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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

La città vista dalle tangenziali

L’ALTRA MILANO di Pier Mario Fasanotti Ancona dodici anni fa e ora vive a Milano est. Questa strana coppia uscito da poco il romanzo di Dante Maffia, calabrese. S’intitola MilaCe lasciato no non esiste (Hacca edizioni). Un testo che ha una furia orale ha deciso di fare trekking a Milano, ma girando in tondo, visto che la la farà il città è tonda. Il tracciato dei due viaggiatori appiedati sono le tanbarbarica, aspra, che ci rimanda alla «letteratura industriagenziali. Da quelle linguacce di asfalto che vomitano un incesle» e ci ricorda certe pagine di Testori (vedi su Mobycapoluogo lombardo, sante brusio, entrando e uscendo da vie principali o di coldick del 30 gennaio scorso, la recensione di Maria Pia in vista dell’Expo del 2015, legamento urbano, guardano e giudicano una città Ammirati, ndr). Maffia racconta una città popolare a competere con le grandi capitali che molti additano come emblema del declino, che odora di pelle sudata, di vino, di rabbia. sicuramente oggi molto affannata nel suo Nessun maquillage contrariamente all’obdel mondo? La risposta (di Biondillo e Monina) recupero storico-urbanistico. L’Expo milanebligo vigente di mutare di continuo aspetto e in un libro che è il resoconto di un’originale se è nel 2015. Meta lontana, ma solo teoricamente. mansioni per via della precarietà lavorativa. Il tiResa ancora più lontana da baruffe civico-finanziarie tolo si offre come nostro bastone di viandanti seduti passeggiata sulle “linguacce che hanno immobilizzato, anzi congelato, l’iniziale euforia mentre leggiamo il curioso e picaresco resoconto milanese d’asfalto”. Tra declino per la scelta mondiale che ha scartato la turca Smirne. di Gianni Biondillo e Michele Monina (Tangenziali, Guanda, 308 e recupero… pagine, 17,00 euro). Il primo, architetto e autore di vendutissimi rocontinua a pagina 2 manzi noir, è nato a Quarto Oggiaro, in periferia. Il secondo, scrittore, ha

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Critica di Franco Ricordi Stravaganze glam firmate Irrepressibles di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Shelley e il canto irraggiungibile dell’allodola di Roberto Mussapi

Chopin, incompreso (duecento anni dopo) di Pietro Gallina Alice non meraviglia ma Jeff Bridges sì di Anselma Dell’Olio

L’art brut da Guattelli a Ferrari di Marco Vallora


l’altra

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Da Medo e Olano a Bianca Maria… leggende e segreti ilano è un po’ ritrosa, e sottovaluta se stessa. Segnali storici, leggende, testimonianze esistono e sono tanti, ma vanno cercare. Così come improvvise e insperate bellezze architettoniche sono racchiuse in cortili o in giardini perimetrati da case d’epoca. Se Roma ha l’orgoglio di una storia splendida e conosciuta in tutto il mondo, Milano è un libro ancora in parte chiuso, non consumato da chi cerca tempi antichi e fantasia. Eppure, anche per quanto riguarda le origini, ci sono leggende sia pure meno suggestive di quella di Romolo e Remo o di Enea che sbarca nel Lazio, ma dotate di un significato che, in forma emblematica, potrebbe spiegare la vocazione pragmatica della polis lombarda. In base a una storia raccontata ma mai verificata, due capitani etruschi s’inoltrarono nella pianura padana alla ricerca di un luogo ideale ove fondare un grande borgo. Si chiamavano Medo e Olano. Si arrestarono entrambi nel territorio racchiuso dai fiumi Olona, Lambro e Seveso. Uno si piazzò su una riva dell’Olona e il compagno sull’altra. Ognuno credeva di essere stato il primo scopritore di quella terra. Sguainare di spade, minacce, sguardi furenti. Era estate e in quella fetta di terra rigogliosa si radunò una folla di curiosi, in attesa che venisse versato sangue. Ma Medo e Olano si misero d’accordo, evitando che una città fosse fondata sulla violenza. L’intesa generò il nome della città: Mediolano, unione dei due nomi etruschi. Un’altra leggenda racconta che fu invece il guerriero gallico Belloveso a installarsi qui, dopo aver cercato nella pianura una scrofa pelosa che, secondo un vaticinio, doveva essere il placet per la fondazione. Belloveso alla fine trovò lo strano animale. Di qui Mediolanum, ossia «medio lanuta», come era la scrofa.Voci e riferimenti storici rendono meno anonima una città. Si possono apprendere in un bel libro della Newton Compton (101 storie su Milano che non ti hanno mai raccontato di

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segue dalla prima C’è da aver paura nel rendersi conto che il 2015 è drammaticamente vicino e Milano pare non abbia ancora fatto scelte definitive, giuste o sbagliate che siano. Qualcosa di indefinito si staglia all’orizzonte: è il futuro di una città, che si vantava un tempo d’essere capitale morale italiana, spinta ad affrancarsi dall’effimero della moda e dall’instabile circo finanziario. L’idea, gettata in là come una boa da raggiungere a fatica (e che faticaccia), è quella di trasformarsi in una città che non abbia complessi nel raffrontarsi con Berlino, Parigi o Londra, multietnica senza scontri e schiamazzate di quartiere, senza lo scarpone leghista che schiaccia il pedale della solidarietà e del futuro, città capace di darsi mete in sintonia con un mondo che, bisogna dirlo, pare sempre più avanti rispetto all’orgoglioso borgo che fu degli Sforza, dei Visconti e di Leonardo da Vinci, l’uomo che aveva in mente un piano. Già, il piano che manca all’Italia tutta, e non solo dal punto di vista urbanistico. Di piano si parla quando si nomina Renzo Piano, principe degli architetti. Non è una battuta, è realtà che sembra sempre sul punto di sfuggire di mano a chi questa città la governa (o ci prova).

Tangenziali, si diceva. Ce ne sono tre e non una sola come Roma (Grande Raccordo Anulare). Quindi è un continuo uscire e rientrare visto che la rete viaria è stata costruita a ridosso delle linee di comunicazione centro-periferia. Da un primo colpo d’occhio si nota il ritorno delle gru, intese però non come graziosi volatili. Annota Biondillo che una città senza gru è triste.

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

F. Bellotti e G.L. Marghereti). Non a caso il sottotitolo è: «C’è un’altra città nella città». Uno dei luoghi più visitati della capitale lombarda è senza dubbio il Castello Sforzesco. È ancora più bello se, entrando, qualcuno ci ricorda del fantasma di donna che muove tra la nebbia e la ghiaia per poi cadere a terra mentre la sua testa mozzata rotola fino ai piedi. Era una donna bellissima e si chiamava Bianca Maria. Non era nobile, era solo una delle tante figlie del popolo che sognava un destino diverso al passare delle carrozze dei «signori». Bianca Maria, a differenza delle altre, possedeva due doti: una straordinaria avvenenza e un’assoluta mancanza di moralità. E fu così che riuscì a sposare il vecchio Ermes Visconti, interamente abbindolato dalla giovane. Il potente di Milano era ricchissimo anche se non più «signore di Milano» e lasciò alla vedova un incommensurabile patrimonio. Intanto Bianca, nata Scappardone, s’era fatta largo nei salotti della nobiltà meneghina. La sua fama crebbe. Dopo il periodo di lutto prescritto, si lanciò nelle braccia del conte Renato di Challant e si trasferì a Pavia per creare una sua «corte». Amanti, scandali, offese e tradimenti a ripetizione: fatto sta che Bianca venne accusata ingiustamente d’essere mandante di due efferati omicidi. Ci pensarono i giudici che sentenziarono la decapitazione della donna ormai chiamata la «mantide di Challant». La sua testa fu appesa nella chiesa di San Francesco, a monito per tutte le donne. La leggenda vuole che la donna, anche nell’inespressività della morte, aveva mantenuto in(p.m.f.) tatta la sua stupefacente bellezza.

Un ritratto di Bianca Maria Visconti

Chissà se gli architetti che regolano il traffico del dopodomani riusciranno a scostarsi un po’ dall’«internazionalismo un po’ ruffiano» che qui ha spadroneggiato. I due viaggiatori avvertono un certo disagio per non afferrare il senso di un construendum armonico. Scrive il giallista che sa usare il pantografo: «Ogni progetto deve saper essere critica al contesto, e non immaginare il contesto come una semplice tabula rasa dove depositare le proprie ossessioni formali». Se è nella tradizione milanese la selva di gru, è anche vero che proprio vicino al nuovo Polo fieristico si ergono i grattacieli storti del francese Perrault: un inutile formalismo, snobistica indifferenza al contesto. E il contesto, quello nuovo, qual è? Domanda problematica: non appare, forse non c’è. È sacrosanto ricordare le parole del grande Ruskin: una cattedrale è davvero gotica quando anche l’ultima casa o bottega erano intimamente gotiche. Se Biondillo, proprio per gli studi che ha fatto, ammette di non aver capito granché sul profilo dell’Expo 2015, c’è da mettersi le mani tra i capelli. Dalle tangenziali si può riflettere meglio sul sistema dei trasporti. Milano ha 74 chilometri di linee metropolitane. Parigi ne ha 160, Berlino ben 300. E le piste ciclabili? Lasciamo perdere che è meglio. Ci imbattiamo in un paragrafo spietatamente realistico. Da una tangenziale si scorge una città immobile o in falso movimento.Viva le gru, d’accordo. Sono tornate, «ma spesso per progetti oggettivamente brutti, sciapi, dal gusto provinciale,“brianzolo”, quasi un adattamento alle istanze geometresche della provincia, con i soliti rivestimenti in falso mattone paramano, gli intonaci del solito giallo Maria Teresa (l’imperatrice austriaca, ndr), gli infissi di alluminio color verde botti-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

milano

glia; architettura rassicurante, falsamente consuetudinaria (chè a Milano robe così non se n’erano mai viste), emulazione fallita della vera tradizione lombarda». No, nessun disfattismo, solo un occhio severo. E una mente che ricorda gli anni in cui Milano non si muoveva mentre i nostri migliori progettisti lavoravano in tutto il mondo, portando in giro un gusto che è nostro, che è stato forgiato negli anni della ricostruzione postbellica… quella milanesità di Caccia Dominioni, di Asiago e Vender, di Giò Ponti. Per fortuna c’è Vittorio Gregotti che nei nuovi progetti della Bicocca, «pezzo della città in fieri», applica la sua severità progettuale e dà «la tonalità generale».

Altro punto di visuale: Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, la cittadella operaia dove le ciminiere avevano i nomi degli dei dell’antica Grecia. È rimasto «Vulcano», ma è un centro commerciale. C’erano cattedrali che sembravano inamovibili. Erano della Breda, della Falk, della Pirelli. Smantellate in un batter d’occhio, «liberando tanto di quello spazio che quasi non sappiamo che cosa farcene». Un altro ancora: il parco Lambro.Verde lo è, ma l’acqua puzza e inquina, con canali che paiono costruiti ad minchiam. Si passeggia, ma occorre sapere che si mettono i piedi sulla discarica della Falk. Insomma si procede «sopra un tumulo, sulla tomba dell’industria italiana, sul sepolcro del Novecento milanese, forse». E così via, da una tangenziale all’altra. Con in mente una verità statistica inconfutabile: in Italia nove edifici su dieci non sono stati progettati da architetti. Biondillo ricorda quel che gli diceva mestamente un collega: «Noi architetti ci siamo trasformati in parrucchieri».

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parola chiave

a critica, intesa in generale come critica d’arte, è una disciplina relativamente nuova almeno rispetto alla storia delle arti. È evidente che in certo senso sia sempre esistita, e solo in questa maniera sia stato possibile acquisire tutte le grandi opere divenute tradizione. Tuttavia l’istituzione della critica come tale si può dire nasca solo nell’Ottocento, anche se i suoi prodromi sono sicuramente settecenteschi, e risulta assai utile riferirsi alla terza grande Critica di Kant, appunto la Critica del Giudizio, laddove il genio di Koenigsberg prende in esame l’analisi del bello e del sublime, nella natura e poi nel’arte, creando quella che forse può ritenersi l’avvio della critica moderna. In essa c’è un punto che ci risulta fondamentale, che riguarda il giudizio estetico del bello, ma che si riflette ovviamente anche nella critica d’arte e nella sua deontologia. Scrive infatti Kant come il «piacere del bello sia scevro da ogni interesse». Si tratta di un passo assai dibattuto, ancorché fondamentale, e si potrebbe dedurne che la Grande Critica debba per sua stessa misura etica risultare sempre super partes, e mai interessata all’oggetto di cui sta trattando. È evidente come il critico che recensisca la poesia, le arti, il teatro come il cinema o la musica possa e debba dare prova della propria onestà intellettuale dimostrandosi distaccato, e non essendo in alcun modo implicato da ciò di cui si occupa.

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In questo senso, come l’arte, la critica è anarchica: non perché professi l’anarchismo, ma perché come l’arte non riceve prescrizioni da parte di alcuna autorità. E se l’arte come la critica lo facessero, si assumerebbero le responsabilità che potranno apparire discutibili nella riuscita della propria opera: ci potrà essere un’arte di tendenza, ma se quest’ultima supera le prerogative estetiche diventando un vero e proprio comizio a favore di qualcuno, è chiaro che il risultato ne risentirà; allo stesso modo la critica di tendenza che non è in grado di esperire il terreno estetico, e finisce per parlare bene di chi «la pensa come lui», non potrà mai dirsi qualcosa di super partes, e perderà la sua stessa quintessenza e ragione di critica. Tanto più siamo tenuti a interrogarci su quella che è stata definita, e non a caso, «critica di sinistra» nel secolo XX. E soprattutto sul fatto che tale critica, palesemente riferita a una sola parte della politica, sia stata tranquillamente tollerata e in certi casi più che benvoluta. Non si tratta infatti di questione metodologica, come potrebbe essere per i vari riferimenti culturali che la critica ha voluto esperire (dalla psicoanalisi allo strutturalismo, dalla semiologia alla sociologia). Qui si tratta di un riferimento diretto a una sola parte della politica che, erede storica del marxismo e degli intellettuali che di esso hanno fatto dottrina a cominciare da Lukacs, risulta analogamente alle tendenze storiche delle arti novecentesche come l’unico e univoco tramite con le attività culturali. Non si è mai sentito parlare di una «critica di destra», ovvero di una «critica moderata», anche se magari sono esistiti ottimi critici vicini politicamente a tali realtà. La critica può essere «militante», nel senso di impegnata a preservare più che mai i contenuti este-

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CRITICA La deontologia che la regola dovrebbe fondarsi sul precetto kantiano che il piacere del bello è scevro da ogni interesse. Un’attività “super partes” dunque, ma che in Italia ha decisamente virato a favore di una parte politica: la sinistra

Quella cultura a senso unico di Franco Ricordi

Immanuel Kant

In nome di un impegno proteso a cambiare il mondo e a renderlo migliore, nel secondo Novecento abbiamo assistito a una distorsione che ha trasformato la critica d’arte in critica al potere. Dimenticando che la militanza è accettabile solo in funzione dei contenuti estetici dell’opera recensita tici dell’arte che viene recensita; ma se tale «militanza» viene direttamente o indirettamente associata con un «impegno» che poi si identifica per forza con la sinistra - come è stato nella maggior

parte dei casi - ecco che sorgono grossi problemi. Si ricorda pure come, negli anni Settanta, un critico musicale del Corriere della sera fu boicottato in una lettera aperta da una serie di noti intel-

lettuali e artisti dell’epoca, che espressero il loro dissenso solo perché tale giornalista, risultando vicino al centrodestra, potesse scrivere per tale importante testata. Ma il fatto che ci appare più inquietante, in quella che potremmo chiamare distorsione della critica moderna, risulta proprio il rapporto sfalsato che si è creato con ciò che normalmente si definisce «il potere». La critica di sinistra si è schierata in tal senso, in maniera tautologica, «contro il potere»: si è anzi qualificata come sistema di opposizione al potere che, nell’Italia degli ultimi sessant’anni, si è immancabilmente qualificato come democristiano ovvero di centro-destra. Come se fosse un atto dovuto, come se l’esercizio della critica d’arte dovesse necessariamente identificarsi anche in una critica al potere. Ma è evidente come una volta non fosse così: la critica di Attilio Momigliano alla Divina Commedia, per fare un esempio concreto, non era né tendenziosa né si riferiva in alcun modo a un parallelo che facesse allusioni all’epoca del fascismo italiano o dei suoi surrogati. Si trattava di una altissima critica alla poesia, che certo teneva in considerazione anche il problema politico dantesco, ma che rimaneva nell’ambito del rapporto del potere temporale dei tempi con la situazione vissuta dal grande poeta. Tutto questo non andava a beneficio di alcuna parte politica dell’epoca di Momigliano, e risultava alla fine come una lettura appassionata ancorché distaccata del poema dantesco. Ma la distorsione che si è attuata nel secondo Novecento è stata proprio quella di creare un «sistema di potere» all’interno dei singoli settori che, proprio per potersi imporre come tale, veniva sostenuto dalle forze politiche d’opposizione che garantivano una maggiore visibilità professando una critica al potere: e la critica d’arte veniva a identificarsi con tale critica al potere. Una militanza che, immancabilmente, si configurava in quanto opposizione, creando le prerogative della suddetta critica di sinistra.

Ma è evidente come questa, al di là della buona fede di tante persone in essa allineate, contenesse un difetto di fondo: che è quello di aver superato come se niente fosse il suddetto principio kantiano del disinteresse che ripetiamo, senza ricorrere alla dura elaborazione del grande filosofo, può capire facilmente anche un bambino: il critico non può essere interessato - quindi coinvolto - nell’opera d’arte che sta giudicando. In questa maniera potrebbe sorgere una «critica mandataria», come di fatto è poi accaduto. E tuttavia attraverso la pretesa di un «mondo migliore», di un impegno politico necessario a cambiare il mondo, si è completamente dimenticato questo semplice principio. La critica è stata influenzata da una sola parte politica e ha contribuito alla realizzazione di quella cultura a senso unico che abbiamo vissuto dal dopoguerra a oggi. Ecco, in definitiva, il senso di questa nostra più che mai urgente critica della critica. Crediamo nella quintessenza costruttiva della critica, la riteniamo il contraltare più profondo dell’arte: essa stessa può dirsi «poetica», nella migliore delle ipotesi; ma proprio per questo ci sentiamo in dovere di criticare la situazione che si è creata.


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cd

musica

Le stravaganze glam dei nove Irrefrenabili l rock? Estinto. Il pop? Volatilizzato. Sostituiti da un diluvio di viole, violini e violoncelli. Il nuovo trend, orchestrale, l’abbiamo metabolizzato ascoltando i sinfonici struggimenti di Antony and the Johnsons e i cameristici stravolgimenti di canzoni altrui a opera di Peter Gabriel. Sappiate, però, che sono bazzecole in confronto alla grandeur romantico/decadente degli inglesi Irrepressibles (irrefrenabili): nove musicisti capeggiati dal cantante, chitarrista, direttore artistico e compositore Jamie McDermott. Per darvi un’idea della loro incipriata, bulimica teatralità, vi consiglio di dare un’occhiata al dvd del film Velvet Goldmine, girato nel 1998 da Todd Haynes, che metteva in

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di Stefano Bianchi scena le sciccose ambiguità del glam rock anni Settanta rifacendosi (molto) liberamente allo Ziggy Stardust di David Bowie e a quell’animale da palcoscenico chiamato Iggy Pop. Bene. The Irrepressibles pescano proprio da quell’estetismo un po’ barocco e un po’ da Arancia meccanica. Ma con una fondamentale differenza: che in Mirror Mirror non c’è l’elettricità tipica del glam che faceva rima con hard rock bensì archi, oboe, flauto, clarinetto, sax e un pianoforte bucolici, titanici, enfatici, debordanti. Lo chiamano performance orchestra, questo collettivo di uomini e donne in make-up che mette il proprio

repertorio al servizio di spettacoli (non semplici concerti) sopra le righe che coniugano avanguardia, vaudeville, cabaret e glamour. A tonnellate, ovviamente, quest’ultimo: come quando la superband si mette a suonare appesa alle funi in un circense guazzabuglio di Bob Fosse e Federico Fellini. L’ha fatto in luoghi selezionati: dalla accuratamente Roundhouse e dall’Hackney Empire di Londra, a un anfiteatro romano di Barcellona; da una settecentesca villa siciliana, a La Cigale di Parigi. Non si esibiscono, The Irrepressibles. Sfilano fascinosi, ambigui, narcisi. Lanciando in avanscoperta sempre lui, Ja-

mie McDermott, che madre natura ha gratificato di una voce che oscilla da Antony fino a Kate Bush. Mattatore, ça va sans dire, dalla prima all’ultima canzone (tranne lo strumentale Transition) di questa extravaganza che frulla concettualmente pop e Carmina Burana, glam e Blade Runner. Nell’enfatica e poi tonitruante My Friend Jo, il divin McDermott canta tale e quale a Bryan Ferry; e nella cameristica, sussurrata I’ll Maybe Let You tratteggia atmosfere che starebbero benissimo (a proposito di glam rock) fra i solchi di For Your Pleasure, il secondo ellepì dei Roxy Music. Poi, sfoggiando un’ugola da Farinelli, sguscia fra le delicatezze folk di In Your Eyes. E se la cava egregiamente, quando in Anvil si trasforma con un gioco di prestigio nel Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody. È un calembour continuo, Mirror Mirror, che passa dagli arpeggi decadenti di Forget The Past, all’insinuante sincopato di Knife Song; pizzica con la chitarra acustica una ballata come The Tide, per poi alternare (è il caso di Nuclear Skies) luci e ombre come capita in certe composizioni di Michael Nyman. E il cicisbeo Jamie si guadagna un bell’applauso quando in Splish! Splash! Sploo! coniuga Kurt Weill con Cole Porter. Lo vogliamo chiamare pop loggionista? Glam cameristico? Fuori da ogni catalogazione, questa musica e questa voce rompono il cliché, l’ovvio, il già sentito.A colpi di fard, in questi nostri tempi un po’ burlesque, un disco così funziona alla grande. Di più: irrefrenabilmente. The Irrepressibles, Mirror Mirror, Cooperative Music/V2, 17,50 euro

in libreria

mondo

riviste

VITA CON PIERO CIAMPI

TUTTI I PREMI DI “NME”

NUOVO, MA GIÀ EVERGREEN

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o non ho lasciato il mio cuor a San Francisco, io ho lasciato il mio cuore sul porto di Livorno. Le luci si accendevano sul mare. Era un giorno strano: mi rifiutai di credere che fossero lampare». Basta un breve estratto privato della musica, per accorgersi che Piero Ciampi, oltre che un cantante fu un grande poeta. Merito anche di un musicista come Gianni Marchetti, che

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untuali come ogni anno di questi tempi, giungono dal Regno Unito le prestigiose premiazioni di Nme, storica rivista britannica che iniziò le sue pubblicazioni nel 1953. Grande spettacolo per la serata di gala alla Brixton Academy di Londra, che ha visto sul palco molte delle band premiate. Innanzitutto i Muse, che si sono aggiudicati il riconoscimento come migliore combo in-

anno il tocco, scrivono bene, suonano in modo limpido: i loro dischi sono assolutamente godibili e crescono ascolto dopo ascolto. States of Friction sembra un brano di James Taylor, per la classe con cui è costruito, mentre Man of The World è geniale dal punto di vista melodico e richiama certe cose degli O.A.R. Insomma una band abbastanza unica che sa unire le intuizioni dei Phi-

A trent’anni dalla morte del cantante, il suo amico e sodale Gianni Marchetti lo ricorda

Doppi riconoscimenti per i Muse e i Kasabian assegnati dalla giuria della celebre rivista inglese

Grandi apprezzamenti su “Buscadero” per l’ultimo album degli Animal Liberation Orchestra

con il livornese mise su un sodalizio capace di inseguire i versi infranti dell’artista grazie a delicate archietture sonore. Un’esperienza, nel trentennale della morte dell’amico, che Marchetti narra in Il mio Piero Ciampi (Coniglio, 192 pagine, 28,50 euro). Il fratello di Piero, l’avvocato Roberto, le sere a tirare tardi, la trattoria da Micci, le partite a scacchi con Carmelo Bene, il merlo di Moravia che ispirò a Ciampi l’omonima canzone: il racconto del sodalizio si intarsia di aneddoti e dialoghi gustosi, dove la musica risalta nella sua dimensione totale e vitalizzante. Un volume ben scritto, che onora la memoria di un potente artista ancor oggi misconosciuto.

glese dell’anno e quello come gruppo titolare del miglior sito web. Doppietta anche per i Kasabian, che si aggiudicano due statuette per il miglior album (West Ryder pauper lunatic asylum) e per il più bel progetto grafico. La giuria di Nme ha premiato anche gli Arctic Monkeys (migliore band dal vivo), Biffy Clyro (The captain è stato riconosciuto come miglior video) e Paramore come miglior gruppo internazionale. Palma per il miglior evento live ai Blur ad Hyde Park, migliore brano in assoluto è risultato Dominos dei Big Pink e miglior artista solista Jamie T.

sh con la fluidità dei Moe, la creatività degli String Cheese Incident con la negritudine dei Tower of Power: nelle loro canzoni c’è un microcosmo di suoni tanto ampio che è impossibile citare tutte le influenze». Paolo Carù presenta così su Buscadero il nuovo lavoro degli Animal Liberation Orchestra, quartetto californiano composto da Zach Gill, Dan Lebowitz Steve Adams e David Borgan. Una band che è lievitata lentamente fino a imporsi come una delle più interessanti band jam-pop del panorama statunitense. Melodie eleganti, arrangiamenti compositi, verve cantautoriale. Basta un solo ascolto, per accorgersi che Man of the world è diventerà un piccolo classico.

a cura di Francesco Lo Dico

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jazz

zapping

I PERICOLI DELLA CARITÀ radical chic (vedi Madonna) di Bruno Giurato anno bene i ricchi, basta che abbiano cattive intenzioni. Il ricco deve saper fare il suo mestiere: spendere molto, far lavorare più gente possibile, essere passabilmente stronzo e stare al posto suo (da qualche parte la filosofa morale Irene Brin ha scritto qualcosa del genere). Niente di peggio del ricco buono, compassionevole, che ama il popolo. Fa sempre tanti danni. Vedi caso Madonna, la diavolaccia, ha deciso di far costruire un ospedale in Malawi, luogo da un po’ al centro delle sue premure adottive. Ma l’ospedale (solo femminile) vuole farlo dove dice lei, in una piccola località fuori Lilongwe, il che rende necessario cacciare (deportare?) gli abitanti del luogo. Manifestazioni di dissenso popolare, intervento del commissario di distretto, conclusione: i residenti se ne andranno, con un indennizzo di qualche centinaio di dollari, che comunque non è poco. Ma dove andranno? In un posto peggiore senz’altro, si considerava in un bar al Pigneto, Roma Sud. Un po’ come è successo al Pigneto, appunto. Un bel quartiere povero e assolato, pieno di officine (ci stavano gli operai che nel dopoguerra rifecero la stazione Termini), che piaceva a Pasolini (qui sono state girate parecchie scene di Accattone). Ma l’interesse pasoliniano si è portato dietro l’amore dei radical chic, che a distanza di un paio di decenni l’hanno colonizzato. Registi, autori di documentari, organizzatori di «eventi culturali», performer di videoarte, marketing manager, tutti molto riflessivi, vestiti da poveri (zimarre grunge) ma col cuore dalla parte giusta. Poche officine rimaste, molti locali, prezzi demenziali. E il popolo ha cambiato zona, è finito a Tor Bella Monaca e a Lunghezza. E noialtri amiamo i cosiddetti stronzi di Roma Nord. Almeno non cacciano nessuno, loro, e non sono portatori sani della sindrome della diavolaccia.

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Il linguaggio cifrato del blues di Adriano Mazzoletti er molti anni l’unico modo per entrare nel misterioso mondo dello slang e del double talk dei neri americani era quello di consultare il Dictionary of American Slang che Harold Wenthworth e Stuart Berg Flexner pubblicarono nel 1975. Opera colossale, ma in parte ampiamente superata. Lo slang americano, così come il gergo di altri paesi, evolve più velocemente che la lingua parlata. Oggi negli Stati Uniti nessuno direbbe dirty (cioè sporco) per indicare una persona senza quattrini, espressione in uso negli anni Trenta, oppure cookie pusher (dove nel linguaggio normale cookie sta per piccola focaccia e pusher per colui che spinge o che vuole arrivare) usato che negli anni Quaranta, come sinonimo di funzionario statale. Quando nei blues appariva l’espressione backdoor man (l’uomo della porta sul retro) si parlava dell’amante di una donna sposata. Quello che fugge dalla porta sul retro quando sente il rumore della chiave infilata dal marito nella serratura della porta principale. O ancora ducky wucky (che Duke Ellington utilizzò quale titolo di una sua composizione) in uso negli anni Trenta, indicava qualsiasi cosa o chiunque fosse eccellente o bellissimo. Ma è il double talk apparso all’inizio della schiavitù, a essere ancora più misterioso. È quel linguaggio cifrato che gli schiavi inventarono per non farsi capire dai padroni. E il double talk è sempre stato utilizzato, ieri come oggi, dai cantanti di blues. L’esempio più facile è bad cioè cattivo. Nel linguaggio dei neri americani indica invece una cosa di gran pregio, una persona dalle eccellenti qualità umane o dal grande talento artistico. Tuttò ciò e altro ancora, lo si trova in Angeli perduti del Mississippi. Storie e leggende del blues (Meridiano Zero, 256 pagine, 15,00 euro) che Fabrizio Poggi, ha pubblicato recentemen-

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te. È un volume di grande interesse che non solo integra il Dictionary of American Slang, ma svela espressioni e modi di dire degli afro-americani, di difficile o impossibile comprensione per un bianco per di più europeo. In ordine alfabetico, da «Alabama» a «Zydeco», Poggi racconta la grande storia del blues attraverso le biografie di molti cantanti primitivi e moderni, ma soprattutto svela i contenuti spesso nascosti o incomprensibili, di molte espressioni. Killing Floor (da to kill, uccidere e floor, pavimento) utilizzato dal cantante Howlin’ Wolf significa «aver toccato il fondo», oppure quando Robert Johnson cantava che avrebbe bevuto del malted milk si riferiva alla birra o al whisky e non certo al latte al malto. E sempre in fatto di whisky, con moonshine (cioè luna scintillante) veniva indicato whisky di contrabbando perciò illegale, utilizzato dalle comunità nere già alla fine della Guerra di Secessione. A Mojo reso celebre da Muddy Waters con Got My Mojo Working, Poggi dedica oltre due pagine del suo volume, spiegando l’origine di questa parola che indica il più famoso talismano porta fortuna del mondo del blues. Un libro questo di Poggi, di grande interesse non solo per gli appassionati e cultori del blues, ma anche per tutti coloro che amano la musica che dal blues trae origini. Poggi scrive anche del British Blues, di Bob Dylan e dei Rolling Stones.

Introduzione in quattro serate all’arte di Tersicore di Diana Del Monte a danza è storia: storia di corpi, di bellezza e di armonia; ma la danza è anche, e soprattuto, storia di un’arte che non ha tempo, probabilmente la più antica. Gli studiosi che se ne occupano, sia dentro che fuori dalle università italiane, lo sanno molto bene e sanno anche che, se è vero che la danza è storia di corpi, di bellezza e di armonia, per capirla non basta solo raccontarla, bisogna almeno vederla; per questo, l’Accademia Nazionale di Danza ha organizzato Dancing Times. Breve storia della danza in movimento, quattro serate a tema per diffondere la cultura di quest’arte, erroneamente considerata minore, e far conoscere e apprezzare al grande pubblico alcuni momenti della sua lunghissima storia. A partire da oggi, ogni sabato di marzo l’istituto romano mette in scena uno spettacolo nel quale viene riproposto un periodo significativo della storia dell’arte tersicorea. Balli a corte e… nel cortile, Il pallido Ot-

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tocento: Giselle e le altre, Dalle brume del lago alle luci dell’Excelsior, I pionieri della modern dance, questi i titoli per viaggiare nel tempo, dal barocco alla metà del Novecento, guidati dagli allievi dell’And in veste di spiriti della danza passata. E se la danza è storia di corpi, nei corpi è nascosta la storia delle civiltà. A volte, infatti, si è portati a dimenticare che l’arte è una delle più potenti espressioni culturali di un’epoca, una parte dell’anima storica del proprio tempo; è lecito affermare, dunque, che la danza non è solo danza, ma è politica, è sociologia, è psicologia, è antropologia. Così, non solo il ballet de court, il tema dell’appuntamento di questa sera, è, fra le altre co-

sa, la fedele trasposizione della struttura sociale delle corti cinque-seicentesche, ma Luigi XIV, chiamato Re Sole per essere apparso nel ruolo del Sole all’interno del Ballet Royal de la Nuit nel 1653, utilizzava la danza come strumento di controllo sociale all’interno della sua corte. Saper danzare, allora, era importante quanto saper conversare, una dote per gli uomini tanto quanto per le donne che, in ogni gesto, mostravano il gusto di un’epoca, le regole comportamentali, gli impedimenti della moda ecc. E se Gautier venerava una Maria Taglioni, leggera sulle prime punte, sempre amabilmente sorretta da un cavaliere e stretta in quei corsetti che, utilizzati anche nella vita

quotidiana, deformavano la fisiologia del corpo femminile, all’inizio del Novecento Isadora Duncan strappò via tutti i codici estetici della ballerina, e dunque della donna, girando senza frontiere per l’Europa, la Russia e la natia America, declamando i versi di Walt Withman. Come ci mostra La danza e l’agitprop di Eugenia Casini Ropa, libro emblematico per la storiografia di quest’arte, le connessioni tra la vita e l’arte tersicorea sono da sempre molto profonde e ineludibili; ma se non vi interessa comprendere il valore sociale e rivoluzionario della danza primonovecentesca o rintracciare l’influsso delle teorie junghiane nelle prime opere di Martha Graham, specchio dell’America degli anni Quaranta e Cinquanta, o non volete sapere perché le femministe americane degli anni Settanta ritenevano offensivo il balletto romantico, non è poi così grave. Il bello dell’arte, in fondo, è anche questo: farsi trascinare dalla bellezza delle opere … e la danza è armonia, bellezza e anche molto divertimento.


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narrativa

libri

Simenon indaga l’Arizona di Pier Mario Fasanotti veniamo allo scrittore il cui nome è una garanzia: Georges Simenon. L’editore Adelphi ci ha felicemente abituati a questo appuntamento, contribuendo così all’innalzamento del tasso di lettura (drammaticamente modesto) degli italiani. Simenon a cavallo dei decenni QuarantaCinquanta visse negli Stati Uniti. Nell’ottobre 1947 diede alle stampe il romanzo di cui ci occupiamo oggi. È ambientato nell’Arizona e fa parte di quella schiera di racconti che sono appunti definiti come «americani». Niente brasseries parigine, niente strade rese lucide dalla pioggia, niente birra chiara o calvados, niente piccola borghesia con i suoi torbidi segreti. Qui siamo nella prateria, con ranch, cavalli, cappelli da cow boy, stivali, puzza di sterco, avidità di denaro, amicizie e tradimenti. È la storia amara di John Evans detto Curly John, che la mattina fa colazione con una bistecca, che all’alba cavalca con disinvoltura. È alto, massiccio, ha 68 anni, vive con la sorella Mathilda, di cinque anni più vecchia. Un uomo solo, tormentato da un dubbio: chi, 38 anni prima, mandò un sicario per ucciderlo? Certo, lui fu più svelto e freddò quel killer meticcio. Ma l’essere scampato alla morte non significa aver chiarito il doloroso quesito a proposito del suo amico e socio: è stato lui a tradire? È stato lui a rinnegare una solidissima amicizia per i soldi che sarebbero scaturiti dal ritrovamento di un filone minerario? Erano partiti insieme, ragazzi, dalle «dolci colline del Connecticut», avevano fatto i minatori, avevano cercato, all’inizio del nuovo secolo, soldi, dignità e status sociale pur in mezzo a squali e infami. E poi? Scrive Simenon, che a volte in questo romanzo indugia troppo su concetti e sensazioni: «Per trentotto anni una domanda lo aveva ossessionato, con una diversa intensità a seconda dei periodi». Ci può rovinare la vita così. Anche quella sentimentale, visto che l’amico Andy Spencer sposò la bella e ricchissima Rosita,

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mentre lui rimase scapolo e si accontentò dell’amicizia con Peggy, quella che sarebbe potuta diventare insieme moglie e cognata. Il dubbio esplode casualmente quando Curly John, a un’asta, compra un baule appartenuto a un inglese che trafficò a lungo nella pianura «circondata da ogni lato da montagne che il sole faceva passare dal blu al rosso, al rosa, a tutti i colori del prisma». E nel baule trova una consunta lettera in cui c’è l’avviso dell’agguato. Un’iniziale una A o una H oppure una R? - ma si vede poco. Allora John inizia il viaggio nella memoria, sempre più febbrile. Interroga logore figure del passato, ai tempi in cui c’erano ancora le tracce dei massacri compiuti dagli Apache disperati e dell’ondata degli emigranti europei che si mischiavano con gli indios e con i messicani. John nel contempo segue le vicende finanziarie di Andy, diventato «il Napoleone di Tucson», un uomo un po’ altezzoso, forse capace di ciniche indifferenze. Forse. Il suo impero economico, costruito a ridosso di quello del suocero, rischia di crollare per l’iniziativa di un’inchiesta parlamentare che vuole far luce sulla corruzione, sulle criminali connivenze tra politici e finanzieri (quanta dose di attualità, per un lettore italiano!). L’impalcatura, in apparenza solida, rischia di crollare. Si chiede un americano di origine russa col quale John si ubriaca per la quarta volta in tutta la sua vita: «Saranno du-

ri con lui come lui è stato per tutta la vita con gli altri?». Ma è John il solo a conoscere profondamente il compagno di classe col quale divise sogni, ambizioni e fughe. Gli ripetono: «Se cola a picco, come sostengono in giro, saranno in molti ad affondare insieme a lui…». Curly John indaga sulla sbiadita lettera ritrovata per caso. I sospettati sono tanti. Non c’è solo l’ex amico Andy. Smette di andare a cavallo, compra un’auto e assume uno sfaccendato giovanotto come chauffeur. Si reca in molti luoghi e ancora una volta verifica tra la gente l’imbarazzo di chi si è sempre schierato dalla sua parte pur non potendo accusare apertamente «l’altro». Nel suo ranch Andy è l’«innominabile», l’ombra che regolava gli umori, un misto di rabbia e malinconia. Questo per trentotto anni, davvero incredibile. John alla fine si sente quasi ridicolo: «Perché qualche volta si era accanito di proposito. Non era buono come credevano tutti. La sua grande dignità era un atteggiamento di comodo. Aveva vestito i panni della vittima che invece di mordere sorride». Un sorriso mesto, proprio di chi rinfaccia a se stesso di non aver chiarito in tempo uno dei fatti fondamentali della propria esistenza. Georges Simenon, Il ranch della giumenta perduta, Adelphi, 191 pagine, 18,00 euro

riletture

Sesso e religione: le esagerazioni di Soldati di Leone Piccioni ario Soldati (1906-1999) scrisse nel 1935 un breve romanzo intitolato La confessione e lo pubblicò, naturalmente lavorando ancora sul manoscritto, vent’anni più tardi. Riappare oggi negli Oscar Mondadori curato, con lodevole obiettività, da Stefano Ghidinelli. Nella stessa collezione poco tempo fa riapparve, anche di Soldati, Salmace, una raccolta dei primi racconti dello scrittore torinese. La confessione è la storia di un ragazzo, Clemente, che studia dai Gesuiti, che vorrebbe votarsi alla santità, pur essendo preso da costanti e snervanti scrupoli, sebbene io creda che gli scrupoli non portino alla santità. Si esamina di continuo per trovarsi puro e senza peccato. Peccati veniali! Ed ecco subito da parte sua la necessità di confessarsi per qualunque ombra che lo turbi.

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Eppure sono tentazioni spesso infantili, pretesti per ricorrere più spesso possibile al confessore. Nella vicinanza al peccato mortale si producono in lui tragedie della personalità e della psiche. Tutto questo naturalmente è determinato, secondo Soldati, (e non c’è per ora da dargli torto) dal tipo di educazione religiosa che parte proprio dal padre gesuita che lo confessa. I toni del confessore sono degni del giorno del Giudizio indicando sempre al giovane le terribili conseguenze del peccato, le tremende fiamme che lo travolgeranno nell’aldilà: questo anche di fronte a una più forte tentazione. Una orrenda colpa sarebbe quella della masturbazione. Ne deriva per il ragazzo un continuo stato di spavento. Io non so se davvero i gesuiti che Soldati conobbe e di cui fu allievo, usassero un linguaggio così terrificante, esaltato e maniacale, ma certo è che quel linguaggio riferito dallo scrit-

tore è totalmente distruttivo per la personalità del ragazzo (in ogni caso pare che in Soldati ci sia qualche esagerazione e che le cose oggi siano assai diverse anche presso i gesuiti). Comunque l’oggetto più pericoloso e colpevole è quello della donna che sarebbe perenne fonte di tentazioni, di cupidigia, di morbosità. Detto questo, La confessione è un racconto che deve allo stile personale di Soldati una grande fluidità narrativa, uno svolgimento veloce che determina un forte legame con il lettore e una grande compassione per il povero Clemente. Il ragazzo una volta a Firenze è salito in ascensore con una bella donna che ha guardato intensamente senza mai più scordarsela. E questa immagine torna di continuo a turbare il giovane. Più tardi vive vicino a un’altra bella donna, amica di famiglia, e questa in qualche modo lo lusinga e sempre più lo attrae. Avrebbe l’occasione di andare

con lei come si va per la prima volta con una donna, ma respinge la tentazione, fugge, si sente salvo, ne è fiero. Ma nelle vacanze estive al mare incontra un ragazzo con il quale entra in una confidenza totale ammirandolo anche fisicamente finché arriva con incredibile naturalezza alla masturbazione con lui. Ma questo non pare a Clemente un peccato perché non ci sono donne di mezzo e perché, dice, «tra noi ragazzi non è male». Non si confessa di questo, torna serenamente alla Comunione. La confessione piacque molto a Garboli per esempio, ma non a Vigorelli e a Pampaloni. Per Pampaloni la prova di Soldati è una delusione: «La scrittura - scrive - sempre piacevole nella sua rapidità mette tuttavia in luce più mestiere che invenzione, la materia è consueta, la situazione non scatta» e rimpiange il Soldati della Giacca verde e delle Lettere da Capri. Anche noi!


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storia

L’orrore dei gulag nascosto in un barattolo di Gabriella Mecucci inferno dei gulag ha mille sfaccettature. Il martirio lituano è fra i più terribili e, soprattutto, è sconosciuto. Questo paese ne ha veramente subite di ogni tipo. Basti pensare che sino al ’39 è sotto il potere nazista e dopo il patto Ribbentrop-Moltov, passa all’Urss. Un popolo prigioniero dei due totalitarismi, i cui stenti vengono riscoperti grazie a un libro uscito di recente. Si tratta di I lituani al Mar di Laptev. L’inferno di ghiaccio nei lager comunisti. L’autrice, Dalia Grinkeviciute, è stata in due tornate prigioniera dei lager sovietici della Siberia. Per la prima volta ci finisce a 14 anni, la sua colpa è quella di essere figlia di una fami-

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personaggi

glia di intellettuali. Il suo racconto è paragonato al Diario di Anna Frank. Fra il 1941e il 1951 furono deportati 145 mila lituani, mentre 150 mila finirono in campi di concentramento. Gli uccisi superano i 100 mila. I numeri grondano sangue: fra il ’40 e il ’52 il paese, fra decessi per stenti e condanne, perse più di mezzo milione di abitanti e quasi altrettanti furono costretti a scappare. Chi non finiva nell’universo concentrazionario, veniva massacrato di lavoro: anche i bambini di sei anni, sotto Stalin, dovevano produrre. Con poco pane e meno soldi schiattavano di fatica nei cantieri, nelle miniere, nelle steppe siberiane. Dalia, in questo libro, racconta la prima permanenza nel gulag, la fuga e poi di nuovo la seconda de-

tenzione, il lavoro da medico, la fine. Nessuno in Lituania squarcia il muro del silenzio. Persino, negli anni Settanta, quando altrove si manifesta il dissenso, qui non accade nulla. L’unica estrema testimonianza viene dal rogo di Vilnius del 1972, dove si brucia Romas Kalanta, lo Jan Palach lituano. Dalia compila un diario di dolore che è «un documento - come scrive nell’appassionata prefazione Francobaldo Chiocci - solo incidentalmente letterario, seppure di gran livello narrativo, con la immediatezza di un linguaggio asciutto e incalzante che costringe a proseguire la lettura anche quando l’essenziale, estrema crudezza realistica del racconto spingerebbe ad interromperla». L’estrema drammaticità del contenuto ci trascina

al centro di una tragedia, il cui racconto è arrivato a noi - almeno per quanto riguarda la prima parte nascosto in un barattolo. La sua autrice - una volta uscita miracolosamente viva dal gulag - continuerà a opporsi al totalitarismo fra l’indifferenza e il silenzio. Farà il medico e salverà centinaia di bambini. La sua voce si alzerà ancora una volta per dire no alle persecuzioni della segreteria politica del kolchoz, la quale imponeva a medici e infermieri di abbandonare le cure di piccoli ammalati per andare a mungere le vacche. In nome dell’uguaglianza, ovviamente. Dalia Grinkeviciute, I lituani al Mar di Laptev. L’inferno di ghiaccio nei lager comunisti, i libri de «il Borghese», 222 pagine, 15,00 euro

Gian Carlo Fusco e Mazzini senza follia di Nicola Fano ian Carlo Fusco era un uomo distratto vissuto in odore d’eresia e morto in povertà. E poiché campava di parole, scriveva assai cercando di guadagnarsi la vita (e alcuni casti piaceri, e molta inebriante grappa): ma la sua immagine pubblica ritenuta un po’ troppo sciatta lo mantenne ai margini dell’editoria e del giornalismo. Malgrado fosse un grande. E se avete letto Duri a Marsiglia o Le rose del ventennio, sapete di che cosa si sta parlando. Il fatto è che da una decina d’anni - sulla spinta della casa editrice Sellerio si è provveduto al recupero di Fusco in grande stile. Non contano più le sue magliette a righe sudice; non contano

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filosofia

le sue solidali frequentazioni con tutte le povere puttante d’Italia (del resto il meretricio d’alto bordo è diventato un gradito attributo di potere); non conta il fatto che per tirar su qualche lira si fosse ridotto a scrivere per chiunque: l’editoria italiana ha riscoperto la sua irregolarità e ne riconosce la sua genialità. Pubblicando qualsiasi cosa. Perché in genere in qualsiasi cosa si trova un appiglio interessante. Come nei due articoli del 1959 e del 1960 che Mursia ristampa in un libriccino intitolato La Carboneria e altre storie occulte. La data dice molto: si tratta di due scritti ispirati al centenario della Seconda guerra d’Indipendenza (una delle più ridicole e controverse della nostra disgraziata storia) e dell’Unità d’Italia. Viene bene ristam-

parli oggi che siamo passati dal centenario al centocinquantenario. Ma in tutta onestà (detto da un appassionato sia di Fusco sia di Unità d’Italia) si tratta di due scritti che poco aggiungono. Perché la scrittura fluida e didascalica di Fusco non mostra i guizzi che i suoi esegeti gli riconoscono. Né ci si imbatte in piccole perle di ironia o follia, tipiche del Fusco migliore. Le contraddizioni della Carboneria e della Massoneria (affrontate nel primo dei due articoli centrato su Mazzini) emergono solo con molta linearità; come pure Fusco non si infila nel ridicolo della guerra che consacrò Vittorio Emanuele II. Peccato: sono due articoli «ufficiali», insomma: ufficialmente celebrativi. Che però non mancheranno di reclamare l’attenzione dei fedelissimi di Fusco. Come se fossero un piccolo oggetto del desiderio per un collezionista. Gian Carlo Fusco, La Carboneria e le altre società occulte, Mursia, 96 pagine, 10,00 euro

La vita autentica e i due tipi di libertà di Giancristiano Desiderio ito Mancuso è l’autore di un libro molto fortunato, discusso, apprezzato, criticato: L’anima e il suo destino. Un libro del 2007 che ha fatto conoscere al largo pubblico - al larghissimo pubblico visto che il libro è diventato un bestseller nientemeno che un teologo che fino ad allora se n’era stato, come dire, per i fatti suoi. In quel testo si parla addirittura dell’anima ossia di un’idea o di un concetto che, in verità, non si sa bene se esista o se indichi qualcosa di effettivamente presente. Insomma, un libro, insieme, di filosofia, teologia, religione che, al di là della fede personale dell’autore (ma anche del

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lettore), riguarda il cuore della nostra civiltà occidentale o, meglio, europea: perché, che cosa siamo noi, e che cos’è l’Europa - almeno la sua cultura - se non la socratica «cura dell’anima»? Vito Mancuso è ora ritornato sui suoi passi e ha ripreso tra le mani l’anima. Ha scritto un altro libro che, sia pure con toni diversi e in dimensioni molto ridotte, affronta lo stesso tema. Il libro s’intitola La vita autentica. La domanda da cui parte Mancuso è una domanda platonica: che cosa fa di un uomo un uomo? La risposta di Mancuso è netta: la libertà. Qui, però, inizia il vero libro. Sì, perché la «vera libertà» per il teologo è la libertà interiore, cioè quel particolare tipo di libertà

che ci libera dagli errori, dai vizi, dalle falsità, dalle illusioni, perfino dal peccato. La libertà interiore è la libertà filosofica o morale ossia quella libertà in cui l’uomo vero - il vero io - trionfa sull’uomo falso. Dove sono l’uomo vero e l’uomo falso? In ognuno di noi, e ognuno di noi deve imparare come far vincere, secondo verità, l’uomo vero. Così si avrà la vita autentica. La libertà interiore non è la libertà esteriore. Se la prima è in definitiva la conoscenza della verità, la seconda è invece la libertà dagli impedimenti. La prima è la libertà filosofica, la seconda la libertà civile. Non è detto che queste due libertà vadano sempre d’amore e d’accordo. Anzi, il più

delle volte possono entrare in conflitto. Ciò che le divide, infatti, è nientemeno che il concetto di verità: un concetto che è essenziale per la prima libertà, mentre è secondario per la seconda. Eppure, per vivere una «vita autentica» o pienamente umana abbiamo bisogno di entrambe le libertà: quella filosofica e quella politica, quella interiore e quella esteriore. Come metterle d’accordo? Rinunciando a sovrapporre come indica Mancuso - verità e potere. Se uniamo verità e potere creiamo l’inferno, come ci racconta la storia del Novecento. Vito Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 171 pagine, 13,50 euro

altre letture Le rappresentazioni più comuni del contesto internazionale attuale insistono sul restringimento del mondo prodotto dalla crescita delle relazioni economiche e finanziarie e dallo sviluppo delle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni. Ma quasi sempre esse trascurano il fatto che il passaggio al Ventunesimo secolo ha seguito un andamento opposto sul terreno strategico, diplomatico e ideologico. Su questo terreno sostiene Alessandro Colombo in La disunità del mondo (Feltrinelli, 363 pagine, 30,00 euro) - il vero secolo globale è stato il Novecento: il secolo delle due guerre mondiali, della guerra fredda, della deocolonizzazione, dello scontro tra due ideologie di portata universale quale la democrazia liberale e il comunismo. Mentre con la chiusura di queste vicende l’eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il passo a un sistema internazionale dove le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell’economia e dell’informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Perché mangiamo gli animali? Jonathan Safran Foer in Se niente importa (Guanda, 363 pagine, 18,00 euro) si è posto questa domanda per la prima volta a nove anni, di fronte alla sua baby sitter che non mangiava pollo. Quando il piccolo Jonathan le domandò il motivo, lei rispose che non voleva far del male a nessuno. Ma quando Foer diventa a sua volta padre si rende conto di non essere in grado di spiegare a suo figlio come è possibile amare gli animali nei libricini che leggono insieme e allo stesso tempo mangiare nella vita reale quelle stesse creature. Insomma Foer racconta in questo libro gli orrori quotidiani dell’allevamento intensivo e lancia un appello - che fa riflettere per un vegetarianesimo di tipo etico. Il primo Il primo conflito mondiale che vide la contrapposizione tra le forze dell’intesa e quelle degli Imperi centrali scoppiò tra la fine di luglio e i primi d’agosto del 1914 e provocò, non solo in Europa, una lunga serie di profondi mutamenti sul piano politico, sociale e territoriale. Le vicende belliche, descritte in Storia della grande guerra sul fronte italiano di Gianni Pieropan, (Mursia, 868 pagine, 25,00 euro) danno una ricostruzione precisa e imparziale che mira anche a far giustizia sia dei trionfalismi sia delle denigrazioni riguardanti i vertici governativi e militari dell’epoca. a cura di Riccardo Paradisi


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anniversari

Il genio incompreso di Chopin PIÙ DI OGNI ALTRO HA SUBITO ETICHETTATURE: MALINCONICO E MORBOSO, INCAPACE NELLA COMPOSIZIONE DI GRANDI FORME… ERA IL NUOVO CHE STAVA NASCENDO, E POCHI LO CAPIVANO. LIBERÒ LA MUSICA DAGLI ARCAISMI, RIVOLUZIONÒ IL TIMBRO, APRÌ LE PORTE ALL’IMPROVVISAZIONE. MA A DUECENTO ANNI DALLA NASCITA ANCORA SI STENTA A RICONOSCERE L’IMMENSITÀ DELLA SUA ARTE

di Pietro Gallina a prima contraddizione della luminosa cometa Chopin comincia già con la sua venuta al mondo, infatti la sua data di nascita riportata nel documento ufficiale della parrocchia di S. Rocco a Brochów (Zelazowa Wola) risulta essere il 22 febbraio 1810, ma egli stesso e la famiglia decisero di festeggiare il suo compleanno il primo di marzo. L’altra è legata alla sua nazione: la Polonia e la Francia. Per due motivi principali: il padre era francese e la madre polacca; inoltre la quantità di anni vissuti in Polonia ammonta a venti, mentre quelli vissuti in Francia, dal 1830 alla morte, avvenuta nel 1849 a Parigi, sono diciannove: tempo di vita diviso in due parti quasi uguali. Il suo corpo poi, altra divisione, spezzato in due: le sue spoglie mortali riposano al Père Lachaise; il cuore per sua volontà murato in un pilastro della Chiesa di Santa Croce a Varsavia dove si trova ancora oggi.

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Per dissolvere questi primi contrasti, Gide ravvisa nell’opera di Chopin una derivazione e un’ispirazione polacca, ma pure un carattere, un modo francese dovuto per forza di cose alla frequentazione costante della cultura francese che sicuramente lo spinsero «... ad accen-

spirito e aristocratica allegria, sfrenatezza e splendore dell’anima». Anche Gide era d’accordo: «Al di là di tale tristezza, egli raggiunge ugualmente la gioia... una felicità che eguaglia quella di Mozart». E allora musica triste e lamentosa o felice e gioiosa? Ancora oggi i contrasti non sono risolti, anche se, come abbiamo visto, si può controbattere coloro che accusano la sua musica di morboso e triste languore con il termine di Bellezza. Debussy infatti pensa che «la musica di Chopin è una delle più belle che si siano scritte. Per la natura del suo genio rifugge dalle classificazioni». Più d’ogni altro, invece, Chopin ha sofferto delle classificazioni e delle etichettature, sempre collocato sul seggio degli imputati a rispondere dei suoi crimini estetici. Era considerato da ammiratori e critici il rappresentante più particolare del Romanticismo musicale del primo Ottocento, perché in lui sembrano fondersi elementi classici e romantici. Stranamente un Romaticismo e un Classicismo che non seguivano la Scuola di Vienna e i romantici tedeschi, portatori delle nuove verità in musica. Mendelssohn, Schumann con Berlioz e Liszt di area filogermanica, Chopin li conosceva benissimo ma non li apprezzava più di tanto. Egli si nutrì piuttosto, per tut-

Amava Bach e la lirica italiana. I salotti dove si esibiva erano un richiamo per tutti: belle donne, nobili e borghesi, musicisti e artisti. Dandy suo malgrado, fu un mito del suo tempo, paragonabile a una pop star dei nostri giorni tuare le qualità più antigermaniche del genio slavo», a tal punto che Gide, a Wagner non avrebbe opposto Bizet, come affermò Nietzsche, ma proprio Chopin! Un altro aspetto conflittuale, a seconda delle infinite voci che si sono scatenate per quasi due secoli pro o contro, è quello dell’eccessivo sentimentalismo, della malinconia, della tristezza morbosa che porta ai più desolati singhiozzi, senza che egli sia mai stato capace di uscire (menzogna) dal modo minore. Nella sua musica apparentemente triste Nietzsche invece ravvisava gioia e bellezza: «Apprezzavo che egli avesse liberato la musica dalle influenze tedesche, dall’inclinazione verso ciò che è brutto, fosco, piccolo-borghese, goffo, borioso: bellezza e nobiltà dello

ta la vita, di due elementi decisivi: un’assimilazione quasi maniacale della musica di Bach, soprattutto attraverso il Clavicembalo ben temperato, e la conoscenza (e frequenza) dell’opera lirica e del canto melodico italiano con tutto il corredo dei cantanti: dalla Pasta, alla Malibran, a Rubini e Lablache, tanto in voga nella Parigi del suo tempo. Fermo restando Mozart come adorato caposaldo classico, probabilmente la mancanza di interesse e di contatto continuo con le grandi forme affrontate da Beethoven, Schubert e dai suoi contemporanei Mendelssohn, Schumann, Berlioz e Liszt, non gli permise di gareggiare sugli stessi campi, né di essere capito quando scrive una composizione col nome clas-

sico di Sonata come quella in si bemolle minore op. 35. Schumann, che pure sosteneva e amava la musica di Chopin (i due si incontrarono), non digerì tale Sonata: scrisse che il tempo di Marcia Funebre era repellente e che il Finale consisteva di un’unica melodia di terzine in prestissimo, raddoppiate all’ottava senza quasi armonizzazioni e in quasi totale assenza di dinamica. Inaudito! Ma era il nuovo che stava nascendo o pochi lo capivano. Schumann era tra quelli che proprio non lo capì: «È più una beffa... da questo brano senza melodia e senza gioia soffia su di noi uno spirito strano e orribile che annienterebbe con un pesantissimo pugno qualunque cosa volesse opporsi a lui, cosicché noi ascoltiamo come incantati e senza protestare fino alla fine, però anche senza lodare: perché questa non è musica». Secondo Schumann, era il limite tecnico a non permettergli di affrontare le forme classiche come la parte dello sviluppo di una forma-sonata. Altri hanno parlato di inettitudine a tradurre la propria geniale fantasia in termini di ampia costruttività e forza musicale accettabili.

Glenn Gould si manteneva su un’ambiguità piuttosto ironica e pur rifiutando di eseguirlo in concerto affermava: «Trovo che Chopin fosse un uomo prodigiosamente dotato ma non credo sia stato un grande compositore. Come miniaturista è superbo e per creare un’atmosfera non ha eguali. Il suo modo di capire il pianoforte non ha precedenti e nessuno ha raggiunto i suoi livelli dopo di lui... Fallisce quasi sempre là dove tenta di comporre secondo grandi forme…». In conclusione, ancora oggi è luogo comune sostenere che Chopin era incapace di affrontare le forme classiche. Ma si può anche affermare che egli fu l’unico musicista della sua generazione a trovarsi sempre a suo agio alle prese con le grandi forme: in definitiva le sue Ballate e gli Scherzi hanno tutti una durata pari o superiore alla media di un movimento di Beethoven (le cui Sonate fino all’op. 57 faceva studiare ai suoi allievi) o di altre opere analoghe scritte tra il 1830 e il 1850, come osserva Charles Rosen. Il suo successo in vita, quasi un mito del suo tempo, è paragonabile, fatte le dovute proporzioni, a quello di una star della musica pop dei nostri giorni.Tutto ciò che faceva o indossava Chopin era da imitare e le donne impazzivano per lui, tanto che divenne un dandy suo malgrado, ma fu anche patriota, artista, profugo scampato alla repressione zarista della sua amata Polonia. Nel 1834


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Da sinistra, Chopin e George Sand ritratti da Delacroix; il pianoforte del musicista e uno spartito autografo; una sua foto e la tomba al Père Lachaise dove giacciono le sue spoglie mortali mentre il suo cuore è murato in un pilastro della chiesa di Santa Croce a Varsavia

Irruppe nel moderno a braccetto di Baudelaire. Fu Gide che mise i due nomi insieme. «Musica malsana si diceva delle opere di Chopin. Poesia malsana si diceva dei “Fleurs du mal”. L’uno e l’altro hanno lo stesso modo di usare la sorpresa»

I suoi Valzer? Antiviennesi n’edizione della Decca dei Valzer di Chopin, interpretati dal pianista Pietro De Maria, è sicuramente da segnalare senza esitazioni per un ascolto di grande qualità esecutiva. Con la stessa Decca, in occasione della celebrazione del bicentenario di Chopin, il pianista completerà in breve l’incisione dell’opera completa del Polacco. I Valzer sono pezzi d’arte nati per mano dell’incontenibile e puro Chopin, creati per essere ascoltati in concerto, perle musicali per orecchie raffinate di aristocratici e borghesi nei salotti di Parigi e non per essere ballati. Dunque molto differenti dai valzer viennesi che erano scritti per divertire e scatenare alla danza l’intera Vienna. Chopin non aveva nulla a che fare con tali balli popolari, anzi se ne distacca con fare snob affermando: «Non ho niente in me di quello che ci vuole per comporre un valzer viennese» e subito scriveva sprezzante alla famiglia da Vienna che «Lanner e Strauss oscurano ogni altra cosa». Chopin pare prevedere quell’autoerosione dell’impero asburgico che più tardi Weininger definirà così: «Il fatalismo, cioè la rinuncia dell’uomo di porsi in “libertà” finalità proprie, trova il suo simbolo nel valzer viennese». È vero, come

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alcuni hanno affermato, che i Valzer sono pagine minori di Chopin? Certamente no, perché sono opere piene di slancio poetico, forza spontanea, perfette nella loro forma, e secondo quanto ci riferisce Schumann «hanno altre qualità di quelle dei valzer ordinari». Tutti possiedono un proprio carattere in genere brillante spesso unito a un profondo lirismo. I Valzer sono insieme ai Notturni le composizione che hanno contribuito maggiormente alla notorietà di Chopin. Se i Notturni sono fratelli che si mostrano più introversi e sognanti, i Valzer invece, secondo Belotti, rivelano uno Chopin «uomo di mondo, raffinato, galante, spiritoso, compito, elegante». In tutto di Valzer di Chopin se ne contano ufficialmente 19, ma ve ne sono altri ritrovati dopo la morte dell’autore (di cui l’ultimo nel 1955 in la minore) meno conosciuti e di autenticità discussa che non figurano nel cd proposto dalla Decca. L’esecutore De Maria è un pianista di razza e ormai punto di riferimento del pianismo italiano nel mondo; diplomatosi al Conseratorio di Venezia con Gino Gorini e perfezionatosi a Ginevra con Maria Tipo, ha vinto vari premi e concorsi internazionali; dal Primo Premio del Virtuosismo, al Premio della Giuria al

\u010Cajkovskij del 1990 a Mosca, al 1° Premio Dino Ciani di Milano e al Geza Anda di Zurigo e altri ancora. Ogni buona esecuzione deve essere almeno una spiegazione dei brani, sperando che il pianista non voglia ricercare effetti o accelerare i tempi per mostrare di quanto virtuosismo sia capace. «L’effetto si ottiene in genere a spese del testo» sentenzia Gide nelle sue Notes. Per evitarlo, in questa sua interpretazione dei Valzer De Maria sembra prendere spunto dal motto proposto dallo stesso Chopin: «La cosa suprema è la semplicità». E su tale linea i Valzer da lui eseguiti risplendono di chiarezza sovrana, di gioiosa solarità e di lucida cantabilità: una interpretazione infine che ci riconsegna qualcosa della loro autenticità perduta nelle mille diatribe interpretative dei pianisti, spesso inutili o esagerate e cervellotiche, che confondono invece di chiarire. (p.g.)

Antoni Orlowski testimonia: «Chopin fa girar la testa a tutte le dame e fa ingelosire i gentiluomini. È moda e presto gli elegantoni porteranno i guanti alla Chopin». Anche Mendelssohn, da grande pianista qual’era, riconobbe, ascoltandolo, la grandezza di Chopin al piano (il più grande del suo tempo), ma non fece a meno di osservare anche i suoi modi: «Io ho sempre l’aria di un maestro. Loro invece somigliano ai damerini e agli elegantoni» (era accompagnato dall’amico Ferdinand Hiller). Ben presto in tutta Europa il nome di Chopin divenne famoso. Nei salotti dove si esibiva senza sopportare troppo le folle, fu un richiamo per tutti, non solo per dame e cavalieri borghesi e nobili, ma per i musicisti e gli artisti che allora facevano di Parigi la grande capitale della cultura europea. Si incontravano stupefatti dopo le esecuzioni del suo recital, nomi del calibro di Liszt, Berlioz, Balzac, Sue, Mickiewicz, Heine, Meyerbeer, Delacroix che diventarono suoi amici. George Sand, che incontrò in uno di questi salotti, diventò la sua compagna in una contrastata quanto celebre storia d’amore che durò quasi una decina d’anni, fino a poco prima della morte. In tutta la sua breve e febbrile vita, tra un dolore e l’altro, una delusione d’amore e l’altra, gli unici momenti davvero magici per Chopin furono quelli del comporre. Racconta George Sand che usciva dalla sua stanza dove si chiudeva, ogni volta più consumato e sfinito, ma felice.

Nato e vissuto in America esattamente nei suoi stessi anni, Edgar Allan Poe scriveva nel suo Oval Portrait di strane figure consumate dall’arte. Un parallelo tra i due è suggerito dall’amore di Baudelaire per Poe di cui apprezzava la grande immaginazione e le tante corrispondenze nella foreste dei simboli e del mistero. Fu Gide che per primo mise i due nomi insieme: Baudelaire e Chopin. «Musica malsana si diceva delle opere di Chopin. Poesia malsana si diceva dei Fleurs du mal e credo per gli stessi motivi. L’uno e l’altro hanno la smania della perfezione, lo stesso orrore della retorica e dello sviluppo oratorio... lo stesso modo di usare la sorpresa e le straordinarie sintesi che la producono». Roberto Calasso ha scritto che «si riconoscono innanzitutto per il timbro che può sopraggiungere a folate da un pianoforte celato dietro persiane socchiuse». Chopin infine libera la musica dagli arcaismi, nutre le sue sofferenze trasformandole in inaudite composizioni di una poesia penetrante e profonda, dà vita all’immaginazione, cara a Baudelaire, al lampo dell’improvvisazione, rivoluziona il timbro, e con il rubato, il tempo ritmico tradizionale ritrova un nuovo splendore. Apre le porte all’Impressionismo musicale e con le sue improvvisazioni e Improvvisi, perfino al jazz! Irrompe nel moderno a braccetto con Baudelaire. In questo bicentenario vogliamo rendergli omaggio e ringraziarlo per quanto ha donato a noi esseri umani che stentiamo ancora a comprendere l’immensità della sua arte.


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tv

Lo stile (sic) di Costanzo e quello di Augias

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a forma classica dell’intrattenimento televisivo ha come perno il talk-show. Un mattatore non basta più. Ce la poteva fare Gassman. Forse anche Proietti, sia pure con un repertorio che alla fine risultava ripetitivo. La fortuna della conversazione sul piccolo schermo dipende per l’ottanta per cento dal conduttore: è lui che decide chi invitare, è lui che regola il gioco dialettico, è lui che pone in essere l’andamento stilistico. Ora le varie reti hanno inaugurato, almeno con personaggi di calibro, brevi spazi pomeridiani (quelli serali sono appannaggio di temi politici o di cronaca e costume, come Anno Zero, Matrix, Ballarò, Tetris eccetera) interessanti e anche nuovi. Sarà perché evitano lungaggini. È vero che oggi vanno di moda le «strisce» o le «pillole», e questo in conformità all’imperativo di non annoiare, rischio che corre sera dopo sera Barbareschisciock per colpa, principalmente, della non-forza di un pur bravissimo attore (oggi parlamentare). Si è tanto strombazzato il ritorno alla Rai di Maurizio Costanzo, il cui show su Canale 5 mostrava spietatamente tutti i suoi anni, con una formula che s’era trasformata, anzi deformata, in un circo di curiosità forzate o addirittura circensi. Ora Costanzo occupa pochi minuti, alle 14,10 su Rai 1 con Bontà sua, remake in forma di tabloid dell’ormai famoso Bontà loro, marchio di esordio e di successo passato. È un Costanzo aggrappato mani e piedi allo schermo, alla sua presenza-dipendenza. Ammicca

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games

video

con temi popolari e si confronta con l’esperto di turno con un atteggiamento tipico dell’uomo che ha visto e vissuto tutto, quindi con il rischio di motteggiare come profeta del piccolo salotto, indicando al pubblico precetti e perle di saggezza. L’ospite diventa un suo supporto, la sua stampella ideologico-populistica. Non è stato casuale invitare il sessuologo Emanuele Jannini, docente all’Aquila, figura nota in varie trasmissioni, pure a Porta a Porta oltre che al vecchio Maurizio Costanzo Show. Così l’uomo coi baffi e la camicia aperta si è dimostrato visibilmente (anche troppo) soddisfatto quando Jannini ha enunciato i vantaggi del sesso praticato dagli anziani: benefici al sistema cardiovascolare, medicina per eccellenza contro la depressione, stimolazione ormonale quindi recupero di gioventù. Costanzo applaudeva con gli occhi. È stato tirato in ballo anche Freud quando sosteneva che «non si costruisce il giorno se non si costruisce la notte». Soddisfatto anzi euforico nella sua maschera sorniona quando Jannini ha confermato che il famoso «aiutino» chimico non è un prodotto satanico, anzi. Ma precisando che questo non funziona se non c’è il desiderio. E il desiderio parte dal cervello. Aria beata di Costanzo quando l’esperto ha emesso questa sentenza, assai consolatoria per i non più giovani: «Il desiderio non invecchia mai». Stile diverso, e molto diverso, quello di Corrado Augias che su Rai 3 conduce Le storie, con sottotilo «Diario italiano». Augias è uomo notevolmente colto, sa di esserlo e gli piace che altri non lo scordino mai. Con gli anni ha limato di molto la sua tendenza alla garbata arroganza di maestro che si esibisce dinanzi a una «scolaresca», talvolta con asprezze facciali e verbali contenute in una cornice anglosassone, che è poi la sua ambizione-passione. Augias ha invitato Piero Rattalino, uno dei più grandi esperti di Chopin (nel duecentesimo della sua nascita) e autore di un bellissimo saggio pubblicato da Laterza (Chopin racconta Chopin). Tema più alto rispetto alla sessualità da propagandare a tutti. Ma in quella fascia oraria la gente può scegliere. Non è poco. (p.m.f.)

dvd

QUELLO CHE CONTA È IL PENSIERO

SULLA PELLE DI BOUBACAR BAH

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hi non ha pane ma compera fiori è un poeta», dice un proverbio turco. E in vista della festa delle donne, il classico omaggio floreale di questi tempi può diventare un salasso. Se desiderate lusingare una donna di quelle per cui il pensiero è quello che conta, flowers2mail è il servizio che fa al caso vostro. Istantaneo e gratuito, il fioraio digitale confeziona in men che

L’

iniziativa può destare perplessità. È possibile conciliare la vertigine ludica con una lacerante attualità? L’associazione umanitaria Homeland Guantanamos, impegnata sul fronte dei diritti umani dei migranti, ha deciso di sensibilizzare i più giovani con un gioco in flash di significativo valore didattico. Al centro della drammatica avventura Boubacar Bah, cittadino della Guinea di 52 anni

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È nato “flowers2mail”, il fioraio digitale pronto a inviare omaggi gratuitamente: bouquet a scelta

I misteri sulla morte del cittadino della Guinea in un carcere americano diventano un videogioco

L’autobiografico “Tarnation” osannato a Cannes, primo film post-prodotto su I-Movie di Apple

non si dica simpatici bouquet di cui potrete scegliere la composizione. La scelta è ampia e svaria dalle rose rosse alle margherite, e naturalmente il tutto può essere accompagnato con un biglietto personalizzato, tanto per non fare confusione sul mittente. È possibile inoltre inviare il presente in una data stabilita, mentre l’avvenuto ricevimento viene notificato al galante di turno insieme a qualche parola di commento che la gentildonna vorrà stilare. Divertente e colorato, flowers 2mail ha anche il non indifferente vantaggio di consegnare fiori che non periscono, e che non sono mai stati strappati. La liturgia degli affetti al tempo dell’ambientalismo.

morto in carcere il 30 maggio 2007, mentre si trovava all’Elizabeth Detention Center, in New Jersey. Una storia vera, piena di omissis e di misteri che dovranno essere svelati dal giocatore, che vestirà i panni di un reporter. La detection sviluppata dalla Free Range Studios, abbonda di particolari e informazioni capaci di coinvolgere ragazzi e adulti grazie a un ritmo serrato dominato dalla suspence. Una volta tanto, un gioco di ruolo sfrutta l’enorme potenziale dell’identificazione spettatoriale, per tuffare la mente in una realtà più torbida e fantasiosa di qualunque spericolata peripezia grafica.

Ho imparato tutto da solo, di notte, a utilizzare il programma. Di giorno lavoravo come portiere di un gioielliere della 5a Strada. Mi sono dovuto licenziare per terminare il film. Spero che mi riassumano, hanno una buona mutua». Jonathan Caouette presenta così gli ottantotto minuti del suo Tarnation, lavoro autobiografico che raccoglie frammenti ed elementi chiave messi insieme dal regista in circa vent’anni. Al centro della vicenda il rapporto con la madre Renée, sottoposta sin da giovane a massicci elettroshock per via di alcuni disordini psichici. Jonathan documenta con possente realismo la vita stessa nella sua irripetibile buffezza. Osannato (a ragione) a Cannes.

a cura di Francesco Lo Dico

JONATHAN CAOUETTE SI RACCONTA ilmare per me non è mai stato solo un divertimento. Era un meccanismo di difesa, una questione di vita o di morte. Avevo bisogno di difendermi dall’ambiente che mi circondava e di dissociarmi dagli orrori che vivevo. Il cinema mi ha salvato. Credo che Tarnation sia il primo lungometraggio completamente post-prodotto su I-Movie di Apple (montaggio, effetti, suono e missaggio).


cinema di Anselma Dell’Olio l film della settimana è Crazy Heart, dell’esordiente Scott Cooper, con Jeff Bridges nel ruolo della vita. Chiunque vinca l’Oscar come miglior attore, se non è Bridges sarà un altro grave errore tra i tanti commessi dagli Academy Awards.Tratto dal romanzo di Thomas Cobb su una star decaduta della musica country, Bad Blake, Crazy è una storia semplice, ben raccontata. Blake ha cinquantasette anni, quattro divorzi, molti album di successo, fiumi d’alcol e una carriera stellare dietro le spalle. Ora riesce a strappare ingaggi d’una o due serate, spesso in locali di terz’ordine; gli capita pure di esibirsi in un bowling, il fondo del barile persino per uno stupendo rottame come lui. Cooper, sceneggiatore e regista, ha il buon senso di lasciare molto spazio agli attori, di incastonarli in ambienti verosimili (sembra di sentire l’odore di whiskey, fumo e disinfettante dei locali infimi) e di non infliggere loro inutili virtuosismi con la macchina da presa. Bridges è il cuore e l’anima del film, circondato da comprimari di classe. Robert Duvall (un appassionato di musica country che ha co-prodotto il film) è un barista amico di Blake. Maggie Gyllenhaal è Jean, madre single e aspirante giornalista, e Colin Farrell, in un ruolo non accreditato, è una rivelazione (bravo come nel grandissimo In Bruges, dove l’abbiamo scoperto attore vero dopo il kitsch di Alexander) come Tommy Sweet, un tempo pupillo di Blake e ora acclamato artista in cima alle classifiche. (Farrell e Bridges sono cantanti più che competenti e fanno un duetto stupendo; le musiche originali sono di T-Bone Burnett e Stephen Bruton.) Il racconto è fatto dei classici stilemi della country music: denaro bruciato, occasioni mancate, rapporti distrutti, abbandoni, tradimenti, dissolutezza. Sono il tocco del regista e le interpretazioni di livello a fare la differenza; una frase marpione assai country diventa una dichiarazione consapevole e straziante. Jean sta intervistando Blake nel miserrimo motel dove l’ex leggenda alloggia, e gli chiede con garbo del travagliato rapporto con Sweet, l’ex protegé che lo ha surclassato. Blake non vuole parlarne, ma lei gli piace e non vuole offenderla: «Vorrei parlare di quanto sfigura questa stanza in tua presenza». Nel film non succede moltissimo, ma il suo pregio è farci conoscere a fondo due persone diffidenti e sole, ancora innamorate della vita ma con passati da seppellire e nessuna voglia di sbagliare ancora. Da non perdere.

I

Shutter Island, l’ultima opera di Martin Scorsese, era attesa con qualche trepidazione. Non è buon segno quando l’uscita di un film è rimandata di cinque mesi, e che venga escluso dalla competizione per gli Oscar. È un thriller-noir psicologico, tratto dal romanzo di Denis Lehane (Mystic River). Terry Daniels, un agente federale vedovo, è mandato in un carcere per criminali psicotici a indagare sulla sparizione inspiegabile di una pluriassassina pericolosa. Le prime scene sono splendide; ci si accomoda in poltrona, felici di fremere di paura per due ore e mezzo. Per un’oretta funziona, poi ci si spazientisce per le troppe piste, vere e false, messe in campo: madri omicide, piromania, criminali di guerra putativi, campi di concentramento nazisti, orripilanti esperimenti medici, uragani potenti che impediscono la fuga, piogge battenti,

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Alice non meraviglia

ma Jeff Bridges sì

Protagonista di “Crazy Heart” nei panni di una star country decaduta, l’attore merita l’Oscar a cui è candidato. Delude invece il capolavoro di Lewis Carroll nella versione di Tim Burton e anche il film di Martin Scorsese non è all’altezza delle aspettative conversazioni rebus, persone sparite nel nulla, altre nascoste nelle grotte, complotti nefandi, cibo, acqua e sigarette drogate. Il plot è barocco, le atmosfere stragotiche. Un campanello d’allarme squilla da subito: la colonna sonora eccessivamente impostata per infondere terrore e angoscia, segno d’insicurezza. Mark Ruffalo è sprecato come Chuck, l’agente che accompagna Terry (che chiama sempre «capo», poi si scoprirà perché). Sarebbe stato più interessante vedere Ruffalo nel ruolo del protagonista; è un attore molto dotato che Hollywood apprezza ma non sa utilizzare al meglio. (N.B. Per le femmine e i maschi che lo amano: noleggiate In the Cut di Jane Campion. Il film non è un capolavoro, ma vale per le seguenti

ragioni, in ordine inverso alla loro slurpaggine: la superba Jennifer Jason Leigh come la sorella di Meg Ryan; Ruffalo in una delle scene di sesso meglio girate e follemente sensuali mai viste, grazie alla Campion e al carismatico Mark in un ruolo troppo maturo per lui all’epoca, e che il sorprendente attore è riuscito a padroneggiare da neo-Marlon Brando qual è, se solo gliene danno l’opportunità.)

Si sperava d’amare Alice nel Paese delle Meraviglie del «visionario» Tim Burton. Il 3D è ben usato, più o meno, Mia Wasniakowska (la piccola ginnasta della prima serie di In Treatment, un’attrice fatta e finita già da adolescente) è un’Alice ideale, Helena Bonham Carter è un

mostro di perfidia come Regina dei Cuori, Johnny Depp… beh, di Depp non si discute, e persino l’inquietante Regina Bianca di Anne Hathaway alla fine convince, malgrado i boccoli biondi e l’eccesso di fondotinta bianco che «staccano troppo», come direbbe la mamma, con le celebri sopraciglia-ali nerissime e la sciocca sparizione del fantastico lamento «Perché è sempre marmellata ieri, marmellata domani, e mai marmellata oggi?». A mezz’ora dall’inizio, però, le palpabre pesano: era sera, forse c’era un residuo di jet lag in agguato. Le voci italiane erano passabili (anche se parecchio fuori sincrono nelle scene iniziali), in particolare quella di Alice, ma niente a che vedere con le superbe, calzanti voci originali: Alan Rickman (il Brucaliffo fumatore di hashish), Stephen Fry (Stregatto), Michael Sheen (il Bianconiglio) per nominare solo le più divine. La delusione potrebbe dipendere dal doppiaggio italiano, ma forse è la sceneggiatura che non regge. La storiella appiccicata che apre e chiude il racconto originale, è di un’Alice già in età da marito, che si ribella al ricatto che la spinge a un matrimonio con un orripilante lord («Non devi essere di peso alla mamma vedova e il tuo bel visino non durerà per sempre») e alza il ditino femminista al fidanzato fedifrago della sorella («Guai a te se la fai soffrire.Ti terrò d’occhio». È una femminista scema se non conosce il detto del lupo e il vizio che non cambia come il pelo). Questi fronzoli edificanti, inclusi la partenza finale di Alice come avventuriera mercantile in Cina (il film dimentica che gli inglesi avevano appena imposto la legalizzazione del commercio dell’oppio…) e il travestimento da Giovanna d’Arco che uccide il dragone del Male, non danno urgenza alla «rivisitata» struttura narrativa, e se i pezzi presi da altri lavori di Lewis Carroll o i personaggi pescati da Attraverso lo specchio non stonano troppo, neppure aggiungono molto. E perché mai cercare di dare consequenzialità narrativa al più puro volo di fantasia mai elaborato? È come mettere una coperta bagnata su un falò. È imperdonabile l’assenza delle parole ansiogene del frettoloso Bianconiglio, che dànno lo stimolo propulsivo alla storia originale: «Sono in ritardo. Sono in ritardo!». Se un’opera non è rotta, perché «aggiustarla»? Il film definitivo di questo capolavoro sarà per un’altra volta, forse fatto da un visionario (Julie Taymor, per esempio) meno annunciato.


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poesia

Il canto irraggiungibile dell’allodola di Roberto Mussapi

A UN’ALLODOLA Salute a te, spirito gioioso, tu mai uccello, che dal cielo o lì accanto rovesci a pieno cuore profuse armonie di arte immediata. Più in alto, sempre più in alto ancora, da terra ti vedo guizzare come una nuvola di fuoco, traversando con le ali l’azzurro infinito, cantando sali ancora, salendo canti ancora. Nei bagliori dorati del sole al tramonto, là in alto dove si accendono le nubi, tu corri fluttuando, come una gioia incorporea appena partita. La pallida sera purpurea si scioglie attorno al tuo volo, come una stella del cielo, nella luce del giorno distesa sei invisibile ma odo il tuo squillo di gioia. Pungente come le frecce di quella sfera argentea la cui lampada intensa vien meno nel bianco chiarore albare fino a che sfoca, ma la sentiamo. Tutta la terra e l’aria risuona della tua voce come nelle notti serene da una nuvola solitaria la luna spande i suoi raggi e ne inonda il cielo. (…) Percy Bysshe Shelley (Traduzione di Roberto Mussapi)

a vede guizzare da terra simile a una nuvola di fuoco, più in alto, sempre più in alto, subito irraggiungibile. Saluta quello spirito gioioso che rovescia a pieno cuore profuse armonie di arte immediata. Dal cielo, scrive, da un punto imprecisato, ma prossimo al cielo. Un punto vago ma di certa esistenza, un cuore segreto del regno celeste a cui si allude fuggevolmente, come in un soffio o sospiro, ma la cui presenza, pur inesplicabile, è svelata.Traversa l’azzurro infinito cantando, sempre cantando, sale. Lei, la cui voce e il cui canto conflissero nel giardino di una notte a Verona… Era l’allodola, il messaggero del mattino? Allora Romeo doveva partire, immediatamente, fuggire. Ma forse no, forse era l’usignolo, che canta anche di notte, e allora i due potevano ancora bruciare qualche briciola di tempo di passione… Mai conflitto tra due voci di uccello (le più belle), fu più straziante. Così simili, quelle due voci angeliche, così diverse in quella stanza di Verona, fra la notte e l’aurora, così diverso quanto significava l’una o l’altra… Romeo si alzò, a un certo punto, sì, era l’allodola.

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Shelley scrisse forse una delle più originali opere poetiche d’Occidente, in relazione al cielo, un vero e proprio poema in forma di trilogia del volo. Se prendessimo le sue composizioni come elementi di un trittico (che poi era quanto intendeva l’autore), Alla nuvola, A un’allodola e Ode al vento occidentale costituiscono un composito poema del volo, dell’avventura verso la leggerezza inebriante del cielo. Ci siamo soffermati , in questa rubrica, sulla leggendaria Ode al vento occidentale. Ora incontriamo l’altra anima gemella, gemella per vocazione, ma, come il vento, irraggiungibile. Irraggiungibile il vento per potenza, una potenza assoluta coincidente con l’incorporeità, immaterialità animante e possente. Irraggiungibile l’allodola per il suo canto. Il poeta la sente anima affine, ma superiore. Ciò che scrivendo i versi cerca di raggiungere, e spesso raggiunge, non è che un felice riflesso del canto dell’allodola, che proviene da una parte più alta e trasparente del mondo, e che nasce spontaneamente, in modo del tutto immediato. Shelley, che condivide con gli altri grandi romantici Byron, Keats, Coleridge, la certezza dell’ispirazione come realtà concreta e operante, sa però che anche l’ispirazione più potente, quella di Omero, o di Alighieri, per intenderci, non può mai agire del tutto spontaneamente. Deve configgere con la lingua, con la coscienza. Per questo il canto dell’allodola è irraggiungibile. Ma imitabile. È fondamentale che i poeti si pongano modelli irraggiungibili, o insuperabili, anziché stabilirne di certi, alla loro portata. Questa scelta iniziale, basata sulla fede e sul coraggio, divide inesorabilmente i grandi poeti dagli altri. La vede correre fluttuando nei bagliori dorati del sole al tramonto, come una gioia incorporea appena partita. Non so che cosa sei, le dice, anzi, noi, tutti noi non lo sappiamo, né che cosa più ti somigli, perché anche dalle nuvole dell’arcobaleno non fluisce una pioggia di gocce così limpide come il tuo rovescio melodioso. A chi, assomiglia quel piccolo essere dispensatore di gioia a piena gola? A una giovane nobile, nella torre di un palazzo che placa con una musica dolce la propria

anima oppressa dall’amore, o a una lucciola d’oro, in una piccola valle di rugiada, che non vista diffonde il suo colore aereo tra i fiori e l’erba che la nascondono… O forse è simile a una rosa racchiusa nelle sue foglie verdi, deflorata dai venti caldi, riuscendo a snerbarne la forza con il suo profumo, è il suono degli scrosci primaverili sull’erba luccicante, la sua musica vince. Allora, prosegue Shelley, più che a ogni altra cosa o persona tu sei simile a un poeta nascosto nella luce del pensiero che canta libero i suoi inni, fino a che il mondo si ritrova in armonia.

A questo punto, immerso nell’estasi di quel canto meraviglioso, il poeta intuisce che in quel suo simile, più piccolo, più alto, più capace di volo e canto, è il suo maestro: l’allodola è sua sorella, ma anche di più, è il sapiente custode dei segreti alla cui ricerca il poeta dedica la propria vita. Si rivolge invocando lo Spirito, o Uccello, affinché riveli agli umani, tramite la mediazione rapsodica del poeta, i segreti dei suoi dolci pensieri: l’allodola non è un semplice volatile, ma un uccello che ha in sé contemporaneamente la natura svelante e sapienziale dello spirito, dalla cui voce in cielo tutto promana. Non esistono canti umani, cori sacri, nulla che

possa eguagliare quella semplice melodia. Che cosa c’è alla sua sorgente? Che campi, che montagne, che cieli, che amore della sua stessa specie, ignara del dolore? Stupore tremante dell’uomo di fronte al mistero: in quella gioia acuta e chiara non esiste languore, l’allodola, Spirito o Uccello, sveglia o nel sonno, forse ha conoscenze della morte che superano quelle degli umani, forse il suo pensiero naturale conosce un segreto, che libererebbe noi mortali… Noi che guardiamo in avanti e indietro nel tempo, mentre anche la nostra risata più schietta è gonfia di dolore, i nostri canti più dolci manifestano i pensieri più cupi. Spirito, ma anche Maestro: «Più di ogni metrica di suoni incantatori, più di ogni tesoro nascosto nei libri, il tuo talento servirebbe al poeta, tu che disprezzi il suolo. Insegnami la metà di quella gioia che certamente il tuo cervello conosce: dalle mie labbra fluirebbe allora la tua follia armoniosa, e il mondo ascolterebbe allora, come me ora».


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il club di calliope Il mondo è circondato dal tempo ordinario gli accampamenti si levano nella notte scuotono il sonno delle settimane restano gli avanzi del giorno fuochi che si spengono molto più lentamente di come divamparono. I tamburi delle ore battono l’ordine quotidiano quando l’assedio finirà in fila gli anni passeranno davanti guardandoci negli occhi. Enrico Fraccacreta

LE PAROLE DELL’ACCOGLIENZA in libreria

di Loretto Rafanelli

rancesca Serragnoli, attiva per anni nel Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, ci consegna un bel libro di poesie: Il rubino del martedì (88 pagine, 10,00 euro), edito dal raffinato editore riminese Raffaelli. Iniziamo subito col dire che le felici impressioni che già si potevano esprimere per Il fianco dove appoggiare un figlio, la raccolta d’esordio del 2003, sono non solo confermate, ma si può sostenere che la Serragnoli, con questo lavoro, si evidenzi come una delle voci più limpide della nuova poesia al femminile. Il rubino del martedì è sicuramente un libro colmo di emozioni, di generosa e partecipe accoglienza dell’altro, di struggente affetto per quella comunità semplice che sono i vecchi, i bambini o alcune figure deboli (malati, fol-

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oltre il vetro/ e pare distante, ma tu/ ne vedi le lische contro luce/ l’altare dove posare un canto…»). È una poesia che si fa sofferenza e speranza, contrizione e felicità. C’è l’occhio attento ai destini degli uomini, un guardare caritatevole e candido. L’andamento della poesia pur misurato e centellinato in molte parti, ha un passo che scorre da una modulazione piana e improntata a un dialogo semplice, a improvvise fiammate che quasi sorprendono il lettore. Sono bagliori e scompaginamenti improvvisi («il viso è un bambino scalzo/ gli occhi come fionde tirano un sasso/ non si sente il tonfo di niente/ non fucilare il mio guardare/ dov’è l’identità infinita?»), che fanno sussultare. E allora la Serragnoli, che pur riesce ad accomunare la poesia al linguaggio della gente comune, con l’u-

Francesca Serragnoli nella sua seconda raccolta, “Il rubino del martedì”, si conferma come una delle voci più limpide della nuova poesia al femminile li, disabili), di cui non cogliamo le difficoltà, la profondità del sorriso. Ma è anche, seppure disciplinato nella sua luminosità, un libro d’amore («…attendevo il tuo viso/ riaprirsi come il sole/ preparare un foro nel cielo/ per sentire ancora/ tutto il raggio infilarsi nel petto…»). È la poesia di una poetessa che oltre a dire di sé, vuole capire e vuole partecipare alle gioie, alle tristezze, ai dolori degli altri (nella lirica dedicata alla scomparsa Giovanna Sicari: «Non mangi più/ nei tuoi occhi il pane è il tempo/ che avviene

so anche del dialetto, attraverso tali bagliori sconfina, spazia, con la forza creativa dell’immaginazione, nella magia labirintica della creazione del verso (quasi a codificare la necessità per lo scrittore di portare le proprie parole, le proprie verità irriducibili). Nello sfondo riluce la preziosità di una umanità dolce e forte, di una spiritualità matura e profonda, che sostanziano un pensiero rivolto all’interrogazione, nel conforto di una fede. Seppure, come dice Wahl, ogni descrizione di questa sia inadeguata.

UN POPOLO DI POETI Nevicare, posarsi come una moltitudine, essere bianchi senza più dolore e stare sulla terra come un lembo di coperta e tremare.

Vera D’Atri

È un giorno che sembra quasi il ritornare a sperare. Smontano le luci delle feste, ed è quasi un sollievo pensare che non ne avremo di bisogno per un po’. Si mostra ora il cielo, e del sole una carezza sulle nubi solitarie, il biondo del mondo quando dice ai viventi: è tempo di tornare. Amate, in aneliti di dolce e immotivata bellezza del vivere, dei sensi tutti, del dire io sono nella gioia e nel dolore, nella buona e nella cattiva sorte:

siate.

Erminio Alberti

Sono disteso sull’erba Stelle nei miei occhi, terra sotto di me «Faro del cielo dove sei?» La notte il sole è lontano Ma tu sei là, da qualche parte

Alberto La Femina

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

l museo dell’ovvio» amava chiamarlo, con allegro auto-sarcasmo, vanificando il concetto stesso di museo, che non gli andava a genio. Lo diceva proprio: «Raccolgo di tutto, tranne che le cose preziose». E così la sua casa colonica diventa poco a poco, meravigliosamente, «il regno del quotidiano». Perché era capace proprio di gettar via un oggetto estetico bello, un «pezzo da museo», o meglio di barattarlo saggiamente (non si crede abbia mai buttato via nemmeno uno spillo) e venderlo a caro prezzo, per portarsi poi a casa un rasoio arruginito, un vecchio aratro sdentato, una zangola per fare il burro. «Cose», che non avevano nulla a che fare con la Bellezza museale con la maiuscola, tranne forse che la bellezza dolorosa del consumato, del masticato, del vissuto, insomma. Perché a lui gli oggetti gli interessavano solo se gli parlavano di persone, di sudore, di dramma e di felicità domestica, per dirla con il Tolstoj populista. Se dietro c’era una storia, anche minima: la storia di un tappo di coca-cola che, opportunamente schiacciato, diventa, coi suoi compagni di trincea, una sonante decorazione da tendina di salsamenteria. Un rosario laico. Oppure un odiato elmo da guerra crucco, trovato dopo la prima guerra, che diventa un complice scaldino da letto, il cosidetto «prete», oppure una grande scodella per misurare l’avena, o quello di vegetale che si raccoglie, da queste parti contadine, tra Parma e Collecchio. Un uomo dalle mille vite, Ettore Guatelli: prima mezzadro, mestiere di famiglia, poi radiotecnico in città, poi soldato in guerra, poi raccattatore di reperti bellici, poi antifascista, poi maestro di matematica ma soprattutto principe-raccoglitore di tutto quanto fa mondo contadino. Dall’ombrello all’organetto di barberia, dalla scatola di biscotti all’abituccio della scimmia suonatrice, alla grande trebbiatrice. Ma non una, dieci, cento, mille, non riesci a capire mai dove la serie finisce. Capannoni, stalle, anfratti, soffitte: non poteva certo permettersi una moglie, Guatelli, si sarebbero scannati dopo un giorno. E guai alle serve importune che tolgono la polvere o ammazzano le ragnatele, pussa via. Quante volte avrò sentito parlare di Ettore Guatelli e del suo Museo etno-contadino, dalle parti appunto di Ozzano Taro di Collecchio, che detto così pare un titolo nobiliare, ma appunto nobiliare del nulla, dell’usurato, del misero. Edotto anche da amici illustri e fidabili, come Zavattini, Tassi, Bertolucci, padre-poeta e figli registi (molti di questi oggetti hanno

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L’art brut da Guattelli a Ferrari di Marco Vallora

arti

recitato il loro ruolo «storico» dentro il film Novecento, perché questo luogo incantato è davvero il sogno d’un ricercatore di trovarobato teatrale, se non il suo incubo. Perché non ne esci più). E quanti libri sul museo-non-museo di Guatelli avrò mai sfogliato, ripromettendomi un giorno di venirci, poi si sa, il tempo... E c’è voluta l’intermediazione di un mio intelligente allievo dell’Università di architettura di Parma (oddio, non sarà mica l’ormai consueto ed odioso conflitto d’interesse... non credo proprio, basta verificare la sua perizia di fotografo d’arte... starà già storcendo il suo naso inflessibile, se mai mi leggerà, perché questa definizione non gli si addice, ma le sue fotografie sono comunque bellissime e intelligenti), insomma c’è voluto il reincontro con il suo creativo lavoro-stetoscopio dentro il museo Guatelli, in occasione di una rarefatta ma infallibile mostra, dentro l’incanto ottico della Rocca di Fontanellato, per riscatenarmi la voglia e convincermi a spostarmi di qualche chilometro e sprofondarmi finalmente dentro questo sortilegio stregato che è il Museo Guatelli. Perché il vecchio maestro-narratore non si è limitato a cercare, stipare, raccogliere, davvero ossessivamente, comprare e scambiare. A un certo punto ha capito che doveva pur esporre, ordinare, mostrare tutto questo ben di dio, e ha incominciato a creare delle strane raggiere sgranate sulle pareti, degli ossessivi arabeschi, che salivano su per le stanze, sino a colmarle, come insetti immobilizzati da un incantesimo, insomma quell’arte che lui rifiutava è tornata galla, proprio come è successo al dadaista Scwhitters. E questa casa stipata è diventata un’immensa opera di art brut. Quello che stupisce invece nelle rigorose e calamitanti immagini del giovane Jacopo Ferrari è che partendo da questo sconfinato macro-testo senza più freni, questa sorta di Museo Soane della miseria e della fantasiosa creatività (quando la necessità appunto acuisce l’ingenio e nasce il design-naif) ha saputo isolare alcuni dettagli, con sapienza nutrita a Avanguardie e Bauhaus, e grazie all’uso d’una carta antica da incisione dureriana e il sollevamento rapito dei bianchi, dei vuoti, con la morsura drammatica della «tiratura», ha «scritto» un poema delle cose, davvero degno di Ponge. Un’operazione architettonica esemplare, di reinvenzione straniata di un luogo.

Jacopo Ferrari, Dal Museo Guatelli, Rocca di Fontanellato, fino al 20 marzo

diario culinario

Caldo, spumoso, abbondante... Stregati dallo zabaione di Francesco Capozza renotate con qualche giorno d’anticipo, meglio se a pranzo, così il ritorno - in quelle zone di fossi e nebbie - vi riuscirà più agevole. Il giorno prescelto, con in tasca una dote di almeno centocinquanta euro ciascuno, uscite al casello di Mantova sud, percorrete una quindicina di chilometri tra ampi fossati e argini del Po, evitate di fermarvi a un paio di trattorie dall’aria molto invitante che incrocerete lungo la strada. Attraversate il Po a San Benedetto, e dopo pochi chilometri attraversate un altro fiume striminzito, che è poi il Secchia. Ecco: siete a Quistello, paese dove se chiedete cosa c’è da visitare vi rispondono «l’Ambasciata»; e se insistete con un «magari anche la piazza? O la chiesa?», scuotono la testa e dicono con sguardo rassegnato: «No, no. Se vuole

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vada sull’argine e si faccia due passi lì». Ma non c’è da preoccuparsi: avete la vostra prenotazione che vi dà diritto di suonare alla prima casa dopo il ponte, che è poi l’Ambasciata. In pochi secondi, dalla paciosa atmosfera rurale di una campagna ricca e grassa vi immergerete in uno dei locali più belli, raffinati e accoglienti che sia dato di trovare in Italia. Una sala a emiciclo, in cui dai pochi tavoli (solo otto), come spettatori in un’arena, si gode della vista sulla cucina, separata da una vetrata a parete. Dietro la teca di vetro, il reality show dei sette cuochi che lavorano tra fiammate e gesti che sembrano appartenere a una precisa coreografia. Ma lo spettacolo non finisce in cucina: è anche nell’ambiente dove siete seduti, risultato personalissimo di un affastellarsi di collezioni, di decori, di vere e proprie manie. La mania dei tappeti, uno sopra l’altro come nelle

moschee; la mania delle cornici e degli specchi, quella per l’argenteria e per i vasi, per le porcellane e i libri da impilare a barriera, quella per i fiori - splendidi, freschissimi, infilati dappertutto. È insomma un locale molto elegante, l’Ambasciata: i proprietari sono i due fratelli Tamani: Romano lo chef e Carlo il sommelier. Presi dall’atmosfera teatrale, per il piacere dei commensali, recitano l’uno nel ruolo della primadonna e l’altro in quello della spalla. Romano fa il verso al celebre chef Heinz Beck: «Io fare polenta e cuocere in venti minuti», poi spiega ai presenti come invece si riconosca la polenta vera («per averla consistente e rugosa ci vuole un’ora e mezza di cottura»). Il fratello dà il suo contributo al teatrino svuotando il fondo dei bicchieri di spumante e champagne sui tappeti, ché pare gli faccia solo bene.\u2028 Ma non c’è da distrarsi: arri-

vano con l’aperitivo assaggi non previsti (le scaglie di parmigiano reggiano di Quistello, i ciccioli, la pizza alta e soffice sia bianca sia rossa, le schiacciatine mantovane); e col lambrusco di selezione Ambasciata (la carta dei vini è enciclopedica e si finisce per andare sul semplice) arrivano anche i piatti ordinati. In inesorabile successione riceviamo il Sorbir d’agnoli; il grande tortello in crema di zucca e mandorle di pesca; il piedino di maiale con polenta, il guancialino di maiale stufato. Non parliamo poi dei dolci, tanti da riempire l’intero tavolo, ma parliamo invece dello zabaione, versato caldo e magnificamente spumoso da un paiolo di rame, fino a riempirti il piatto. Si esce in uno stato di rapimento, come può capitare dopo un concerto sinfonico.

Ristorante Ambasciata, Quistello (Mantova), tel. 0376 618255


MobyDICK

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design

Con Dante Ferretti nella fabbrica dei sogni

film sono come la poesia, arte dell’illusione: con uno specchio adatto, si fa un oceano» (Josè Saramago, da L’anno della morte di Ricardo Reis). Il cinema rappresenta, oggi, la forma d’arte più potente e universale; in qualunque angolo della terra, appena fornito di un briciolo di tecnologia, in ogni momento del giorno, ci sarà sempre qualcuno che, semplicemente guardando un film, ride, piange, si distrae, si emoziona, si appassiona, si immedesima, si eccita, si meraviglia, si annoia e a volte si addormenta. Cesare Musatti, padre della psicanalisi italiana e studioso appassionato del rapporto tra cinema e psiche, nel saggio del 1961, Psicologia degli spettatori al cinema, spiega come «… il cinema quanto il sogno ci consente di vivere una situazione diversa da quella della nostra vita reale… Per sognare bisogna dormire… Al cinema pure interrompiamo i nostri contatti con l’ambiente circostante….». Nella «fabbrica» di un film, lo scenografo è l’architetto del sogno, colui il quale costruisce lo spazio all’interno del quale gli attori vivono la loro parte; studia il periodo storico e i luoghi nei quali è ambientata la sceneggiatura, l’e-

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moda

d’orchestra e avrà lunga vita, durata cinque film, fino a La voce della luna del 1990. Ferretti descrive affettuosamente un Fellini possessivo, «despota» e «vampiro», assetato instancabilmente di con-

tor. Nell’intervista, Ferretti ripercorre le tappe per lui necessarie alla realizzazione di una scenografia: lo studio dell’epoca, della sua architettura, gli stili e l’arte; gli schizzi, i modellini, i disegni tecnici, la scelta degli arredi e dei materiali, il rapporto con la fotografia e la regia.

frontare pensieri, immagini, emozioni, sogni. Nel 1988 lo scenografo arriva negli Stati Uniti, chiamato da Terry Gilliam per Le avventure del Barone di Münchausen, lavoro straordinario per il quale ottiene la sua prima nomination agli Oscar. Subito dopo, un altro incontro fondamentale, quello con Martin Scorsese, che Ferretti ama definire «il suo eroe»: regista di grande talento, lo sceglierà per la scenografia, impeccabile, di L’età dell’innocenza a cui seguiranno altri sei film, premiati da svariate nomination e dall’Oscar, nel 2005, per The Avia-

Chi ama l’arte della scenografia e apprezza il genio di Ferretti, probabilmente conosce già questo volume, uscito nel 2004. La nuova edizione, proposta da Electa per la collana «I protagonisti del cinema», si avvale di nuove immagini, foto e disegni relativi ai lavori di scenografie più recenti come quella per The Black Dahlia di Brian De Palma, Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton (un altro premio Oscar per Ferretti), e il recentissimo Shutter Island, ancora di Martin Scorsese.

di Marina Pinzuti Ansolini strazione sociale, il carattere, le abitudini o le manie dei personaggi. Città, strade, giardini, palazzi e case saranno costruiti o cercati dal vero, ricreati, trasformati e arredati nei minimi dettagli per rendere credibile e reale il «sogno». Dante Ferretti, certamente uno dei più grandi scenografi contemporanei di cinema e teatro, racconta e si racconta, attraverso una lunga intervista raccolta da Gabriele Lucci nel volume edito da Electa Dante Ferretti, L’arte della scenografia (384 pagine, 360 illustrazioni, 69,00 euro). La sua carriera professionale entra a far parte della storia del cinema già dagli esordi, quando, a venticinque anni, è chiamato da Pier Paolo Pasolini per la sua Medea. Seguiranno Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte, e il suo ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Dal grande regista impara a guardare il cinema attraverso l’occhio della pittura e a perseguire la sua naturale inclinazione a reinterpretare l’iconografia classica in modo più moderno e astratto. Il rapporto con l’altro grande italiano, Federico Fellini, nasce nel 1978 con Prova

Maglia, pelliccia e paillettes, ma ragionevolmente l mood vampiresco di Twilight e True Blood ha lasciato il segno. Il nero torna alla grande, ed è un nero aggressivo, da biker per Donatella Versace, fetish per DSquared, inquietante per Frankie Morello, che si ispira direttamente al sanguinoso Miriam si veglia di notte, dark da Gianfranco Ferrè by Aquilano&Rimondi (pelle nera, cinture importanti, tubini di nappa), sexy per Les Copains che ha schierato la popolarissima Belen Rodriguez. Ma persino Blumarine, cioè Anna Molinari, la regina delle rose, comincia con un total black per arrivare al trench zebrato, mentre Emporio Armani sdrammatizza con un corto-cortissismo, anche

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di Roselina Salemi nelle pettinature, e Gucci veste di pizzo la neoborghese che ama le trasparenze e i tagli alla Fontana, il raso e le piume di marabù sulle maniche. Trattandosi di autunno-inverno, a Milano Moda Donna si sono viste cose molto ragionevoli, cioè donne vestite con cappotti e soprabiti, persino calze pesanti infilate dentro i sandali, tweed e tante pellicce (la contestazione animalista ha battuto la fiacca, salvo che alla sfilata di Max Mara), perciò nessuna soffrirà il freddo per essere in tendenza. Il cappotto ottanio di Lorenzo Riva, con opulento collo in tinta, e il tailleur pantalone piaceranno moltissimo alle signore bon ton, specialmente se gli inverni continuano a essere così lunghi. Infuria tuttavia la battaglia su che cosa valorizzare. Il seno, senza dubbio, per Miuccia Prada che, dopo gli stivali con le giarrettiere della scorsa stagione, inventa abiti con giochi di ricami e plissè effetto Wonderbra, a balconcino, per essere sensuali, ma non banali (e per vestire tutte, dalla prima alla terza misura). Le gambe, suggerisce Giorgio Armani, che nella collezione (battezzata New Chic), rinuncia ai classici pantaloni a favore di ondeggian-

ti gonne corte e scarpe a punta con strabilianti tacchi a spillo. Abbandonato il greige, accosta l’arancio al bianco e al nero, il tailleur allo short, le cappe, gli chiffon. Krizia è d’accordo con lui: calze a metà coscia e, abitini-ini-ini piumati e luccicanti, accompagnati da guanti che salgono parecchio oltre il gomito. Maglia, pelliccia e paillettes saranno un must, a quanto pare, e ci starebbe bene, sull’immancabile bustier o sui leggings, una delle tante giacche di Dolce&Gabbana, corte o lunghe, strette, a tre bottoni e a doppiopetto, accostate a lingerie di pizzo e seta, a eleganti bermuda, o ricoperte di piccoli gioielli: medaglie, cornetti, spille, orecchini spaiati, portafortuna (e ce n’è bisogno). Niente in confronto ai cappotti in broccato e ai montoni ricamati d’oro di Roberto Cavalli, quanto di più lontano dal minimalismo si possa immaginare. E, come sempre, c’è di tutto, per tutti. Citazioni dell’Amante di Marguerite Duras da Etro. Citazioni di Apocalypse Now, da John Richmond, di Charlotte Rampling in Portiere di notte da Gucci, di Avatar da Belstaff, dove si è materializzata, in elicottero, Michelle Rodriguez. Per essere di moda, bisognerà andare al cinema più spesso.


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fantascienza

MobyDICK

ai confini della realtà

Il mito in azione l film di James Cameron ha fatto spendere un fiume d’inchiostro, non quanto Il Signore degli Anelli di Peter Jackson certo, ma già questo è indice che non è un’opera qualsiasi, che ha un suo significato non superficiale, e che non la si dimenticherà facilmente. Il problema è quale significato dare ad Avatar, e questo dipende dalla cultura e dalla sensibilità dei critici. Ad esempio, c’è chi ne ha dato una spiegazione «politica»: è un atto d’accusa contro le guerre americane, dal Vietnam all’Iraq e all’Afghanistan: mi pare riduttivo, casomai è un atto di accusa nei confronti della guerra contro i pellerossa, il loro sterminio per appropriarsi delle terre, la loro chiusura in riserve (molti gli elementi in favore, dal linguaggio, alla lotta di archi e frecce contro armi da fuoco, in parte alla religione dei nativi); o, in genere,

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di Gianfranco de Turris conta, e Avatar è sicuramente una novità anche se gli spunti sono innumerevoli. Ovvio che un autore che ha alle spalle, oltre Titanic, Alien, Terminator e Abyss ed è un appassionato di fantascienza, abbia metabolizzato il tutto e ne abbia tratto una sua personale visione: non c’è solo John Carter di Marte di Burroughs dietro Avatar, ma altro di ben specifico: ad esempio, Fanteria dello spazio di Heinlein (ma senza colonnelli ottusi: casomai si veda Apocalypse Now di Coppola, anche per certe scene di elicotteri), e per questo aspetto tutti i racconti antimilitaristi di Robert Sheckley; c’è la saga dei Dragonieri di Pern di Anne McCaffrey per il rapporto psichico uomo/drago; c’è addirittura Gundam di Yoshiyki Tomino (assoluta-

(del resto la parola avatar era da decenni utilizzata nei giochi di ruolo e nei videogiochi per indicare i personaggi che rappresentavano un giocatore). E il più famoso e popolare avatar dell’induismo è Krishna, ottavo avatar del dio Vishnu, il Conservatore, seconda persona della Trimurti. E Krishna, non sembra proprio un caso, ha la pelle azzurra, proprio come gli abitanti di Pandora, il cui ruolo è quello di «conservare» intatto il loro pianeta nei confronti degli invasori «alieni» (i terrestri).

E poi questo nome che a sua volta deriva dalla mitologia greca: la donna bellissima donata da Zeus agli uomini insieme a un vaso che non avrebbe dovuto mai aprire. Pandora invece lo aprì e

anche su Pandora ci sono gli animali feroci e si deve cacciare per vivere, ma essendo anche essi partecipi della Madre Terra l’uccisione di un essere vivente viene considerata una cruda necessità e ci si scusa con esso quando li si uccide. Gli abitanti inoltre hanno certamente una loro precisa individualità, non sono tutti uguali come carattere e impulsi, e costituiscono anche una vera comunità organica psichicamente collegata. Il riferimento è certo la Madre Terra, ma la loro non è una società ginecocratica e femminilizzata, esiste anche una gerarchia guerriera dove per diventare «uomini» ed entrare a far parte del «popolo» bisogna superare varie prove iniziatiche, fra cui quella esemplare del combattimento contro il mostro alato che, alla fine domato, sarà la cavalcatura del nuovo capo.

I significati del fortunato film di James Cameron non vanno interpretati in chiave politica, religiosa-new age, coloniale… Gli archetipi sui quali la vicenda dei Na’vi si fonda vanno ricercati piuttosto nella simbologia induista e greca: Krishna, ottavo “avatar” (incarnazione) di Vishnu aveva la pelle azzurra e Pandora… al colonialismo occidentale (anche qui gli elementi ci sono: lo sfruttamento dei territori, l’incomprensione nei confronti della religione dei «selvaggi», il considerarli «scimmie»). C’è chi ne ha dato una interpretazione «religiosa», come L’Osservatore Romano, che ha criticato Cameron per aver voluto fare l’apologia di una religione panteista tipo New Age: anche questo è limitativo: il senso del sacro dei Na’vi è qualcosa di assai più profondo e naturale rispetto a quello degli ex hippy, o di quelli che oggi pensano di riscoprire il «paganesimo» orientale e occidentale.

C’è chi ha fatto una critica «fantascientifica», cioè andando a ritrovare le fonti di ispirazione del soggettista-sceneggiatore-regista, tanto per dire che non ha scoperto nulla di nuovo: vero, ma non con queste conseguenze, perché è il risultato innovativo (non solo per le meraviglie computerizzate) che

mente non Mazinga o Goldrake) per gli esoscheletri combattenti; c’è Chiamatemi Joe di Poul Anderson, per il passaggio di una mente umana in una aliena; e c’è Il Signore degli Anelli per una certa struttura della società e per il rapporto essere umano/natura. E molto altro ancora: addirittura ci sono anche suggestioni surrealiste: le montagne volanti di Pandora non ricordano certi celebri quadri di René Magritte? C’è infine l’interpretazione «mitica» o «simbolica», non l’esclusiva chiaramente, ma quella che può andare più a fondo nella spiegazione del film, forse anche oltre le intenzioni dell’autore. Già il titolo è significativo: il corpo dell’indigeno Na’vi di cui prende possesso il protagonista Jacke Sully, marine paralizzato alle gambe, è il termine sanscrito che nella religione induista viene dato alle successive «incarnazioni» di una divinità, rappresenta la sua «discesa» sulla Terra per adempiere specifici compirti

uscirono tutti i mali che l’umanità non conosceva, ma al fondo di esso rimase la speranza. Pandora vuol dire «tutti i doni», belli e brutti: così l’omonimo pianeta che ha in sé tutti i doni possibili per una umanità che se ne dovrebbe rendere conto, e se non se ne accorge mal gliene incoglie, come avviene nel film dove sono soltanto pochissimi che ne potranno beneficiare. Dunque, più che a un’interpretazione banalizzante del film si dovrebbe risalire agli archetipi e vedervi la contrapposizione fra la civiltà moderna e ipertecnicizzata del 2154, che ha come unici punti di riferimento l’economia, lo sfruttamento, la mercificazione, e una società tradizionale legata alla Natura ma non in modo riduttivamente «panteista», ma in modo diretto (una rete di neuroni collega tutto il pianeta e le sue creature) e sacrale (attraverso il pianeta i Na’vi raggiungono una superiore conoscenza spirituale). Una specie di Eden? No, perché

L’accusa che il colonnello Quaritch prima di morire lancia a Sully è di aver tradito la sua razza, quella umana: ma in realtà è lui e i suoi simili che non temperando la forza con l’intelligenza e lo spirito, avendoli posti al servizio della brutalità di una conquista economica, ha tradito la razza umana, divenuta una specie di robot teleguidato, come gli esoscheletri da combattimento. È contro questa «follia», di cui parla Eytucan, capo del clan dei Na’vi e padre di Neytira, l’eroina di cui s’innamora Jacke, che alla fine si schiera e combatte quest’ultimo. Sono gli esseri umani che hanno tradito la loro stessa sostanza spirituale. Si può parlare allora con Joseph Campbell, che influenzò con le sue teorie George Lucas per Guerre stellari, di «mito in azione». Mito fatto rivivere oggi e che può dare una sferzata, una suggestione, all’ignaro spettatore del film di Cameron, mentre lo vede con i (per me delundentissimi) occhiali 3D.


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