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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“The Fighter” di David O. Russell
ON THE ROAD CON MICKY WARD
di Anselma Dell’Olio
he Fighter è un film sulla boxe ma è un errore non vederlo perché non boxe non è esattamente un MacGuffin, un mero pretesto intorno al quale ruota piace il genere, anche se gli stilemi ci sono e molto di più. Toro scala storia, però conta alla pari del dramma (non melodramma) famigliare e Da non della storia d’amore, per niente banali. La differenza la fa il realismo tenato (di Martin Scorsese con Robert De Niro) è classificato perdere il film della trama e la verosimiglianza. Qui non ci sono le esagerazioni tra i dieci film migliori di tutti i tempi, e Rocky (di John G. plateali del melò, ma un intreccio che ha il sentore della vita Avildsen con Sylvester Stallone star e autore) come uno dei sulla vita del pugile welter, vissuta. Mickey Ward (Mark Wahlberg) è un pugile welsuccessi popolari di tutti i tempi (è curioso che ha vinto del suo fratellastro Dicky Englund ter juniores, con sette sorelle e un fratello ex cam3 Oscar, uno in più di Toro, infinitamente superioe della loro famiglia di origini irlandesi. pione di boxe e suo allenatore, quando non è re). Il film biografico di David O. Russell è metroppo intrippato con il crack per ricordarsene. no appariscente, come il protagonista Micky Ambientato a Lowell, che dette i natali La storia è tratta dalla vera vita dei fratellastri Micky Ward, un pugile welter grande incassatore, con un a Jack Kerouac, è un racconto che ha Ward e Dicky Englund, figli della stessa, tosta Alice (l’irrigancio sinistro notevole. È stato un concorrente legittimo il sapore del vissuto, senza conoscibile Melissa Leo, già candidata all’Oscar per Frozen Ritra pesi massimi (come Il discorso del re, The Social Network, I Ward-Englund sono una famiglia d’origini irlandesi di Lowell, Il Grinta, Winter’s Bone, Il cigno nero, 127 ore) con sette nomination ver). esagerazioni alla statuetta dorata: regia, montaggio, film e tre per attori non protagoMassachusetts, cittadina operaia già in sofferenza per l’abbandono della melò nisti: Christian Bale, Melissa Leo e Amy Adams (Bale e Leo hanno vinto). La grande industria quando il film inizia nel 1993.
T
Parola chiave Maghreb di Gennaro Malgieri Affari di cuore a ritmo di danza di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
L’autobiografia in versi di Dino Campana di Filippo La Porta
Chi ha paura degli Impressionisti? di Gabriella Mecucci La memoria riconoscente di Maurizio Ciampa
Erratica romana (con sosta alla Gnam) di Marco Vallora
on the road con Micky
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Dopo Jack Kerouac, originario di Lowell, l’orgoglio del posto era Dicky, ex campione welter del New England, che aveva steso nientemeno che Sugar Ray Leonard, anche se poi aveva perso il match ai punti. La storia inizia con Dicky seduto su un divano in una stanza spoglia, mentre parla con la videocamera di una troupe che sta girando un documentario «sul mio ritorno nel ring». Bale parte in quarta con un ritratto pirotecnico del suo personaggio, il fratello maggiore, spigliato, carismatico, inaffidabile. Si scoprirà che in realtà il film nel film è il ritratto della vita sballata di un crackhead. Vediamo filmini amatoriali dei due fratelli da piccoli, l’adorazione classica del minore verso il grande e l’onnipresenza di Alice. Dopo, tutta la famiglia va in processione trionfale per le strade di Lowell, inseguita dalla troupe. Dicky è il divo; bacia le ragazze, autografa vecchi poster dell’epoca di gloria e gigioneggia per la macchina da presa. Il giorno dopo, Micky è sul ring in palestra, le mani bendate, in attesa di allenarsi per un vero ritorno, in seguito a un ritiro strategico. Manca solo Dicky. La madre chiede alle sorelle, tutte in fila contro la parete, di cercarlo: un coro di menadi con i capelli cotonati, la sigaretta pendula. Bastano i loro soprannomi per capire l’antifona: Pork, Tar, Red Dog e Beaver. Alice ha capelli corti, biondo-bottiglia anche lei, e indossa tailleur stretti con gonna corta, sempre bianchi e con inserti leopardati sulle spalle gonfiate dalle protesi dell’epoca. Porta occhialoni con strass, orecchini a hula hoop, una cicca e un bicchiere di whisky mai lontani. Leo all’inizio esitava ad accettare il ruolo della madre di due uomini con appena dieci anni meno di lei. Ha deciso per il sì e ha vinto. La sua autorevolezza non lascia dubbi che sia la mamma al comando della truppa di nove figli adulti. Dicky, uomo fatto e tossico perso, salta dalla finestra del primo piano pur di non farsi trovare da lei in un covo di tossicomani.
Con economia di parole e situazioni, lo script ci coinvolge nel dramma di Micky, senza mai essere didascalico o usare i personaggi come stampelle per «tematiche». Dicky arriva trafelato in palestra dalla fatiscente crackhouse dove si droga. Rimproverato (non da Alice, che anzi lo spalleggia sempre), dice a Micky: «Perché perdere tempo in chiacchiere, saliamo sul ring!». Il ragazzo mite riesce appena a farfugliare «Ma come?! Ho buttato via mezza giornata aspettandoti!». Il jiu jitsu verbale di Dicky dice tutto sul loro rapporto squilibrato. Intanto Alice ha anno IV - numero 9 - pagina II
organizzato un incontro con un pugile ad Atlantic City. Guardano i video degli incontri dell’avversario per studiarne mosse e debolezze. La sera al pub, Micky è attratto dalla cameriera Charlene (Amy Adams). Ci siamo innamorati di lei in Junebug, splendido film sulla famiglia, purtroppo arrivato in Italia solo in dvd, in cui è una giovane moglie incinta, talmente luminosa e vera da meritarsi una nomination all’Oscar, da perfetta sconosciuta. Ha messo su peso per fare Charlene, la bella criniera rossa è più voluminosa, toppino e shorts incorniciano il pancino di Venere. Mark dice che è boxeur, e lei ripete quel che si dice di lui: è uno di cui gli altri pugili si servono per fare carriera. Lui si difende senza offendersi. «Sì, ho avuto qualche incontro tosto, ma io non sono quello lì. Mi alleno per un match ad Atlantic City: farò un ritorno alla grande». Poi le dà qualche nozione della sua strategia: «Corpo-testa, corpo-testa. Dai un colpo alla testa e l’avversario alza le mani per proteggerla, allora tu colpisci l’addome; lui abbassa le braccia per proteggere lo stomaco e tu gli sganci un sinistro alla testa. La gente pensa che è alla testa che fai male, ma si possono infliggere molti più danni al corpo».
una famiglia molto simile a quella del film. Da ragazzo era un delinquente; è finito in carcere a vent’anni. Grazie all’aiuto di un sacerdote e della religione cattolica è riuscito a cambiare vita. È stato rapper di successo (Marky Mark and the Funky Bunch) e grazie a un fisico magnifico, modello in una celeberrima pubblicità d’indumenti intimi di Calvin Klein.Tra i suoi film migliori ci sono Boogie Nights - l’altra Holywood di Paul Thomas Anderson, sull’ascesa e caduta di una pornostar, nominato per tre Oscar, Three Kings (sempre con la regia di Russell), The Departed (nomination all’Oscar per il ruolo di un poliziotto; è in cantiere un seguito con al centro il suo personaggio), I padroni della notte di James Grey, di cui è anche produttore. Ha prodotto le riuscite serie tv di classe In Treatment, Entourage e Boardwalk Empire. Come attore è così poco appariscente da essere a volte eclissato da istrioni di talento come Bale. Si sceglie bene le parti e sparisce dentro personaggi interiori, trattenuti. È spesso sottovalutato, ma è compensato dal successo in altri campi e dall’apprezzamento di registi di prima qualità come Scorsese, Grey, Anderson e Russell.
Intanto un altro avventore rivolge a Charlene un complimento pesante. Mark lo sbatte sul bancone e gli ordina di portarle rispetto. Dopo chiede un appuntamento alla ragazza e lei domanda se è sposato. Reagisce perplesso: «Ti chiederei di uscire se lo fossi?». «Non sarebbe la prima volta», risponde asciutta Charlene. Mark: «Ho una figlia, la vedo due weekend al mese. Non c’è altro». Lei chiede quando vuole uscire; sabato, risponde. È la risposta giusta: sabato in quella cultura è prime time, l’ora di punta e per il massimo che offre la ditta da quelle parti, cena fuori e un film. Gli scrive il suo numero su una salvietta. «È quello giusto?», chiede Mark, che conosce gli stratagemmi per liberarsi di uno scocciatore. «Dovrai chiamarmi per saperlo», risponde lei. È una scena perfetta, come tutte le altre del film scritte con una drammaturgia sapiente; si apprendono intere biblioteche d’informazioni sulla psicologia e il retroterra dei personaggi, con spirito e senza dialoghi meramente espositivi. Mark Wahlberg è protagonista e executive producer del film, che ha fortemente voluto. Si è innamorato di Ward e ci ha messo quattro anni a combinare il film. Nel frattempo si è allenato per essere credibile nelle scene di boxe, che sono ben fatte, senza i virtuosismi di Toro scatenato ma convincenti. Bale (American Psycho
ward
THE FIGHTER GENERE BIOGRAFICO DRAMMATICO DURATA 118 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE EAGLE PICTURES
e tre film con Christopher Nolan: Batman Begins, the Prestige, Il cavaliere oscuro) è un attore che aderisce al metodo di Stanislavsky-Strasberg, in cui la preparazione, la concentrazione e l’aderenza al ruolo sono totalizzanti. Lui e Melissa Leo, della stessa formazione, non hanno mai mollato il
REGIA DAVID O. RUSSELL INTERPRETI MARK WAHLBERG, CHRISTIAN BALE, AMY ADAMS, MELISSA LEO, JACK MCGEE, DENDRIE TAYLOR, MICKEY O’KEEFE, MELISSA MCMEEKIN, JILL QUIGG, CAITLIN DWYER, ERICA MCDERMOTT, BIANCA HUNTER
loro personaggio nemmeno nelle pause. Leo restava Alice, prepotente, dura, demotica. Bale (figlio d’arte) restava l’ipercinetico, affascinante affabulatore Dicky, sempre scattante, con la battuta pronta, una mina vagante. Wahlberg è un’altra storia. È il più giovane di nove fratelli, come Ward,
Funziona anche in coppia con Adams nel film: Charlene e Micky sono due perdenti in cerca di una seconda chance. Lei era riuscita ad andare all’università con una borsa di studio sportiva, come campionessa di salto in alto. Non si era laureata, però: troppe baldorie, troppa dissoluzione. Basta questo fallimento «alto» per renderla invisa alle truculente sorelle di Micky; la considerano una snob che si crede meglio di loro perché ha studiato, e la chiamano «Mtv girl», per loro un insulto sulla sua onorabilità. Charlene si batte perché Micky sia protetto dall’abbraccio pitonesco di madre e fratello, che mostrano di non avere i suoi interessi a cuore, solo i loro. Dopo il ritiro del primo avversario ad Atlantic City, Dicky e Alice lo convincono ad accettare un incontro con un pugile che pesa dodici chili più di lui e quasi lo ammazza. Ma grazie a un becero exploit criminale di Dicky, finisce in galera e riesce a staccarsi dalle grinfie sconsiderate della famiglia. Ma quando il pugile, ormai vincente, deve affrontare il match per la sfida al campionato, sente forte il bisogno del sostegno proprio di Dicky e Alice. Qualcuno pensa che Russell abbia voluto compiacere la famiglia vera, che ha collaborato al film. Io credo che pur prendendosi qualche naturale libertà con la storia per ragioni drammaturgiche, il regista abbia rispettato il nocciolo della verità. Da non mancare.
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parola chiave
l vento del deserto l’autunno scorso annunciava devastazioni che nessuno poteva immaginare. Dalle alture di Algeri la baia inondata di sole abbagliava con la sua luce dorata. Immaginavo, tuffandomi con l’immaginazione in quelle acque solcate dalle inquietudini, che per quanto pessimista si potesse essere, non c’era motivo per non avere fiducia in un Paese che stava cercando, sia pure con difficoltà, la propria dimensione. Dopo gli anni durissimi della decolonizzazione, sbaragliati i fondamentalisti islamici, ritrovato nuovo slancio con il partenariato europeo sempre più intenso, gli algerini finalmente vedevano alla portata anche un soffio di libertà. Alcuni, sia pure guardinghi, mi dicevano che la libertà sarebbe arrivata con un po’ di benessere. Una prospettiva che nelle piazzette e nei vicoli dell’impenetrabile casbah poco entusiasmava, tanto veniva considerata irreale. Eppure quei ragazzi che da sopra un alto muretto guardavano una partita di calcio di una delle decine di squadre di Algeri, avevano negli occhi speranze vive quanto la loro voglia di evadere da quel mondo in abbandono, saccheggiato da satrapi nazionalisti e socialisti, da impostori e mercanti che facevano affari con gli europei vendendosi l’anima di quella gente che dopo de Gaulle credeva di aver toccato il cielo con un dito.
I
Da Algeri a Orano a Costantine vedevo il Maghreb respirare con affanno. E non riuscivo a capire. Mi confondevo ancora di più tra Tunisi e Djerba. Mi acquietavo nella romanità sfiorata su quel lembo d’Europa in Africa e nel suk di Rabat, attirato dalle musiche incantatrici provenienti da Zyrab, ristorante raffinatissimo, mi stordivo con vino marocchino e golosamente assaporavo il più succulento dei meshui che abbia mai gustato, mentre una fanciulla dalla pelle ambrata danzava per me e qualcun altro su note che avevo già ascoltato a Essaouira. Europeo svagato? Semplicemente attratto dalle mollezze maghrebine al punto di non vedere ciò che avvolto dai silenzi delle vie di Casablanca si muoveva: un mondo indecifrabile appena percettibile. Non so se in Marocco esploderà prima o poi la rivolta, certo è che il Maghreb sta velocemente cambiando. Emerge la rabbia. Internet chiama chi può alla ribellione. Dilaga la voglia di libertà. Le donne per le strade sono le più attive. Mi dice un amico che il sesso, sempre segreto e vorace, diventa perfino libero. Non fatico a credergli. L’istintualità ha guidato i rivolgimenti tunisini; anche quelli algerini, per il momento meno appariscenti, hanno la stessa matrice. E poi gli egiziani hanno subito l’effetto domino. I satrapi cadono uno dopo l’altro. Il più feroce, quello che si veste come un pagliaccio anche nei giorni della tragedia, Muhammar el Gheddafi, tragico e tristo prodotto di un Occidente irresoluto e istupidito, è capace delle peggiori nefandezze, sapendo che nessuno lo disturberà fino all’ultimo giorno. Il Mediterraneo fiammeggia. Ci si attendeva che da qualche altra parte, forse a Est, verso Gerusalemme, il focolaio divampasse. E invece l’insorgenza è venuta dove meno se lo aspettavano gli «attenti osservatori» occidentali che ancora ragionano secondo le tradizionali categorie della politica. Come il Maghreb dimostra, sono i fenomeni pre-politici ad
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MAGHREB Sono i fenomeni pre-politici a muovere le masse che chiedono più diritti. Lo dimostra questa parte di mondo in abbandono dove la voglia di evadere sta scardinando le tradizionali categorie della realpolitik
Un nuovo Mediterraneo di Gennaro Malgieri
Ha contribuito molto di più la musica rai a costruire le coscienze dei giovani maghrebini che le madrasse coraniche. Il segno dei tempi. E l’Occidente stanco non ha capito come si realizzano oggi le rivoluzioni. Chissà se adesso gli strateghi comprenderanno che la politica sta cercando altre strade attizzare le masse che chiedono più diritti, più pane, più sesso e ora più web per essere cittadini di un mondo dal quale non vogliono essere esclusi. Ha contribuito molto di più la musica rai a costruire le coscienze dei giovani maghrebini che le madrasse coraniche. I segni dei tempi. E l’Occidente stanco non capiva, non capisce come si realizzano oggi le rivoluzioni. Chissà se la lezione del Maghreb e quella egiziana e yemenita e del Bahrain e forse della Siria e della Giordania e magari dell’Arabia Saudita faranno comprendere agli strateghi stanchi del vecchio mondo che la politica sta cercando altre strade e, dunque, in Afghanistan, in Iran e perfino nell’Iraq tutt’altro che pa-
cificato, bisognerebbe investire sui movimenti e sulla cultura della libertà per vincere la battaglia finale. Naturalmente Ahmadinejad non si abbatte con le parole soltanto... Resta, tuttavia, diffusa la sensazione, tornando sulle alture che dominano la baia di Algeri, che la retorica delle politiche statunitensi ed europee sul Mediterraneo e sul Medio Oriente negli ultimi vent’anni, abbia favorito la percezione in Occidente di una realtà falsata dalle esigenze della realpolitik. Nel Vecchio Continente, come sull’altra sponda dell’Atlantico, non si è mai avuta la consapevolezza di ciò che poteva accadere dove il potere autocratico di alcune inossidabili nomenklature aveva impoverito le
popolazioni e negato i diritti elementari. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno sempre favorito, anche di fronte a una evidenza che li avrebbe dovuti sconsigliare, la stabilità dei regimi che stanno cadendo o sono caduti a scapito dell’incoraggiamento, come era da attendersi dopo i fatti iracheni, di reali processi di democratizzazione che si stavano manifestando nell’area e che soprattutto l’Unione per il Mediterraneo, ormai agonizzante, non ha saputo o voluto vedere. Se le amministrazioni Bush e Obama non hanno rinunciato a una Freedom Agenda, che in qualche modo compensasse l’obbligata necessità di affari e relazioni stabili con i governi rovesciati o in crisi, l’Unione europea ha abdicato a svolgere un ruolo propulsivo nell’area, praticando pigramente un bon usage dell’autoritarismo che connotava quei regimi alleati dell’Occidente, forse per appagare uno svogliato neo-realismo più rassicurante e meno impegnativo.
L’esaurimento della politica euro-mediterranea delineata a Barcellona nel 1995, che prevedeva l’aiuto allo sviluppo politico dei regimi arabi verso la democrazia, non è stato superato dal varo dell’Unione per il Mediterraneo, che si è presto rivelata un «esperimento» fallimentare da tutti i punti d vista. I Paesi europei, a cominciare dall’Italia, hanno sempre proceduto in ordine sparso, concorrenti più che collaboranti. Di fatto la politica europea verso un’area di fondamentale interesse strategico ha finito per privilegiare i rapporti commerciali ed economici a scapito di quelli politici. L’Unione per il Mediterraneo, nata nell’estate 2007 per iniziativa dell’appena eletto Nicolas Sarkozy, e ratificata un anno dopo da tutti gli Stati interessati, con l’obiettivo di superare le divergenze emerse dal Processo di Barcellona, non è andata più in là delle buone intenzioni. Se il focus su progetti in specifici settori tecnico-economici (disinquinamento del Mediterraneo, autostrade del mare, autostrada del Maghreb, ferrovia transmaghrebina, piano solare mediterraneo, promozione delle piccole e medie imprese) sembrava l’approccio migliore e più funzionale per fare avanzare la cooperazione - rafforzata o a geometria variabile - tra i Paesi dell’Ue e i partner mediterranei, scindere il piano economico da quello politico si è rivelato esiziale all’auspicato successo dell’iniziativa. Erroneamente si è pensato che nei Paesi nordafricani e in Medio Oriente ci fossero solamente singoli individui coraggiosi di orientamento «liberale», ma che non esistesse un’opinione pubblica capace di sovvertire l’ordine dei regimi autoritari. L’Europa adesso è costretta a considerare questa nuova realtà. Le rivolte popolari, prive di una chiara direzione politica e di leadership riconosciute, ma anche fortunatamente prive di connotazioni islamiste radicali (tranne forse che in Cirenaica), dovrebbero fornire all’Ue l’occasione per riacquistare credibilità presso il mondo arabo attraverso un impegno convincente e sostenibile. Non si tratta, insomma, di adottare politiche controproducenti tese a diffondere secondo modelli occidentali la democrazia con la forza, ma di proporsi come riferimento e fornire aiuti economici, sociali e culturali a favore della società civile e dei ceti disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare.
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Pop
musica
MAGIC MOMENT per la Parodia di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi e la giocano eccome, a mostrarci come suonava la discomusic anni Settanta che si ballava allo Studio 54 e poi l’house e la dance anni Ottanta. Lo fanno (bene) ogni due per quattro gli Scissor Sisters: con un’immedesimazione tale da essere riusciti a clonare il falsetto dei Bee Gees epoca Saturday Night Fever. Nel 2008, poi, quell’affabulatore/campionatore di suoni chiamato Moby ha solleticato la nostalgia canaglia con Last Night, ultimo e fatal capitolo della leggendaria nightlife newyorkese che shakerava in un sol colpo Giorgio Moroder, Andy Warhol, Donna Summer e i Village People. In quell’anno, oltretutto, è uscito allo scoperto Andy Butler, disc jockey fin da ragazzino in quel di Denver, che dopo aver pensato bene di raggiungere New York alla ricerca della disco perduta s’è inventato un sound che somigliava al remake di Runaway di Gino Soccio elaborato nel robotico stile dei Kraftwerk. Visto il successo, Butler s’è trasformato in Hercules, ha arruolato cantanti e musicisti da giocarsi a rotazione e li ha chiamati Love Affair. Dopodiché, Hercules & Love Affair hanno fatto il botto: col primo album, dal primo pezzo all’ultimo, ma soprattutto col singolo Blind magistralmente interpretato da Antony Hegarty, cioè dalla voce più bella in circolazione. Incassati gli applausi e riempite le piste da ballo, Andy è sparito per un po’ dalla circolazione ma senza abbandonare del tutto il filo del discorso. Nel nome della discomusic (e dell’house, dell’acid e del synth pop), ha confermato in organico Kim Ann Foxman, ha scelto le voci debuttanti di Aerea Negrot e Sean Wright, ha sfruttato l’esperienza di Keke Okereke dei Bloc Party e si è dedicato al nuovo disco ben
S
Jazz
zapping
arodia magic moment. In tivvù e su youTube assistiamo a un fiorire di parodie in forma musicale, da Ti sputtanerò di Luca e Paolo a Sanremo, al genialoide Zalone, alle performance degli Elii dalla Dandini, a Cetto la Qualunque. È il momento magico della parodia. Un Daniele Luttazzi di qualche anno fa spiegò il concetto con parole preziose: «Satira è prendere in giro chi è più potente di te, parodia è prendere in giro chi è più intelligente di te, avanspettacolo è fare tutte e due le cose, ma calandosi le brache» (chissà cosa direbbe il buon Luttazzi sul concetto di plagio, che ha finito per impastoiarlo non poco, ma questa è altra storia...). Bene, qui si vede che la parodia, che fa schizzare l’audience, le visualizzazioni su youTube, e che rallegra le giornate in ufficio con facebook e twitter aperti sotto i fogli di excel e i documenti di word (come una volta Topolino sotto la grammatica di greco), è un pensiero meraviglioso di risulta, perfetto per i tempi che scorrono. Fa sorridere, non impegna, è allegra e a breve scadenza. Il momento magico della parodia musicale, quella fatta con una canzone di moda il cui testo viene rimaneggiato, è una dichiarazione di impotenza virata sulla simpatia non dei sentimenti ma dei risentimenti. Ce ne sono certe davvero pessime, come Perdere il partito, quella dedicata a Gianfranco Fini: ascolti tutto il testo e non trovi rime se non casuali. Arte poca, malanimo tanto, e viene voglia perfino di rivalutare Mr.Tulliani, dopo aver riso distrattamente. Alla fine viene da dare ragione al gran tastierista e parodista degli Elii, Rocco Tanica: «Il centone e la parodia hanno un po’ rotto i coglioni. Se ne producono troppi, per un semplice motivo: sono semplici da realizzare, la canzone è già bella e pronta».
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Affari di cuore
a ritmo di danza sapendo quanto fosse difficile bissare la bontà danzereccia di Hercules & Love Affair. Con cautela, di Blue Songs, ha dichiarato: «È un album per certi versi più dolce. Che non rinuncia, però, a una sua aggressività». Poi, finalmente, si è sbilanciato: «Volevo progredire. Esplorare le mie capacità non solo attraverso la voce, ma utilizzando strumenti impensabili nel primo disco: un clarinetto, una chitarra acustica…». Appunto. Blue Songs è il colmo della danzabilità creativa. Senso del vintage + elettronica spinta. Luci stroboscopiche e suoni digitali. Discomusic? Certo che sì: ma impreziosita, in Painted Eyes, da giochi orchestrali e da un canto che ricorda il Jimmy Somerville dei Bronski Beat. E poi talmente rétro, in Falling, che sembra di riascoltare Sylvester. Ritmo. Ecco il sale di tutto il disco. Ritmo a tonnellate:
preciso come un metronomo, con l’elettronica che graffia e un’ombra di rhythm & blues (My House); funkeggiante (Answers Come In Dreams) e poi funk in Leonora (tale e quale ai Tom Tom Club: anni Ottanta, l’altra faccia dei Talking Heads) e techno, così, di botto (Visitor), e poi dance fuori registro (I Can’t Wait) e ancora dance, in Step Up, da far muovere il piedino a tempo. Ercole, i suoi affari di cuore, riesce perfino a renderli imprevedibili. Già, perché quando rallenta il ritmo ci sono chitarre acustiche in bellavista, un evanescente sussurro di fiati e una pastosa voce alla David Sylvian (Boy Blue); e c’è un abile tocco di calypso che si fonde coi virtuosismi di un clarinetto jazz (Blue Song). Alla fine, bastano un pianoforte e una voce per tratteggiare il candore di It’s Alright. E allora sì che si spengono le luci, si scende dal dancefloor e New York, là fuori, è un poetico tuffo al cuore. Hercules & Love Affair, Blue Songs, Moshi Moshi/Cooperative Music, 15,99 euro
L’Inno di Mameli da Wayne Shorter a Ahmad Jamal risi o non crisi, tagli più o meno importanti al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), diversi festival hanno già annunciato parte dei loro programmi estivi. Il primo è stato Umbria Jazz che ha già comunicato che dall’8 al 17 luglio saranno presenti a Perugia alcuni ex musicisti di Miles Davis per un tributo al loro vecchio leader. Si tratta di Wayne Shorter, Herbie Hancock e Marcus Miller in esclusiva italiana il 9, Carlos Santana il 12 e BB King con Trombone Shorty il 16 che si esibiranno all’Arena Santa Giuliana. Ma altri nomi sono previsti in cartellone: un appuntamento imperdibile sarà quello con il pianista Ahmad Jamal, uno degli inventori della formula del trio pianistico moderno. Ad aprire la sua esibizione Hiromi Uehara, sua allieva prediletta, pianista giapponese che si era già esibita tempo fa al Blue Note di Milano. I ritmi carioca e caraibici saranno presenta-
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di Adriano Mazzoletti ti dal brasiliano Serro versione dell’Inno gio Mendes, dal domidi Mameli. L’altro nicano Michel Camilo grande festival, quello e dal cubano Chuco di Roma di Villa CarValdes, oltre a nuove pegna, giunto alla seproposte come la canconda edizione, protante olandese Caroliprio per festeggiare il na Esmeralda più co150° anniversario, nosciuta come Caro sarà dedicato interaEmerald, vero e promente al jazz italiano prio tormentone tra e alla canzone d’autogli spot pubblicitari. re, italiana naturalAhmad La presenza femminimente, rivisitata in Jamal le vedrà inoltre la canchiave jazzistica. Ma a tante di Chicago Dee rendere particolarAlexander, la clarinettista israeliana mente interessante il festival sarà una Anat Cohen e la sassofonista Tia Fuller. mostra, mai realizzata prima, dedicata Un omaggio al 150° anniversario dell’U- ai musicisti italiani di jazz, al jazz italianità d’Italia, Umbria Jazz lo chiederà ai no, ma anche, e soprattutto, al jazz in musicisti italiani che all’inizio di ogni Italia. Il jazz italiano per molti anni è loro concerto dovranno eseguire una lo- corso parallelo, o quasi, a quello ameri-
cano, con alcune diversità dovute alla storia socio-politica del nostro Paese, mentre da circa quindici ha raggiunto livelli di autonomia straordinari. La mostra seguirà un ordine cronologico che inizia nel 1904, quando nelle città dell’Italia del Nord Italia giunsero i primi musicisti di colore che faranno conoscere agli italiani dell’epoca le prime forme della musica nera. E coprirà oltre cento anni di jazz italiano raccontato attraverso foto d’epoca, manifesti, locandine, dipinti, copertine di dischi a 78, 45 e 33 giri, pubblicazioni specializzate, stampa quotidiana e periodica, supportate da filmati, da registrazioni anche inedite di celebri concerti ed esecuzioni di complessi e musicisti che illustrano le varie epoche del jazz italiano. Ancora ignota invece la programmazione, sempre a Roma, di Villa Celimontana e della Casa del Jazz che tace, inspiegabilmente, da oltre due mesi.
arti Mostre
MobyDICK
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di Marco Vallora
crivo su Dio: conto su pochi lettori e ambisco a poche ambizioni. Se questi pensieri non piaceranno a nessuno non potranno che essere cattivi, ma se dovessero piacere a tutti, li considererei detestabili». Lo diceva Diderot, ed è così bella la citazione che si merita di rubare qualche riga alle nostre puntuali scempiaggini (sono stato appena inserito nella squadra dei «ferrivecchi longhiani», d’una critica che non serve più a nulla. Magnifico, e anche vero!). Figurarsi, poi, chi invece che di Dio scrive (della feccia) dell’arte. Eppure a quei 2,5 lettori che uno si merita pare diverta molto di più invece d’una monolitica recensione monografica, unica, una sorta di erratica, appunto, svariante divagazione, attraverso una mappa-ragnatela, ipotetica, di rapide occasioni, da non perdere (sempre per chi si fida, ovvio). Così a Roma, via da alcune occasioni maggiori, di cui poi magari ci occuperemo singolarmente, cadendo nella vecchia trappola della solfa monografica - per esempio la bella mostra, da Gagosian, del fotografo molto anglosassone-hollywoodiano Crewdson (per la prima volta a contatto con l’Europa fatiscente di Cinecittà, vista come fosco Sanctuary), senza dimenticare poi l’intelligente accoppiata neo-realista Paul Strand e Rosenblum (al Museo di Trastevere, sotto l’etichetta «corrispondenze elettive») e magari un salto veloce al Chiostro del Bramante per il Lagerfeld della fotografia (sempre meglio che non nella moda) e poi quella ghiottissima della moglie-fine secolo (e ge-
«S
Moda
Quando
Capogrossi s’ispirava a Morandi
niale amazzone d’immagini liberty) del dandy Scipione Borghese, a Palazzo Fontana di Trevi (come si vede, la fotografia è sempre protagonista) c’è di che godere. Usciti dall’altalenante mostra di Palazzo Farnese, con alcuni pezzi notevoli e didatticamente funzionali, ma non certo sufficientemente adeguati alla sontuosità del luogo (soprattutto se nel week end si riesce a penetrare nell’inaccessibile sancta santorum dello studio dell’ambasciatore di Francia, decorato dai Carracci, e che i comuni mortali extra-francesi possono abitualmente ammirare soltanto in occasione della consegna della Legion d’Onore ai nostri Migliori... a noi era capitato con Zeri e Alvar Gonzales-Palacios) ebbene, se ci si abbandona a una sorta di erratica «passeggiata romana», per rimanere in ambito stendhaliano, proprio svoltando in via di Monserrato, si presentano due occasioni gentili. Certo non due mostrone ambiziose, come il sempre utile Romac’è consiglia, con aulici voli pindarici d’intraducibile critichese, ma forse più remunerative. Presso la galleria Ricerca d’arte, via di Monserrato 121/a, che è davvero alla ricerca d’opere ragguardevoli di più o meno illustri «piccoli maestri», ecco un’accolita d’alcuni artisti primo-Novecento, raccolti intorno a «Villa Strohl Fern e dintorni» (alludendo alle case-studio disseminate dentro Villa Borghese - e anche qui, in certi giorni particolari della settimana, c’è la possibilità di visitarne ancora alcune, in miracolosa preservazione). Per fare qualche prelievo: un bel ritratto di Pasquarosa, la pittrice, realizzato nel 1929 del marito Nino Bertoletti (ma c’è pure un’opera della stessa, notevole Pasquarosa, modella analfabeta di Anticoli Corrado, diventata pittrice lei stessa, un po’ come la francese Suzanne Valadon, passata dalla po-
sa al cavalletto). E poi Katia Castellucci, un’incantata natura morta di Trombadori, un bellissimo mazzo di fiori di Capogrossi, quasi morandiano, di transito dal figurativo al quasi informale, prima d’accedere alle sue più celebrate forchette. Ma al proposito, allora, non si dimentichi di passare (anche perché è inevitabile, visto il labirintico percorso della Gnam), prima di accedere alla bella mostra sui Preraffaelliti e l’Italia (di cui poi), nel gran salone dove sono tornate a splendere, grazie alla curatela di Massimo Mininni e di altri studiosi, opere incredibilmente lasciate sin’ora a ronfare nei depositi. Magistrali: di Afro e Capogrossi, appunto (uno e due, prima cioè della cura segnica, quando egli era accanto al purismo contrastato e tonale, al «primordialismo plastico» di Cavalli e Melli) e poi tagli a volontà di Fontana e sacchi di Burri, monocromi di Manzoni e viaggi segnici di Novelli, ceramiche di Leoncillo e dettagli stregati di Gnoli (non al suo meglio, però) e poi soprattutto la quasi riscoperta d’un ottimo scultore dimenticato (salvo mostra a Milano, nel 2005) come Lorenzo Guerrini: «maestro cesellatore» passato al taglio crudo di voluminose pietre, dopo la scoperta parigina del cubismo e di Lipchitz. Un altro Guerrini, Giovanni, passato da Imola a Roma a inizio secolo, visionario-déco, lo troviamo invece ancora in via Monserrato, al 30, presso la sempre stimolante Galleria di Campo dei Fiori, specializzata in pittori a cavallo tra liberty e scuola di Via Cavour, reduce da una bella mostra sui Capricci romani di Balla. E anche qui, del parmense Amedeo Bocchi, si segnala almeno una felicissima veduta di Villa Strohl Fern, un divertente ritratto di Salvatore di Giacomo e una bella scultura di Ercole Drei.
Flexisexual... dove regna l’androgino na cosa è sicura. L’autunno-inverno della moda (le sfilate, maratona estenuante, sono finite il primo marzo) è flexisexual. Certo, è dura stare al passo con le definizioni che finora si erano esercitate sul territorio maschile (si è passati dal metrosexual - eterosessuale, metropolitano e curatissimo nell’aspetto all’ubersexual - virile, elegante e sicuro di sé - fino ad arrivare ai più moderni heteropolitan - uomini con un fisico da urlo e modi da bravo ragazzo. La flexisexual non è bisex, ma le piace baciare le ragazze, può essere iperfemminile, ma anche maschile, al limite dell’androgino. Questo scompigliare le carte si vede benissimo nella collezione di Dolce&Gabbana, trionfo della femmina/maschia che affianca all’armamentario consueto di pizzi e bustier anche cappotti e giacche alla David Bowie/Mick Jagger. Si vede in quella di Gucci, che elabora l’idea di seduttrice un po’hippy negli sfacciati abbinamenti di colori (il verde con il viola, il fucsia con l’arancio), decisa nelle scelte (i pantaloni a vita altissima e le gonne a
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Armani Woman 2011-12
di Roselina Salemi tulipano) ardita negli accostamenti (la pelle con lo chiffon) e nei mix spiazzanti. Questa donna è tutto e il suo contrario, può esprimere le molte identità che porta dentro di sé e, sul serio, non ha che da scegliere, tra il lusso selvaggio di Roberto Cavalli - ricami, veli, plissé e tacco 14 - e il rigore non più minimal di Prada, tra le cascate di paillettes fuxia e oro, le stampe animalier e il gotico dark di Philipp Plein, adorato non a caso da ambigue icone del nostro tempo come Mischa Barton e Peach Geldoff. Frankie Morello la sintetizza in un’uscita che non può davvero passare inosservata: gonna a ruota, rossa, in similvinile, abbinata a camicia bianca, giacca e cravatta. Una tentazione così c’è sempre stata, molto prima che qualcuno s’inventasse il flexisexual, ovvero il lento smottare dell’identità femminile verso sfumature poco afferrabili (Amica, in una delle ultime stagioni da settimanale aveva puntato il suo restyling sulla definizione «Uoma», che fece allora, abbastanza ridere), ma adesso la moda
non può che riflettere sul nuovo mercato della seduzione.Tutte a sedurre tutti. Tutte a portare l’abito come maschera e identità di riserva. Così, non sorprende che siano così tante le citazioni cinematografiche, la spy-noir di Emporio Armani (Delitto sul Nilo) occhialoni e aria misteriosa, la Nannarella di Marras, preziosa e concettuale, la rock chic di Ermanno Scervino, la scostumata di Krizia, maliziosa, anche troppo, la romantica di Bottega Veneta (presa di peso da Un uomo, una donna di Claude Lelouch, 1966), la stramba, colta e ironica signora di Vivienne Westwood che scova i pezzi migliori al mercatino di Portobello. Né sorprende che ci sia un revival di tutto, gli anni Cinquanta, i Sessanta, gli Ottanta, da soli o mescolati, una zeppa, un pantalone a zampa, un accenno a Florinda Bolkan o all’intramontabile Jackie. Non è come potrebbe sembrare, un minestrone: è la selezione accurata della contemporaneità nel passato, perché le femmine/maschie ci sono sempre state, variamente vestite e travestite, anche se non se ne vantavano.
Krizia Donna 2011-12
MobyDICK
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il paginone
Tutto cominciò con Pissarro che dalle Piccole Antille approdò a Parigi. Incontrò Monet e con lui formò la “prima tessera” del movimento. Ce lo racconta Irving Stone nel suo libro appassionante dedicato ai “ragazzi” che innovarono il XIX secolo, mentre domani a Roma si inaugura una mostra al Vittoriano l centro della storia c’è Camille. Un giovane che faceva il commesso nel grande magazzino del padre a Saint-Thomas nelle Piccole Antille. Quel ragazzo ebreo dipingeva il mare, la costa, i villaggi e sognava di andare a Parigi. A 25 anni si trasferì nella capitale francese e trovò casa a Montmartre con tutta la famiglia: era il 1855. Quel giovane si chiamava di cognome Pissarro ed è il protagonista di un libro tanto voluminoso quanto scorrevole e appassionante che racconta «il romanzo degli Impressionisti». S’intitola Vortici di gloria edito Corbaccio. L’autore è Irving Stone che lo ha pubblicato per la prima volta nel 1985, quattro anni prima di morire. Si tratta dell’ultima grande avventura di «un uomo di lettere», famoso per le sue affascinanti ricostruzioni storiche romanzate. Indimenticabili restano Il tormento e l’estasi, straordinaria biografia di Michelangelo, Brama di vivere e Le passioni della mente, rispettivamente il racconto
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della vita di Van Gogh e di Sigmund Freud.
Quando Camille arrivò a Parigi, la sua passione per la pittura lo portò subito sulle tracce dei grandi dell’epoca. Per primo visitò lo studio di Corot e di Courbet. Poi toccò a quello di Ingres e di Delacroix. Quest’ultimo gli raccontò la sua contesa con Ingres: «È convinto che io sia il distruttore dell’arte francese e che lui sia il guardiano della fortezza». E apprezzò i primi lavori di Camille: «Papa Corot ha ragione, sanno di autentico». Una promozione da parte dei «mostri sacri» era molto, ma il ragazzo delle Antille, che poi diventerà per tutti anno IV - numero 9 - pagina VIII
«il visionario riflessivo», non aveva bisogno solo di un generico avallo, voleva capire quanto valeva davvero. Si trasferì a una quindicina di chilometri da Parigi e cominciò a dipingere paesaggi con grande impegno.
Decise di frequentare l’Accademie Suisse dove aveva studiato gente come Corot. I vecchi maestri lo apprezzavano e lo tenevano con loro. Mentre cresceva come artista, fece l’incontro più importante della sua vita: quello con Julie che resterà per sempre la sua comnpagna. Corot lo consigliava: se ami una donna, fai in modo che diventi la tua amante, ti darà maggiore stabilità, ma non la sposare. Fra Camille e Julie nacque un grande amore: il loro era un autentico delirio sessuale, «un rapporto che attraversava la passione e raggiungeva l’ebbrezza, une gaieté du coeur, un cri d’allegresse, una prodigalità dei sensi che conferiva alle loro vite, separatamente e insieme, una nuova dimensione di
Chi ha paura degli IMPRESSIONIS di Gabriella Mecucci
Al Salon des Refusés frotte di visitatori si scagliarono contro “Le déjeneur sur l’herbe” di Manet. Quella denigrazione non era altro che timore di fronte a una nuova sfida, a un’esuberanza che spaventava bontà e rettitudine nel loro piccolo mondo». Mentre vibrava una passione spumeggiante, Camille conobbe un giovane pittore che formerà con lui la «prima tessera» del movimento impressionista, Claude Monet di Le Havre, tanto geniale per quanto povero in canna. Poi toccò a Paul Cézanne e a Edouard Manet, mondano, elegante, ricco. Che giornate fan-
tastiche passate fra il Cafè Guerbois e il Cafè de Nouvelle Athènes, le esposizioni dei Saloni ufficiali, le discussioni sull’arte alla Suisse, le grandi bevute con gli amici e le donne: tutte belle, allegre, pazze d’amore per quegli artisti. Julie faceva un figlio dietro l’altro e i soldi erano pochi. C’erano per fortuna di tutti loro gli inviti di Corot a Fontainebleau
dove si mangiava bene e si dipingevano paesaggi sotto l’occhio attento e critico del vecchio maestro.
Si arrivò così al 1863 quando il gruppo composto da Monet, Manet, Pissarro, Cèzanne e altri fu in blocco non ammesso al Salon de Beaux Arts. I loro quadri vennero tutti respinti con la R di refusé. Eppure in
mezzo a quei dipinti ce n’erano alcuni che avrebbero segnato la storia dell’arte: basti per tutti l’esempio di Le déjeneur sur l’herbe. Un giovanissimo Baudelaire, allora oltre che poeta agli inizi, anche critico, aveva lanciato l’allarme: il rischio per quegli artisti innovatori era di essere espulsi in blocco dalla grande mostra. E così andò. Il nostro gruppo di amici-pittori d’avanguardia si organizzò, protestò, esercitò pressioni sino a quando l’imperatore Napoleone III in persona li fece riammettere. Ne venne fuori quello che fu definito il Salon des Refusés. All’inizio, una gran folla sembrò garantire uno straordina-
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STI?
Dalla Scuola di Barbizon alle Ninfee
rio trionfo, ma quasi subito si capì invece che il fiasco era in agguato. Le frotte di visitatori dettero vita a scene di «linciaggio». Le più insopportabili accaddero davanti a Le déjeneur sur l’herbe di Manet. La gente strillava: «Sono prostitute... Il pittore è pazzo… È immorale… Ci pigliano in giro. Dovrebbe essere fatto a pezzi. Nessuna meraviglia che sia stato rifiutato». Commenti simili alla Ragazza in bianco di Whistler. Irving Stone spiega che «l’esplosione di irrisione non era perché il quadro fosse profano… C’era una nota più profonda e sinistra nella ridicola e irriverente denigrazione. Paura. Non paura dell’immoralità, ma di una sfida a tutto ciò che conoscevano e accettavano nella pittura». E a poco servì che un giovane Emile Zola promuovesse la mostra nel suo insieme: «Vi è abbastanza verità e sincerità nei paesaggi e qualità sufficienti di tecnica nella maggior parte dei quadri da conferire un’atmosfera salutare di passione e vigore giovanile». Erano proprio le novità
entre al Castel Sismondo di Rimini si sta per cocludere la mostra Parigi. Gli anni meravigliosi. Impressionismo contro Salon, che ripercorre anno dopo anno la produzione artistica del Salon di Parigi e degli Impressionisti francesi, con opere realizzate da Ingres, Bonnat, Bouguereau, Gerome, Couture affiancate a quelle dei più famosi colleghi Cézanne, Monet, Bazille, Renoir, Degas, Van Gogh, Gauguin, al Complesso del Vittoriano di Roma si apre domani Da Corot a Monet. La sinfonia della natura. Saranno esposte più di 170 opere che ripercorrono l’intero percorso evolutivo degli Impressionisti nel rappresentare la natura e il paesaggio, partendo dalle prime innovazioni dei pittori della Scuola di Barbizon per arrivare al trionfo cromatico delle Ninfee di Monet. Organizzata grazie alla collaborazione con prestigiose collezioni private e i maggiori musei di tutto il mondo (tra cui l’Art Institute di Chicago, il Metropolitan Museum di NewYork, la National Gallery di Washington, la Bibliotheque Nationale de France di Parigi e il Museo Ermitage di San Pietroburgo), resterà aperta fino al 29 giugno.
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Sopra, “Le déjeuner sur l’herbe” di Édouard Manet (a destra un suo autoritrato). Nell’altra pagina, un autoritratto e un’opera di Camille Pissarro e Claude Monet pittoriche, quell’esuberanza di chi vuol mettere in discussione il passato, che il pubblico non sopportava. Ancora nessuno aveva usato il termine Impressionisti, ma già era scattato l’odio contro quel tipo di innovazione. A quel Salon dell’infamia, seguirono insulti, isolamento, miseria: vendere quadri era pressoché impossibile. Ma il gruppo cresceva in numero e qualità: si erano aggiunti prima Renoir e poi Degas. Come se non bastasse, le vicende storiche portarono catastrofi a quella che un tempo era stata l’allegra compagnia: la guerra franco-prussiana comportò la messa fuori uso delle abitazioni di alcuni fra loro. Per non parlare della vendita dei quadri: sempre più rara, sempre meno pagata. Camille si era ridotto a lasciare le sue tele al negozio di colori, per averne in cambio la materia prima per dipingere. E la vita dei giovani innovatori diventati ormai più che quarantenni si riempiva di malattie, della scomparsa di persone care, di preoccupazioni famigliari.
Le serate della bohème parigina fatte di appassionate discussioni e da fiumi di alcol non erano più frequenti e gioiose come un tempo. La brigata andava sempre meno spesso in campagna a dipingere. Si avvicinava però a grandi passi un’altra data storica che avrebbe segnato la vita di Camille e degli altri: l’anno 1874, quando per la prima volta il nuovo stile pittorico trovò nome e cognome. I critici lo chiamarono Impressionismo. All’inizio quel termine venne utilizzato con tono di disprezzo. Degas si lamentò: «È un trattamento indegno, uno screditarci. Un mezzo per colpirci». Ma una sera, tutti riuniti intorno al tavolo del solito caffè decisero che dovevano accettare quella definizione. A coinvincerli fu Camille Pissarro. «Non è questo - disse a cui ci dedichiamo, dipingere le nostre impressioni? In quale altro modo ci esprimiamo? Corot, la prima volta che fui accompagnato nel suo studio, mi disse che l’ispirazione poetica era nei boschi e che dovevo dipingere l’impressione di ciò che vedevo mediata dai miei sentimenti. Siamo tutti Impressionisti? Benissimo. Portiamo il nome come un distintivo onorofico». Il gruppo si convinse e, accettando la linea di Pissarro, si preparò a «incassare» un importante risultato positivo: capovolgere il significato sprezzante della definizione anche grazie alla capacità di stabilire una qualche continuità con un mostro sacro qual era Corot. Il primo Salone degli Impressionisti rappresentò un importantissimo successo sul piano dei visitatori, ma vendite poche o nulle e i soldi rimanevano l’eterna dannazione di quei pittori ormai non più ragazzi, ma uomini maturi con tanto di famiglia.
Il tempo passava e ai «soci fondatori» si unirono altri artisti. Toccò a Paul Gaugin, ricco speculatore di Borsa. Prima fu semplicemente un acquirente delle opere degli Impressionisti: pieno di soldi come era, li pagava bene facendo la felicità del fortunato autore.Voleva però dipingere anche lui e abbandonare l’alta finanza: un tormento che andò avanti per anni e anni. Ma alla fine vinse la passione per l’arte. Del resto Camille, suo grande amico, glielo aveva detto da subito: «Sei nato per dipingere». Più avanti ci fu l’incontro con i fratelli Van Gogh,Teo e Vincent. Il primo era un mercante di successo e vendette i quadri dell’intero gruppo. Il secondo era un genio folle che aveva un rapporto particolarmente intenso con Pissarro: «Posso venire nel suo studio, a imparare dai suoi lavori?», gli chiese poco dopo averlo conosciuto. Nel frattempo Camille, il «visionario riflessivo», si era allontanato dall’Impressionismo e aveva aderito al Puntinismo. Vincent voleva avvicinarsi a en-
trambe le tecniche. Andò in giro per la Francia a trovare la sua campagna. Si stabilì ad Arles, con lui c’era Gaugin. I due erano profondamente diversi fra loro e il loro rapporto non era certo semplice: Van Gogh animato da una profonda religiosità, con una vita breve e interamente votata all’arte, capace di lavorare senza interruzione per giorni e notti. L’altro - come si è detto - di tutt’altra tempra. Il secondo punzecchiava in continuazione il primo procurandogli crisi e attacchi d’ira. Mentre il gruppo degli Impressionisti non era più tale: lontane le scampagnate con cavalletto e pennello, distanti anche le mostre organizzate tutti insieme, scoppiava a Parigi la terribile temperie dell’antisemitismo intorno al caso Dreyfuss. Camille Pissarro, l’unico ebreo del gruppo, ne fu sconvolto. E frequentò in quel periodo assai assiduamente Emile Zola quando scriveva il suo celebre J’accuse. Ormai, dopo tante difficoltà e stenti, era arrivata per tutti l’affermazione e il danaro: persino Cézanne - quello che aveva faticato di più - vendeva bene. Eppure da vecchi bohèmienne quali erano non furono mai del tutto «sistemati» e tranquilli. Ci fu sempre un’altalena nelle loro condizioni economiche.
Parigi, superato l’affaire Dreyfuss col reintegro dell’ufficiale nell’esercito, si praparava all’Esposizione Universale del 1900. Il mercante d’arte Durand Ruel progettò di fare in quella sede una grande mostra dell’Impressionismo. Ci mise i quadri più importanti per ricostruire la storia del movimento ormai universalmente riconosciuto, a partire da quelli del Salon des Refués, tanto bistrattati all’epoca. Il gruppo dei ragazzi ormai sessantenni ne usciva da vero protagonista. Erano stati fra i più grandi innovatori del Diciannovesimo secolo. Il romanzo di Irving Ston termina con Camille Pissarro che rientra in casa sua, dopo aver ammirato l’Esposizione Universale. Dalla finestra di Rue de Rivoli guarda Parigi e ricorda la storia della sua vita e di quella dell’intero gruppo. Gli passano davanti agli occhi malati i decenni di miseria e di lotta con i confratelli Impressionisti, pensa che «dopo tutto il Ventesimo secolo poteva essere loro». E fu così. Parigi ormai capitale dell’arte, li celebrò. La loro rivoluzione era stata grande: conteneva la riscoperta della pittura del paesaggio, il mito dell’artista ribelle, la centralità del soggetto che guarda, l’amore per il colore. Un’arte la loro che era diventata anche un modo di vivere. La città che li aveva ospitati era assurta a mito. E il racconto dei loro amori, delle loro follie, delle loro liti, delle loro traversie, dei loro cocenti dolori era materia per uno struggente romanzo.
Narrativa
MobyDICK
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Miracolo
iracoli narrativi sotto le macerie potrebbe essere il sottotitolo del quarto romanzo di Giuseppe Lupo, L’ultima sposa di Palmira. Un sottotitolo non solo allusivo della tematica centrale del romanzo, il terremoto Irpino del 1980, ma metaletterario, dove la letteratura è quella che si produce senza sosta sotto le macerie che celano spoglie, suppellettili e a volte ancora una debole vita. Scava lo scrittore per tirar fuori un complesso e intricato patrimonio di storie, di micro racconti, agganciati alle pietre di un luogo, Palmira, che non esiste sulle carte geografiche. Ancora un moderno Decamerone, in cui l’oralità e la fantasia si incrociano con la cronaca brutale della realtà. Ecco quindi un primo elemento di un romanzo binario: la forza creatrice della letteratura. Certo perché la storia narrata da Lupo, che è docente di letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano, è una storia dove la distruzione e la morte producono continuamente vita, una vita che si confonde a volte con la fantasia e che vede fantasmi, crea e ri-
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Giuseppe Lupo L’ULTIMA SPOSA DI PALMIRA Marsilio, 171 pagine, 18,00 euro
tra le macerie
crea miti in continuazione. La struttura binaria è il calco di due livelli narrativi (tutto è gemmato in questo florido e apparentemente caotico testo): il primo è quello reale (il presente), il terremoto narrato in prima persona da una giovane antropologa milanese con un serrato diario giornaliero che parte il 25 novembre 1980, e chiude dopo un anno circa. Il secondo livello narrativo è quello della fabula (il passato), storie in terza persona senza tempo e luogo, o meglio in uno spazio-tempo sospeso, immaginifico, che ricostruisce il mito di Palmira, la città fondatrice. I protagonisti di questo diario da una parte drammatico, dall’altro aereo, sono la giovane an-
Riletture
La forza creatrice della letteratura e la devastazione del terremoto in Irpinia nel romanzo di Giuseppe Lupo: un moderno Decamerone di Maria Pia Ammirati
libri
tropologa e il nume del luogo, il falegname Gerusalemme. Una giovane scienziata che arriva in Meridione, con il suo carico di malessere cittadino, per andare a scoprire cosa succede a «chi ha perso la casa o piange un parente sotto le macerie». Un anziano artigiano «che pareva un re magio che ha dimenticato il dono da consegnare alla capanna di Betlemme», ostinato a finire il corredo dell’ultima sposa di Palmira, prima di abbandonare le zone terremotate. Tra i due personaggi un dialogo serrato, un rapporto d’emergenza, d’amore, di complicità che serve a entrambi per far comunicare mondi diversi e lontani. L’arcaismo dei luoghi, l’oralità popolare, la razionalità dello studio, tutto si incontra nella fantastica Palmira, spazio magico e irreale che non sarebbe dispiaciuto trovare nel novero delle Città di Italo Calvino, dove lo scavo del terremoto si fonde con lo scavo profondo delle origini di una sorta di culla della cultura mediterranea. A contrasto tra corpi mutilati ed enfiati che giacciono sotto le pietre, mastro Gerusalemme tira fuori le mille storie della fondazione di Palmira, una storia che comincia con il Patriarca Maggiore «arrivato da Oriente sotto la collina di Trivento… aveva tracciato le linee di un villaggio… così era nata Palmira», che sposa tante donne da cui avere una ricca progenie - «i figli di Patriarca… ammontavano in tutto a quaranta» - con la quale popolare una città intitolata a una donna mai dimenticata. Lo scavo, tema centrale di questo denso romanzo, archetipo letterario, allude costantemente al mondo dei morti, siano essi quelli brutalizzati dall’orrore dell’evento imprevisto, della catastrofe, siano quelli inventati dalla fantasia popolare: l’ultima sposa di Palmira, esiste davvero? O è solo, e per sempre, l’ultima testimone della città dei morti? «In certi momenti non sono sicura che Rosa Consilio esista veramente. Temo sia un’invenzione di mastro Gerusalemme per non cedere al demonio che questo inverno si è infilato tra le case per rubarsi l’anima. A volte mi chiedo se Palmira sia stata davvero abitata dai sogni… qui non ci sono trucchi, solo morti che aspettano di essere cercati».
Isherwood e Bergmann “anarchici” del cinema uesto è un esempio di come si può costruire un romanzo breve senza l’appiglio di quel vago, e sempre discutibile, concetto di avventura. È essenziale ovviamente che lo scrittore sia un grande scrittore, capace di muoversi disinvoltamente e in profondità. Christopher Isherwood (1904-1986), tra i massimi della letteratura della Gran Bretagna, è splendida garanzia. L’Adelphi ripropone (dopo Un uomo solo e Viaggio in una guerra) La violetta del Prater, perseguendo un programma editoriale che sfila ad altri editori occasioni meravigliose (e da essi stessi perse) che riguardano le migliori pagine del Novecento. Isherwood - che è stato amico intimo di W.H. Auden - parla in prima persona. Incontra a Londra il nevrotico, istrionico e geniale regista viennese Friederich Bergmann, che si definisce «un vecchio Socrate ebreo». Questi, abbandonata la Germania dell’incendio del Reichstag, è intenzionato ad affidare al narratore la sceneggiatura dell’operetta che dà il titolo al libro. Il lavoro dell’uno e dell’altro sarà costellato da alti e bassi: non solo contrasti sul tema, ma anche caratteriali e culturali. Il problema, cui tutto alla fine
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di Pier Mario Fasanotti si riconduce, è il cinema: «…è una macchina infernale; una volta accesa e messa in moto gira con una dinamica irresistibile. Non può fermarsi. Non può chiedere scusa. Non può ritrattare più nulla. Non può attendere che si comprenda. Non può spiegarsi. Ma semplicemente matura verso la sua inevitabile esplosione. E questa esplosione noi dobbiamo prepararla, come anarchici, con la massima ingegnosità e malizia». Sinceramente a me pare che questa sia la più brillante ed esatta definizione del cinema. Durante la conversazione, a volte ironica a volte spigolosa, tra regista e narratore, emergono altri temi: apparentemente indiretti, in realtà sostanziali. Per esempio la dignitosa superiorità dell’Inghilterra nei confronti della crescente barbarie nazista. Un esempio risulta illuminante. La civiltà britannica, che sarà il baluardo della resistenza a Hitler e ai suoi folli collaboratori («tutti da comprendere prima ancora di condannarli») è riassunta dall’ombrello, oggetto così caro agli inglesi. È il simbolo della rispettabilità britannica, che pensa: «Ho le mie
L’incontro del narratore inglese col regista austriaco nella “Violetta del Prater”
tradizioni e queste mi proteggeranno. Nulla di sgradevole, di men che corretto può accadere nella cerchia del mio privato». Isherwood fa dire ancora al regista: «Questo rispettabile ombrello è la bacchetta magica con la quale l’inglese cercherà di fare scomparire Hitler. Quando poi Hitler rifiuterà di scomparire, allora l’inglese aprirà il suo ombrello e dirà: “Dopo tutto, che può farmi un po’ di pioggia?”. Ma la pioggia sarà una bomba di pioggia e di sangue. L’ombrello non è a prova di bomba». Il narratore ribatte, saggiamente: «Non sottovaluti l’ombrello». A questo punto occorre precisare che il romanzo di Isherwood è stato scritto nel 1945, al termine del grande orrore mondiale, ma le vicende in esso narrate sono di almeno dieci anni prima. Datata anche La violetta del Prater, operetta che risale a prima della guerra 1914-1918, tempo di valzer, di stranezze da fiera, di zingare, di ragazzi con la fisarmonica. Il testo tuttavia va «calato» nell’inquietante attesa del peggio. Scatta la profezia: «Stiamo morendo con le teste nello stesso forno». Ci sono poi paragrafi dedicati alla donna: «La donna quando sia riuscita ad avere l’uomo che vuole, diventa un essere sbalorditivo, stupefacente… l’amore è come l’interno di una miniera». Quanti spunti in poche pagine.
Meditazioni MobyDICK
er secoli la cella è stata ed è ancora questo per ogni monaco d’Oriente e d’Occidente: il luogo in cui il monaco impara ad habitare secum, ad abitare con se stesso, in cui cerca Dio nella solitudine e nel silenzio, in cui si impegna e si esercita a lottare contro le pulsioni malvagie che lo abitano e in cui si addestra alla comunione con gli uomini tutti». Si può osservare il mondo dallo stretto perimetro di una cella? Osservarlo amorevolmente, e conoscerlo, viverne intensamente le forme e ricomporne la memoria con tono accorato, struggente, e non solo la memoria delle persone irrimediabilmente perdute, ma quella dei luoghi e delle correnti di vita che li attraversano. È quello che fa Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, una delle voci più alte del cattolicesimo contemporaneo, in un libro straordinario (Ogni cosa ha la sua stagione, edito da Einaudi), capace di rianimare gli angoli di un mondo remoto che ci è ormai alle spalle, quello delle colline del Monferrato e dei suoi paesi nel corso del dopoguerra, in bilico su una vertiginosa trasformazione che ne cambierà, per sempre, le consuetudini.
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Dico subito che non mi pare sia la nostalgia a muovere Enzo Bianchi alla scrittura, o perlomeno non è soltanto la nostalgia. La sua voce sommessa, talvolta quasi sussurrata, sempre morbida, è anche nitida e forte, e non si piega sul passato perdendosi in esso nell’impossibile desiderio di riafferrarlo. Il monaco è un conoscitore di passioni umane. La millenaria tradizione cui appartiene gli ha consegnato cataloghi accurati, mappe analitiche dei flussi dell’anima e delle intermittenze del cuore. Sa dunque che la nostalgia è un veleno sottile e corrosivo, e uno specchio deformante in cui le immagini evocate possono trarre in inganno. Aprendo un precedente libro (Il pane di ieri, uscito da Einaudi nel 2008) assai vicino a quello di cui stiamo parlando, Enzo Bianchi avverte il suo lettore: «Difficile operazione ricordare, rileggere e raccontare il proprio passato, il mondo di ieri nel quale abbiamo vissuto. Operazione in cui si corre non solo e non tanto il rischio della nostalgia, quanto quello di rendere idilliaco ciò che in realtà non lo era affatto». C’è poi un altro rischio che si corre seguendo la catena dei ricordi a occhi chiusi: ci si può affacciare pericolosamente sul bara-
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La memoria riconoscente
Dalla sua cella al Monastero di Bose, il luogo in cui “habitare secum”, Enzo Bianchi abbraccia il mondo e in un libro guarda al passato per meglio decifrare il presente. Ricordi di luoghi e persone, di flussi dell’anima e intermittenze del cuore ripercorsi senza nostalgia e sempre sostenuti dall’amore per il prossimo di Maurizio Ciampa tro della Malinconia. E la Malinconia è un morbo dell’anima che il monaco conosce. La cella che abita può trasformarsi in un covo di fantasmi della mente, se non diventa il luogo di una lotta, di un tenace combattimento spirituale. Ma il movimento geometrico della scrittura di Enzo Bianchi procede oltre, come se guardasse in un’altra direzione. Dove? Forse non è immediatamente riconoscibile, ma al fondo del «ricordare» di Ogni cosa alla sua stagione risuona una domanda sull’oggi, su come oggi tutti noi viviamo, su quello che abbiamo perduto e sulle menomazioni di cui soffriamo, la «nuova povertà» dei nostri sensi e delle nostre esperienze. Nessun ripiegamento dunque, ma uno sguardo terso e fermo, dove il «passato» consente di decifrare il «presente». Il libro di Enzo Bianchi non si rifugia nel guscio della Nostalgia, e tantomeno indulge in consi-
derazioni malinconiche. Certo vi si legge la pressione dell’inquietudine per la vecchiaia che s’avvicina. Affiora nella domanda che sostiene l’intero sviluppo del libro: «Che ne è dei miei giorni?».
Ma questa inquietudine viene consapevolmente assunta, per quanto possa ferire, diventando una modalità d’attenzione, «una nuova forma di vivere». La vecchiaia - dice Enzo Bianchi - può anche essere «un’ora bella», un’ora, un tempo in cui non viene meno, ma si rafforza e si moltiplica la «capacità di stupore». E lo stupore è anche del lettore di questo libro prezioso, stupore per le pagine bellissime che gli capita di attraversare. Pagine e indimenticabili figure umane: la «selvatica» Teresina del Muchet, il «burbero» Pinen, il padre di Enzo Bianchi, Cocco ed Etta, la postina e la maestra del piccolo paese, che si fecero carico, con sacrificio personale, della sua educazione, e i ragazzi, gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza, Bertino, Nanni, Roberto, perduti e ritrovati nell’arco fugace di questo libro. Poi c’è la vita del pae-
se, vita durissima, «grama», implacabile nei suoi ritmi, distorta dalle privazioni. Ci sono le stagioni e c’è la terra che domina la vita, la sovrasta, ma anche la protegge, la custodisce. Una sottile trama di elementi diversi in cui la memoria dell’autore s’incunea con grazia, memoria amorevole che accarezza con gesti delicatissimi le persone che hanno accompagnato la sua vicenda segnandola. In Ogni cosa ha la sua stagione la memoria prende talvolta la forma inusitata del ringraziamento. Ad esempio verso gli amici: «Quel che io sono stato con loro, lo sono ancora oggi e vorrei che nulla andasse perduto della nostra amicizia, del nostro essere cresciuti insieme: anche a Bertino, Nanni e Roberto sono profondamente grato per quello che hanno rappresentato nella mia vita perché nessuno cresce e si fa uomo da solo». Giunti quasi alla fine dell’itinerario di questo libro si capisce che cosa lo ha mosso e di quale materia sono intessuti i ricordi di Enzo Bianchi: di amore verso gli altri. Enzo Bianchi scrive per amore verso chi ha attraversato la sua vita, per restituire l’amore ricevuto e conservarne la traccia. Questo rende così vive le linee dei ritratti che il libro compone: il legame, la relazione d’amore, ora mediata dalla memoria, ma non per questa indebolita. Non solo amore verso gli umani, ma verso la terra e il tempo che la rivela: «Ogni cosa alla sua stagione». Non vorrei dimenticare che questo libro è il libro di un cristiano. E, in qualche modo, può accadere di dimenticarlo: le pagine sulla tavola, quelle sulle stagioni, l’«elogio del vino» e la sapienza con cui Enzo Bianchi guarda alla terra, possono far pensare a una diversa attenzione. Mi pare di poter dire che sarebbe un errore. Il cristianesimo di Enzo Bianchi e della sua comunità è fatto di questi elementi, è fatto di tempo, di uomini, è fatto della terra che i monaci lavorano e della convivialità e della fraternità di cui sono capaci. E l’amore verso gli altri che, per intero, attraversa il libro, l’amore che alimenta il ricordo e lo sostiene, nasce - non va dimenticato - nella cella di un monastero, che non è un luogo chiuso se consente di abbracciare il mondo.
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l percorso teatrale di Valter Malosti sotto la lente d’ingrandimento delle monografie di scena del TeatroValle fino al 9 marzo. L’emozione e il corpo dell’attore sono gli strumenti chiave di una ricerca teatrale personalissima che non lascia nulla al caso. Imprevedibile nelle scelte dei testi, che spaziano dai classici ai contemporanei, con una spiccata predilezione per le primizie, funambolico negli adattamenti, vertiginosamente attratto dalla musica e dalle arti visive, rigorosissimo nelle regie, lui stesso interprete carismatico, ha collezionato negli anni una pioggia di premi davvero notevole. Ancora fino a domani sarà possibile assistere a La scuola delle mogli di Molière nella traduzione e adattamento dello stesso Malosti. Ecco, lo spettacolo parte proprio da qui: una volta di più il direttore artistico della compagnia Teatro di Dioniso traccia e rintraccia un ritmo indiavolato che va oltre il dire. Uno spettacolo fremente, rapido, guizzante per partitura vocale. Un travolgente castello di parole, un fiume in piena, un ribollire di preziosità linguistiche, tanto più affascinanti quanto più impertinenti, affastellate in ibrida successione («È la scelta migliore come moglie/ me la giro secondo le mie voglie» e ancora «Agnès, ascolta, lascia il bricolage e volta il tuo bel visage» oppure «L’inferno ha calderoni bollenti per buttarci le mogli delinquenti»). Il tutto veicolato da una fulgida interpretazione capocomicale, doppiato da un incalzante commento musicale pressoché sovrapposto, che spazia in totale onnivora libertà: da quelle originali di Carlo Boccadoro a Gaber, Puccini, Lennon, Mizutani, Piaf, Verdi, Lynch, Morricone… Carmelo Giammello firma
I
Teatro
MobyDICK
Monografia di un istrione di Enrica Rosso
spettacoli
una scena surreale, con tanto di cervo impagliato a latere, di bell’impatto visivo, costringendo gli interpreti (tutti ben assestati nei loro ruoli) a una circolarità interrotta solo dalla rossa casa carillon in cui è rinchiusa la bella Agnès; una scatola magica che si apre a comando e che svela atmosfere altre. Costumi giocosi di Federica Genovesi. Gli appuntamenti che seguono, ripropongono spettacoli meno recenti, ma tutti ugualmente importanti. Il 7 marzo doppia dedica a Giovanni Testori con due atti unici: il primo andato in scena nel 2008 e adattato dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis, interpretato da Laura Marinoni e Silvia Altrui impegnate a restituire il flusso impervio della scrittura di Testori, con la sorpresa finale di un capitolo inedito scoperto nell’archivio dedicato all’autore dall’inarrestabile Malosti. Nella medesima serata si proseguirà con Maddalene da Giotto a Bacon, un progetto di e con Malosti; un materiale poetico notevole (schede-versicoli, così le definiva l’autore lombardo), accompagnato dal violoncellista Lamberto Curtoni. L’8 marzo omaggio a Fellini con Giulietta vox nell’adattamento di Vitaliano Trevisan, reading del pluripremiato spettacolo datato 2004, protagonista Michela Cescon, abile esecutrice di una partitura tesa a restituire una sognante Giulietta. Il 9 ultima data della monografia del regista torinese, si chiude in bellezza con un’operina musicale del 2007: il pregevolissimo Shakespeare Venere e Adone con il danzatore Yuri Ferrero nel ruolo di Adone e un memorabile Malosti in quello della capricciosa dea dell’amore. Un’altra sfida tra strumenti acustici e voce immersa in un magnifico, ricchissimo, delirio sensibile.
Monografia Valter Malosti, Roma, Teatro Valle fino al 9 marzo, info: www.teatrovalle.it - tel.06 68803794
Televisione
DVD
DIRITTO DI ASILO IN UN PAESE MIGLIORE i intitola Sotto il Celio azzurro, il documentario che il bravo regista Edoardo Winspeare (Sangue vivo, Il miracolo, Galantuomini) dedica a quattro esemplari maestri d’asilo italiani. In una piccola scuola materna nel cuore di Roma, il quartetto di insegnanti si prende cura di 45 bambini di 23 Paesi diversi con grande amore per il proprio mestiere e grande capacità di resistenza alle mille difficoltà quotidiane. Senza piagnistei, né facili deduzioni ideologiche, Winspeare tratteggia l’elegante ritratto di quattro educatori umili e silenziosi, testimoni di un’Italia migliore.
S
PERSONAGGI
MOBY CONTRO LE MAJOR: TRATTANO MALE LA MUSICA rima i Radiohead che mettono in vendita il nuovo album a sette dollari, poi Moby. La schiera di star che denunciano lo strapotere delle major si accresce ogni giorno. Il noto compositore newyorkese, padre di ricchissime hit come Why Does My Heart Feel So Bad? non ha usato perifrasi di fronte agli studenti dell’Università della California. «Penso davvero che, come istituzione, la maggior parte delle major dovrebbe proprio morire», ha detto l’artista nel corso di una conferenza. «Hanno trattato male la musica», ha spiegato, «e perciò o si reinventano o muoiono serenamente».
P
di Francesco Lo Dico
Bookstore: troppo poco pathos, Monsieur Elkann che serve? A non molto se continua a essere condotta così. Mi riferisco alla trasmissione Bookstore (su La 7, sabato ore 9,55) condotta da Alain Elkann con il suo consueto eloquio stile Fiat-international e lo spontaneissimo controllo di un pathos che invece, parlando di libri e dei temi che dai libri derivano, dovrebbe proprio manifestarsi. Certo, l’intenzione è nobile. Il percorso è accidentato, come sappiamo da decenni di vera o pseudo divulgazione culturale. Quindi dobbiamo concedere a tutti i conduttori una scusa. Elkann tuttavia non ha il polso e l’arguzia che aveva Corrado Augias in Babele (peccato che non esista più). Il contorno scenico è sobriamente moderno. Il meccanismo è consumato, e scivola nella pigrizia e nell’automatismo programmatori. Si invita un gruppetto di scrittori, i cui ultimi romanzi o saggi sono stati appena pubblicati, e con loro si avvia il discorso partendo dalle opere di ciascuno di loro. C’è Antonio Pennacchi di cui Mondadori ha
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di Pier Mario Fasanotti edito il suo primo romanzo (Mammut), storia all’interno di una fabbrica. C’è Aurelio Picca (Se la fortuna è nostra, Rizzoli), trascrizione e reinvenzione dell’affabulazione del nonno contadino. C’è Giorgio Ficara, critico e saggista, che presenta il romanzo Riviere (Einaudi), vicenda su sfondo ligure. C’è Alessia Gazzola, autrice di L’allieva (Longanesi), giallo medico legale molto apprezzato dai lettori. Pronti e via. Ma Elkann, in omaggio all’attualità, apre il collegamento con New York dove Riccardo Viale, direttore dell’Istituto di cultura italiano, riferisce di un convegno su Montale tradotto negli States. Apprezzabile, ma che c’entra? E soprattutto: perché spendere tempo sulla quantità (esigua) di scrittori italiani in America? Elkann prende a prestito la secchezza inquisitoria di Enzo Biagi e chiede: «Ma lei fa qualcosa?». Già, come se uno come Viale avesse l’incarico di proporre testi da far tradurre. Li fa conoscere e basta. Comun-
que vien fuori una notizia, ossia che a Manhattan ci sarà dal prossimo autunno una riedizione sui generis del Salone del libro di Torino. Domandina qui e domandina là, alla fine spunta il problema dell’identità
nazionale in riferimento alla lingua e alla letteratura. Per fortuna, a dare un po’ di colorito all’algido Elkann ci pensa il sanguigno Pennacchi, il quale, a chiare lettere, sostiene che tra letterati e popolo c’è sempre stato uno iato spaventoso. Ficara obietta, Picca spiega se stesso, Gazzola si limita a elogiare i romanzi inglesi. Pennacchi insiste: i capolavori letterari popolari sono pochissimi in Italia. Ma non si va a fondo dell’argomento, anche perché c’è il collegamento con Bologna dove Philippe Daverio - ecco uno che sa divulgare! - ci informa della nuova destinazione del palazzo Fava, oggi spazio espositivo di notevole importanza. Ringraziamo. Ma riprendere il filo del discorso è difficile. Anche per un funambolo. In ogni caso qualcosa di interessante sbuca fuori. Elkann, credo per cortesia, cerca di coinvolgere Alessia Gazzola. Ma le fa solo un dispetto: la giovane giallista era meglio invitarla in un altro contesto. Questa è la differenza tra scaffale e temi che ci sono sopra.
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poesia
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Campana, una vita in versi di Filippo La Porta on Dino Campana ho scoperto per la prima volta che la poesia può diventare altro, può farsi prosa. Ogni adolescente prova a scrivere dei versi, ma nel mio caso (e di molti altri coetanei) la tentazione poetica ha assunto preferibilmente la forma della prosa lirica, molto adatta per esempio a luoghi esotici e descrizioni di viaggio (che poi è anche viaggio nell’inconscio e nella memoria). Certo, Campana non è stato il primo, e anzi a sua volta venne influenzato dai Poemetti in prosa di Baudelaire e soprattutto dalle Illuminazioni di Rimbaud, ma almeno limitatamente all’area italiana, e nell’ambito della rivista La Voce (che prediligeva il frammento rispetto alla forma rotonda e «pacificata» del romanzo), la prosa lirica contenuta nei Poemi orfici (1914) ha un suo rilievo notevole. Si tratta di un prosimetro (composto di poesia e prosa, come la Vita nova dell’amato Dante), in cui la musicalità della lingua, identica nei versi e in prosa, è affidata al valore fonico dell’iterazione, delle serie aggettivali, dei parallelismi, delle allitterazioni. Così l’incipit (La notte) «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminta nell’Agosto torrido…».
C
Di lì il poeta, come in un sogno, si avventura nel silenzio del meriggio, in una «irrealtà spettrale» dove incontra una donna «ebete e sola nella luce catastrofica», e poi altre «antichissime femmine», matrone, zingare, passeggiatrici, ruffiane, sacerdotesse, ancelle, matrone, altrettante figure della sensualità e del nulla, dentro un rito magico-funereo. Credo che il più acuto, fedele interprete di Campana sia Carmelo Bene. Prendiamo la prosa ebbra di Crepuscolo mediterraneo, con i suoi «palazzi marini», il suo «porto fumoso di molli cordami», i suoi «vini d’oriente dal profondo splendore opalino», con i suoi «piccoli balconi», con la sua «esplosione di gioia barocca».Sembra qui di ritrovare puntualmente le immagini deliranti e i colori mediterranei di Otranto da Nostra signora dei turchi di Bene (e anche se, ovviamente, si tratta ancora di Genova, pur vista come città barocca, e non del Salento: ma anche nella poesia intitolata sopra riportata si parla della «torre orientale», forse il campanile di S. Agostino con le piastrelle policrome e arabeggianti…). E, proprio come Benem anche Campana - eroe e martire - mescola momenti autenticamente visionari a suggestioni liriche kitsch, riferimenti culturali alti (Nietzsche, il D’Annunzio alcyonio) ma digeriti in fretta, e inoltre ci presenta una struttura sempre incompiuta, provvisoria e uno stile monocorde, a volte ossessivamente ripetitivo. La lettura di Bene, il suo flusso salmodiante, mette in evidenza l’autonoma musicalità del significante, la liberazione da ogni commento rigido. Il suo teatro respinge l’in-
In libreria
terpretazione scenica, l’immedesimazione dell’attore, la centralità del testo, in favore dell’evento che accade in quel momento, della pura trasmissione dell’emozione. Così come la voce di Campana si riduce qualche volte a un confuso balbettio che non rinvia ad alcun significato. Mi sembra che il tema del viaggio, viaggio esotico o verso il nulla di tenebra, sia centrale nella sua opera. In Viaggio a Montevideo Campana sembra ricalcare il Battello ebbro di Rimbaud: prima registra ancora dettagli realistici, la prima parte del viaggio, il passaggio di fronte ai «colli di Spagna» che svaniscono nel verde, poi la «nave già cieca» attraversa i «dorati silenzi» per arrivare in una baia «tranquilla e profonda assai più del cielo notturno» di isola tropicale e scoprire «nella luce incantata/ Una bianca città addormentata/ Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti/ Nel soffio torbido dell’equatore» e poi la «capitale marina» del continente nuovo, dove le dune si scioglievano «verso la prateria senza fine».
La vita di Campana è un romanzo drammatico e picaresco: nato a Marradi, studi irregolari, collegio salesiano, in prigione già a 18 anni per la sua «impulsività morbosa»,manifestata in famiglia, a 21 il primo ricovero in manicomio, poi emigra in Francia, America del Sud, Belgio, entrando e uscendo da cliniche. Dopo la tempestosa relazione amorosa con Sibilla Aleramo, riformato durante la guerra, finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico. Non ha tanta importanza stabilire se Campana sia più vicino a Carducci o alle avanguardie (al cubismo), se sia uno scapigliato in ritardo orecchiante dei temi decadenti o un poeta tutto novecentesco parente di Apollinaire e magari anticipatore dell’ermetismo.In lui,pure immerso nella letteratura,colpisce una qualità primaria dell’esperienza stessa - sensoriale, onirica, mentale - al di là di ogni filtro culturale e stilistico. In una lettera a Carrà del 1917 dice di D’Annunzio che gli pare «troppo letterato anche nei migliori e peggiori momenti» (la «massima cloaca di tutta la letteratura presente passata di tutti i continenti»).La sua Genova è città piena di vita ma anche generatrice di morte. La poesia qui riprodotta, che chiude gli Orfici, termina con una immagine corrusca, di donna siciliana che appare nella luce, «Piovra de le notti mediterranee», mentre il «debole cuore» del poeta batte un «più alto palpito» e la notte tirrena si scopre «infinitamente occhiuta devastazione» (segue poi un colophon, dei versi di Whitman che richiamano l’immagine del poeta innocente assassinato: si torna all’inizio della Notte). L’autobiografia tragica si trasfigura nei versi, ma senza sublimarsi. Campana vive per intero sulla pelle, dolorosamente, gioiosamente, la curva barocca e luttuosa del proprio destino.
GENOVA Poi che la nube si fermò nei cieli Lontano sulla tacita infinita Marina chiusa nei lontani veli, E ritornava l’anima partita Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente illustrato del giardino il verde Sogno nell’apparenza sovrumana De le corrusche sue statue superbe: E udìi canto udìi voce di poeti Ne le fonti e le sfingi sui frontoni Benigne un primo oblìo parvero ai proni Umani ancor largire: dai segreti Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare Bianco nell’aria: innumeri dal mare Parvero i bianchi sogni dei mattini Lontano dileguando incatenare Come un ignoto turbine di suono. Tra le vele di spuma udivo il suono. Pieno era il sole di Maggio. Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi o ne la lavagna cinerea Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande: Come le cateratte del Niagara Canta, ride, svaria ferea la sinfonia feconda urgente del mare: Genova canta il tuo canto (…)
Dino Campana
1975-2010: voci d’Italia, il catalogo è questo
intento di Francesco Napoli nel suo Poesia presente. In Italia dal 1975 al 2010 (Raffaelli editore) è dichiarato esplicitamente nel primo capitolo, «Una questione di metodo»: «Periodizzare è… il primo passo necessario per quel processo di storicizzazione che se per il Novecento ha visto tanti e buoni esercizi in grado di tracciare quadri sufficientemente esaustivi, risulta forse improbo per i periodi più recenti, improbo ma ormai da azzardare». È un progetto apparentemente ambizioso vista la varietà di voci e la complessità d’insieme della nostra poesia contemporanea, ma, chiusa l’ultima pagina di questa «antologia storica» (i poeti antologizzati sono ventisette), si sente che l’intento è riuscito. La ricostruzione il più possibile completa e imparziale del percorso storico che vede protagonista la nostra poesia recente inizia dal Novecento e la «prima bandie-
L’
di Giovanni Piccioni ra da piantare» per segnalarne l’inizio è quella di Ungaretti e della centralità dell’Essere; una poesia che associa lingua e metafisica. Un’istanza che sembra riaffiorare in alcuni dei migliori esponenenti della poesia italiana d’oggi. La fine del Novecento, invece, coincide con la morte di Pasolini e l’opera di alcuni esordienti (fra i quali Conte, Cucchi, De Angelis, Kemeny eViviani) nei primi anni Settanta: la seconda, convenzionale bandiera risale allora al 1975. A quest’altezza si producono una serie di fenomeni fra i quali la fine di ogni scuola dominanate a favore di una pluralità di voci nuove e sicure e lo «sfarinamento» della koinè stabilita dalla Neoavanguardia in un «pulviscolo assolutamente unico e fino allora mai visto per la nostra poesia», che non ne compromette affatto i risultati. La rottura, precisa
Napoli, si consuma con la Neoavanguardia; prevale ora una «multilinearità» delle visioni e dei modi di far poesia. «La poesia era ed è tuttora più viva che mai». Il libro di Napoli si articola in due capitoli introduttivi: «Una questione di metodo» cui abbiamo accennato e «Introibo. I maestri per la continuazione», in cui viene messo in luce il magistero che Sereni, Zanzotto, Luzi Pasolini, Bertolucci e Caproni esercitano su quanti iniziano il loro cammino negli anni Settanta. Prosegue antologizzando a partire dagli anni Settanta, decennio per decennio, i poeti delle diverse generazioni. Le pagine antologizzate sono precedute da significative e caratterizzanti introduzioni critiche, che analizzano le varie formazioni generazionali. Una sistemazione storico critica come questa di Napoli, che sorprende per il modo sicu-
ro, sintetico, acuto e al tempo stesso esaustivo con cui chiarisce le ragioni di una stagione ancora in corso, ricchissima e complessa, è utile e necessaria per chi vuole avvicinarsi o approfondire la nostra poesia odierna. Di un tale lavoro se ne sentiva il bisogno, rispetto a tanti giudizi a volte parziali o approssimativi. Siamo di fronte a tesi e conclusioni originali e condivisibili e a scelte antologiche che nulla trascurano. Nella sua sinteticità Napoli ci offre la ricostruzione della nostra poesia attuale, fino agli esiti cronologicamente più vicini e a quelli più saturi di prospettiva. Da Piersanti a Rondoni, il primo e l’ultimo dei poeti antologizzati, le voci scelte restano nella memoria. Il suo è un atto di fiducia e di amore per la nostra poesia come si manifesta nelle parole conclusive dell’ultimo capitolo, Alle soglie: «Nulla mi toglie dalla testa che in Italia c’è, ancora e valida poesia presente».
Babeliopolis
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ingolare, ma anche significativo che nei fascicoli dedicati ai «Capolavori delle grandi civiltà» allegati al Corriere della Sera, accanto alle Piramidi, al Colosseo, a San Pietro, alla Torre Eiffel, al canale di Panama, alla Muraglia Cinese, al Partenone, al Ponte di Brooklyn, all’Empire State Building, ci sia anche… Atlantide. Sì, a fianco di realizzazioni architettoniche concrete c’è anche una realizzazione di una architettura filosofica, una fabula o meglio un mito. Chissà quale sintonia hanno trovato i realizzatori di quest’opera tanto variegata tra un’isola (e una città) che si definisce in modo esplicito inesistente e tante concrete realizzazioni dell’ingegno che sono ancora sotto i nostri occhi, pur avendo una età millenaria. Sta di fatto che questo mito, che si basa esclusivamente su alcune parti dei dialoghi platonici, Timeo e Crizia, aleggia sull’umanità da ben 2400 anni accrescendosi sempre più: invece di cadere nell’oblio, come una calamita ha attirato di tutto: altri filosofi, ma anche geografi e sognatori, storici e teorici folli, avventurieri e dilettanti di ogni tipo, visionari e chiaroveggenti, scrittori di fantascienza e occultisti. Tutti l’hanno cercata sopra e sotto il mare, tutti l’anno situata non solo oltre le Colonne d’Ercole ma nei punti più strani del pianeta, tutti hanno portato il loro contributo alla creazione di un mito che man mano si è accresciuto e ancora si accresce e che non viene demolito da nessun commento scettico, razionale e scientifico. Infatti, con questo suo mito Platone ha voluto semplicemente descrivere in senso positivo e negativo la sua concezione di società ideale e di come essa si autodistrusse nel volgere di una sola «notte tremenda» a causa dell’ira degli dèi. Una società che era diventata «empia» avendo perso la «scintilla divina» che custodiva in sé. Non è dunque che, come pure ha scritto Viviano Domenici sul Corriere, Platone si volle sbarazzare di questo mito ingombrante perché non ci si credesse troppo, ma al contrario la sommersione dell’isola fra maremoti e terremoti ha un senso preciso ed esplicito: si è trattato di un castigo divino. È questo che si deve tener presente e molti dimenticano (a parte il fatto che lo tsunami del 2004 in Estremo Oriente con i suoi quasi trecentomila morti e le terre sommerse in pochissime ore a causa di un movimento insolito, ma non eccessivo, delle placche tettoniche, ha dimostrato come simili eventi, a voler essere scientificamente pignoli, non siano affatto impossibili).
MobyDICK
ai confini della realtà
S
Ora cade a proposito un saggio fuori dall’ordinario, Il mito della terra perduta. Da Atlantide a Thule, pubblicato dall’Editore Bevivino nella collana «Secretum». Fuori dal comune non tanto per l’argomento, dato che non è il primo né sarà l’ultimo libro dedicato a esso, ma perché lo ha scritto il professor Davide Bigalli, ordinario di storia della Filosofia all’Università di Milano, e dagli accademici normalmente non ci si aspetta che affrontino certi temi che in genere vengono considerati mere curiosità culturali. Invece il professor Bigalli ci offre un libro dottissimo, zeppo di estratti da opere quasi introvabili e di citazioni innu-
Quella nostalgia delle
origini di Gianfranco de Turris merevoli che partendo ovviamente da Platone giungono sino ai nostri giorni, sino agli autori che nel Novecento si sono occupati di questo tema. Insomma, come l’idea di Atlantide abbia attraversato tutta la cultura occidentale, le sue metamorfosi e le sue derivazioni. Ci sarebbe da augurarsi che ce ne fossero di più di docenti come il professor Bigalli… Il quale giustamente, e non poteva esse-
mondo». Il titolo del saggio però parla genericamente di «terre perdute», e in questa vasta ricognizione sta la sua originalità che segue tre direttive che si riferiscono ai tre modi di affrontare, nell’arco dei secoli e delle culture, questo argomento. C’è il tema generale, appunto, della terra perduta, vale a dire «un mondo originario, sperduto nella immensità del passato, al quale l’umanità
Già Mircea Eliade aveva indagato a fondo quel sistema di pensiero che induce a rimpiangere luoghi perduti fino a renderli miti. È il caso di Atlantide, l’isola platonica diventata idea che ha attraversato, in tutte le salse, la cultura occidentale. Un nuovo studio torna a occuparsene re diversamente dato che è uno studioso di storia delle idee e non un qualsiasi divulgatore storico e/o scientifico, afferma che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, dell’elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa un esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro
tende a tornare»; da questo tema ne deriva un altro, quello appunto di Atlantide, cioè di «un mondo… distrutto dalla propria hybris»; e poi c’è il tema dell’Eden, del paradiso perduto, di «un luogo di diletto e felicità, nonché di una condizione di innocenza e perfezione, al quale l’umanità intende ritornare».
Pur se il Paradiso Terrestre è situato a Oriente, «il luogo di diletto e felicità» aveva i suoi siti anche a Occidente. Le Isole Fortunate e l’Isola dei Beati ne sono un esempio. Lo storico delle religioni Mircea Eliade con la sua teoria della «nostalgia delle origini» o anche «nostalgia del paradiso perduto» ha indagato a fondo questo sistema di pensiero, che si riverbera anche ai nostri giorni e che spiega molto in profondo alcune scelte di civiltà (o solo di politica contin-
gente) altrimenti incomprensibili. È un peccato che il professor Bigalli non lo abbia tenuto presente. Il mito della terra perduta spazia, comunque, non solo nella storia del pensiero occidentale, ma si confronta anche con le teorie geografiche ed etnografiche (pur se allora non si usava questo termine) nate dalle scoperte di Colombo e Vespucci, dalla conquista del Sud America da parte degli spagnoli e così via: che cosa erano quei nuovi mondi e quei nuovi popoli, ci si chiese? Non si trattava per caso dell’Altantide? Oppure quegli abitanti non erano per caso i discendenti dei sopravvissuti alla distruzione dell’isola platonica? E così di tempo in tempo si giunge ai nostri giorni, all’Ottocento e al Novecento, secoli in cui ritroviamo Atlantide in tutte le salse possibili, da quelle teosofiche a quelle pseudoscientifiche, da quelle esoteriche a quelle politiche, con la «nascita» di altri continenti perduti o scamparsi (Mu, Lemuria), con la diffusione dei nomi di Agartha e Shamballah, con curiose variazioni sul tema come quella della Terra Cava, simbolo per Bigalli sia dell’interiorità umana, sia della nostalgia di un paradiso perduto. E quando certe teorie vengono respinte ecco che i loro autori parlano del complotto della scienza ufficiale per negare qualcosa che vorrebbero tenere celato ai più. Una teoria quella del complotto, oggi diffusissima, che per Bigalli si può spiegare solo con un meccanismo psicologico, risarcitorio e vittimistico per gli scacchi subiti nella vita reale. Come si vede, un libro questo Il mito della terra perduta che affonda le sue radici e spinge i suoi rami in molte e inaspettate direzioni.