesia era già compresa in quel piccolo gruppo di testi che il giovane Giuseppe Ungaretti, soldato dell’esercito italiano sul fronte della prima guerra mondiale, affidò alle cure di Ettore Serra per la pubblicazione nell’edizione del Porto Sepolto datata 1916 poi confluita, dopo un lungo percorso editoriale, nell’Allegria del 1942. Ottanta gli esemplari che girarono tra amici italiani e francesi dell’allora sconosciuto poeta di questa plaquette d’esordio, versi dalle zone di combattimento, innanzitutto, ma soprattutto di un uomo che si trovava esposto all’orrore della guerra. Queste composizioni Ungaretti le teneva strette nel suo tascapane, le sfogliava quando, dopo un’estenuante giornata in trincea, cercava qualsiasi lembo di carta dove annotare il luogo, la data e l’estrema sintesi
dell’espressione linguistica per riprodurre nero su bianco i sentimenti di quei tempi, di «un uomo esposto alla morte in mezzo alla morte». Ungaretti in questo come in tutti i testi della raccolta ha un atteggiamento ben distante dal’altro poeta in guerra, d’Annunzio. La sua poesia sembra cantare una sofferenza forse rassegnata ma per nulla eroica, che rivela l’anonimato del singolo soldato, di chi quella guerra la condusse fino in fondo, ritenendola allora necessaria, come lo stesso Ungaretti la ritenne, ma orrenda, come lo stesso Ungaretti a posteriori affermò. Non c’è alcun eroismo, dunque, piuttosto sembra prevalere un sentimento di compassione per se stesso e per tutti i «fratelli» di qualsiasi reggimento fossero e, probabilmente, anche dei reggimenti ostili all’allora sbandato esercito italiano. L’intera raccolta, infatti, si configura come una continua invocazione di fraternità di fronte agli orrori e accorato è l’altrettanto famoso e memorabile appello nella poesia Fratelli composta il 15 luglio 1916: «Di che reggimento siete/ fratelli?// Parola tremante/ nella notte». I brandelli delle
UN POPOLO DI POETI
di Loretto Rafanelli
ncora una volta con La stoffa dell’ombra e delle cose (Mondadori), Roberto Mussapi ci consegna un libro dove l’urgenza «di indicare quando si è dimenticato», come dice Bonnefoy (uno dei suoi poeti preferiti), appare evidente. È l’urgenza di indicare la storia infinita delle cose, delle persone di questo mondo, che scompaiono, si dileguano, lasciando tracce flebili e che solo il poeta, può a noi riportare. Solo il poeta ha questa capacità, come diceva Luzi; gli storici o gli antropologi o i botanici, giungeranno nelle loro descrizioni solo a un certo punto, poi ci vuole la sensibilità del poeta, per arrivare alle emozioni, alle ansie, allo scorrere del tempo. Ma ci vuole soprattutto un poeta come Roberto Mussapi. Egli narra in
La poesia di Roberto Mussapi, tra prosa e lirica è capace di restituire dall’interno l’essenza delle cose prima persona, e diventa il tuffatore di Paestum, l’olivo, la millenaria rosa, la farfalla e l’ippocampo nella guerra di Troia. Un narrare, il suo, dal «di dentro», in grado di restituirci la vera essenza degli uomini, degli animali, delle cose, la luce, le ombre, la vita. Con lui ricompaiono le vicende terribili e meravigliose che hanno attraversato varie umanità. Un racconto unico il suo, un’affabulazione rara nel panorama poetico. Una poesia che tende alla prosa, mantenendo tuttavia quella struttura lirica che fin dai tempi del memorabile Il cimitero dei partigiani, ci appare come una delle versificazioni poetiche più importanti, non solo della poesia nazionale. Il mito in Mussapi è l’attenzione verso i giorni di un’esistenza, siano essi quelli gloriosi trascorsi da Marco Polo o da uno qualsiasi degli uomini del nostro tempo. Con quella capacità di vedere, che deriva dalla capacità di guardare e di ascoltare. Con un effetto finale che appare come una sequenza cinematografica, dove le parole divengono azione, senso animato, scena visibile.
Ora so cos’è la pioggia da quando me l’hai detto e scrosciare voglio sul selciato, battere e battere i vetri di fiato cadere e finire su ogni minima cosa se sono pioggia saprò quante volte morire. Fenice d’acqua di Maria Rita Stefanini
Il cecchino accarezza il grilletto. L’occhio inquadra l’istante che decreta la fine.
Il fucile è segnato dalla lama: una tacca una preda. Al compagno che prende il suo posto esibisce il punteggio del tiro al bersaglio. La tasca della giubba non custodisce fotografie né lettere d’amore. di Paolo Lisi
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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vita di un uomo tra le rocce del Carso poche case del paesaggio carsico della prima strofa non sono uguali a quelli descritti in Pellegrinaggio («queste budella/ di macerie»), testo peraltro composto nello stesso luogo di San Martino del Carso ma undici giorni prima. La loro materia è nel nostro esemplare più polverosa, quasi sabbiosa come il deserto che Ungaretti ha sempre impresso negli occhi sin dall’adolescenza, lui natìo di Alessandria d’Egitto, e si mischia a quel nulla rimasto dei «tanti/ che mai corrispondevano». Altissimo poi Ungaretti nel rinforzare il sostanziale vuoto delle prime due strofe con il vacuo pieno del cuore dove «nessuna croce manca» e il paese, simbolicamente ivi accolto, è colmo dello strazio della guerra. Ed è proprio quando il nostro, come in questa chiusa, arriva alla sentenza, «È il mio cuore/ il paese più straziato», che il suo fare giunge a ineguagliati vertici. All’apparire dei versi del Porto sepolto così stringati, ridotti a strutture minime, così asciutti e crudi, si pensò a eredità provenienti dal futurismo e da certo versoliberismo inaugurato in Francia e in Italia praticato anche da quell’Aldo Palazzeschi al
quale senz’altro Ungaretti guardava. Sfuggì allora, e talvolta rischia di sfuggire anche adesso nonostante una bibliografia critica ricca e attenta a riguardo, come questa secchezza altro non era che il tentativo, riuscito, da parte del poeta di far aderire il più pienamente possibile l’espressione a ciò che doveva essere espresso. Per quei fatti umanamente così difficili da sopportare, Ungaretti cercò di ridurre al minimo lo spazio esistente tra la lingua e quello che aveva in mente. «Cercavo l’approssimazione meno imprecisa, la riduzione, per quanto possibile, di quel divario ineliminabile», confessa a distanza di anni. E che si trattasse di un’incisiva risoluzione formale strettamente legata a quel fatto e a quell’occasione lo dimostra l’unicità, nella nostra poesia, di quelle formulazioni metrico-ritmiche che nessun’altro ha mai saputo e potuto imitare o raggiungere. Ma ci sono anche le poesie appena successive o comunque più lontane dallo scenario bellico, datate 1914-1919, raccolte nell’Allegria come Ultime, dove il verso già inizia a distendersi prima di arrivare alla magnifica costruzione lirica, ben più tradizionale, leopardiana e petrarchesca, della successiva
raccolta Sentimento del tempo. Già a partire da Porto sepolto, è bene riaffermarlo, Ungaretti stacca lontano tutta la poesia che l’aveva preceduto e, con Montale, si pone come uno dei due grandi corni della poesia novecentesca italiana, se non mondiale. Diario di guerra, con tanto di date e luoghi, dunque, dicevo di Porto sepolto: dall’inverno del 1915 con poesie da Cima 4 (22 dicembre, Lindoro di deserto) fino al Commiato del 2 ottobre dell’anno successivo da Locvizza si ripercorre con Ungaretti l’intero fronte orientale dell’Italia impegnata nella prima guerra mondiale, un luogo accidentato che i versi della raccolta sanno tutt’ora restituire nel pieno della geografia e delle storie degli uomini di quell’infausto evento. In fondo le trentatré composizioni del Porto, non a caso quasi immuni dalla proverbiale furia variantistica del poeta, aderiscono appieno al pensiero di Ungaretti per il quale «l’autore non ha altre ambizioni, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non quella di lasciare una bella biografia». Come dire Vita di un uomo, proprio il titolo sotto cui Ungaretti ha raccolto nel tempo l’intera sua opera intellettuale.
il club di calliope A Manhattan Siamo tutti formiche qui a Manhattan, Dove l’uomo si è scoperto Dio Prima che Dio lo abbandonasse. I rumori elettronici dell’alba Cantano il blues d’una nuova giornata, La cui prua scivola tra i gorghi Dell’insonnia e li fa fiato. Brune sirene aprono danzando La porta psichedelica del mondo Che ti accoglie fresco di rugiada. Il mondo è qui davvero, Strano e diverso dai pianeti usuali, Balza nei cieli come una palla ovale E illumina di neon giocosi o irosi il fronte inarrestabile del tempo. Non ci sono guerre a quest’ora,
Il sole stira i raggi che ti abbracciano, Mentre fissi le nubi e vedi un angelo In volo tra le brezze d’una storia Appena cominciata E forse destinata Al fuoco di Wall street: vulcano Che divora i sogni dei dollari, Ne fa sabbia rovente e vento di letame. Adesso però tutto è grazioso In questa città fanciulla Dai capelli bianchi Che ti versa il caffè con due zollette di un bacio tra nenie hip-hop zampillanti pioggia d’amore. Claudio Angelini
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FOTOGRAFIA
arti
Mitologie per immagini di Marco Vallora grandi ritrattisti sono in realtà dei grandi mitologi» sosteneva Roland Barthes, che di mythologies se ne intendeva e anche di fotografia, come avrebbe dimostrato con la sua Camera Chiara. Lo stesso si può sostenere dei veri ritrattisti in pittura, ma certo la fotografia aggiuge qualcosa di diverso, di più imbarazzante e quasi metafisico, come ben rivela il difficile rapporto tra Nadar e Baudelaire. Che non si lasciò in fondo catturare dallo «scatto» lunghissimo, vampiresco del pioniere del dagherrotipo, rifiutandogli l’anima. C’è sì il fantasma del corpo, ma non la sua adesione spirituale. Barthes ha raccontato magnificamente che cosa succede nel momento quasi erotico, promiscuo dello scatto-scambio, in cui il modello sa d’esser fotograto e cerca di mostrare un alto io, finto, ideale, innaturale, e il fotografo finge di non esistere, di non esser presente: per catturare una verità-coito, ch’è verità solo in parte. E che nei grandi registi-fotografi si tramuta appunto in «mitografia»: scrittura di luce d’una nuova, inedita mitologia moderna. Pensiamo per esempio che han significato per il cinema, oltre che per la storia della fotografia, due splendidi «registi» appunto quali gli Shaw, cui il Museo Alinari di Firenze dedica una preziosa mostra. Shaw, un nome, un programma, anzi un destino: padre e figlio, Sam e Larry. Scattano istantanee apparentemente rubate, ma le loro «icone», celeberrime, sono in realtà dei complessi fotogrammi fulminanti, rappresi di film mentali, divertiti. Pensiamo per Sam alla «sequenza», condensata e pubblicitaria (a vita) per Quando la moglie è in vacanza, con Marilyn che si lascia titillare l’anatomia, sorpresa e spiritata-spiritosa, dal vento che proviene dai penetrali maliziosi d’un tombino newyorkese (e si sa ormai, sotto era stato piazzato un ventilatore: la «natura» delle fotografie spesso è molto artificiale) oppure
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autostorie
quella non meno celebre di Marlon Brando, col bicipite parlante e la sudorina provocatoria, di Un tram chiamato desiderio, accanto alla sgomento, recitato e tutto Actor’s Studio, di Vivian Leigh. Per Larry, figlio d’arte e legato al mondo meno hollywoodiano e improvvisatorio d’un John Cassavetes (magnifico qui in alcuni scatti, rilassati e interlocutori, perché come ha sostenuto sempre Barthes «la fotografia ha la facoltà di guardarmi dritto negli occhi») basterebbe un unico scatto magistrale, quello di Anna Magnani, le occhiaie accalamarate dallo sgomento, che «beve» con autentico terrore la notizia dell’assasinio di Kennedy, sparata in gramaglie su Momento Sera, mentre la vita continua, rumorosa, intorno a lei (ma noi sentiamo solo il suo «silenzio» interiore). Lo spezzatino de vitella co’ li piselli e le sojole, promesse col gesso sulla lavagna scolare, il disegnino art brut sulla parete di trattoria, una mano fantasma che continua a rimestare con la forchetta in un piatto accanto, indifferente al dramma planetario. Che importa se «finta» anche questa, preparata o truccata (certo è il segno d’una familiarità confidenziale con la qui non-diva). Così com’è viva l’immagine di Sophia ieratica e incoronata dal casco di parrucchiera. Un giovanissimo Peter Falk, atterrato su un water closed, poco duchampiano. Lo sguardo penetrante di Marlon Brado e gli occhi cerulei di Newmann. L’orgoglio un poco volgare di Arthur Miller, che si porta in giro, su decapottabile, l’appena conquistata Marilyn, come a dire: «visto che mi sono vinto» e Woody Allen che invece si schermisce goffo dalle avances di Romy Schneider. Due mondi. Stars on Stage, Museo Alinari, Firenze, fino al 25 marzo
Vite da corsa: le gesta di Nino Farina
di Paolo Malagodi ell’ambiente, i giornalisti avevano preso l’abitudine di chiamarlo scherzosamente «Ciccio», data la tendenza a una leggera pinguedine, ma negli elenchi di partenza e negli ordini di arrivo era spesso citato come «dottor Giuseppe Farina», per una laurea in legge brillantemente conseguita anche se mai utilizzata.Tuttavia, negli annali delle quattro ruote è citato con il familiare appellativo di «Nino»: Nino Farina, il primo pilota che si fregiò del titolo di Campione del mondo, conquistando il massimo alloro durante la stagione nella quale prese il via la nuova formula iridata. Era il 1950 e Nino Farina entrava nel quarantaquattresimo anno di vita, essendo nato a Torino il 30 ottobre 1906 e proprio il giorno in cui
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il padre Giovanni aprì una carrozzeria destinata a rivestire gli autotelai che uscivano dalle fabbriche. In quella nuova azienda presto rinomata entrò giovanissimo anche Battista, il penultimo dei dieci fratelli di Giovanni, soprannominato «Pinin» e destinato a fondare, nel maggio 1930, la «Società anonima carrozzeria Pinin Farina». Dalla quale usciranno prestigiose fuoriserie, che renderanno il nome del loro creatore tanto famoso da meritare - nel giugno 1961 - un decreto del presidente della Repubblica di mutamento del cognome Farina in quello stesso della prestigiosa carrozzeria che, dopo la scomparsa del fondatore il 3 aprile 1966, sarà guidata dal figlio Sergio Pininfarina. Nino, invece rimasto Farina e cugino di Sergio, crebbe dunque in un contesto for-
temente influenzato dall’automobile e fin da adolescente guidava con disinvoltura la piccola Chiribiri che il padre gli aveva regalato. Un tipo di vettura che, in versione sportiva, all’inizio degli anni Venti vinse diverse gare con Tazio Nuvolari alla guida. E proprio il «mantovano volante» è l’idolo del giovanissimo Nino tanto da fargli dichiarare, ormai avanti nell’età e al culmine della gloria, che il più importante cimelio raccolto in decenni di fulgida carriera non era uno dei ricchi trofei conquistati sui circuiti di tutto il mondo, bensì un rettangolino di carta giallognola esposto in un quadretto ben in vista nel suo studio e quasi fosse una seconda laurea. Era il telegramma ricevuto in albergo a Livorno, il 31 luglio 1939 e all’indomani della vittoria conseguita, su un’Alfa Romeo 158, nel circuito toscano del-
l’Ardenza. Il messaggio, partito da Mantova, iniziava con le parole: «Avendo portato a vittoria macchina con maestra esperienza confermoti asso come pronosticai quando all’inizio conobbi tue doti»; a firmarlo è un ormai quarantasettenne Tazio Nuvolari che consegna, così, idealmente il testimone della staffetta al trentaduenne Farina. Uno dei tanti episodi di una vita spesa all’insegna della guida spericolata, come viene raccontato in un libro (Farina, il primo «iridato», Giorgio Nada editore, 196 pagine di grande formato, 39,80 euro) arricchito di oltre 200 foto e magistralmente scritto da Cesare De Agostini, uno dei più attenti studiosi di automobilismo che cura una prestigiosa collana dedicata alle «Vite da corsa», giunta ora al nono volume.
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1 marzo 2008 • pagina 15
ARCHITETTURA
Musa, la discreta eleganza di un piccolo museo di Marzia Marandola hi volesse conoscere il nuovo Museo degli Strumenti Musicali dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Musa), può dilettarsi con il libretto di Paola Pacetti, illustrato dagli incantevoli disegni di Lorenzo Terranera, Ricci, piroli, chitarre e tamburi, dedicato ai bambini. Inaugurato il 16 febbraio, il Musa è ricavato nel Parco della Musica di Roma di Renzo Piano, sotto la sala Santa Cecilia. La collezione di alcune centinaia di strumenti musicali di tutto il mondo, avrebbe dovuto trovare posto in un ambiente più ampio, previsto nel progetto originario di Piano accanto alla biblioteca della musica. L’imprevisto ritrovamento dei resti di una villa romana costrinse a sacrificare questa parte del progetto, che trova oggi una sistemazione surrogata, ma assai efficace, in un piccolo ambiente tra le grandi sale. Il Musa non è in competizione con il museo degli strumenti musicali del complesso della basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme. All’auditorium infatti si trova esclusivamente la collezione dell’Accademia musicale romana, nella quale compaiono anche esemplari rari e preziosi.Tra essi il cosiddetto Toscano: un violino della bottega cremonese di Antonio Stradivari, del 1690, appartenuto al Gran Principe Ferdinando de’ Medici. Il prezioso strumento è stato in uso fino al 1977 dei virtuosi dell’Accademia. In uno spazio di meno di 400 mq, dall’andamento irregolare, sono ricavate una galleria espositiva, una minuscola libreria e un’area per bambini. L’ambiente espositivo distende lungo le pareti di un corridoio coperto a volta, una sequenza di elegantissime teche, in legno di ciliegio e cristallo, dove sono visibili 130 pregiati strumenti. Il disegno
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MODA
delle teche è essenziale e stilizzato in modo da non prevaricare visivamente l’emergenza figurale degli strumenti, ed è contrassegnato da una straordinaria raffinatezza dei sistemi di sostegno e della puntiforme illuminazione. Sotto il profilo architettonico si tratta di una scelta minimalista che rinuncia completamente a narcisismi formali e a compiacimenti effettistici. La stessa scelta sovrintende al sobrio allestimento degli ambienti complementari, posti in sequenza, in cui un uso puntuale e sofisticato dei pannelli dello stesso legno di ciliegio, garantisce insieme l’identità complessiva dell’allestimento e la continuità visiva e ideale con l’interno della grandi sale da concerto. La discrezione e l’eleganza di questa piccola architettura di interni si deve allo studio romano Alvisi Kirimoto & Partners, che una lunga consuetudine lega allo studio Piano, da cui ha avuto l’incarico di local architect. La galleria espositiva sfocia nello spazio per i bambini, dove sono mostrati i processi e i materiali degli strumenti, grazie anche a un laboratorio di liuteria, che oltre allo scopo didattico, assolve alla manutenzione degli strumenti delle orchestre. A conclusione si trova lo spazio del forum nel quale un sistema interattivo permette di apprezzare i suoni dei diversi strumenti e attraverso proiezioni multimediali, le forme e gli usi dei violini, dei mandolini e di strumenti meno noti, come la ghironda, i cui suoni sono comandati da una manovella che fa girare una ruota e sfrega le corde. La ghironda ebbe una gran diffusione nel Medioevo in una versione maneggevole detta «lira dei mendicanti» poiché era usata dai ciechi per sollecitare un obolo.
La donna? Vale più l’ossessione della forma di Roselina Salemi ilano Fashion Week ha tirato giù la saracinesca, ma non un sospiro di sollievo. Si venderanno questi benedetti vestiti? Mentre pensiamo all’estate sappiamo già che in autunno saremo romantiche, un po’ The Queen e un po’ Eva Kant, persino con i suoi chignon, ma senza Diabolik, che rivaluteremo il tartan e i foulard annodati ovunque (Dolce & Gabbana), il pizzo (Prada) e le calze, che alterneremo lievi chiffon a imbaottiti pensati per una spedizione in Alaska e non per le nostre surriscaldate città. Certo, è una fatica per gli stilisti inventare ogni sei mesi un tipo di donna diversa, la barbie e la punk, la seduttrice e il maschiaccio, la lady e la cocotte, la sadica e la lolita, per giunta tenendo conto della globalizzazione. Un anno Paolina Bonaparte con fluttuanti abitini stile impero e un anno Jackie Kennedy. L’inverno prossimo sono di scena la zingara di lusso (Armani), la Liz Taylor rivista e corretta (Roberto Cavalli), l’androgino alla David Bowie, la swinging London anni Settanta. La verità disperante e appena sussurrata è che tutti hanno fatto tutto, tutti hanno mescolato tutto con tutto, il jeans e il pitone, il maculato e le rose, le ballerine rasoterra e il tacco da quattordici centimetri, eppure succede sempre meno che le fashioniste newyorkesi piangano di commozione a una sfilata, perché non hanno mai visto niente di così bello. Siamo sazi di moda, di stranezze, di abiti con piume di gallo cedrone e pelle di anguilla, lana che
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Un modello della sfilata autunno-inverno di Giorgio Armani
sembra coccodrillo e coccodrillo che sembra plastica, plastica che sembra lana. Gli unici che si stupiscono (compratori giustamente corteggiati), sono i famosi russi che possono permettersi cappotti da trentamila euro, zibellini spruzzati di oro ventiquattro carati che fanno inorridire gli animalisti, abiti con pietre semipreziose incastonate qua e là e, per le più chic, cappottini da zarina urbana (Gucci), magnifici per lady Putin se riuscisse a entrarci dentro, più adatti alla nuova compagna del miliardario Roman Abramovich, ex modella. Di nessuno si può parlar male, perché business is business, non si può dire che le triple spalline sono improponibili, che il vestito a pagoda sta male quasi a chiunque, e quello da sposa, a bozzolo, bellissimo da fotografare, scoraggia il matrimonio. C’è, fra le tante, una tendenza inquietante a fare tabula rasa del corpo femminile, come se ci fosse bisogno di nasconderlo e ricrearlo dentro geometrie tonde, triangolari, a trapezio, a uovo. Va bene l’astuzia dell’abito che veste tre taglie (e in questo è bravissima, da sempre, Laura Biagiotti), ma l’ossessione della forma è qualcosa di più. La donna, per la quale il meraviglioso, futile, ansioso mondo della moda è nato, sparisce sepolta da trionfi di balze e strati di maglia nati per una mostra al Metropolitan. Si è liberata di stecche e busti solo per essere plasmata, una stagione dopo l’altra, dal capriccio altrui, ha accettato, consapevole, un patto un po’ sadico, non in cambio dell’eterna giovinezza, ma di un pizzico di glamour.
MobyDICK
pagina 16 • 1 marzo 2008
FANTASCIENZA
ai confini della realtà
C’è una statua su
Marte
di Gianfranco de Turris uando si entra in una terra incognita ci si deve aspettare sempre e comunque qualche sorpresa: popoli, animali, oggetti, manufatti, costruzioni strani, insoliti, incomprensibili, misteriosi. Ne sono pieni i resoconti dei viaggi antichi, medievali e anche abbastanza recenti. Su tutto la razionalità‡ scientifica si esercita per capire, ridimensionare, spiegare alla luce del buon senso, della - appunto - ragione e scienza. Se ciòÚ èË valido per regioni lontane migliaia e migliaia di chilometri dalle terre note, figuriamoci per una che dista da un minimo di 55 a un massino di 400 milioni di chilometri, vale a dire il pianeta Marte. Intorno a esso hanno girato ormai molti satelliti fotografici e sul suo suolo sono presenti da vari anni due piccoli e straordinari robot su ruote che continuano a trasmetterci ancora incredibilmente immagini perchéÈ avrebbero dovuto esaurirsi da un pezzo: Spirit nell’emisfero nord del pianeta e Opportunity in quello meridionale.
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Ora, il 23 gennaio scorso la Nasa ha diffuso una sequenza di immagini scattate dal primo alla base delle Columbia Hills, un po’ alterate nel colore dai tecnici per farne risaltare alcuni particolari. In esse si vede una distesa di sabbia bianco-giallamarrone con sassi nero-verdi, una vera desolazione dove peròÚ su un ammasso
In molti si affrettano a “razionalizzare” la strana concrezione, che assomiglia alla Sirenetta di Copenhagen, rilevata sul pianeta rosso dal satellite-robot Spirit. È perché si è smarrito il senso dello stupore… di rocce spunta una strana concrezione. Qualcuno l’ha definito un omino, altri una figura che stende un braccio come per un saluto o per indicare qualcosa o per tenere una invisibile canna da pesca, mentre lo scrittore Tullio Avoledo, che di fantascienza e di fantasia se ne intende, l’ha paragonata alla «´sirenetta»ª eretta su una scoglio del porto di Copenhagen in onore di Hans Christian Andersen e della sua fiaba. Sia come sia, fa una certa impressione. Gioco d’ombre e di scorci che una ripresa da una angolatura diversa da parte di Spirit non avrebbe evidenziato? Un capriccio di venti millenari che hanno modellato cosìÏ uno spunzone come sulla Terra vi sono rocce che assomigliano a volti, orsi, tartarughe, elefanti? Certo èË che quasi tutti i commentatori, con una foga degna di miglior causa, si sono dati da fare a «´smontare»ª qualsiasi altra eccentrica possibilità‡ facendo riferimento alla in precedenza famosa «´sfinge di Marte»ª fotografata dall’alto dalla sonda Viking 1 il 26 luglio 1976 e che esat-
tamente trent’anni dopo, il 22 luglio 2006, il più˘ sofisticato satellite Mars Express avrebbe rivelato essere soltanto un gioco d’ombre e di rifrazioni solari: non di un «´volto»ª si tratta ma di una «´normale»ª brulla collina marziana... Il fatto èË che oggi manca ai più˘ e soprattutto ai colleghi giornalisti il sense of wonder, quel senso del meraviglioso che era tipico dei nostri antenati, viaggiatori, cronisti, geografi, e che era stato ereditato dalla fantascienza delle origini, quella che sapeva creare straordinarie civiltà‡ esotiche sul quarto pianeta del Sistema Solare, dove il rosso domina, e che èË la vera, profonda caratteristica di questo genere letterario, ripresa dalle narrazioni mitologiche, e non certo la pura e semplice «´anticipazione scientifica»ª. Certamente: la nostra visione antropomorfica ci fa vedere figure simili a noi in oggetti che magari lo sono lontanamente per semplice associazione simbolica, cosìÏ come la nostra mentalità‡ tecnologica ci fa pensare agli Ufo (macchine volanti con alieni)
per fenomeni che in passato erano interpretati in maniera diversa (ad esempio manifestazioni divine). Noi vediamo quel che la nostra cultura ci fa vedere in base alle coordinate ormai connaturate in noi. Ma avendo ormai perso quel «´senso del meraviglioso»ª che contraddistingueva una ormai antica umanità‡, tendiamo ad appiattire, banalizzare e razionalizzare tutto, anche la «´sirenetta di Marte»ª, anche un lontano sogno minerale apparso all’improvviso nell’obiettivo asettico del «´camminatore»ª Spirit...
Certo, non ci aspettavamo sul pianeta rosso le rutilanti civiltà‡ descritte da Edgar Rice Burroughs nell’infinito ciclo di romanzi dedicati al suo eroe John Carter, sbalzato lassù˘ dopo essersi addormentato in una caverna terrestre: città‡ con torri altissime, regine meravigliose e discinte, enormi tigri come cavalcature, esseri con più˘ braccia... Ma almeno sarebbe il caso di ricordarsi di uno degli episodi delle Cronache marziane di Ray Bradbury (un libro che Mondadori dovrebbe finalmente ripubblicare in edizione critica e traduzione riveduta, come anche Fahrenheit 451) in cui i «´marziani»ª per illuderci e intrappolarci creano nel nulla una location (si direbbe oggi) terrestre fittizia, con luoghi e persone conosciute dagli astronauti che lìÏ vi sbarcano... Dove il sogno ha la meglio sulla realtà.