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CORRO, COMBATTO E POI TI SPOSO Il mondo parallelo dei giochi di ruolo online di Roberto Genovesi
Esplode su Internet un fenomeno ludico che obbliga alla socializzazione come condizione essenziale per raggiungere gli obiettivi del gioco. E nascono comunità, amicizie, matrimoni…
Parola chiave: coscienza di Rino Fisichella
9 771827 881301
80308
ISSN 1827-8817
Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
I novant’anni di Marian McPartland di Adriano Mazzoletti
ario e Jacqueline si sono conosciuti nei pressi di Garadar, un avamposto militare immerso in una distesa bucolica fatta di laghi e immense pianure verdi a ovest di Tarokkar. Ma chi frequenta le terre esterne sa che in tempo di guerra ogni luogo oltre il Portale può nascondere insidie anche per un mago di sessantacinquesimo livello e una shamana di quarantesimo e così, prima di scambiarsi le prime parole, i due ragazzi della nostra storia hanno dovuto fare i conti prima con un’orda di goblin e poi con un boss di classe élite di livello cinquanta. Ma durante la quiete dopo la tempesta, tra i due c’è stato quello che si definisce comunemente un vero e proprio colpo di ful-
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NELLE PAGINE DI POESIA
Chopin ritratto da Gottfried Benn di Filippo La Porta
mine e, dopo soli due mesi di fidanzamento, i due hanno scelto la fastosa e multietnica città di Shattrath per celebrare il loro matrimonio di rito elfico a cui ha fatto seguito, solo sei mesi dopo, una cerimonia altrettanto bella e commovente di rito cattolico nella piccola cappella di Castel di Tora in Abruzzo, terra dello sposo e dove la sposa è giunta in un tripudio di festeggiamenti direttamente da Sidney con i suoi genitori. Giovanni ha invece conosciuto il paladino che gli ha cambiato la vita tra le dune di neve di Darkwhisper Gorge a sud delle fredde distese di
Burri, il barbaro corpo a corpo con la materia di Mario Bernardi Guardi Lezioni di felicità (e di filosofia) di Anselma Dell’Olio
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Meraviglie alla Fiera di Maastricht di Marco Vallora
gioco, combatto e poi ti
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sposo
Regole facili e una grafica che cattura: il successo di “World of Warcraft” l primo videogioco di ruolo in rete, capostipite della categoria Mmorpg (Massive multiplayer online role playing game) è stato Ultima, una costola della omonima serie di giochi fantasy creata da Richard Garriott, che è approdato alla rete nel 1997. Da allora, come si dice, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e Ultima resta un romantico ricordo nella testa dei pionieri del genere anche se un tentativo di rinnovamento grafico è stato introdotto dalla Electronic Arts proprio lo scorso anno. Di titoli da citare ce ne sarebbero molti ma se è vero che quando pensi alla Formula uno ti viene in mente la Ferrari e quando pensi al calcio ti viene in mente Maradona, allora quando pensi ai giochi di ruolo online ti viene in mente World of Warcraft. Creato dalla Blizzard sull’onda del successo della serie di videogiochi in remoto, WoW può vantare oggi oltre dieci milioni di utenti, una serie a fumetti, un ciclo di romanzi e almeno sette guide strategiche tra cui un atlante, un bestiario e una mappa dei dungeon, tutti pubblicati in Italia da Multiplayer.it. Ambientazione fantasy, otto razze principali in conflitto, quattro continenti da esplorare e tantissima magia sono ingredienti che, da soli, non basterebbero comunque a giustificare l’immenso successo che oggi ha questo prodotto videoludico.
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segue dalla prima Winterspring. Un incontro cruento avvenuto nel bel mezzo di uno scontro con uno yeti di montagna. Per il paladino stava per finire proprio male: armatura in pezzi, spada incantata alla frutta e un fastidioso incantesimo pestilenziale che faceva scendere a ritmo costante la barra salute. Ma proprio quando tutto sembrava perduto ecco spuntare dal nulla un elfo rosso di classe hunter con tanto di tigre siberiana al seguito e la battaglia ha cambiato repentinamente il suo corso.Tuttavia Giovanni non poteva immaginare che il suo intervento gli avrebbe cambiato la vita. Dopo un paio di mesi di chat e di missioni di gruppo, il paladino ha deciso di conoscere personalmente il suo salvatore e di assumerlo come suo segretario personale in una grande azienda di telecomunicazioni dove è dirigente. Queste sono solo due tra le tantissime storie realmente accadute che hanno portato l’universo dei giochi online a fondersi indissolubilmente con la realtà. Con la sigla Mmorpg si indicano in linea generica tutti quei videogiochi che posseggono, rispetto al classici videogiochi da console o da pc, due caratteristiche distintive: la giocabilità esclusiva in internet, la giocabilità di gruppo con la presenza contemporanea nello scenario dato di più avatar di persone reali. Massive Multiplayer Online Role Playing Game che hanno cambiato in modo sempre più evidente uno scenario statico in cui i videogiochi erano additati come strumenti di isolamento sociale. Con l’arrivo sul mercato dei giochi di ruolo in rete sono cambiate le abitudini dei giocatori, i tempi dedicati al gioco, il rapporto tra giocatore e macchina e, soprattutto, il
La risposta a chi ancora non riesce a credere che ogni giorno milioni di persone provenienti da ogni parte del mondo possano incontrarsi vestendo i panni di un troll, di un non morto o di un nano per vagare in gruppi armati fino ai denti nelle regioni incantate di Kalimdor o nelle foreste verdi dei Regni Orientali, sta nella estrema razionalità delle regole di gioco e nella grafica capace di suscitare paura ma anche di non spaventare i giocatori più piccoli. I tratti di World of Warcraft ricordano i film animati di Tim Burton e le atmosfere più cupe di Fantasia ma non arrivano al limite del senso di oppressione che può dare Doom. Per questo il gioco, per il codice europeo di classificazione Pegi, è consigliato anche ai preadolescenti dai dodici anni in poi. Alle spalle di World of Warcraft tanti tentative più o meno riusciti, così come tanti tentativi sono stati fatti in seguito per cercare di emularne il successo. Dark Age of Camelot, Guild Wars, Everquest, Eve Online e Anarchy Online sono solo alcuni dei titoli che si possono trovare sugli scaffali dei negozi specializzati. Onestamente bisogna ammettere che è difficile tentare di superare qualcosa che è oggettivamente lo stato dell’arte nel suo genere. A suo tempo Star Wars Galaxy, ispirato alla saga di Guerre Stellari, avrebbe potuto dare qualche sod-
profilo dei giocatori stessi. Non più fissati del pad o nerd della console, chiusi in stanze fumose, immerse nella semioscurità e isolate acusticamente rispetto al mondo esterno alle prese con il mostro di turno da abbattere ma soggetti portati necessariamente alla socializzazione, pur se virtuale, come condizione essenziale per il raggiungimento degli obiettivi standard del gioco. In poche parole in un videogame online non si può andare avanti da soli se non in casi limite. Occorre sempre fare gruppo, creare una squadra, condividere obiettivi. E nel momento in cui si fa comunità, anche se solo per abbattere un ostacolo o sconfiggere un drago, il cameratismo di chi soffre accanto all’altro per trovare la vittoria porta al consolidamento delle amicizie. Un processo questo che ha permesso ai giochi online di sviluppare nuove e multiformi varianti del concetto di chat. La proiezione virtuale dell’io sotto forma di avatar, pur se calata in mondi alieni, permette una sorta di contatto fisico con l’altro e la gestualità, le espressioni proiettabili attraverso il personaggio nell’ambiente alternativo creano le condizioni per rapporti interpersonali su un binario parallelo a quello del reale che spesso, a un certo punto, finiscono per trovare - come nessun altra retta parallela fa - un punto d’incontro. E allora gli universi virtuali del gioco vengono acquisiti nella coscienza del giocatore come mondi possibili, come luoghi diversi dal mondo reale ma non di livello inferiore. Insomma scenari fantasy, di fantascienza, horror che all’inizio avrebbero dovuto semplicemente affiancare i prodotti realizzati per pc e console ma che in seguito si sono trasformati in veri e propri luoghi altri in cui i giocatori hanno creato comunità virtuali alternative a quelle
disfazione ma un sistema di gioco piuttosto farraginoso e missioni troppo statiche hanno quasi subito penalizzato notevolmente il progetto che oggi è in fase calante di consensi. Ma allora chi può tentare di fare le scarpe a WoW? Oggi sono tre i giochi di ruolo online su cui si è soffermata l’attenzione della critica. Parliamo di Tabula Rasa, un gioco di fantascienza firmato dallo stesso creatore di Ultima ma anche di Conan e del Signore degli Anelli Online, entrambi ispirati a sage fantasy molto conosciute. Nel primo caso, però, sembra prevalere l’impostazione adrenalinica dello spara tutto mentre negli altri due il peso delle atmosfere dei romanzi di riferimento appare troppo preponderante rispetto alle tecniche di gioco dal climax assai superficiale. Insomma, a oggi, giocare online significa immergersi nelle atmosfere di World of Warcraft. R.G.
del mondo reale con rituali distintivi e linguaggi comunitari esclusivi. Oggi le terre di World of Warcraft, il gioco di ruolo online che può vantare oltre dieci milioni di giocatori sparsi nel mondo, sono luoghi dove si combattono i draghi ma anche dove si consolidano amicizie, si fanno riunioni aziendali supplementari nel cuore della notte tra un raid e l’altro, dove ci si fidanza, ci si sposa o ci si lascia, dove si definiscono appuntamenti o dove si approntano strategie politiche o finanziarie. Mondi insomma. Mondi veri a cui la veste virtuale non può togliere una valenza che, in quanto riconosciuta nelle sue regole da tutti i frequentatori, comporta responsabilità di pari dignità rispetto a quelle previste nella vita di tutti i giorni. Le promesse di amore eterno tra un elfo e una femmina di troll molto spesso diventano sentimenti trasponibili il giorno dopo in classe o viceversa. Per questo appare estremamente interessante uno dei recenti interventi di Civiltà Cattolica dedicato ai fenomeni come Second Life nel quale si parla apertamente di responsabilità degli avatar e della valutazione sotto forma di peccati reali dei loro comportamenti virtuali deviati. Se è vero infatti che un sentimento, comunicato celandosi dietro una maschera, può reggersi su convenzioni che lo rendono valido, allora è vero anche che diventa reato, se non altro di carattere morale, rubare un’arma magica dallo zaino di un altro giocatore. Insomma il confine tra ciò che è reale e ciò che è frutto della fantasia non dipende più dal confronto tra ciò che è tangibile e ciò che è intangibile ma dalla convinzione del giocatore che, in questo modo, ha sviluppato una sorta di etica del confronto virtuale su cui un giorno, probabilmente, si scriveranno interi libri di diritto.
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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COSCIENZA Il suo valore, nel giudizio, è inalienabile. Ma solo a condizione che venga nutrita in un continuo confronto con la verità. La posta in gioco è alta: consiste nell’onestà di guardarsi in faccia senza dover arrossire per le scelte compiute come coscienza. Gli antichi greci, in parallelo con lo sviluppo del pensiero cristiano, videro nella coscienza lo spazio all’interno del quale l’uomo trova se stesso e in questo conoscersi ritrova gli elementi ultimi che permettono il giudizio su di sé e il suo agire. Esiste una relazione particolare che ognuno ha con se stesso all’interno della quale si ritrova solo con la responsabilità del giudizio sulle proprie azioni e sul modo stesso di concepire la sua esistenza. Nel conoscere la propria vita e nell’imprimere a essa un orientamento esistenziale, l’uomo prende atto di avere una relazione che lo porta al di là di sé e scopre uno spazio di trascendenza che lo abilita a comprendersi aperto verso l’assoluto e mai rinchiuso in un limite da cui non possa trascendere. La coscienza permette la scoperta di un luogo privilegiato in cui ogni persona si conosce in modo immediato, diretto e per ciò stesso diventa capace di un giudizio su di sé che rasenta la certezza indiscussa. Nessuno può entrare in questo spazio senza creare violenza; nessuno può sostituirsi alla propria coscienza senza alterare la natura stessa dell’individuo e del giudizio che viene emesso. Essa permane come una realtà inviolabile, di cui ognuno sente il peso della responsabilità per il giudizio che esprime; nello stesso tempo la coscienza è garanzia di libertà a cui nessuno può rinunciare. Perché la libertà sia piena, comunque, è necessario che la coscienza si confronti con la verità.
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Senza la verità, la coscienza rimarrebbe nel dubbio e l’errore sarebbe sempre in agguato. L’unico criterio che permette alla coscienza di essere se stessa e, quindi, certa delle scelte che compie è la sua relazione con la verità. Solo a questa condizione ci si sente liberi e capaci di guardare a se stessi senza vergogna o rimprovero alcuno. Per questo motivo, la coscienza ha bisogno perenne di rapportarsi alla verità con una ricerca che non si stanca, con una passione che scopre i principi a cui richiamarsi, con un discernimento che si fa forte della formazione ricevuta. Se non si vuole finire in mano a forze disgregatrici che parcellizzano la verità e rendono di conseguenza frammentario il giudizio della coscienza è necessario che la persona comprenda l’urgenza della sua formazione per dare alla coscienza il nutrimento di cui ha realmente bisogno. Sì, la coscienza ha bisogno di nutrirsi; la sua è un’esigenza che non può conoscere la stanchezza o il tedio. Pensare di averle già dato tutto è un’illusione che nessuno di noi può permettersi di vivere. La posta in gioco è alta: consiste nell’onestà di guar-
La conquista della libertà di Rino Fisichella
La centralità della persona, a cui tutti dovrebbero richiamarsi nell’azione culturale, sociale e politica, non fa che sottolineare l’importanza della coscienza come norma di sviluppo armonico in un progetto che abbia a fondamento l’etica
darsi in faccia senza dover arrossire per le scelte compiute. Mai come in questo periodo il termine viene ad assumere una sua valenza fondamentale. La centralità della persona, a cui tutti dovrebbero richiamarsi nella propria azione culturale, sociale e politica, non fa che riportare all’esigenza della coscienza come norma di uno sviluppo armonico per un progetto di sé e del mondo che abbia a fondamento l’etica. Il cristianesimo ha sempre (e giustamente) rivendicato il primato della coscienza nella vita morale.
Per quanto paradossale possa apparire, ha difeso il principio della coscienza anche quando questa risultava poi essere erronea. Non è un caso. La convinzione che l’uomo non è mai solo e rinchiuso in se stesso sta alla base di questa difesa. Ognuno è sempre dinanzi allo sguardo di Dio; anche quando sbaglia deve avere certezza del primato dell’amore. Un testo dell’evangelista Giovanni permette di entrare nel merito. Scrive l’apostolo: «Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20). La centralità della coscienza e del suo inalienabile valore nel giudizio trova qui il suo fondamento. Il metro di giudizio di Dio sarà sempre diverso da quello dell’uomo; anche quando questi esprimerà nella maniera più convinta il suo giudizio e troverà la sua coscienza pronta a richiamarlo per avere sbagliato, egli dovrà avere certezza di un rinvio ancora più grande in grado di conoscere e comprendere con maggior profondità la sua stessa coscienza. Il mistero dell’esistenza personale trova nella coscienza uno dei suoi tratti più convincenti. Essa diventa realmente sintesi di quell’insieme di elementi che formano la personalità di ognuno e ne segnano l’unicità dell’esistenza. Nella coscienza trovano così posto i pensieri più reconditi, i sentimenti più intimi e le aspirazioni più impenetrabili… tutto in lei parla del mistero e di come esso possa trovare soluzione alla luce di un mistero più grande. Qui la coscienza, se non vuole soccombere sotto il peso della propria responsabilità, deve aprirsi necessariamente all’amore di Dio che tutto comprende e tutto sopporta perché si compiace della verità. Non sarà da dimenticare, pertanto, che il richiamo inviolabile alla propria coscienza sempre, dovunque, nonostante tutto è criterio e norma di libertà nella misura in cui essa si rapporta oggettivamente alla verità e di essa se ne fa una certezza per il desiderio di conquistarla nella fatica di ogni giorno.
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ROCK
musica
Sheryl Crow incontri col destino di Stefano Bianchi ltre, al suo posto, avrebbero gettato la spugna. Lei, al contrario, quando la vita ha smesso di sorriderle ha affrontato le «deviazioni» del destino (cioè Detours, il titolo del nuovo Cd) senza timore. Sheryl Crow, classe 1962, origini non lontane da Memphis, nove Grammy Awards in curriculum e almeno un disco entrato di diritto fra i migliori del rock al femminile (Tuesday Night Music Club del ’93, con pezzi forti come Run Baby Run e All I Wanna Do), tre anni fa esternò con Wildflower quella gioia di vivere che faceva rima con la storia d’amore condivisa col ciclista Lance Armstrong e finita sui rotocalchi di mezzo mondo. Poi, all’improvviso, «puff»: fidanzamento alle ortiche e un tumore al seno contro cui combattere. Ma dopo la diagnosi ecco la cura, la voglia di rientrare a ogni costo sulle scene e l’adozione del piccolo Wyatt, cui ha dedicato il disco e la canzone di fine scaletta, Lullaby For Wyatt. Sheryl Crow ha voltato pagina. Rabbiosamente. Schiacciando il destino come un mozzicone di sigaretta, sotto gli stivali da cowgirl. Fa-
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cendo, come d’abitudine, la rockeuse e l’interprete melodica: perché l’una non può fare a meno dell’altra; ed entrambe, nelle 14 canzoni dell’album, hanno trovato la giusta alchimìa. God Bless This Mess. Dio benedica questo casino, intona all’inizio Sheryl con una voce folk che sembra incisa per strada, con un registratore portatile. Allude ai suoi, di casini, ma anche a quelli dell’America: a una guerra basata sulle bugie (a war all based on lies) e a una famiglia con un figlio che torna dall’inferno iracheno. Da qui in poi, Detours snocciola il suo mix di tematiche individuali e collettive: se Diamond Ring, con le sue rauche atmosfere, si riferisce all’anello di fidanzamento («Ho rovinato il nostro nido d’amore facendoti una piccola richiesta, un anello di diamanti») e la psichedelica Make It Go Away (Radiation Song) allude senza mezzi termini alla chemioterapia («Sdraiata sopra un tavolo, elemosinando un’altra possibilità»), Peace Be Upon Us (impreziosita dal canto arabo di Ahmed Al Hirmi) punta all’impegno civile e Gasoline (ospite d’onore: Ben Harper) immagina folli escalation per l’oro nero, una ri-
in libreria
volta tale e quale a quella del tè (nel 1773, a Boston) e le precise responsabilità dei «bastardi di Washington». La cantautrice, in concreto, ritorna alla ricetta vincente di Tuesday Night Music Club (dieci milioni di copie vendute): l’avvicendarsi di rock, sonorità acustiche, pop. Lo dimostrano la persuasione elettrica di Shine Over Babylon, l’orecchiabilità di Love Is Free (in netto contrasto col tema: l’uragano Katrina che devastò New Orleans), il country & western di Detours, l’impasto di archi e i lampi di soul music dentro Now That You’re Gone, la ballabilità di Out Of Our Heads, la verve intimista di Drunk With The Thought Of You. Impegno e disimpegno. Per un risultato che convince. Sheryl Crow, Detours, A&M/Universal, 20,90 euro
mondo
riviste
NOSTALGIA DI CAROSONE
“TORTURARE” CON I BEE GEES
BOLLANI IN TOURNÉE CON “CARIOCA”
iplomato in pianoforte a diciassette anni, direttore d’orchestra in Africa, musicista nelle orchestrine italiane del dopoguerra che ancora non ne avevano scoperto versatilità e talento. La storia di Renato Carosone, raccontata da Enzo Giannelli (Renato Carosone, Curcio editore, 27,00 euro) descrive la parabola di un artista che tutta la vita fece i conti con le vicende storiche che ne decisero l’esistenza e la popo-
seguito dell’enorme scalpore suscitato dall’ultima collezione di immagini provenienti dal carcere delle torture di Abu Ghraib, il sito americano di sinistra di giornalismo investigativo Mother Jones.com, nella sua inesausta opera anti Bush, ha pubblicato una speciale tracklist del terrore. Una serie di brani musicali, caratterizzati da riff furibondi ed effetti psichedelici, utilizzati in alcune pri-
econdo musicista della storia a suonare il pianoforte in una favela, dopo O Maestro Jobim, Stefano Bollani riconferma le doti inventive e lo smisurato eclettismo che ha segnato il suo primo decennio di carriera in Carioca. Ispirato dal ritmo torrido e sensuale della bossa nova, l’ultimo lavoro del pianista italiano si segnala per una rilettura originale di alcune gemme della musica brasileira di Pixinguinha, Edu
Parabola di un artista che unì arrangiamenti preziosi all’arte di arrangiarsi
La crociata anti-Bush di Mother Jones.com: ecco le canzoni usate nelle prigioni americane
larità. Sospeso fra rock e jazz, fra maliziosi swing e irridenti boogie woogie, Carosone intrise di profonda ironia le vicende collettive che segnarono l’ingresso dell’Italia nell’era di un variopinto conformismo yankee. Lo fece da par suo, con bonaria e dissacrante allegria, legando insieme arrangiamenti preziosi alla preziosa arte di arrangiarsi. Ideale controcanto della commedia all’italiana, e specchio di una nazione in ginocchio che s’avanza tra mille contraddizioni nel boom degli anni Sessanta, il musicista lasciò le scene all’apice del successo. I due cd, allegati al libro, ce ne restituiscono un’insanabile nostalgia.
gioni americane «per indurre la privazione di sonno, disorientare i detenuti durante le interrogazioni e coprire le grida». Guardie e addetti alle confessioni si avvalgono di pezzi durissimi come quelli dei Dope e dei Decide, gruppi nu-metal americani, usi a infarcire di bestemmie le proprie composizioni, ma anche di classici stordenti come Enter Sandman dei Metallica e Hells Bells degli Acdc. Non mancano singoli tratti dal repertorio più convulso di Eminem e dei Rage against the machine, ma anche tracce dei Bee Gees e di Christina Aguilera.
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Secondo “Certenotti.net” è un trionfo annunciato. Artisti brasiliani nella band Lobo e Chico Buarque. Un album, lontano dalle esasperanti secche della filologia jazzistica, capace di reinventare ritmi e stili in un mix di lirismo e ritmo travolgente. A tre mesi dalla sua fortunata uscita, Bollani propone Carioca nelle molte città italiane che lo vedranno sul palco nel mese di marzo. Una tournée presentata da Certenotti.net come un trionfo annunciato. Coadiuvato da artisti brasiliani d’eccezione come Jorge Helder al contrabbasso e Zè Nogueira al sassofono, il pianista italiano sarà accompagnato nel tour dai volontari del Cospe, associazione onlus che promuove la solidarietà internazionale
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JAZZ
zapping
LANNY KRAVITZ Più modello che musicista
McPartland, 90 anni e un nuovo cd di Adriano Mazzoletti
di Bruno Giurato venuto il momento di scrollarsi di dosso la paura. L’ondata di terrore che ha paralizzato tutti dopo l’11 settembre non può durare in eterno». Così dichiara Lanny Kravitz, pantaloni a sigaretta neri, maglione grigio extralarge, stivaloni con inserti e punta in oro, stile texano. «Non vedo l’ora di riprendere a suonare dal vivo. Sarò in Italia il 13 luglio a Pistoia» proferisce Lenny, giacca di pelle attillata, collanine in pietre afro, canotta nera. «Dopo l’album Baptism ho iniziato a chiedermi chi ero e dove andavo. E allora ho deciso di tornare a quello che è il mio vero lato della personalità. Dal punto di vista musicale sono molto simile al ragazzo che 19 anni fa incise il suo primo album Let love rule» enuncia Kravitz, giacca di gabardine bleu (sulle maniche c’è ancora l’imbastitura), pantaloni gessato, occhiali scuri e cappello bianco floscio. E ancora il cantautore e chitarrista dice la sua sull’andamento delle sfide elettorali americane. «La competizione tra Barack Obama e Hillary Clinton dà l’idea dell’America di oggi. Ma ora ci vogliono i fatti», afferma, giacca argentata con collo di pelliccia di volpe (anch’essa argentata) e cappotto bianco di lana grossa lavorata a maglia. Chi scrive ha scaricato l’ultimo disco di Kravitz. Un cadeau di canzoni un po’ funk e un po’ Hendrix, un preciso lavoro di taglia e cuci. Chi scrive l’ha anche visto dal vivo, il Kravitz, qualche anno fa a Roma. Quaranta minuti di concerto (sic!) con tanti cambi d’abito. E a questo punto viene un dubbio. Ma perché mai ha deciso di presentarsi dal vivo a Pistoia e al Milano Jazzin’ Festival? La settimana della moda non gli andava bene?
«È
a pianista Marian McPartland, che festeggerà il prossimo 20 marzo il suo novantesimo compleanno, è tornata in studio di registrazione. Fra tre giorni infatti, a nove anni dal precedente, sarà pubblicato il suo nuovo album. Si tratta di Twlight Word, per Concord Record, una delle più attive etichette discografiche, in cui la celebre pianista è accompagnata dal contrabbassista Gary Mazzaroppi e dal batterista Glenn Davis suoi partners abituali. Certo la McPartland non ha la fama di Keith Jarrett, Herbie Hancock, McCoy Tyner o Kenny Barron, ma nel ristretto ambito del mondo femminile del jazz dove le «quote rosa» sono infinitamente inferiori a quelle della politica, questa pianista di novant’anni continua a essere una delle figure più rappresentative. Inglese di nascita, conobbe in Europa nell’immeditato dopoguerra, il cornettista di Chicago Jimmy McPartland uno dei maggiori rappresentanti di quel Chicago Style della fine degli anni Venti, che sposò due anni dopo. Anche se inizialmente
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la pianista inglese era indirizzata verso uno stile per l’epoca progressista, seppe uniformarsi al linguaggio tradizionale collaborando con i complessi diretti dal marito. In seguito formò un suo trio, si dedicò alla composizione e fondò una propria etichetta discografica, la Halcyon. Musicista di notevoli capacità, è in grado di elaborare frasi a volte complesse ma di gusto squisito con un virtuosismo non fine a se stesso, ma veicolo di una partecipazione emotiva che si avverte nel corso delle linee improvvisate sempre con grande feeling jazzistico. La sua copiosa discografia, più di cinquanta album a suo nome, ne fanno indubbiamente la migliore strumentista dell’intera storia del jazz. Le sue colleghe, da Lil Hardin, pianista degli Hot Five di Louis Armstrong, a Mary Lou Williams che scrisse pagine importanti per l’orchestra di Andy Kirk, alle più giovani, Barbara Carroll, la giapponese Toshiko Akyoshi, le brasiliane Tania Maria e Eliane Elias, la canadese Diane Krall, oltre a Carla Bley, Joanne Brackeen e Blossom Dearie non raggiungono, come strumentiste, la sua inventiva. Se rare sono le pianiste ancor meno le soliste di strumenti a fiato. Fra le trombettiste da ricordare Valaida Snow, che conobbe il successo in Europa negli anni Trenta e Clora Bryant, oltre alla sassofonista inglese Kathleen Stobart e la trombonista Melba Liston, ma la loro affermazione è stata modesta. Ottennero invece grande notorietà la vibrafonista Marjorie Hyams che tanto contribuì al successo del celebre quintetto di George Shearing, la chitarrista Mary Osborne, l’arpista Dorothy Ashby, l’organista Rhoda Scott e l’eccellente batterista Terry Lynne Carrington. A queste da qualche tempo se ne stanno aggiungendo altre, Maria Schneider e l’italiana Stefania Tallini, a significare che anche le donne stanno entrando nel jazz dalla porta principale e non solo come cantanti. Marian McPartland, Twlight Word, Concord Record
DANZA
La new age della videodanza di Diana Del Monte ata alla fine del Diciannovesimo secolo grazie ai fratelli Lumière, si è man mano trasformata in una forma d’arte che trova nel movimento il suo maggior interesse nonché la materia del suo lavoro. State pensando al cinema? Siete fuori strada. Stiamo parlando di videodanza. Il termine è relativamente recente, utilizzato per la prima volta nel 1982 in Francia, ma la sua storia ha radici molto più lontane e risale, appunto, alle prime sperimentazioni cinematografiche dei fratelli Lumière e di George Melies, padre del cinema sperimentale. È nel cinema sperimentale infatti, e in seguito nella videoarte, che la videodanza trova un terreno fertile e, tra alti e bassi, raggiunge il suo periodo d’oro negli anni Ottanta, quando oltre a essere al centro di rassegne e festival, inizia a svelare un interessante sbocco commerciale attraverso la musica pop: il videoclip. Di quegli anni restano indimenticati alcuni lavori in cui coreografi e registi si misuravano nella realizzazione di corti dove musica, danza e immagine si fondevano in modo dinamico e coinvolgente. Un esempio per tutti: i 16 minuti dello storico Thriller di Michael Jakson, di cui sono stati recente-
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mente celebrati i 25 anni. Danza in video è stato il tema e il titolo della rassegna che si è appena svolta All’Auditorium Parco della Musica di Roma con la videodanza nel ruolo di protagonista. La manifestazione, abbinata al festival Equilibrio, è nata sotto lo sguardo attento di Giorgio Barberio Corsetti direttore artistico del festival e noto cineasta. Ma a cosa si assiste quando si segue una rassegna di videodanza? Sul grande schermo vengono proiettati corti e mediometraggi costruiti sulla danza. Opere che non vogliono in nessun modo riprodurre uno spettacolo dal vivo attraverso una ripresa fissa, ma riscrivere il movimento e il ritmo attraverso un altro mezzo, il video. A Danza in video è stata proiettata un’antologia di lavori: da documenti che rappresentano la preistoria di quest’arte, come Le ballet meccanique di Fernand Leger o Le lys, che ci riporta alle danze sfarfallanti di fine Ottocento di Loie Fuller, fino a opere più recenti e importanti. Come Merce by Merce by Paik (1970) di Merce Cunningham e Nam June Paik, una pietra miliare di tutta la videoarte, uno dei primi passi nel lavoro di acquisizione ed elaborazione di immagini con il computer; ma anche le rielaborazioni video degli spettacoli di Martha Graham, Pina Bau-
sch, Alain Platel. Immancabile la proiezione di The cost of living dei DV8, un mediometraggio umoristico, nel senso pirandelliano del termine, dal sapore agrodolce, esempio di intelligenza stilistica contemporanea. Impossibile, però, non notare i grandi assenti: Maya Deren, Birgit Cullberg e Hilary Harris, nomi determinanti per la storia della videodanza e non solo. Oggi anche la videodanza, come avviene a tutta la videoarte, sta scoprendo una nuova epoca d’oro grazie alla tecnologia digitale e a internet. Nel web, oltre ai blog degli artisti, è possibile rintracciare ogni genere di documento attraverso siti come l’ormai famosissimo YouTube, in grado di fornire vere e proprie chicche. A chi non volesse mettersi a caccia di rarità in rete, segnaliamo festival come Il coreografo elettronico a Napoli e il Riccione TTV .
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NARRATIVA
libri
Don DeLillo La caduta dopo l’11 settembre F di Pier Mario Fasanotti
orse non «prende» come molti si aspettavano il romanzo di DeLillo che scava nella deriva psicologica dopo il crollo delle Torri Gemelle. Lo si deve leggere estraendo dal testo passi delicati e violenti, pur sapendo che l’impasto narrativo non produce una forma compatta. Le prime pagine sono superbe e il lettore ha la sensazione di essere ricoperto di polvere, di avere nelle orecchie «il boato», d’essere circondato da fogli e stracci, «oggetti soprannaturali nel sudario del mattino». Il crollo dei grattacieli «è riflesso nelle facce», e causa «uno stato di sospensione» che va ben oltre l’incidente, lo spavento, il terrore. Questa «sospensione» DeLillo la trascina in una famiglia, coniugi divorziati, e pone in luce gli equilibri che saltano e quelli che sono già saltati senza che a essi siano seguite spiegazioni. Un uomo si salva. È malconcio e tiene stretta nella mano una valigetta. Che scoprirà non sua. Istintivamente si fa portare nella casa dell’ex moglie, l’unica àncora che riesce a vedere. Otto anni prima la separazione, ma «la sua mente tornava ai primi tempi, di quella cupa lungaggine che era diventato il loro matrimonio». Lui, «grigio di fuliggine da capo a piedi, come fatto di fumo», cerca di guarire a casa di lei, che si occupa di poesia, il più decente tra i rimedi, e invoglia i sopravissuti a scrivere di
tutto, anche di quel Dio che è parso così distratto quando gli aerei dei terroristi islamici hanno volato sopra il diritto alla vita del mondo intero, quel giorno fattosi America. New York reagisce («Perfino a New York desidero New York»), oltre la retorica. La folla si blocca perché c’è «un artista performativo» che mima la caduta dall’alto delle case. Appare in vari punti della città, appeso a questa o a quella struttura, sempre a testa in giù, con indosso giacca e pantaloni, una cravatta e scarpe eleganti: «Richiamava, naturalmente, quei momenti assoluti nelle torri in fiamme, quando la gente era precipitata, o era stata costretta a saltare». Scrive DeLillo: «C’era gente che gli gridava contro, indignata dallo spettacolo, da quella messinscena dell’umana disperazione, l’ultimo respiro fugace di un corpo, e ciò che tratteneva. Tratteneva lo sguardo del mondo…. c’era quella sua franchezza terribile… la figura in caduta che trascina con sé un terrore collettivo». E l’uomo con la valigetta dorme accanto alla moglie, «e mai un sospiro di sesso». «Aspetta… c’è una prolungata pausa di ricognizione su mille giorni e notti amare, difficili da accantonare». La polvere del crollo pervade sia passato che presente. Don DeLillo, L’uomo che cade, Einaudi, 257 pagine, 17,50 euro
riletture
Spilli e velluto... lo stile di Gianna Manzini di Leone Piccioni ianna Manzini è forse stata dimenticata? Da molti anni non si vedono ristampe di alcuni suoi libri bellissimi presso grandi editori. Eppure è stata una presenza quasi fondamentale per il rilancio di una nuova prosa che poteva confluire in un romanzo non tanto fatto di avvenimenti quanto di frammenti della memoria. La Manzini è pistoiese (nata nel 1896 è morta a Roma nel 1974) e molti pistoiesi sono rimasti fedeli all’ammirazione e all’affetto per lei. E si dà il caso che la «Libreria dell’Orso» di Pistoia, specialmente per l’associazione letteraria «Amici di Groppoli», abbia ristampato in un cofanetto tre prove importanti: La sparviera (1956); il libro dedicato al padre Ritratto in piedi del ’71, e l’altro, quasi un testamento,
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Sulla soglia del ’73. Il cofanetto va sotto il titolo Dietro la vita. Alla sua nuova prosa condussero certamente le esperienze italiane di Cardarelli e di Cecchi per l’impegno stilistico e per quella scrittura che tendeva fatalmente alla poesia, ma ancor più l’esperienza inglese di una delle più grandi scrittrici del secolo scorso, Virginia Woolf. Da notare che all’opera della Manzini non è stato dedicato neppure un «Meridiano» di Mondadori né, se non mi sbaglio, le sarà dedicato. L’impostazione stilistica della Manzini colpì certamente anche l’attività narrativa o prosastica di scrittori come Vittorini. I suoi capolavori, a mio modo di vedere, sono Tempo innamorato del ’28, Rive remote del ’40, La sparviera del ’56. Non credo perciò, e so di essere molto minoritario in questa affermazione, che Ritratto in piedi sia il meglio che la Man-
zini ha dato: certamente in quest’opera c’è un irrobustimento dell’architrave narrativo, ma spariscono certe visioni improvvise, certi scorci di paesaggio, certe invenzioni che si potrebbero definire anche pitture. Vecchia storia è un capitoletto di Venti racconti (1941): «Non voleva finire il giorno… d’un tratto cominciò a cadere una pioggia d’effimere… ormai le lampade erano tutte offuscate… giuncato di farfalle morte, il ponte sembrava gonfio e infiorato per una processione. Passò il cavallo e cadde con tanta dolcezza che pareva si inginocchiasse». Solo poche righe a valere di più dell’intero racconto. Molte altre locuzioni con straordinarie libertà sintattiche (vedi Cardarelli) si trovano seminate nei libri di Gianna Manzini. Ungaretti diceva che la sua opera è come un velluto: si accarezza, si accarezza ancora, si sente la qualità del-
la morbidezza del tessuto ma qua e là ogni tanto si trovano spilli che bucano. La chiave per far scattare il grimaldello del segreto letterario è nella Manzini la psicologia e l’affermazione assai potente degli inserti della memoria che possono determinarsi anche tutto d’un tratto e inconsapevolmente. Tutta presente, attenta alle pagine, impegnata nella punteggiatura, controllata in ogni sillaba che le cade dalla penna, la Manzini crede al rigore geometrico della sua grafia (tante parentesi come i nascosti interni colloqui a controcanto). Prima ancora della fase della «sua» narrativa, il suo impegno s’afferma nel perenne e dolente partecipare all’episodio, con risultati talvolta di drammaticità.Altre volte, infine, la Manzini parte dal nulla con un processo di rimandi e di modi dialettici in un gioco d’assurdo che talora la svaga.
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RACCONTI
E il bruco René divenne farfalla di Giovanni F. Accolla
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uale consapevolezza ha la crisalide, della farfalla che diventerà? Non è un mantra o uno stentato esercizio poetico, ma è ciò che ho continuato a domandarmi nel corso della lettura dei Serpenti d’argento, il volume che racchiude i racconti giovanili di Rainer Maria Rilke da pochi giorni dato alle stampe da Guanda. In effetti, qui è ben difficile evincere, seppure in germe, il genio del sommo poeta che verrà. Siamo nel misterioso periodo praghese, in quella fase d’esordio in cui Rilke risponde ancora al nome di René (il suo autentico nome di battesimo) e che egli stesso di lì a poco, trasformandosi in Rainer Maria, cercherà in ogni modo di dimenticare e far dimenticare non tornando mai più a Praga dopo averla lasciata nel 1896. Così il dato più interessante per biografi, studiosi ed esegeti rimane l’accanimento, che il giovane Rilke mise nell’annientare i primi decen-
ni della sua vita: l’educazione di tipo militare, la scuola a indirizzo commerciale, la vacuità dei giorni borghesi e i sogni bouvaristici della madre. Tutto sembra indicare che la grande poesia in Rilke nasca da un atto di volontà, da un gesto di rivolta contro il destino, da una fuga o - se si vuole rimanere in metafora - da un volo verso un destino di grazia liberata fatto di incontri, passioni e spazi più ampi. Prima tappa Monaco, dove conosce Lou Andreas Salomè, un’intellettuale di circa quindici anni più anziana di lui, già amante di Nietzsche e che più tardi sarebbe divenuta allieva e collaboratrice di Freud. Di qui in poi Rilke tesse la trama della propria esistenza su un ordito a volte, se si vuole, narcisistico, ma completamente e strenuamente subordinato a un ideale estetico: la realtà può mutare in desiderio e tanto più la scommessa è alta (perfino improbabile) tanto più il risultato acquisisce valore. Non c’è miseria che la poesia non converte in ricchezza, il mondo filtrato dal sentire interiore acquisisce
la fragranza del dato primigenio, vero come la poesia. È una poetica del «sormontamento» (dell’inseguimento allo spasmo tra vita e parola) continuo e incessante in cui i racconti giovanili, seppure stancamente naturalistici e un po’ patetici, hanno il valore testimoniale di un percorso. Dal naturalismo allo sgomento dell’esperienza, dal patetico al senso più cristallino del tragico. Il giovane Rilke non può far altro che andare avanti, misurarsi col movimento e da questo rinascere: dal chiuso orizzonte intellettuale dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, all’infinita e ardimentosa apertura delle Nuove Poesie. Rainer Maria Rilke, Serpenti d’argento, Guanda, 234 pagine, 16,50 euro
SAGGI
La scuola raccontata dai professori
di Riccardo Paradisi ulli che picchiano e pupe che si spogliano sopra banchi e cattedre - proprio come come cubiste - o rissano proprio come i loro coetanei maschi e anche con più ferocia alla bisogna. La scuola italiana ci viene presentata ormai come uno zoo e YouTube sembrerebbe confermare questa condizione di degrado e di squallore viste le centinaia di riprese di atti di violenza che la rete rimbalza e che finiscono sempre più spesso anche sui Tg. Ma la scuola italiana è davvero questa roba qui? Studenti senza più freni, in preda agli istinti
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primari, e docenti impotenti e frustrati incapaci di ottenere un minimo di disciplina e ormai impossibilitati a trasmettere anche un minimo corredo di conoscenze? È anche questo e sarebbe sciocco negarlo ma c’è anche qualche luce e sarebbe ancora più sciocco non vederla e non farla vedere. Il quadro che Marco Imarisio, inviato del Corriere della Sera traccia dell’istruzione italiana nel suo Mal di scuola merita di essere letto con attenzione perché ci fa guardare i corridoi e le aule dei nostri istituti e licei con gli occhi dei professori. Dando voce ai loro sogni e alla loro rabbia, rivelandone virtù e vizi, ma
soprattutto raccontandone la condizione difficile, esposti di fronte agli studenti ai genitori e sempre più spesso al giudizio dei media, che certo non agevolano il loro lavoro. Spesso soli con le loro frustrazioni ma anche testimoni di storie commoventi, di piccoli e grandi successi, di slanci e progressi insperati. Un reportage quello di Imarisio pieno di nomi, volti, voci, vite che riporta al centro la questione della formazione che la classe politica italiana del dopoguerra ha sempre rimosso e ignorato assumendosi una responsabilità storica gravissima. I dati dell’ultimo rapporto Pisa sul livello di istruzione nel nostro Paese
sono del resto spaventosi. A essi è seguito qualche servizio giornalistico e qualche dichiarazione d’ufficio delle istituzioni. Poi il silenzio, in attesa del prossimo atto di bullismo. In Germania, dopo che i dati rivelarono una crisi nella formazione scolastica seguirono anni di dibattiti serratissimi, analisi spietate, provvedimenti poltici. Lì la situazione è molto migliorata, il corpo docente professionalizzato, valutato e motivato. In Italia siamo ancora ai miti di Don Milani e dei corsi d’aggiornamento. Marco Imarisio, Mal di scuola, Rizzoli, 192 pagine, 9,80 euro
FILOSOFIA
ulius Evola fu un pensatore controverso e, in un senso positivo, contraddittorio. Sono note le sue posizioni che hanno suscitato polemiche e attirato accuse infondate come quella di razzismo o generiche come quella di fascismo, ma poco conosciuto è il nucleo teoretico del suo pensiero, che merita di essere approfondito e compreso proprio nelle sue tensioni interne, spesso ostiche e talvolta inceppate, ma sempre stimolanti. Un contributo alla comprensione di questi nodi centrali ci viene da una nuova edizione di un testo del 1930, nel quadro delle Opere di Evola curate da Gianfranco de Turris. Scritto fra il 1917 e il 1924, questo lavoro si concentra sulla determinazione di un principio immanente in base al quale spiegare sia la realtà sia la trascendenza. Questo principio, che è anche il punto cardinale del pensiero di Evola, è l’Io, la cui po-
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Prima di diventare forze storiche le idee nascono e crescono in ristrette cerchie di uomini dediti al pensiero. Nei circoli letterari, artistici e spirituali. A raccontare alcuni di questi gruppi, le loro idee, la loro organizzazione e i loro scopi esce ora, a cura di Francesco Zambon, un volume collettaneo dall’evocativo titolo Cenacoli (Edizioni Medusa, 270 pagine, 35 euro). I saggi riuniti nel volume, corredato da un’ampia documentazione iconografica, affrontano la storia dei cenacoli lungo un ampio arco di tempo che va dall’antichità classica al ’900, dai culti isiaci in Grecia alla rivista Antaios diretta da Mircea Eliade e Ernst Jünger, dai cenacoli alchemici ai fedeli d’amore persiani. Al volume, tra gli altri, hanno collaborato Ezio Albrile, linda Bisello, Alessandro Grossato, Carlo Saccone. «Bamboccioni»:
così il ministro Tommaso Padoa Schioppa definì i giovani che restavano a lungo tra le mura famigliari, lui che a studiare in America andò coi soldi di papà. Un insulto gratuito, tanto più che la Sesta indagine dell’istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia (Il Mulino, 545 pagine, 29,00 euro) racconta di una realtà più complessa. «Il fenomeno della famiglia lunga non è solo prodotto del mammismo dei giovani italiani e della complicità dei loro genitori - scrive Alessandro Cavalli nella sua introduzione - ha avuto un peso notevole nel prolungare la loro moratoria l’assenza di una politica che abbia in vista gli interessi delle generazioni più giovani».
«In mezzo a una
Evola e il valore trascendentale dell’Io di Renato Cristin
altre letture
tenza viene presentata mostrandone il percorso, come fece Hegel con la nozione di spirito. In un intreccio originale fra concetti della filosofia occidentale ed elementi del pensiero orientale, indiano soprattutto, i momenti particolari dell’Io sono concepiti come tappe sulla via dell’individuo assoluto. Se l’essenza dell’esistenza è l’atto, se il cosmo è pura forza, se l’individuo è finitezza e infinità insieme, l’individuo in quanto esistente è insieme atto e potenza. Qui risiede la fecondità ma anche l’aporia della riflessione di Evola: l’abbandono dell’Io nella «pura sostanza magica» e «l’autogenerazione dell’individuo assoluto» non si concilierebbero nella mediazione del mondo ma solo nell’«atto unico, come infinita identità e infinita differenza». Questa aporia è forse risolvibile trasferendo il senso prospettico della riflessione di Evola su un piano metodologicamente più produttivo, partendo dalla proposizione: «nulla è, che non sia
per l’Io». Se, come scrive Massimo Donà nell’Introduzione, nella sua straordinarietà il pensiero di Evola è destinato a «chi abbia preso coscienza del valore ineludibilmente trascendentale dell’Io», allora la teoria evoliana dell’individuo assoluto si renderebbe fruttuosa nel quadro teorico della donazione soggettivo-trascendentale di senso. Julius Evola, Fenomenologia dell’individuo assoluto, Edizioni Mediterranee, 277 pagine, 21,90 euro
città post-industriale e buia si staglia una struttura piramidale. All’interno un poliziotto compie un test su un presunto replicante. Le domande sono illogiche, l’interrogato si alza e spara all’intervistatore». A chi sostiene che gli anni 80 siano stati anni vuoti basterebbe rispondere con due parole: Blade Runner (la scena di prima è all’inizio della sceneggiatura del film). Molto più di un cult movie. Un capolavoro teorico sulla postmodernità, un affresco mobile sulla psicologia umana alla soglia della propria trasmutazione. Roy Menarini, professore associato di storia e critica del cinema presso il Dams di Gorizia, dedica a Blade Runner e al suo regista Ridley Scott un saggio molto denso che merita d’essere letto e studiato. Lo pubblica la meritevolissima Lindau (108 pagine, 12,00 euro).
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FUOCO, SACCHI, CATRAMI, MUFFE, CUCITURE, STRAPPI, FERRI, CRETTI, PLASTICA, CELLOTEX… STORIA DI UN MAESTRO CHE NON EBBE MAESTRI, DALLE PRIME “CREATURE” (IL “SACCO” DEL ’49) ALLA CONSACRAZIONE INTERNAZIONALE
BURRI, IL BARBARO corpo a corpo con la materia di Mario Bernardi Guardi u alla fine degli anni Quaranta che partì all’assalto del cielo e dintorni. E lo fece armandosi di materiali aspri e forti, succhiati alla terra o al lavoro dell’uomo. Fuoco, sacchi, catrami, muffe, cuciture, strappi, ferri, cretti, plastica, cellotex: le «creature» di Alberto Burri, modernissimo e barbaro, campione scandaloso dell’astratto e dell’informale. Proprio lui che veniva da Città di Castello, Umbria verde e ondulata, paesaggi e figure lavorati prima da Dio e poi da innamorati della forma come Luca Signorelli, i Della Robbia, Raffaello Sanzio… Per un sacco, ci par difficile parlare di bellezza. Ma Burri non era d’accordo: «La bellezza - diceva - può essere contenuta in qualunque materiale, anche il più povero». A raccontarci l’uomo e l’artista è Piero Palumbo in una intensa biografia, fortissimamente voluta dal presidente della Quadriennale di Roma, Gino Agnese, che offre anche la sua amicale testimonianza insieme a Giovanni Carandente e a Lorenza Trucchi (Burri. Una vita, Electa, 207 pagine, 29,00 euro). Che tipo, Burri… Anche le foto (il libro di Palumbo ne è ampiamente corredato) servono a capire. Eccolo, giovane, bruno di carnagione, di capelli, di occhi. Ci trovi dentro qualcosa d’antico e di misterioso: radici etrusche, vien voglia di dire.Ti senti frugato nel cuore, con appuntita ironia. Avverti che quegli occhi ti si avvicinano e poi si ritraggono: è una confidenza che tiene a bada, trattiene, si
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caccia, il biliardo, la fotografia, la compagnia degli amici, le ragazze. Meno la scuola, ma alla fine il diploma liceale lo prende. E si iscrive alla facoltà di Medicina, come il fratello Vittorio. Lo zio medico, del resto, ha tracciato il solco. Un altro che lo ha fatto, e in grande stile nazionalpopolare, è Mussolini. Naturaliter fascista, il giovane di belle speranze Alberto «crede» e «obbedisce», e altro non aspetta che combattere una bella guerra in camicia nera. Se poi al mito della patria proletaria si accompagna quello dell’avventura in terre d’Oltremare, meglio ancora. E dunque, se l’Italia va in Abissinia, bisogna che ci vada anche lui.
Partenza da Napoli, col piroscafo Saturnia, insieme agli universitari della 104° legione. A salutare i «giovani leoni» c’è il principe ereditario Umberto di Savoia, che dà a ciascuno un distintivo d’argento. Alberto ne è fiero. Ma quando, nel settembre del ’43, «muore» la patria e il re e Badoglio se la danno a gambe, lasciando allo sbando l’Italia, il distintivo finisce nella spazzatura. Con la monarchia il nostro ha chiuso. Nel ’46 voterà per la Repubblica e negli anni Settanta rifiuterà di essere insignito dell’ordine civile di Savoia dallo stesso Umberto, ormai malinconico re in esilio. Perché Burri è un tipo tosto: ha carattere - dunque un «brutto» carattere - e alla schiena diritta ci tiene. E lo vedremo. Per adesso, eccolo al battesimo di fuoco in Abissi-
Le opere e i giorni del grande artista di Città di Castello ispido, irriducibile, probo, schietto, appartato nella biografia che gli ha dedicato Piero Palumbo. Piena di aneddoti, notizie, curiosità… incastona in un dominio tutto suo, attenzione a non varcarlo, attenzione a non chieder troppo. Chi era, com’era, insomma, questo medico e pittore senza maestri? Già, perché prima dell’artista scandaloso c’è il medico coscienzioso. E prima ancora? Beh, un ragazzo di Città di Castello, figlio di un commerciante di vino di origine aretina (Etruria d.o.c.) «robusto e cordiale» e di una maestra, devota alla sua missione (lezioni private gratuite ai bimbi più «duri»), devota a Dio, ma anche piena di curiosità culturali, e convinta «montessoriana», dunque aperta alle innovazioni, al di fuori delle direttive ufficiali. Il quadro: media borghesia provinciale, anni Trenta ,valori, lavoro, buone letture… A questo viene educato Alberto. Che è un divoratore di libri, ma a cui la disciplina scolastica sta un po’ stretta. Ama i classici, ama i fumetti, ama gli eroi e le eroiche sfide. E tante altre cose: la natura, la
nia: tra i ricordi, lo zaino bucato da un proiettile durante gli scontri all’arma bianca sul costone dell’Enda Gaber. Comunque, Roma ha rivendicato l’Impero, c’è riuscita, e Burri torna a casa. Si immerge nei libri senza trascurare calcio e biliardo, caccia e ragazze, ovviamente -, studia, dà gli esami a Medicina. Fa appena in tempo a laurearsi che la patria ha bisogno di lui un’altra volta. Prima nei Balcani, a presidio di Cettigne, l’antica capitale del Montenegro, e in quell’inferno di furie e sangue, il giovane sottotenente medico fa il suo dovere. Poi, nel marzo del ’43 (un paio di mesi prima, il fratello Vittorio è caduto sul fronte russo, combattendo eroicamente e meritandosi una medaglia d’argento alla memoria), viene nuovamente mobilitato e assegnato al X Battaglione M, che opera nell’Africa settentrionale. Altro che gloriose avventure, però! Le operazioni militari vanno verso la catastrofe,
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a maggio le forze dell’Asse si arrendono. Per i vinti si aprono i campi di prigionia. Variamente dislocati. Anche negli Stati Uniti. Burri finisce a Hereford, nel Texas. Insieme ad altri tremila compagni. Qualcuno destinato a diventare famoso. Come i futuri scrittori Gaetano Tumiati, Dante Trosi, Giuseppe Berto. Proprio quel Berto che a Hereford, dopo che gli è arrivata notizia del terribile bombardamento scatenato sulla «sua» Treviso, scrive Tra la perduta gente, il romanzo che Longanesi nel dopoguerra pubblicherà con un titolo di più immediata suggestione: Il cielo è rosso. Sotto il sole del Texas, i prigionieri si ingegnano in mille modi: c’è chi stila il giornalino del campo, chi studia l’inglese, chi organizza partite di calcio, chi costruisce mobili. E Burri? Nel dopoguerra dirà al suo intervistatore Stefano Zorzi. «Quando fui deportato in America l’unico bagaglio che portai con me fu lo zainetto sanitario che conteneva fiale, medicine e altro. Pensavo che ne avrei avuto bisogno durante la prigionia. E invece fu la prima cosa che mi tolsero. Mi tolsero lo zainetto e mi rubarono l’orologio. Ecco quale fu per me il benvenuto». Gli impediscono di fare il medico e lui dà l’addio alla medicina. Per sempre. Dipingerà. No, non sarà un «pittore della domenica». L’arte vale come scelta di vita. Acquerelli, schizzi per apprendistato: poi, quando riesce a procurarsi veri colori a olio, ecco
mo ma di limitata sostanza perché fatto a base di riso». Urge riempire i buchi dello stomaco. Come? Le cavallette non saranno un cibo ottimo, ma nel campo sono abbondanti. Fritte, poi, non fanno nemmeno tanto schifo. Burro e olio non ci sono? Pazienza, funziona la brillantina dei capelli che sfrigola a meraviglia. Si vuol variare il menu? Non c’è problema: una volta, infatti, Burri serve ai compagni, per colazione, un serpente giallo e nero, lungo mezzo metro. Ben rosolato (grazie alla provvida brillantina) e scrupolosamente diviso in parti uguali con una lametta da rasoio. Ora, come fai, quando torni dalla prigionia, a non portarti dietro, insieme alla pelle del serpente-souvenir, queste memorie tragicomiche e a non dar loro un «senso»? Niente piagnistei reducistici, comunque. Così, pur nulla rinnegando, Burri, rimpatriato, non si mette a fare il nostalgico. Anzi, va all’assalto della vita e del «sistema», col suo linguaggio espressivo/sovversivo che sconcerta le timorate anime belle avviticchiate alle varie accademie. Palumbo ci racconta opere e giorni dell’Ispido/Irriducibile, con raffiche di notizie, aneddoti, curiosità. Seguendolo passo passo, mentre, tra incomprensioni e riprovazioni, procede con ghigno menefreghista verso la consacrazione internazionale, le alte quotazioni, i riconoscimenti dei critici che contano (Brandi, Calvesi, Argan ecc.), i soldi che
Nella sua prima tela, “Texas”, raffigurò il paesaggio che da prigioniero nel campo di concentramento di Hereford, vedeva ogni giorno: “una distesa di terra colorata dai riflessi di un sole implacabile…” la prima tela, battezzata Texas. Cosa raffigura? Inevitabile: «il paesaggio che i prigionieri vedono ogni giorno, una distesa di terra colorata dai riflessi di un sole implacabile, con un mulino, una baracca, alcuni paletti uniti dal filo spinato, il fumo di una locomotiva sullo sfondo». Nessun maestro: maestri sono la grande e venerata tradizione umbra e il campo di concentramento, immagine «esemplare» di vita proliferante e «assente»: «un immenso quadrato - scrive Tumiati - diviso in quattro vastissimi compounds, ovvero in quattro sezioni recintate, circondato da una duplice rete di filo spinato, con le torrette delle sentinelle e i fari che sciabolano la notte».
La prigionia all’inizio sembra comunque tollerabile: gli alloggi sono decorosi, il cibo abbondante, i servizi igienici decenti. Ma, via via che per l’Italia le sorti del conflitto van peggiorando, peggiora la «qualità» della detenzione. Poi, nella primavera del ’44, i prigionieri vengono invitati a «collaborare», a «lavorare in favore degli Stati Uniti d’America». La maggioranza, sia tra gli ufficiali che tra la truppa, ci tiene a sopravvivere: e dice di sì. Una minoranza, tra cui Burri e i suoi amici scrittori (e anche i futuri deputati missini Roberto Mieville, Nino De Totto e Gianni Roberti), risponde con un deciso no. «Ma perché?», chiede a Burri un ufficiale americano. E Alberto: «Se lei fosse catturato dai tedeschi, collaborerebbe con loro?». L’ufficiale risponde «no» a sua volta e «abbandona il tentativo di convertire il reprobo». Nessuna conversione, nessuna concessione. E i non-cooperatori finiscono nel ghetto del compound numero 4. Con contorno di angherie e pestaggi. Ma soprattutto è la fame a farsi sentire. Dopo il maggio del ’45, gli americani diminuiscono le razioni, chiudono lo spaccio, aboliscono burro e olio, sospendono la distribuzione della carne. Il 1° maggio del ’45, a mensa, gli internati trovano una salacca e due fette di pane ciascuno. «La salacca - scrive nel suo diario Armando Boscolo - era una comune alosa affumicata, salatissima, il pane era quello americano, bianchissiCase Nove di Morra, 1978 (foto Aurelio Amendola, Pistoia)
magari non daranno la felicità ma a qualcosa servono… Vita movimentata: Città di Castello, da dove si va via e dove sempre si torna, Roma, Parigi, frenetico pendolarismo tra Italia e California (Alberto si comprerà una casa a Los Angeles), buen retiro a Bealieusur-mer in Costa Azzurra, ma anche nella sua Città di Castello. Vita arroventata dai dibattiti e dalle polemiche, a partire dall’icona principe, il Sacco, nato ufficialmente nel ’49, ai tempi della vie de bohème. Giuseppe Berto ricorda: «(Burri) abitava in via Margutta, in uno studio disadorno e malandato, che un amico gli aveva ceduto in prestito. Sulla branda c’era un ombrello aperto e qua e là sul pavimento barattoli per raccogliere le gocce che cadevano dal soffitto. L’unica cosa che dava un’impennata allo squallido ambiente era il copriletto della branda fatto di sacco, con qua e là inimitabili toppe di puro sacco: era il primo Sacco di Burri e in nessun negozio del mondo e a nessun prezzo si sarebbe potuto trovare un copriletto come quello, privilegio d’artista». Un artista strano, vitalissimo e «straniero» in quell’Italia provvisoria, ma probo, schietto e ostile a ogni stravaganza. Niente a che fare con genio & sregolatezza, a parte la «fissa» di indossare quasi sempre la «sahariana» (una «divisa?»). Un uomo «riluttante», Burri, incapace di accomodamenti e blandizie. Uno che rifiutò quasi sempre i premi spiegando che non avrebbero aggiunto nulla ai suoi meriti, ma di sicuro tolto qualcosa alla sua libertà. Uno che non amava i giornalisti, la mondanità, le cerimonie ufficiali. Uno che si sposò forse alla leggera ma senza ripensamenti, scegliendo una ballerina americana di origine ebraica, Minsa Craig, colta, eterea, capricciosa, che viveva di musica e di poesia, e che in cucina non valeva nulla: eppure Alberto, pur litigandoci di continuo, sapeva di avere in lei, oltre che un’amante da cornificare saltuariamente, anche una efficientissima segretaria-interprete-manager. Uno, il nostro Burri, che, quando l’avvocato Agnelli bussò alla sua porta per acquistare un sacco, finse di essere colpito da un improvviso mal di schiena e lo accolse seduto, respingendone cortesemente la richiesta: «Peccato, avvocato… Se fosse venuto trent’anni fa, l’avrebbe acquistato per pochi soldi: adesso li ho dati via tutti…».
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TV
di Pier Mario Fasanotti
Doc 3
are retorica, ma non lo è. Esiste un popolo della notte e a osservarlo bene si capisce la penombra dell’Italia. Piccole luci, tutte tenui, come se quella vera, del mattino, fosse tenuta lontano il più possibile per il timore di ricominciare a camminare e a parlare con gli altri, il popolo diurno. Giovedì alle 22,45 su Rai-3 c’è Doc-3. Doc sta per documentario. È un programma presentato da Fabio Volo, un attore che non sarà certo come De Niro, ma è bravo, è una faccia perbene, è un professionista. Dopo una breve introduzione ha presentato il regista Pietro Marcello e il suo film Il passaggio della linea tutto girato sui treni che tagliano la penisola, da Bolzano a Villa San Giovanni. Domina il nero, il sottofondo è il rumore di ferraglia. La vita è come sospesa.Viene inquadrata la schiena di un giovane con la felpa. C’è la grande scritta «Italia», forse è un extracomunitario. Uno dei tanti che si spostano per trovare un lavoro o solo per stare al riparo, seduti. Qualcuno si lamenta dei controlli della Polizia. Ma come, dice un napoletano, «mi chiedono sempre i documenti … si nasce cattivi, non si diventa… io sono nato buono». I dialetti italiani si mischiano in un gorgoglio notturno, è difficile captare la differenza tra il pugliese e una parlata africana o araba. Un quarantenne meridionale coniuga lamentela e ironia: «Io vado al Nord per lavorare… sono sempre in missione, come James Bond». Un conterraneo fa fatica a staccarsi dalla lagna orgogliosa dell’uomo che non è riuscito: «Sei anni in Francia, e poi in Inghilterra e Germania… so parlare le lingue… mi voglio godere la vita, l’intelligenza ce l’ha l’emigrante, ma siamo tutti dannati dai soldi… anche per morire ci vogliono 10-20 mila euro, più che per sposarsi». Discorsi sul nostro paese, tutti più o meno improntati su questo concetto: «L’Italia è fatta così, no, non cambierà mai». «Che facimmo? In Francia si ribellano, da noi non si organizzano». Arturo è un ottantenne e racconta di essere diventato «un pezzente», e quindi «l’uomo più potente del mondo», per aver dato fastidio con le sue opinioni, convinto che gli abbiano voluto tappare la bocca, magari ignorandolo o talvolta con un processo. «Il treno è la mia casa, così si rimane liberi e indipendenti» - dice. «Non ho mai toccato il denaro e così mi sono salvato…l’importante è essere vivi, il resto non conta». Il treno s’infila in un mattino livido: c’è l’angoscia dell’alba, per tutti, bianchi, neri, napoletani, calabresi.Tra zaini e sacchetti di plastica, ad aspettare che la speranza non si frantumi del tutto.
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la sincerità di quelle vite sospese lungo l’Italia
web
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games
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NASCE “SAFER INTERNET”
LA PALESTRA VIRTUALE DI “WII FIT”
I GIOVANI A NOLEGGIO DEI CALL CENTER
empre più a rischio di imbattersi in cattivi incontri e pagine web spiacevoli, ma ormai totalmente immersi nei rituali sociali delle rete, bambini e adolescenti necessitano di tutele, e così la Commissione Europea ha varato un nuovo programma di sicurezza per i minori. Il progetto, denominato Safer Internet, si avvale di uno stanziamento di 55 milioni di euro e sarà sviluppato nel quadriennio 2009-2013. «Con il
nnunciato a Los Angeles nel luglio dello scorso anno e uscito in Giappone alla fine di gennaio 2008, Wii Fit è l’ultimo lavoro del celebre game designer della Nintendo, Shigeru Miyamoto, autore di alcuni capolavori che hanno fatto la storia della Big N negli ultimi decenni: da Super Mario Bros. a The Legend of Zelda; da Super Mario Galaxy a Metroid Prime. Con Wii Fit, Miyamoto abbandona gli standard
iente al mondo è più pericoloso di una sincera ignoranza e di una stupidità cosciente», diceva Martin Luther King, e non a caso i precari del call center Atesia, che le hanno elette a parole sante della loro protesta, hanno pagato a caro prezzo la loro sete di giustizia. Impietoso e illuminante, il lavoro di Ascanio Celestini sbugiarda i jingle ammanniti da manager e dirigenti d’azienda sul lavoro flessibi-
La nuova frontiera della Nintendo: il mercato del giocatore per caso e delle famiglie
Un impietoso e illuminante lavoro di Ascanio Celestini: il lavoro flessibile oltre i jingle
classici del videogioco per abbracciare la nuova frontiera scelta da Nintendo per il suo futuro commerciale: il mercato del casual gamers e delle famiglie. Sfruttando le innovative periferiche wireless della console Nintendo, Wii Fit è una sorta di palestra virtuale, programmata per spingere l’utente a fare esercizio (e mantenere la forma fisica) davanti al proprio televisore di casa. Con più di un milione di copie vendute in solo mese in Giappone, Wii Fit si propone come un successo annunciato anche in Europa e Stati Uniti, dove l’uscita è prevista - rispettivamente - per aprile e maggio di quest’anno.
le, divertente e amato dai ragazzi perché allegramente transitorio. Emerge invece dalle testimonianze filmate dal cantastorie romano, il quadro diverso di una generazione abbandonata a se stessa, spesso vittima della logica del profitto, a volte spogliata, oltre che dei diritti, della dignità. Un mondo di giovani, ignorato da una politica attenta alle convenienze del business, che vive un’angosciata vita a noleggio. Non sorprende che i fantasmi di Parole Sante, pagati 150 euro al mese per suddividersi 300 mila telefonate al giorno, abbiano avuto nei cinema nostrani una fugace apparizione.
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La Ue stanzia 55 milioni di euro per proteggere i minori dalla Rete nuovo programma l’Europa intende portare avanti gli interventi già avviati per creare un ambiente in linea più sicuro per i nostri ragazzi - ha commentato il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso - e in presenza di contenuti illeciti in linea, le autorità pubbliche saranno in grado di prendere contromisure rapide e incisive grazie al rafforzamento dei sistemi di segnalazione». Tra gli obiettivi la riduzione di siti che presentano contenuti illeciti, iniziative di autoregolazione, e la sensibilizzazione di insegnanti e genitori ai temi della prevenzione e della vigilanza su alunni e figli.
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cinema
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Lezioni di felicità di Anselma Dell’Olio ederico Fellini diceva: «I comici sono i benefattori dell’umanità». Estenderei la definizione a scrittori e registi di commedie, merce pregiata e sempre più rara. Nella valanga di titoli usciti a Natale erano pochissime, e tra le candidature all’Oscar c’erano solo, tra quelle candidate ai premi più importanti, Ratatouille, Juno e La famiglia Savage. Personalmente ho riso, risate liberatorie, non amare, alle vicende dei Savage, un cognome che significa «barbaro», una commedia nera sull’adolescenza prolungata di due quarantenni, costretti a fare i conti con un padre difficile, rimasto solo e scivolato nella demenza senile. Altri spettatori non hanno gradito: il film di Tamara Jenkins era bello ma «deprimente», troppo vicino a esperienze ancora in corso o temute, genitori che diventano figli. Mi scuso con i lettori che su mia raccomandazione lo hanno visto e invece di sentirlo come esilarante balsamo per sofferenze condivise, si sono abbattuti. C’è chi apprezza la comicità accuciata in ogni tragedia e chi non ancora.
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Ripariamo con una delizia di commedia francese in uscita, Lezioni di felicità, debutto nella regia dello scrittore e commediografo Eric-Emmanuel Schmitt. Da noi è più conosciuto come sceneggiatore di Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, con Omar Sharif, premiato nel 2004 con un César, l’Oscar francese. Racconta l’amicizia tra un turco sufi, padrone di una bottega d’alimentari in un quartiere povero di Parigi e un adolescente ebreo, abbandonato a se stesso da un padre depresso e da una madre assente. Nel Nord Europa Schmitt è celebre e amato, più dal pubblico che
dalla critica arcigna e supponente, ostile ai suoi difetti: l’imperdonabile successo popolare, l’appartenenza politica non connotabile, l’assenza dai salotti parigini che contano, la sapiente e candida miscela di alto e basso nelle sue opere, che forse ha a che fare con alcuni particolari biografici. Schmitt ha origini alsaziano-irlandesi, è cresciuto a Lione ed è figlio di due professori d’educazione fisica. Si è laureato in filosofia all’eccellente Ecole Normale Superieure di Parigi con una tesi su Diderot. Cresciuto ateo, oggi si professa cristiano. Il suo primo film è la storia di Odette Toulemonde (titolo originale). Commessa nel reparto cosmetici di un grande magazzino di Bruxelles, Odette fa la pendolare dalla de-
re, in arrivo per firmare autografi nel grande magazzino in cui lavora Odette. Il film comincia con un siparietto che fa sospirare sulla verve quasi solo francese nello scrivere ruoli stupendi per donne adulte. Una cliente s’avvicina al banco e, togliendo i grandi occhiali scuri, mostra un vibrante occhio nero, attribuendolo a un inciampo.
La nostra eroina (Catherine Frot, adorabile e asciutta) annuisce, porgendole un fondotinta coprente: «Quando sono innamorata anch’io sbatto sempre nelle porte». Ci si adagia contenti in poltrona: una trama non dozzinale è assicurata. La mattina dell’arrivo di Balsan, Odette, vestita per le
Il film di Eric-Emmanuel Schmitt è filosofico e divertente, saggio e spiritoso, spirituale e leggero, semplice e profondo. Sulle orme di Diderot… primente periferia industriale di Charleroi, ex città mineraria, e la sera arrotonda attaccando piume ai costumi delle ballerine di riviste. Il suo cognome, comune da quelle parti, è significativo come quello dei Savage. Qui connota una Maria Qualunque, una «donnetta» di quelle con la collezione di bambole sugli scaffali, che si rallegrano d’avere come carta da parati un panorama raffigurante le sagome, a grandezza naturale, di due leziosi amanti su una spiaggia tropicale, illuminati da un tramonto da cartolina. In camera da letto. È fanatica dei romanzi di Balthazar Balsan (Albert Dupontel, perfetto, con uno toupé sbarazzino a forma di cipolla sulla calvizie avanzata), prolifico autore popola-
grandi occasioni, passa dal figlio parrucchiere per un controllo. Tolta qualche piuma in più, vola all’appuntamento. (Il neo regista è abbastanza sicuro di sé per farla volare veramente, un tocco surreale per una fiaba moderna. Funziona, più Miracolo a Milano che Mary Poppins.) Balsan sbriga il compito di firmare libri per i fan, quasi tutte donne, con cortesia impersonale. Quando tocca a Odette, lei sciupa l’occasione restando muta e imbambolata. Al suo dodicesimo best seller, lo scrittore è solo annoiato dai caramellosi complimenti di signore adoranti e pensa solo a sedurre Florence, la procace e disponibile addetta stampa, per puro automatismo, novello droit du seigneur. A ri-
to dell’amplesso concluso, i due seguono un programma di libri in cui sarà recensito il nuovo lavoro di Balsan. Per la prima volta lo scrittore è aggredito da un critico che fa tendenza e che lo definisce autore ideale per «portinaie, cassiere, parrucchiere che collezionano bambole e foto di tramonti». È il tracollo. Le file di fan in libreria si assottigliano e l’ignara Odette può consegnargli una lettera che spiega quello che non riesce a dirgli per timidezza: che i libri di Balsan le hanno restituito la gioia di vivere nonostante la vedovanza, il figlio gay iperattivo sessualmente e la figlia imbronciata, disoccupata e con un fidanzato gaglioffo e nullafacente. Lui, respinto dalla busta kitsch a fiorellini, ringrazia, la infila in tasca senza aprirla e la dimentica. A Parigi scopre che la critica tutta gli si è rivoltata contro e il figlio subisce mobbing a scuola per causa sua. Balsan cade in depressione, tenta il suicidio, fugge dalla clinica e dalla moglie fredda e per caso riscopre la lettera. Da qui si snoda il cuore della storia: come un uomo ricco, narciso, egoista, prigioniero di un mondo supercilioso e autoreferenziale, ritrova la semplicità, l’amore e il buon umore che la superbia chic dei salotti buoni disdegna e non ammetterà mai di desiderare. In un’intervista Schmitt dice: «Diderot è il mio modello, perché è uno scrittore capace di mescolare leggerezza e gravità, riflessione e finzione, aneddoto e ragionamento, lo scrittore più libero e più sprovvisto di pregiudizi che io conosca». Lezioni di felicità è, di fatti, un film filosofico e divertente, saggio e spiritoso, spirituale e leggero, semplice e profondo, alto e basso, appunto. Una miscela mai prevedibile e molto riuscita.
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Chopin Conversatore avaro, le opinioni non erano il suo forte, le opinioni non vanno mai al sodo, s’agitava quando Delacroix illustrava teorie, quanto a lui non avrebbe saputo spiegare i suoi Notturni. (…) Chi di lui mai sentì, certi preludi, sia in ville che in alte valli sui monti oppure da porte spalancate su terrazze per esempio in un sanatorio, difficilmente potrà dimenticarlo. Mai composto un’opera, mai sinfonia, solo queste tragiche progressioni per convinzione d’artista virtuoso e con una piccola mano. GOTTFRIED BENN da Poesie statiche
Chopin secondo Gottfr di Filippo La Porta uesta poesia, scritta da Gottfried Benn nel 1943, è un ritratto psico-morale di smagliante precisione, come solo ci capita di incontrarne nelle pagine di un romanzo. E proprio Benn, lirico puro, devoto nietzscheano della Forma, usa qui un linguaggio colloquiale, quasi dimesso. Il che mi permette di fare una considerazione preliminare, spero non troppo didascalica. La poesia non consiste in un linguaggio speciale, anticomunicativo, costitutivamente diverso da quello quotidiano, o in un gergo oscuro, autosufficiente, aggressivamente incomprensibile. Questo è stato il principale mito della poesia moderna, teorizzato e sistematizzato nel famoso saggio di Hugo Friedrich La struttura della lirica moderna, del 1956. Ma ha anche rischiato di diventare la prigione di questa stessa poesia, schiacciandone e costringendone l’estrema varietà di voci entro una corrente unica, a impronta simbolista, che approssimativamente potremmo identificare con la linea Mallarmé-Valery e con le avanguardie. La stessa oscurità, rivendicata da Friedrich, può essere un dato
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OLTRE LE GABBIE DEL LIRISMO Alfonso Berardinelli, come un medico antico capace ancora di auscultare, si pone al capezzale di un malato eccellente, la poesia. E sottovalutare o ignorare questa lucida diagnosi (apparsa nel libro Poesia non poesia, Einaudi, 100 pagine, 9,00 euro), per quanto un poco provocatoria, sarebbe un atteggiamento superficiale, di pericolosa sufficienza. Una delle considerazioni che il critico espone, è che, oggi, «il più insidioso e temibile nemico della poesia è la poesia stessa… o meglio… i poeti». E ciò, a suo avviso, va denunciato con chiarezza. Quindi, respinge la difesa apologetica della poesia che giovani e apprezzati (da lui stesso) critici tentano, co-
Diagnosi e rimedi al capezzale della poesia. Un saggio di Alfonso Berardinelli me nel caso di Roberto Galaverni (in Il poeta è un cavaliere Jedi); meglio sarebbe si indicassero i nemici o i pericoli da cui andrebbe difesa. Berardinelli traccia poi le coordinate di questa poesia nazionale, ferma e atrofizzata, ingabbiata nel suo lirismo, che non ha avuto il coraggio, se non in alcuni rari esempi, di rinnovarsi. E salva pochi nomi (citando però i fondamentali stranieri Auden e Ponge). Un tono secco il suo che poco concede, mediando quella salutare «durezza» montaliana che nulla lasciava alle conventicole, ai facili scenari, alle lusinghe, al dilettantismo. Difficile non concordare su diverse cose che egli dice: l’assenza di una vera critica, la mancanza di una riflessione adeguata da parte dei poeti, la presenza di gruppi che usano difendersi e promuoversi, ecc. Meno facile concordare sul fatto che «la poesia deve convincere il lettore, altrimenti è indifendibile»; perché il lettore non è una categoria ideale, è il frutto di un processo storico ed è altrettanto (se non di più) «compromesso» dello scrittore.
reale (drammatico, doloroso) dell’esperienza, un rischio oggettivo, legato all’impotenza dell’artista di fronte alla inautenticità della comunicazione attuale, un problema che riguarda la società, l’alienazione dei rapporti sociali o invece un dogma estetico, una scelta pregiudiziale, un nuovo conformismo. Come ci ricorda Alfonso Berardinelli nella postfazione al libro citato, in molti autori moderni non c’è per niente fuga dalla realtà, estraneità alla lingua comune o rifiuto dell’impuro dell’esperienza: da Baudelaire e Whitman, non a caso ignorato da Friedrich, a Saba, Machado, Eliot, Garcia Lorca, Brecht, Vallejo, Joszef, Auden, e più recentemente alla Szymborska e a Enzensberger. Insomma tutta quella poesia che procede verso la prosa e diventa conversazione, teatro, apologo, documento, collage, reportage e appunto ritratto… Perfino un poeta sprezzantemente aristocratico come Benn, tentato da una voluttà funerea di apocalisse («Ah, dietro foglie di rose/sprofondano i mondi») sembra confrontare continuamente i suoi versi - algidamente perfetti, smalta-
ti del nulla (p espressione) quotidiano, con locale notturno la radio. Confe è stato per me Da quando sco ormai trent’an tentazione - ing vere analoghi naggi pubblici sia più vicina a infatti per le s centrazione e rante di troppi doveri informa disegna con p straordinaria con precisione tere e sulla sua no e sulla sua p sieme suggeri misantropia de derna. Il bersag cultura di mas cultura», al qu gie, convenzio punto «opinion ficiali, manipo moderno filist
UN POPOLO DI
in libreria
di Loretto Rafanelli
poesia
Mistero del luogo
Scrivere vivere
Ricami di pietra Intreccio di alberi nudi Guerrieri di vento Registri di canti Volumi che chiamano e sognano la luce di dio. Un dio antico che non volle mostrare il suo volto di santo. Gli spazi del sacro con segni lontani. Lo spazio di dio. Le linee che curvano, sfiorano s’infrangono ancora e ancora Per poi riaffiorare Sincere Solenni
È solo un incidere dai greti àgate concentriche e subito vanesie; è come risalire in mezzo ai prati lungo la scia delle lumache sperando di trovare tra le foglie qualche sperduta mora da un cespug
di Francesco Finocchiaro
di Alessandro
Favole Principesse danzano mille volti che si aspettano. Uno solo è il mio
di Luigi Be
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli a troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal M
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ried Benn: quando la poesia si fa ritratto
per parafrasare una sua con ciò che è impoetico e n la canzone ascoltata nel o o con la trasmissione alesso che l’esempio di Benn contagioso. oprii la poesia su Chopin nni fa, ho avuto spesso la ngenua, velleitaria - di scriritratti in versi di persoi e di artisti. Anche la poealla prosa se ne distingue sue caratteristiche di conbrevità. Qui Benn, incui nessi logico-sintattici e di ativi di tipo enciclopedico, pochi tratti uno schizzo di completezza: ci informa e su Chopin, sul suo carata psicologia, sul suo destiproduzione musicale, e inisce una riflessione sulla ell’artista nella società moglio polemico di Benn è la ssa, «il sistema della nonuale appartengono ideolooni, luoghi comuni e apni». Queste ultime - superolabili - caratterizzano il teo, incline a consumare
cultura, privo di stile. Chopin fa parte di una raccolta di versi composti tra il 1935 e il 1946, e che si intitola Poesie statiche perché, come spiega il suo curatore Giuliano Baioni, vi si contrappone al divenire ciò che è immobile e senza tempo, «statico», ossia l’opera d’arte (Benn ha esercitato la sua professione di medico per gran parte della vita: anche da ciò deriva il suo senso acuto del decadimento del corpo…). La produzione lirica di Benn ha attraversato varie fasi (dall’espressionismo a un recupero della tradizione classico-romantica) ma direi che il suo fascino magnetico risiede in una doppiezza o schizofrenia voluta (ricordo l’autobiografia Doppia vita), in una continua polarità tra abbandono all’estasi (e al sogno) e disciplina della forma, tra ebbrezza vitalistica e intellettualismo, tra ironia gelida e attrazione per l’esotico e per l’arcaico. A proposito di «doppiezza» vorrei solo accennare all’obnubilamento di Benn, che nel 1933 aderì al nazismo convinto che si trattasse di una risposta alla decadenza e al nichilismo. Ma quasi subito dal nazismo venne condannato come artista degenerato e «bolscevico culturale». La pubblicazione delle sue opere fu
I POETI
glio.
il club di calliope
Amore distratto Cospargo di petali il tuo passo, e tronfio dell’orgoglio che ti Amo, distratto, mi perdo nel tempo, che poi corre.
o Polcri
enedetti
vietata e di lì nasce una lunga esperienza di «esilio interno». La sua influenza sulla poesia tedesca del dopoguerra resta comunque decisiva. E, per limitarci a un solo esempio, certamente non immemore della lezione benniana è stato un suo illustre connazionale, Hans Magnus Enzensberger, che nella recente raccolta Più leggeri dell’aria (Einaudi 2001) ci ha proposto una poesia-ritratto su John von Neumann (1903-1957) di cui trascrivo qui solo i primi versi: «Doppio mento, faccia di lunapiena, camminando/vacilla - /un comico dev’essere/ o il rappresentante capo di una ditta di moquette,/un bonvivant membro del Rotary/(…)». A rileggerla oggi la poesia di Benn su Chopin mi fa venire subito in mente un romanziere che conosco, pochissimo brillante nei salotti e singolarmente privo di opinioni e di teorie, al contrario, per esempio, di giornalisti e docenti universitari. In un’altra poesia - Radio, del 1952 (in G.Benn, Giorni primari, a cura di A.M. Carpi, Il Saggiatore 1981), la critica benniana della cultura risuonava come una vibrante invettiva: «I maggiori fiumi del mondo/ Nilo, Bramaputra o che so io,/ sarebbero troppo piccoli per affogare tutti questi professori».
Fermo l’ardore che mi guida e tenero come il pane del mattino, assaggio il bacio che è di fiore. Tutto di te, è in me. di Giacomo Severino (detto Gianni)
autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
Ascesa della luna I muti nello spazio i salve agli abitanti a terra alcuni uomini accucciati negli abeti le pietre ancora nelle cave nuvola polvere colle pendìo passeggiare la sosta rendere immobile il via, sequenze del distacco dei passi intuiti per le foglie che il sole conduce al recinto ai suoi carri e per le froge: una fiamma di cortecce il dormiente e poi su tutti loro.
Alessandro Ceni da La natura delle cose (Jaca Book)
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ANTIQUARIATO
arti
Nell’Eden dell’arte antica e moderna di Marco Vallora orgiera e cuffietta traforata di pizzi, gli occhi che ci frugano con curiosità e ci adescano un po’ sfrontatamente, c’è un dettaglio di dama fiamminga, che campeggia trionfale dalla copertina del voluminoso catalogo della Tefaf di Maastricht 2008, la prodigiosa fiera dell’arte antica e moderna, che richiama ogni anno legioni di intenditori e di patiti d’oggetti preziosi, rarità senza eguali e dipinti da vero museo, nel cuore dell’Europa, a pochi passi da Bruxelles e non lontano da quella rutilante Aquisgrana, in cui si coronavano i re del Sacro Romano Impero. E qualcosa di regale la Tefaf conserva, «il superlativo delle fiere», come titola il Figaro, perché davvero, per una decina di giorni, da ieri fino al 16 marzo, diventa un museo provvisorio e miracolato, che convoglia capolavori assoluti, spesso di rarissima circolazione, provenendo da collezioni segrete o da gallerie di tutto il mondo, e che poi si disfa nel giro di pochi minuti, come per l’errore d’un prestigiatore. La dama aguzza le narici: è tutto questione di fiuto. E la Tefaf non ha mai quel fastidioso odore di mercato e d’assembramento fieristico, che spesso macchia altre fiere, soprattutto nostrane. No, qui ci sono aree specialistiche ben suddivise, dalle monete alle sculture greche o cicladiche, dalle armi alle miniature, dalle cineserie agli argenti, dai mobili impero e rococò, alla pittura coloniale di Macao. Uno si sceglie il proprio corridoio, ed entra nell’eden assoluto e proibito delle sue fantasie (i prezzi spesso alle stelle, ma talvolta anche incredibilmente ragionevoli, se si pensa per esempio a certi meravigliosi micro-libri delle ore fiamminghi o antifonari d’area bolognese). Incredibile fare il raffronto con certe sopravvalutate opere della bestialità contemporanea, che qui non hanno però circolazione, e per fortuna: a épater ci pensano squisitezze d’altri palati, per esempio il modellino di seggiola impero a gondola e lire, firmata Fabergé e proveniente da una famiglia reale europea o la Fuga in Egitto di cerchia Domenichino su lapislazzuli, o la geniale seggiolina da
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riletture
bambino, mondrianesca, di Rietveld. Ma anche candelabri renani, tappeti e arazzi, sculture Dogon e arte oceanica, lambiccatissime cornici rinascimentali, automats, maioliche e bronzi - un insolito bronzo di Fautrier e una folk-terracotta di Pinelli, e poi, come niente fosse (cioè dopo anni di ricerca) due Van Dyck, Andrea della Robbia, Guido Reni, Rodin, Ceresa, Fra Galgario, Ribera e Zurbaran, Delacroix e Greuze, addirittura uno Sweerts un avvenente suonatore di corno da caccia, con la presa di respiro filologicamente corretta - e van Wittel, Mattia Preti, Bruegel, Luca Cambiaso, Carracci e Canaletto con Bellotto, Lorrain e un romantico ritratto cimiteriale di Sablet, una fascinosa Lucrezia di Cagnacci, che poteva benissimo stare alla mostra di Cesena, e poi un modernissimo Strindberg, il drammaturgo nordico, sperimentatore anche di pittura alchemico-materica. Senza contare gli ormai già reclamizzatissimi Taddeo Gaddi, un ascetico San Antonio abate di chiara derivazione giottesca, accanto a una meravigliosa Sacra Conversazione di Savoldo, e il forse non bellissimo ma storico Ritratto di ragazzo con arancio, di Van Gogh, che ha un pedigree di tutto rispetto. Perché ricorda un raro periodo felice, a Auvers, e perché Theo lo volle accanto alla bara del fratello suicida, costruita dallo stesso carpentiere padre del giovane modello. Provenienze illustri, da Sansovino agli Zar a Leone Magiera, pianista di Pavarotti.
Tefaf Maastricht 08, fino al 16 marzo
Quel furioso galoppo verso l’età dell’oro di Paolo Malagodi ncora nei primi anni del Novecento, la motorizzazione privata era appannaggio di pochi facoltosi che su scoppiettanti vetture provocavano il panico dei pedoni e il terrore dei cavalli. Nulla di strano, quindi, che i regolamenti fossero severi nei confronti del rumoroso veicolo, sino all’inglese Red Flag Act o legge della bandiera rossa, che obbligava le automobili a essere precedute da un uomo a piedi, con esposto il drappo rosso per segnalare l’incombente pericolo. Ma il nuovo mezzo seppe ben presto difendersi, con strutture associative che in Italia partirono nel 1898 con il primo Automobil Club di Torino, presto imitato da quelli di Firenze, Milano, Genova e con la successiva fon-
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dazione dell’Aci (Automobil Club d’Italia) nel 1905. Anno nel quale iniziò l’uscita, a Milano, del settimanale L’automobile che già il 17 marzo presentava un roboante editoriale, sulla convinzione che «tra vent’anni, e anche prima, gli automobilisti cammineranno ordinariamente anche nell’interno delle città con una rapidità doppia dell’attuale, e tanto meno vi sarà chi se ne darà pensiero in quanto la vecchia generazione dei pedoni ostinati e tardigradi, dei politicanti imbecilli nati e vissuti prima della macchina, sarà scomparsa e sostituita da una generazione nuova che ha la consuetudine della macchina e della velocità, generazione la quale farà le leggi e dirigerà le correnti dell’opinione pubblica in suo favore».Tema ripreso poco dopo, il 12 luglio, con la previsione - affatto sbagliata, visto il se-
guito - di un largo uso del nuovo tipo di mobilità e partendo dall’assunto che «la prima grande trasformazione che l’automobile ha già cominciato a produrre, in mezzo a noi e nei nostri costumi, riguarda la locomozione individuale. Chi vorrà più sottoporsi alle costrizioni della collettività, al giogo dell’orario, a tutte le inevitabili servitù del viaggio in comune, alla dura prigionia di una marcia la cui velocità e arresto dipendono dalla volontà altrui? E chi non vorrà invece avere questa carrozza meccanica, più gagliarda di tutte le vetture ippomobili, che non si stanca mai, che nulla consuma quando non lavora e che tuttavia è sempre pronta al furioso galoppo?». Da queste tappe iniziali si snoda un lungo percorso, oggetto delle ricerche di Federico Paolini che già nel 2005 aveva
pubblicato le sue riflessioni (Un paese a quattro ruote, Marsilio, 304 pagine, 24,00 euro) sull’influenza dell’automobile nel costume nazionale. Con la successiva riproposizione della materia, in una più agile stesura (Storia sociale dell’automobile in Italia, Carocci editore, 160 pagine, 13,50 euro) che con taglio divulgativo, ma non meno preciso, ripercorre la secolare vicenda della motorizzazione privata. In un Paese che ha vissuto, a cavallo degli anni Sessanta, un boom economico nel quale «l’automobile svolse il duplice ruolo di motore del sistema produttivo e di attore del cambiamento sociale. Senza la straordinariamente rapida diffusione dell’automobile - sostiene, infatti, Paolini nel suo libro - l’Italia, molto probabilmente, non avrebbe goduto di nessuna età dell’oro».
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ARCHITETTURA
Parigi vista da Bernini: un pettine per la lana di Marzia Marandola l 2 giugno del 1665, dopo un lungo viaggio, Gian Lorenzo Bernini giunge a Parigi accolto come un principe di sangue. Il grande artista ha 67 anni, il suo soggiorno parigino gli è stato praticamente imposto da papa Alessandro VII Chigi in ossequio a un trattato diplomatico siglato con il Re Sole, Luigi XIV che vuole rifondare il Louvre come una grande reggia improntata alla magnificenza romana. A malincuore Bernini lascia Roma, gli mancano infatti i nove figli e le opere a cui sta lavorando in quel momento, la cattedra e il colonnato di San Pietro. Nei cinque mesi del soggiorno, Bernini accompagnato dal figlio Paolo e dal fidato architetto Mattia de Rossi, delinea un magnifico progetto per la reggia parigina, che tuttavia non verrà mai costruito, e scolpisce nel marmo il celebre busto del Re Sole, ora a Versailles. Oltre a incarichi professionali il soggiorno è l’occasione per conoscere la grande capitale europea, per incontrarne gli artisti, i politici e i nobili che affollano la corte.Tra questi probabilmente anche l’astronomo architetto inglese Cristopher Wren che in quello stesso periodo visita Parigi, e che si ri-
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corderà delle architetture di Bernini quando pochi anni dopo sarà incaricato di progettare la ricostruzione della cattedrale londinese di Saint Paul, distrutta insieme al cuore della città, dal tragico incendio del 1666. Il diario del soggiorno berniniano è redatto da un cortigiano di Luigi XIV, Paul de Chantelou, collezionista d’arte che, parlando l’italiano, accompagna quotidianamente l’artista fungendo anche da traduttore. Il diario, noto con il nome di Journal de Voyage du Cavalier Bernin en France, è pubblicato per la prima volta in Francia nel 1885. Og-
getto di numerose edizioni francesi e di una traduzione parziale in italiano nel 1946, viene oggi integralmente tradotto per la prima volta da Daniela Del Pesco. La studiosa ordisce un’impeccabile operazione critica e filologica con una narrazione di grande godibilità letteraria, capace di appassionare e di sedurre, come una vero e proprio romanzo, anche lettori non specialisti. L’edizione di Electa Napoli è arricchita da immagini che illustrano le opere citate nel testo, disegnando un percorso figurativo nella cultura artistica del barocco maturo tra Roma e
Parigi. Il Journal, oltre che un documento per la biografia berniniana si rivela anche un’interessante guida di Parigi nel Seicento; un acuto ritratto della corte francese al massimo splendore e una testimonianza del mordace spirito di osservazione di Bernini. Le piccole abitudini quotidiane dell’artista, come l’irrinunciabile pennichella postprandiale, oggetto di sconcerto e di ironia tra i cortigiani, sono vivacemente affiancate dalle osservazioni sulla città che egli confronta costantemente con Roma. L’architettura francese contemporanea gli sembra mancare della magnificenza di proporzioni, che caratterizza invece quella romana, e la città stessa gli appare angusta, con strade strette, senza piazze monumentali e anche costruita malamente, tanto che osservandola dalla collina di Meudon, Bernini si lascia sfuggire, come Parigi, con tutti i comignoli che ne dentellano il profilo, sembri più un pettine per cardare la lana che non la capitale del più potente sovrano europeo. Daniela Del Pesco, Bernini in Francia, Electa Napoli, 576 pagine, 38,00 euro
MODA
Carolyn, Edith, Carla... silenzio, parla la borsa di Roselina Salemi n principio c’era la Kelly (come Grace), e poi la Birkin (come Jane), tutte e due di Hermès. Pensate per una donna un po’ speciale e amate da molte altre. Oggi che la moda vive di accessori, pochette, foulard cinture guanti orologi, ogni borsa ha un nome e una personalità. La Carolyn di Marc Jacobs, la Lavie di Trussardi, la Edith di Chloè, la Brigitte, la Emmy, la Carla, sono più che oggetti del desiderio, sono amiche. Della Baguette di Fendi, con le
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sue
600 versioni, si celebra addirittura il compleanno. È come se le donne si fossero ritirate nel silenzio, troppo occupate a lavorare, scalare, sedurre, a dimostrare che possono far tutto, come se avessero rinunciato a dichiarare le loro intenzioni facendo parlare le borse, dotate di nomi orgogliosi e simbolici: era così per le spade dei cavalieri, la Durlindana di Orlando nella Chanson de Roland, la magica Excalibur di Artù, la fiammeggiante Narsil di Aragorn nel Signore degli Anelli. Al posto delle lame infallibili, splendono la Vanity bag, la Spy bag, la Doctor B, la Muse Two (Yves Saint Laurent), la Spedy Monogram Watercolor o la Bowling Bag Jokes (Louis Vuitton), la Gucci loves New York limited edition: ogni nome è un’arma, una carta d’identità, una stagione. La Sirena bag di Giorgio Armani è ovviamente estiva, come la Shell bag di Emporio. La Neverfull bag è da combattimento, pesa 700 grammi, ma sopporta 210 chili: dentro possono trovare posto sia l’abito da
sera che il computer e, se fossimo in un Bond-movie, anche un piccolo arsenale. La Naked bag di Chanel, in pvc trasparente è consigliata alle esibizioniste e alle viaggiatrici (semplifica i controlli). La Warrior bag di Burberry, con le sue borchie, dovrebbe essere una dichiarazione di aggressività. E sicuramente vorrà dire qualcosa se una signora spende 36.900 euro per la maxi Miss Bunny di coccodrillo nero lucido, firmata Dolce&Gabbana. O se cerca raccomandazioni per avere una delle tredici Chanel di alligatore bianco con la doppia C in diamanti, a 260 mila dollari. Significa che la proprietaria è insicura, teme di passare inosservata e ha un bel conto in banca. La borsa è, dall’Ottocento in poi, un’appendice del corpo femminile, il suo comprensibile disordine è quello dell’anima, la grandezza è direttamente proporzionale al desiderio di far fronte a qualsiasi problema. È l’espressione di un codice, come nel caso, già studiato, della regina Elisabetta. Quando la sovrana posa la regale handbag sul pavi-
mento, significa che si annoia a morte, mentre quando la appoggia sul tavolo, durante un ricevimento, vuol dire che il pranzo è finito. Invece, se la tiene appesa al braccio, è tutto ok. Ma in questo proliferare di nomi e definizioni, forme e materiali, resta l’idea che le borse messe in fila su uno scaffale dell’armadio, imbottite di carta velina per non assumere pieghe improprie, Carolyn o Carla, Kelly o Edith, siano le sole amiche che abbiamo. Da chiamare con il loro nome, per avere qualcuno da chiamare. Per esorcizzare la solitudine.
MobyDICK
pagina 16 • 8 marzo 2008
I MISTERI DELL’UNIVERSO
ai confini della realtà
2029 rischio Apophis di Emilio Spedicato n un precedente articolo (apparso su liberal bimestrale n. 37, ndr), parlando degli oggetti in orbita di collisione con la Terra, particolarmente dei cosiddetti oggetti Apollo, abbiamo citato la recente scoperta dell’oggetto chiamato Apophis, che ha le seguenti caratteristiche: - dimensioni di circa un quarto di km, ma forma non propriamente sferica; - massa stimata in 210 milioni di tonnellate, quindi una densità di circa 34 grammi per cm cubico; - velocità relativa alla terra in caso di impatto di circa 6 km al secondo; - orbita lievemente ellittica percorsa in 324 giorni circa, quindi mediamente più interna rispetto all’orbita terrestre per la terza legge di Keplero; - orbita inclinata di circa 3 gradi sul piano dell’eclittica terrestre; - numero di scoperta 99942.
I
L’oggetto, stando ai calcoli attuali, passerebbe molto vicino alla Terra il 13 aprile 2029 e ancora più vicino il 13 aprile 2036. La probabilità di impatto non è nota con certezza, causa le piccole variazioni orbitali dovute ad esempio a perdite di materiale, e stando a un articolo apparso su El Pais nel giugno scorso, sarebbe solo di una su 50 mila. Di diverso parere il professor Milani dell’Università di Pisa, uno dei massimi specialisti di meccanica celeste e capo del gruppo che tiene Apophis sotto osservazio-
ne: secondo lui, la probabilità sarebbe una su 6000, mentre Margherita Hack, nella cerimonia per i cinquant’anni della fondazione dell’Osservatorio del Campo dei Fiori, ha dichiarato che potrebbe essere anche superiore a una su 2. Come spesso avviene, ci troviamo in una situazione dove i calcoli precisi non si possono fare. Allo stato presente delle conoscenze, il pericolo dovrebbe essere contenuto, nonostante il passaggio ravvicinato sia previsto per un... 13 di aprile (il numero 13 curiosamente si collega all’ultima e peggiore delle dieci piaghe di Egitto, quando Mosè ebbe finalmente il permesso di partire. Un numero di solito considerato
90% degli asteroidi in orbita associata a quella terrestre e di diametro superiore a 140 metri; - è sotto considerazione la tecnica di distruzione di un oggetto in orbita di collisione per via di armi atomiche. Si sono considerate bombe al neutrone e bombe a uranio, che tuttavia, anche ammesso esplodano abbastanza vicino al loro obiettivo, potrebbero frantumare l’oggetto, vaporizzandolo solo in parte. In tal caso i frammenti, possibilmente di notevoli dimensioni, avrebbero orbite praticamente impossibili da calcolare e alcuni potrebbero finire sulla Terra, colpendola e liberando un’energia anche equivalente a quella di centinaia di megatoni;
Le previsioni sono ottimistiche, perché poche sono le probabilità che l’oggetto, in orbita di collisione, colpisca la Terra. Ma alcune precauzioni vengono suggerite... Come le tecniche per distruggerlo negativo, ma non dagli ebrei e non da Caruso, che sempre chiedeva una stanza al tredicesimo piano di un albergo. Il 17 è anch’esso di solito considerato un numero negativo, e corrisponde al giorno in cui iniziò il diluvio biblico). Tuttavia, ecco un elenco di precauzioni suggerite: - il Congresso Usa ha ordinato alla Nasa di individuare entro il 2020 il
- un’altra tecnica è quella che ha il pittoresco nome di «trattore gravitazionale», una grande astronave di massa sufficiente a spostare l’oggetto dalla sua orbita, qualora vi ci si avvicinasse abbastanza. Si tratterebbe di un’operazione ad alto costo, ma si potrebbe utilizzare l’astronave Deep Space I in orbita dal 1998. Fare avvicinare un’astronave a un asteroide è operazione tecnologicamente possi-
bile, come dimostrato dalla sonda Deep Impact della Nasa che il 4 luglio 2005 si schiantò sull’asteroide Tempel 1, di 5 km di diametro, per permettere l’analisi della sua composizione dalle polveri sollevate. Un’operazione simile è ora in programma da parte dell’Esa, chiamata Don Chisciotte, per osservare da vicino un asteroide e colpirlo per deviarne la traiettoria.
I costi dei progetti sopra indicati sono solo dell’ordine di qualche miliardo di dollari, ovvero una bazzecola in termini dei rischi che possono essere evitati, per non dire delle centinaia di miliardi che a volte si buttano via in un giorno nelle borse mondiali per fenomeni incontrollati o speculazioni ben mirate. Infine ricordiamo che il nome Apophis è quello di una malefica divinità egizia, associabile al Fetonte greco, alla Gloria di Dio dell’Esodo e al Surt delle epiche scandinave, oggetto che secondo una ricostruzione di chi scrive sarebbe esploso nell’atmosfera sopra il fiume Eider della Germania del Nord, in un aprile del 1447 a.C., provocando il Diluvio di Deucalione, la distruzione di Creta e del Delta egizio e abbassando le acque del golfo di Aqaba in modo tale da permettere a Mosè di girare attorno a una frana che lo bloccava nella piana di PiHahirot, ora Nuweiba.