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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Appuntamento con l’amore” di Garry Marshall

ARIA DI PRIMAVERA di Anselma Dell’Olio

ppuntamento con l’amore (Valentine’s Day) è l’ultimo film diretto da di cuore, drappeggiati o colorati di rosso, con una fessura nel coperchio. Gli scoNegli lari disegnano cartoline e scrivono messaggi preferibilmente in rima, indiGarry Kent Marescialli, alias Garry Marshall (origini abruzzesi) e rizzati alle amiche o agli amici più cari della classe o che si desidera starring una parata di divi, capeggiati alla grande da Julia Usa è uscito siano tali. Alla fine «s’imbucano» nello scatolone, e la maestraRoberts. Marshall (classe 1934, figlio, fratello e padre il giorno di San Valentino postino (sì, anche le suore; l’America non si batte) le distrid’arte) ha diretto Roberts nell’indimenticabile Pretty Wo(e “Valentine’s Day” man (1990) e Se scappi ti sposo (1999). L’attrice si fa vebuisce ai destinatari. La domanda Will you be my Valendere meno sullo schermo da quando ha superato tine? è il modo canonico di dichiarare il proprio è il titolo originale) sbancando amore il 14 di febbraio, meglio se accompala quarantina, e se avete dimenticato perché è, i botteghini e scalzando “Avatar”. È un formidabile gnato da una scatola di cioccolatini (rossa e a e sempre sarà, una star planetaria, non perdeteforma di cuore, of course), fiori (magari rose rosse) e la in questa girandola di brevi storie romantiche incocktail di star e ha il garbo e la leggerezza trecciate. Negli Stati Uniti il film è uscito proprio il giorno se si tratta del Discorso della Corona di un corteggiatore, a cui il regista (quello di “Pretty da una scatolina piccina da gioielliere nascosta sotto il tovadi San Valentino (sbancando il botteghino e scalzando Avatar), Woman”) ci ha gliolo durante una cena a lume di candela. una festa dell’amore e dell’amicizia molto rispettata dai cittadini del Nuovo Mondo, sin dalle elementari. Le suore delle scuole cattoliche, coabituato... continua a pagina 2 me le maestre di quelle pubbliche, confezionano scatoloni di cartone a forma

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Tempo di Sergio Belardinelli Più vero del vero il ritorno dei Gorillaz di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Ardengo Soffici e la lingua pazza che rende liberi di Francesco Napoli

Matteo Ricci, lo stratega della Fede di Franco Cardini Esplorando la vita tra cielo e terra di Roberto Mussapi

L’arte eccentrica di Maruja Mallo di Marco Vallora


aria di

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primavera

segue dalla prima

paccio lei e lui, e Garner-Julia ha una delle migliori scene del film quando va alla resa dei conti col chirurgo, scovato alla cenetta romantica con la moglie; è tra le più soddisfacenti del film.

La scoperta che il santo dei fidanzati forse non è mai esistito, non ha neppure scalfito la voglia di onorarlo ogni anno, prova che la leggenda, come il cuore, ha ragioni che la ragione ignora. I colleghi critici americani, che avevano visto il film in anteprima, dicevano e scrivevano tutto il male possibile di Appuntamento con l’amore. Noi, però, memori di passate sviste e revisionismi ex post facto del film che il nuovo aspira a emulare, Love, Actually, non ci siamo fidati. Oggi i critici snob quel film inglese di successo e pure di culto (non succede sovente) lo apprezzano molto, ma dato il suo livello considerano un sacrilegio paragonare i due film. È verissimo che il fantastico film natalizio di Richard Curtis (con Hugh Grant nel ruolo di un primo ministro alla Tony Blair ma scapolo, Emma Thompson, Liam Neeson, Alan Rickman, Bill Nighy e altri) era parecchio superiore, e infatti lo abbiamo visto più volte, evento insolito per chi scrive. A onor del vero, però, allora i critici, quello del NewYork Times in testa, ne dissero peste e corna, bollandolo come bassamente commerciale, banale, scontato, melenso e tutto l’armamentario parolaio del disdoro critico. Se il film britannico era una summa di sentimento catartico (abbiamo riso e pianto tutte le nostre lacrime, anche la seconda volta), il film americano è una bazzecola divertente di due ore che passano in un battibaleno, un’opera scacciapensieri ben ritmata che mette di buonumore, senza pretese e infarcita di stelle affermate ed emergenti. E senza una parola scurrile.

Appuntamento con l’amore, con storie parallele di amore nuove, vecchie o mancate, nate, consolidate o scoppiate proprio il giorno di San Valentino, ha come set, comodo per le star che non dovevano nemmeno «subire la trasferta», secondo i critici più sarcastici, la città di Los Angeles. Cominciamo con l’episodio che ha come protagonista la Roberts, un capitano dell’esercito in volo per una breve licenza di quarantotto ore, di cui ventiquattro consumate in viaggio. In divisa e con la bellissima criniera raccolta in una castigata coda bassa, come s’addice a un ufficiale, sfodera ancora quell’immenso sorriso dai megawatt incalcolabili, sufficienti per illuminare una megalopoli per intere generazioni. È seduta accanto a Holden, un giovane aitante (Bradley Cooper, lanciato in orbita dal successo di Una notte da leoni) che le presta cortesi attenzioni (o qualcosa di più?). Apprende che il capitano Kate Hazeltine si sottopone alla corvée del lungo viaggio per passare appena un giorno con il suo beneamato, e dopo aver espresso la sua invidia per un amore così profondo, Holden appare rassegnarsi ad ammirarla e basta. C’è un finale a doppia sorpresa che svela due segreti dietro a questo breve incontro, che finisce con una frase-citazione da Pretty Woman, detta da Holden all’autista della sua limousine: «Accompagni questa signora ovunque voglia andare». La star più presente Ashton Kutchner (Reed), un insolito talento d’attore che ri-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

APPUNTAMENTO CON L’AMORE GENERE COMMEDIA

REGIA GARRY MARSHALL

DURATA 125 MINUTI

INTERPRETI JULIA ROBERTS, KATHY BATES, JESSICA BIEL, JESSICA ALBA, JENNIFER GARNER, ANNE HATHAWAY, ASHTON KUTCHER, SHIRLEY MACLAINE, BRADLEY COOPER, TOPHER GRACE

PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE WARNER BROS. PICTURES ITALIA

schia d’essere soffocato da una personalità insolitamente accattivante; che però gli consente di irradiare di luce ruoli che in mano ad altri sarebbero insignificanti. È un fioraio molto indaffarato: San Valentino è tra i giorni più intensi dell’anno per il settore. Il suo negozio fa da centralina alle varie storie; la sua inizia quando sveglia Morley (Jessica Alba), la sua ragazza, con la succitata scatolina e la seguente frase: «Mio padre mi ha detto “Se incontri una donna superiore a te, chiedi la sua mano”». Morley, forse perché ha passato troppo tempo sul lettino abbronzante, prima dice di sì, esaltandolo, poi si rimangia la parola, con l’effetto contrario; poi spari-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

sce dalla sua vita e dal film. Il fioraio, però, scopre che la nuova fiamma della sua migliore amica Julia (Jennifer Garner, dalle fossette navigabili) è sì un chirurgo ma sposato, come ha trascurato di dirle. Il dottor Harrison Copeland (Patrick Dempsey della serie tv Grey’s Anatomy) chiede proprio a Reed di mandare due bouquet separati, uno alla moglie e uno all’amante, appellandosi al «segreto professionale». A Reed, col cuore già a pezzi, capita la disgrazia di dover decidere se prevenire Julia, o lasciare non solo che s’illuda, ma che voli a San Francisco dove Copeland le dice di avere un’improrogabile conferenza. Non è niente male come si cavano d’im-

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La giovanissima cantautrice che domina le classifiche country-pop Taylor Swift (classe 1989) ha due canzoni in colonna sonora e qui fa un promettente debutto come attrice comica. È l’ilare, romantica liceale Felicia, pazza di Willie (Taylor Lautner, adorato dalle adolescenti come il lupomannaro Jacob Black nel film cult di vampiri teenager Twilight: New Moon). Felicia, intervistata dal reporter tv Kelvin (Jamie Foxx) sulla mercificazione spinta di Valentine’s Day, squittisce giuliva: «Adoro il battage pubblicitario!» (Swift e Lautner, che condividono il nome di battesimo, si sono innamorati sul set del film, poi si sono lasciati, e ora si sono ripresi; il protettore dei fidanzati, che sia esistito o no, colpisce ancora.) Kelvin protesta con Susan (Kathy Bates) la sua produttrice, umiliato perché il servizio sulla festa degli innamorati è troppo frivolo. Lei sfodera una boutade da inside joke quando gli risponde «I capi vogliono più fuffa!». Siamo subito serviti: Jason (Topher Grace) è un apprendista agente innamorato di Liz (Anne Hathaway) che in segreto sbarca il lunario facendo la pornoattrice telefonica. Jason lo scopre per caso e il rapporto barcolla. Riuscirà a perdonarla? Ricordate Jennifer Jason Leigh nell’assai più serio e venerato America oggi? Bisbigliava nefandezze da bordello agli ansimanti clienti invisibili mentre cambiava i pannolini al pupo o cucinava. Quel film (stupidissimo titolo italiano ideologicamente corretto a parte) sarà anche Cinema Alto, ma la stupenda interpretazione della Hathaway in questo film all’insegna della leggerezza (o della fuffa) non ha proprio nulla da invidiare alla pur brava Leigh diretta da Robert Altman. E Hathaway ha dovuto superare i soliti pregiudizi verso una ex-modella «troppo bella» per essere un’attrice autentica. Un altro episodio coinvolge l’anziana coppia composta da Edgar e Estelle, un ex-attrice (sono Shirley MacLaine e Hector Elizondo, lui un attore feticcio di Marshall). Sono i tutori del nipotino innamorato perso della maestra (la Garner) ma conserva pure un’altra sorpresa. La babysitter del bambino (Emma Roberts, figlia di Eric e nipote di Julia) mette involontariamente in crisi i due vecchi, confessando la sua sfiducia nella possibilità di essere fedeli durante un lungo matrimonio. La risoluzione della rottura che segue vede la MacLaine d’oggi stagliata contro uno schermo all’aperto, dove scorrono le immagini di un suo vecchio film poco noto con lei ventenne: una chicca di pura cinefilia. C’è dell’altro, ma fermiamoci qui. Non sarà un film immortale ma solo un toccasana per le uggiose giornate di fine inverno. In attesa del prossimo film corale di Marshall, che si svolgerà durante la notte di Capodanno, comprate i dvd (li vorrete rivedere) di Love, Actually e I love Radio Rock. Con questo trio di film, sembrerà già primavera avanzata.

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MobyDICK

parola chiave

sentire i filosofi, da Sant’Agostino a Heidegger, il tempo pervade un po’ tutto il campo dell’essere: gli uomini, le cose, le opere e i giorni. I sociologi, si pensi a Durkheim, aggiungono che c’è uno stretto rapporto di corrispondenza tra l’idea che una società, una cultura, si fa del tempo e il tipo di organizzazione sociale volta a volta dominante. Posto quindi questo rapporto, potremmo immaginare l’evoluzione sociale come passaggio dal tempo ciclico delle società primitive al tempo newtoniano della società moderna, e come passaggio da quest’ultimo al tempo frammentato e relativizzato della nostra epoca postmoderna. Una società organizzata secondo i canoni delle antiche comunità, caratterizzate prevalentemente da una sorta di fissità dei rapporti sociali, dove tutto è prevedibile in anticipo, sembra in effetti particolarmente incline a riconoscersi in un’idea circolare del tempo, un’idea cioè dove domina l’eterno ritorno dell’uguale. Il fluire sempre uguale dei giorni, dei mesi e delle stagioni come metafora del fluire sempre uguale della vita individuale e sociale. In alcune tribù arcaiche dell’Africa pare che questo legame dell’uomo con la natura, questa fissità dei rapporti sociali, sia talmente potente che persino i tempi del discorso finiscono per adattarvisi, e il linguaggio funziona esclusivamente secondo il tempo presente, senza passato né futuro. L’essere è, il non essere non è, direbbero Parmenide e Severino; il divenire del mondo, del tempo e di noi stessi come pura parvenza, di contro alla quale sta l’eternità di tutto; una sorta di nunc stans, un attimo che dura eternamente, uno sviluppo senza principio e senza fine dove tutte le cose ritornano eternamente a se stesse e si riproducono incessantemente, un circolo dal quale non si esce, al limite, una prigione.

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La Bibbia, come sappiamo, rompe questa concezione ciclica del tempo. Il tempo diventa una linea retta, dotata di un principio e di una fine, anzi, di un fine, visto che la fine del tempo è anche la meta a cui il tempo tende. In questo senso il tempo diventa semplicemente lo scenario della storia della rivelazione e della salvezza, un momento di passaggio all’eternità. Dobbiamo tuttavia aspettare l’epoca moderna, affinché, su queste premesse bibliche, si metta in moto qualcosa di effettivamente dirompente sia nella concezione della società che nella concezione del tempo; qualcosa che, dissolvendo nei rapporti sociali l’idea di un ordine immutabile ed eterno, dissolve anche l’idea di un tempo pensato ciclicamente come eterno ritorno dell’uguale. Nelle società del passato il tempo aveva un carattere discontinuo, vago, qualitativo, scandito magari dal sorgere o dal calar del sole, dai giorni di festa o comunque particolarmente significativi, ma non certo misurato da precise unità temporali, quali le settimane, i mesi e gli anni. Si nasceva in primavera, in autunno, in estate, in inverno oppure in prossimità di un evento sociale particolarmente significativo; raramente si nasceva il giorno tale, alla tale ora, nel tal mese del tal anno. Non a caso nelle società primitive ricopriva particolare importanza la memoria,

TEMPO

Pervade tutto il campo dell’essere: gli uomini, le opere, i giorni. Da quello ciclico delle società primitive, a quello newtoniano della modernità, a quello frammentato e relativizzato della nostra epoca post moderna connota l’evoluzione sociale

La dittatura dell’istante di Sergio Belardinelli

La nostra vita è diventata una mera successione di momenti staccati da qualsiasi concreta continuità, da qualsiasi storia. Siamo costretti a vivere una molteplicità di attimi, ognuno dei quali non ha nulla a che fare con l’altro. Così stiamo diventando davvero uno, nessuno, centomila cioè la condizione essenziale per la cognizione del tempo e per collocare gli eventi in un fluire significativo dato soprattutto dal riferimento sociale: la comunità come condizione indispensabile per collocare correttamente un avvenimento nel processo temporale. Man mano però che le società si fanno più complesse, con l’affermarsi della crescente individualizzazione, ossia di una libertà che spinge la società verso un sempre maggiore bisogno di organizzazione (come ha mostrato Niklas

Luhmann, più le società sono libere e più hanno bisogno d’organizzazione), anche la concezione del tempo si trasforma; la crescente complessità rende necessario un sistema di misurazione del tempo sempre più standardizzato, che sia comprensibile a tutti; occorre ormai vivere guardando continuamente l’orologio, il vero regolatore della vita delle nuove città, sempre più complesse e differenziate sia nell’organizzazione del lavoro, sia negli stili di vita. La concezione del tempo diventa sem-

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pre più quantitativa e matematica; è il trionfo, se così si può dire, del tempo newtoniano: un tempo meccanico, astronomico, continuo, infinitamente divisibile, che scorre in modo uniforme. Quanto alla successione temporale (passato, presente e futuro), se nelle società antiche era preminente il passato e quindi la memoria, nella società moderna diventa sempre più rilevante l’aspettativa del futuro. Se nell’antica mitologia, anche in quella biblica, l’età dell’oro, il paradiso terrestre, in una parola, la perfezione, si trovano all’inizio della storia dell’uomo, il quale è chiamato a conservarne memoria nella speranza di non allontanarsene più di tanto, in epoca moderna si afferma poco a poco una nuova mitologia: una mitologia che colloca l’età dell’oro nel futuro e che chiama gli uomini a realizzarla con le proprie mani, in modo addirittura vandalico nei confronti del presente e del passato (si pensi all’ideologia rivoluzionaria). In sostanza al destino immutabile, alle leggi del cosmo platonico che regolano sia i cieli sia le vicende umane (si pensi al Timeo), si sostituiscono sempre di più le decisioni e la volontà degli uomini. Di qui la crescente libertà, ma anche la crescente incertezza, la crescente difficoltà a conciliare il tempo della società con il tempo dell’individuo. L’antica comunità era riuscita in questa conciliazione adattando, possiamo anche dire, costringendo, l’individuo all’interno dell’ordine sempiterno della comunità stessa. La società moderna, in quanto società individualizzata e differenziata, non può più permettersi questa costrizione; deve quindi fare i conti con una crescente anomia, come direbbe Durkheim, la quale, in quanto discrasia tra normatività, normalità, ordine sociale, da un lato e, libertà, desideri, norme individuali, dall’altro, esprime anche il disagio di una civiltà che fatica a conciliare una vita e un tempo sociale sempre più standardizzati con la vita e il tempo degli individui. Potremmo anche dire che uno dei motivi per cui oggi la socializzazione è sempre più difficile va ricercato nella sempre più difficile interiorizzazione da parte degli individui del tempo o dei tempi della società.

È a questo livello, al livello delle lacerazioni della coscienza individuale moderna, che si delinea la crisi della modernità e il passaggio alla cosiddetta epoca postmoderna. L’uomo padrone del tempo e della storia, ammaliato dalla dimensione di un futuro reso radioso dal progresso della scienza e della tecnica, si ritrova paradossalmente imprigionato in un meccanismo che funziona benissimo anche senza l’impiccio di istanze «umane». Il tempo della nostra vita è, non soltanto privo di passato (non sappiamo da dove veniamo), ma anche bloccato, indifferente e impaurito di fronte al futuro; è diventato una mera successione di istanti relativi, staccati da qualsiasi concreta continuità, da qualsiasi storia, proprio come si addice a una società ipotetica, quale è quella in cui viviamo. Siamo come costretti a vivere una molteplicità di «istanti», ognuno dei quali non ha nulla a che fare con l’altro. In questo modo stiamo diventando per davvero uno, nessuno e centomila.


Gorillaz, il naufragio

MobyDICK

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cd

musica

su una spiaggia di plastica di Stefano Bianchi iecco la band-fumetto. Quella che il Guinness Book Of World Records ha riconosciuto come il gruppo virtuale più famoso del mondo. Ricapitoliamo. Nel 1998, annoiato dai Blur, Damon Albarn s’inventa (un po’ per sfida, un po’ per scherzo) i Gorillaz. Canta, soprannominandosi 2D, e si fa accompagnare dal bassista Murdoc Niccals, dalla chitarrista Noodle e dal batterista Russel Hobbs. Nel 2001 incidono Gorillaz, calano l’asso della geniale electro-filastrocca Clint Eastwood e poi scompaiono. O meglio: non sono mai apparsi, sostituiti da quattro teppisti disegnati da Jamie Hewlett, il fumettista di Tank Girl. L’invisibilità al potere. Né carne, né ossa.Visibilità, invece, a colpi di cartoni animati e partecipazioni virtuali: come quando nel 2006 aprono i Brit Awards con un coro d’un centinaio di bambini, poi duettano ai Grammy Awards con l’ologramma di Madonna e appaiono in tivù con un discorso di Natale alternativo (a pronunciarlo è quel brutto ceffo di Murdoc), in contemporanea con gli auguri della Regina Elisabetta. Nel frattempo (2005) è uscito Demon Days, che sommato a Gorillaz fa la bellezza di dodici milioni di dischi venduti. Alla faccia di chi, la faccia, non ce la mette. E neppure si sogna di farlo con la nuova gorillesca avventura, Plastic Beach, che vociferano sia ambientata nel sud del Pacifico, su una remota isola fatta di spazzatura. Qui, fumettisticamente parlando, un Murdoc più dispotico e accentratore che mai tiene prigioniero 2D e si fa proteggere da una Noodle cyborg (ricavata, cioè, dal Dna della chitarrista giapponese). Russel, nel frattempo, si è dato alla macchia. Nella realtà, la musica funziona che è una meraviglia. Dipinge, allegoricamente, il fallimento dell’umanità. Dopo aver srotolato un’Orchestral Intro (con tanto di

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in libreria

DAI CCCP A RATZINGER

gabbiani in sottofondo) da fare invidia alle colonne sonore di Alfred Hitchcock, Plastic Beach si muove lungo le classiche coordinate dei Gorillaz, hip-hop ed electro, che vengono di volta in volta inondate da un imprevedibile melting-pot sonoro. In undici pezzi su sedici, la voce di Damon Albarn viene affiancata (e spesso scavalcata) dalle performance di ospiti deluxe. Welcome To The World Of The Plastic Beach, ad esempio, lancia il rapper Snoop Dogg sulle tracce del dub e del soul, mentre Lou Reed s’incolla all’elettronica funkeggiante di Some Kind Of Nature e la coppia Mick Jones/Paul Simonon, per la prima volta insieme dai tempi dei Clash, asseconda la bislacca psichedelìa di Plastic Beach. E se la talentuosa Little Dragon metabolizza la polpa lounge di Empire Ants e To Binge, il chiacchiericcio beatnik di Mark E Smith dà un senso alla techno di Glitter Freeze. Kano & Bashy, in White Flag, ondeggiano su una melodia da danza del ventre che si trasforma in un feroce hip-hop, che ritroviamo a muso duro con la discomusic (Stylo, con Bobby Womack e Mos Def) e «cartoonesco» in Superfast Jellyfish (Gruff Rhys e De La Soul). Bobby Womack, vecchia volpe del soul e del rhythm & blues, torna nella cameristica Cloud Of Unknowing confezionando forse la gemma del disco. Dico «forse» perché c’è Damon Albarn, solitario, che scandisce la sognante On Melancholy Hill fino a farla somigliare a Sugar Baby Love dei Rubettes. Gioiellino. I Gorillaz, dunque, son tornati. E non ce n’è per nessuno. D’altronde, come dice il perfido Murdoc, «o sei vivo, o non lo sei. O stai al gioco, o non ci stai. Il resto, sono solo incisioni capricciose sulle pareti del teschio umano». Gorillaz, Plastic Beach, Emi, 19,50 euro

mondo

riviste

OMAR SOSA TRA SACRO E PROFANO

ELOGIO DEI LIARS

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opo aver cercato il senso in mille modi senza trovarlo l’ho trovato tornando a casa. Nel mondo di quando ero bimbo: i monti, il rosario. Chi sono oggi può essere scoperto nel Te Deum. Sono uno che iniziò a curiosare tra i libri dell’allora cardinal Ratzinger per capire perché molti ne parlassero male. E ora che sono tornato a casa, Benedetto XVI è il mio maestro». Ex leader dei Cccp, al-

«I

l mio lavoro vuole dimostrare che siamo figli della stessa Madre, e anche se siamo geograficamente separati, siamo vicini nell’essenza, nei concetti e nelle radici. Ho cercato di esprimere una piccola parte della faccia melodica dell’Africa e credo di aver combinato molteplici tradizioni attraverso un sound senza frontiere». Tra i più influenti e ricercati pianisti contemporanei, Omar

ebbene artisti come Strokes, Interpol o Yeah Yeah Yeahs abbiano ricevuto soddisfazioni maggiori in termini di vendite e popolarità, i Liars hanno brevettato una formula mutante che permette loro di suonare freschi ancora oggi, laddove altri si sono arenati dopo pochi album a causa di vuoti creativi o per semplice esaurimento della spinta. Al contempo i traguardi raggiunti dal gruppo sono innega-

L’inquieta parabola di Ferretti, ex leader del celebre gruppo punk, fino alla conversione

Il sound aggregante del pianista cubano nel nuovo album “Ceremony” all’insegna della tradizione

Dopo quattro dischi di successo e un futuro ancora aperto, su “indie-eye.it” una disamina della band

fiere del punk made in Italy, apprezzato romanziere: la parabola di Giovanni Lindo Ferretti riflette contraddizioni e svolte tipiche di un’anima inquieta. Approdato alla fede qualche tempo fa, finalmente pacificato, il cantautore di Cerreto Alpi è al centro di Giovanni Lindo Ferretti - Canzoni, preghiere, parole, opere, omissioni (Arcana, 416 pagine, 16,50 euro). Scritto a quattro mani da Stefano Bottura e Matteo Remitti, il volume ripercorre gli snodi essenziali della vita di Ferretti, alla luce di composizioni e album che ricalcano alcuni importanti eventi della storia del Paese. Parlare di un artista che ha speso l’esistenza nella ricerca, non è mai stato così azzeccato come nel caso di Lindo.

Sosa non è soltanto uno straordinario rapsodo della musica, ma anche un ambasciatore delle sette note che immette nel suo sound una grande forza aggregante. È così anche per Ceremony, nuovo lavoro che l’artista cubano ha appena dato alle stampe, e che presenterà live al Festival Banlieues Bleues di Parigi il 17 marzo, e negli studios della Ndr ad Amburgo il 18 e il 19. Nuovo album all’insegna della tradizione cubana, sacra e profana: rivisitazione di cha cha cha e son, ma anche della sacralità percussiva della Santeria, con vertici trascinanti nel beat dei tamburi batà. Da non perdere.

bili e li distinguono nettamente dalle formazioni underground che sono ancora relegate nella semioscurità». Federico Fragasso racconta così la parabola dei Liars su indie-eye.it. E in effetti, la band losangelina fondata dieci anni fa da Julian Gross e dall’australiano Angus Andrew, ha saputo coniugare verve sperimentale e accessibilità sin dall’esordio. Groove implacabili, chitarre fendenti, liriche frammentarie e sibilline: il trademark del gruppo è già scolpito in We no longer knew who we were, Ep che li porta alla ribalta.Abili nel miscelare shuffle-dance, hip hop e trace-music, Andrew e soci hanno saputo mutare senza mai cambiare davvero. Quattro album fino a oggi, un grande futuro domani.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

CONTROPUBBLICITÀ per Woody, il Genius di Bruno Giurato arebbe giusto occuparsi seriamente di informazione e non fare pubblicità, ma quando la pubblicità è sentita, quando l’indegno estensore dell’articolo è davvero convinto, è giusto che il cuore s’apra, è giusto buttarsi a pesce nel connotativo. Anche perché qui si parla di un genio, anzi di The Genius, ecco, del Woody mondiale, inteso Allen. L’uomo più sexy d’America secondo i canoni anni Settanta, il lato B (come brain) di John Holmes. L’uomo che con quel motto di Harry a pezzi ha dato una poetica avventurosa a tanti maschi occidentali, dove il motto era: «Nichilismo, cinismo, sarcasmo e orgasmo». L’uomo che un motto l’ha dato anche a noialtri provinciali schietti, con quell’altra frase di Vicky Cristina Barcellona, quella del pittore dal divorzio incasinato che va dalle fanciulle al ristorante e come primo approccio sussurra: «Vi faccio vedere la città, mangiamo bene, beviamo ottimo vino e facciamo l’amore». Non la facciamo troppo lunga. Merita o non merita un po’ di pubblicità il Woody? Merita, appunto. Merita precisamente che gli appassionati non lo vadano a vedere in concerto con la sua jazz band a fine marzo, a Venezia e a Montecatini. Dai sessanta ai novanta euro per un clarinettista inesistente è decisamente troppo, meglio una cena in un bel ristorante. È pure snob il Genius. Quando venne a Roma a suonare ci fu una cena. Tutti chiesero al venerando maestro di suonare in jam session con il caporchestra Carlo Loffredo. Gli portarono il clarinetto al tavolo, lui niente. «Con la faccia di tolla e l’espressione da cane mazziato Allen ha rifiutato l’invito», ricorda Loffredo, che nell’ambiente dei musicisti equivale a un bel gesto di maleducazione. Ma nella foto ricordo della serata sul capo di Woody c’è un paio di corna. È la pubblicità perfetta.

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teatro

Quando Flaiano scese da Marte di Enrica Rosso

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uesto è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’umanità» esclamò in mondo visione Neil Amstrong in quel memorabile 21 luglio del 1969 dopo aver poggiato gli argentei scarponi sul lunare mare della tranquillità. Fino a pochi mesi prima era un perfetto sconosciuto confuso tra la folla, un uomo qualunque; da lì in poi fu eroe nazionale e campione di coraggio, lustro del mondo intero. Negli anni a seguire venne osannato e usato, spremuto fino all’osso per poi essere ringoiato nell’anonimato, riesumato a fini pubblicitari e addirittura svillaneggiato nei cartoons della famiglia Simpsons. Similmente in Un marziano a Roma il 12 ottobre del 1953 «nell’aria dolce e carica di promesse» di un tramonto romano, un disco volante d’oro scarica sul galoppatoio di Villa Borghese il marziano Kunt e scatena il caos. «Il marziano è un giovane sui trent’anni. Niente di diabolico o comunque di strano nel suo volto e nelle sue maniere, che sono quelle di una persona perfettamente educata, con improvvisi slanci e cupi pentimenti. La sua disinvoltura è sempre meditata. Veste con sobria eleganza, cioè con una punta di goffaggine. Nell’ultimo quadro indossa un duffelcoat e si è fatto crescere una leggera barba». Così lo introduce il suo creatore Ennio Flaiano nelle note sui personaggi. Il poveretto verrà istantaneamente inghiottito dallo star system nostrano dell’epoca e sottoposto a un tourbillon di impegni mondani non troppo dissimili da quelli inflitti a chiunque venga indicato come vincitore di non importa quale format, con la fondamentale differenza che questi ultimi sono consenzienti e lautamente ricompensati per qualsiasi uscita. Il povero marziano considererà esaustiva l’esperienza terrestre al punto da ipotizzare che «la Terra potrebbe essere l’inferno di un altro pianeta» nel giro di tre mesi e desidererà ardentemente fare ritorno nel suo rosso mondo. Non gli sarà possibile e di fatto sarà costretto a vivere come qualsiasi terrestre impantanato nella convivenza amorosa con la «sfacciatamente dolcissima» ballerina Anna avendo come unico sfogo ai continui sberleffi che gli riservano gli umani un taccuino di appunti su cui annoterà perle di sagacia. Il testo edito in prima battuta da Einaudi nel 1960 nacque per il teatro e la prima messa in scena nello stesso anno a Milano, a opera della Compagnia del Teatro Italiano diretta da Vittorio Gassman, fu un fiasco epoca-

le, con fischi e urla a scena aperta, tanto che lo spettacolo fu smontato dopo una settimana. «L’insuccesso mi ha dato alla testa» commentò Flaiano. (In seguito, nel 1983, divenne un film con il medesimo titolo per la regia di Bruno Rasia e Antonio Salines). La commedia, sviluppata in sette quadri per un totale di una novantina scarsa di pagine, offre l’opportunità a Flaiano di contemplare con occhi impietosi la grande saga di un’Italia in pieno boom economico, intrisa di un benessere da capogiro, accartocciata su se stessa in preda a un delirio di immoralità post bellica. Nulla sfugge alla sua ironia beffarda: come quando dopo essersi obnubilato con un indecoroso pasto consumato in una trattoria trasteverina, interrogato su ciò che lo ha colpito del nostro paese risponde serio: «il sole, le canzoni»; o quando viene decisa la visita a pagamento dell’astronave il cui ricavato, salvo le solite infinite categorie di non paganti, verrà avviato in beneficienza di alcune congreghe religiose. E se in un

Vittorio Gassman e Ennio Flaiano in una pausa di lavorazione di “Un marziano a Roma” nel novembre del 1960 primo momento il marziano è portato in trionfo e venerato come un dispensatore di buone novelle dal creato, nel finale è addirittura costretto a subire l’oltraggio di un gruppo di giovinastri che lo spernacchiano per la via onde punirlo della sua impopolarità. A parte il gusto per le descrizioni, ricche di stimoli sensoriali di ogni tipo, di quelle che fan sognare a occhi aperti, Flaiano fa brillare, nella sarabanda generale, attimi di entusiasmante lirismo subito sventati dal cinismo. Insomma una storia di ordinaria follia stilata da una delle penne più argute, sarcastiche e creative della seconda metà del Novecento, mai abbastanza ricordata in questo centenario della nascita.

jazz

Hopper e il fischio del vecchio treno del Sud di Adriano Mazzoletti olti musicisti di jazz da Django Reinhardt a Miles Davis si sono spesso dedicati alla pittura, ma la musica assai raramente ne era il soggetto. Può stupire perciò che una mostra, in questo caso di un celebre pittore nato e vissuto nel New England nella prima parte del secolo scorso, possa suggerire sensazioni legate al primo jazz o al blues. È questa la percezione che ho avuto visitando l’esposizione dei dipinti di Edward Hopper (Nyack, 1882- New York, 1967) al Museo Fondazione Roma di Via del Corso, e sfogliando il prezioso volume di Lloyd Goodrich dedicato ai suoi dipinti più importanti. Sono soprattutto le opere del primo periodo, quelle in cui Hopper raffigura il mondo legato alla ferrovia: On the Quai, The Railroad, House by the Railroad o lo splendido Railroad Train di-

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pinte nella prima decade del Novecento, che fanno emergere ricordi legati al blues rurale o al city blues. Quando nel 1924 Trixie Smith cantava «Non voglio sentire quel treno merci fischiare» (I hate to heare that Freight Train blow boo-hoo in Freight Train Blues) o ancora Big Bill Broonzy, quando anni dopo, accompagnandosi con la chitarra, diceva «Stamane alzandomi ho udito il fischio del vecchio treno del Sud» (When I got up this morning’ I heard the old Southern whistle blow in Southern Blues), quei versi si materializzano nelle tele di Hopper. Ma oltre al blues cantato è anche il jazz stru-

mentale che si riflette in alcune opere. «Ero intrigato dalla questione del jazz in relazione ai suoi quadri» dice David Mees, addetto culturale dell’Ambasciata americana che ben conosce sia l’uno che l’altro. «Associo il jazz alla vita notturna e Hopper era famoso per la luce, ma anche per il buio. Uno dei suoi più famosi dipinti Night Haws, ma anche Night Windows e altri che ha dipinto con le ombre della notte, mi fanno venire in mente molti brani jazz suonati da un sassofono. Anche nei dipinti delle case, dell’albergo con la ferrovia di fronte, c’è sempre qualcosa del mondo del

jazz. Penso a un’altra connessione, forse un po’ più difficile da spiegare. Il jazz al suo inizio non era amato da persone di una certa classe sociale, alla quale apparteneva anche Hopper, che non si fidavano di quella musica, la trovavano troppo espressiva, dovevi improvvisare con uno strumento, muovere il tuo corpo. Incapaci di spiegare a loro stessi se non accettavano il jazz in quanto tale o perché proveniente da classi inferiori. C’è perciò un paradosso nella pittura di Hopper. I suoi nudi, l’immagine della donna triste seduta di fronte alla finestra mi fanno venire subito in mente il blues. Trovo che ci sia una nota di leggera perversione quasi di cattiveria in quei quadri di nudi che si contraddice con la carica di puritanesimo del New England. Associo quei nudi alle foto scattate a New Orleans da E.J. Bellocq all’inizio del secolo scorso, al mondo del blues, alla stessa musica jazz».


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narrativa

di Maria Pia Ammirati n titolo lirico per una non-fiction pubblicata da Mondadori nella collana dove trovano posto i romanzi degli scrittori italiani: questo libro di Arnaldo Colasanti, La prima notte solo con te, scavalca e supera la necessità di rispondere a costruzioni architettoniche narrative, per approdare invece a un testo-testimonianza sull’esistenza come fatica, dolore e speranza. Un coro di voci tenuto a bada dallo scrittore-autore che si impegna in un vistoso e aperto lavoro autobiografico persino di scavo e di intima svelatura dei codici più privati. A partire dalla centralità della famiglia che è la figliolanza e, nel caso dello scrittore, dall’unica figlia Miranda. Il libro è dedicato alla figlia con un sottotesto che cita la mogliecompagna, e allaude alla figura della madre perduta precocemente. La figlia, a sei anni, come tutti i bambini coevi, appartenenti alla nostra epoca, è una bimba amata e coccolata, al centro del microcosmo familiare fa scattare con le sue richieste una fitta rete di considerazione. Come accade una notte, la notte che lo scrittore Colasanti elegge a cronotopo, quando Miranda piangente chiede al padre di ritrovare il suo cane, Macchia, il peluche perduto in aereo durante una rotta intercontinentale. È notte, la notte amplifica tutto il pianto della bimba e le domande (il dolore) del padre: «Spesso pensi al tuo cane e piangi, nonostante ti abbia comprato cento gattini e orsacchiotti, sebbene tu sia una bambina felice». Ecco sebbene si conosca la felicità d’improvviso nella vita si percepisce l’abisso della perdita: «le lacrime segnano le

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Il senso

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della perdita: istruzioni per l’uso

libri

nostre felicità» aggiunge infatti Colasanti. È questo che spinge lo scrittore a scrivere una lunga appassionata lettera alla figlia, in cui si cerca di dare confini al dolore, e strade sicure per una vita serena, la pragmaticità del quotidiano e l’equilibrio di fronte alle tragedie. Il testo continua disarticolando gli interventi che non hanno nessuna necessità di legarsi tra loro, la notte è lunga e una volta innescata l’insonnia il pensiero si libera e si frammenta. Rimane il sottotesto del dolore però, e fra le pagine più belle una allude alla maturità, quella dedicata alla morte di Enzo Siciliano, un maestro e un amico di Colasanti. L’altra alla giovinezza, quella dedicata a un altro amico perduto, intellettuale e scrittore Pietro Tripodo, morto in giovane età. Sono due pagine tristi: la morte faticosa di Siciliano trattenuto alla vita dalla cura della moglie Flaminia, la dissipazione improvvisa di un giovane padre che lascia due bimbi e un testo immaturo. E per entrambi vive quella stessa domanda che il padre scrittore rivolge alla figlia Miranda per consolarla del giocattolo perso: «Dove vanno le cose che perdiamo?». I nostri amici, i nostri affetti, tutto l’amore che creiamo e ricreiamo incessantemente, tutte le cose a cui ci affezioniamo? La risposta della bimba è brutale, meglio dire scandalosa: «Tutte le cose belle vanno nella fogna». Rivela la verità e non sa nascondere parte della menzogna dell’esistenza. Il libro è un’affannosa ed elegiaca corsa a cercare la strada, e il luogo, dove gli affetti e l’amore possano vivere per sempre. Arnaldo Colasanti, La prima notte solo con te, Mondadori, 192 pagine, 18, 50 euro

riletture

Benedetto Croce, i patrioti e i falsi partiti politici di Giancristiano Desiderio rileggere Benedetto Croce, il più delle volte si rimane stupiti per la modernità dello stile e, ancor meglio, l’attualità dei pensieri. Ma a rileggere questo libro di cui ora dirò si resta ancor più ammirati perché sembra di vedere sotto i proprio occhi non solo la storia passata, ma la cronaca presente. Soprattutto per la storia di ieri e di oggi dell’Italia meridionale. Una famiglia di patrioti e altri saggi storici e critici fu pubblicato per la prima volta nel 1919, naturalmente dall’editore di Croce: Giovanni Laterza. Il libro, subito dopo la prima guerra mondiale, ebbe un bel successo e si continuò a ristamparlo. Il filosofo, del resto, era un sapiente stratega della sua opera editoriale ed era prodigo di consigli al suo stesso editore. Ma trovare oggi quel libro laterziano - quei davvero «mitici» volumi con

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carta cartonata e color mattoncino che non poche battute suscitarono - non è cosa semplice. Bisognerebbe mettersi di buzzo buono e visitare le librerie antiquarie di Roma, Napoli, Firenze, insomma un’impresa non semplice. Così, un po’ la irreperibilità dell’originale, un po’ l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ecco che la Adelphi - che, in pratica, è diventata il nuovo editore di Croce nel XXI secolo - ha mandato ora in libreria Una famiglia di patrioti. Sono assenti in questa nuova edizione la seconda e la terza parte che erano dedicati a varie figure del primo Ottocento napoletano e poi alla grande e nobile figura di Francesco De Sanctis (evidentemente a De Sanctis sono dedicati i «saggi critici»). La Adelphi, quindi, ripropone nella collana della Piccola Biblioteca solo la prima parte del «libro patriottico» di Croce dedicato ai Poerio: Giuseppe Poerio, il padre, Carlo e Alessandro i figli,

Carolina e Carlotta, la madre e la figlia. Il testo di Croce è non solo bello e godibile nella lettura e nel racconto dell’avventura, ma intelligente e robusto sul piano della comprensione della lotta politica in Italia e nel Mezzogiorno. Il giudizio di Croce sui fatti del 1799 appare qui più giusto e veritiero rispetto alle pagine pur sentite e sofferte della Storia del Regno di Napoli. Giustamente, Giuseppe Galasso - che firma la corposa Nota in coda al testo - lo fa presente e sottolinea. Eppure, al di là dei commenti, conta davvero rileggere Croce. Dunque: «Epperò mi astengo dal venir mostrando che nell’Italia meridionale la condizione è ancora questa: da un lato, falsi partiti

politici di maschera democratica, sfruttatori della cosa pubblica a pro di clientele, e dall’altra, un’ombra di partito moderato e liberale, che cerca di darsi qualche corpo mercé l’unione, non fondata sopra medesimezza di tradizione o conformità d’idee, con la parte cattolica. Ma se alcuno volesse mai tentare di ricostruire un partito liberale, inteso come di “bene pubblico” e di “cultura” e di “civiltà”, al modo di Giuseppe Poerio e dei suoi amici e dei suoi figliuoli, dovrebbe, anzitutto, rendersi consapevole della storia che io ho sommariamente tracciata, per conoscere le molteplici difficoltà che toccherebbe affrontare, e che questi nostri antenati non riuscirono a superare compiutamente».


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biografie

Come il giovane Soso diventò lo spietato Stalin di Enrico Singer l suo primo Politbjuro fu il coro del seminario di Tiflis, dove la madre Keke lo aveva mandato per studiare da seminarista. Allora aveva appena 10 anni e tutti lo chiamavano Soso - il diminutivo di Iosip, il suo vero nome - ma aveva già la determinazione che ne avrebbe fatto il futuro Stalin. Fisicamente più piccolo dei suoi compagni, voleva comunque essere il numero uno ed ecco che ebbe un’idea: organizzare una foto di gruppo. Fu lui a trovare il fotografo e ad assegnare i posti: per sé riservò quello al centro della fila più in alto, proprio alle spalle del maestro, in modo da diventare la figura più visibile e importante. Quasi una

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reportage

prova generale delle tante foto sul palco della Piazza Rossa. È soltanto uno degli innumerevoli episodi inediti raccontati nel libro Il giovane Stalin, di Simon Sebag Montefiore, che ripercorre le prime tappe della vita dell’«uomo d’acciaio», lo spietato dittatore che ha tenuto in pugno per trent’anni l’esistenza di milioni di uomini, che ha ordinato terribili purghe e sanguinose deportazioni. Dei complotti, della violenza politica, del culto della personalità, gli storici hanno scritto molto, ma nessuno aveva finora ricostruito quali eventi fecero del giovane Soso, figlio del calzolaio Vissarion Dzugasvili, detto Beso «il matto», il potente e temuto Stalin. A partire dal mistero sulla vera identità del padre, perché Beso «il

matto» finì alcolizzato roso dai sospetti che il vero genitore di Iosip fosse Koba Egnatasvili, ricco oste, ma soprattutto celebrato lottatore locale, che finanziò e protesse la famiglia di Soso. Nel libro sfila una galleria di personaggi che comprende anche i grandi della rivoluzione bolscevica, da Lenin a Trockij. Ma che fa rivivere soprattutto uomini e donne della vita privata del giovane Stalin. Come Kamo, l’amico d’infanzia e tagliagole di professione, che guidò la prima azione rivoluzionaria a Tiflis, che fu arrestato e si finse pazzo sopportando terribili torture tanto da convincere i medici che la sua pazzia fosse autentica. O come Suren Spandarian, il suo migliore amico, palyboy armeno e bolscevico spie-

tato, del quale si diceva fosse «il padre della metà di tutti i bambini di Baku». Nel sottobosco malavitoso georgiano, il giovane Stalin (siamo nei primissimi anni del 1900) si trovava nel suo elemento, in una vita fatta di latitanza. Sempre con molte donne al fianco: sposate o nubili, giovanissime o mature, contadine, intellettuali, aristocratiche. Da Natasha Kirtava a Kato Svanidze, da Ludmilla Stal a Tatiana Slavatinskaja, fino a Nadja Allilueva. Il ritratto intimo di uno dei più malvagi protagonisti del secolo scorso, insomma. Che si legge come un romanzo. Simon Sebag Montefiore, Il giovane Stalin, Longanesi, 550 pagine, 29,00 euro

Per conoscere la Turchia da Bisanzio a Erdogan di Luisa Arezzo a prima impressione che Mille e una Turchia restituisce è quella di un amore quasi incondizionato. Marta Ottaviani, 34 anni, corrispondente da Istanbul per liberal, Apcom e La Stampa, non ne fa mistero. Da cinque anni ha scelto «a tavolino» di vivere nel paese della Mezzaluna. Armi e bagagli si è trasferita e ha cominciato la sua gavetta, non sempre facile. Soprattutto i primi anni. Ma come spesso succede, la passione e l’impegno danno i loro frutti: la Turchia l’ha accolta e lei l’ha ripagata (e continua a farlo) con analisi attente e puntuali. Come quelle di questo libro (il secondo, dopo Cose da turchi del 2008, sempre Mursia), un viaggio itinerante fra la mitica Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul (ca-

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personaggi

pitale europea della cultura 2010), Smirne, Bursa, l’algida Ankara, Sivas (la terra degli aleviti), Artvin, (gioiello incastonato tra foreste e corsi d’acqua) Amasya, Batman (proprio così: il sindaco provò anche a fare causa alla Warner Bros per aver copiato il nome del super eroe, ovviamente la perse), Antalya e Gaziantep (l’altra faccia dell’economia anatolica). Più che un libro, un reportage che ti immerge nei luoghi scelti con insolita partecipazione. Ma che non dimentica analisi approfondite, lontane quanto più possibile dai luoghi comuni a cui spesso si fa riferimento quando si parla di Asia. Dall’eredità dell’Impero ottomano al nazionalismo turco e ai conflitti con la Grecia, dalle questioni curda e armena, al rapporto tra fedi diverse fino alla condizione della donna. Un lavoro giornalistico sulla Turchia di oggi che, con

chiarezza e semplicità, mira a sottoporre al lettore tutte le contraddizioni di un paese sospeso tra Europa e Asia, tra modernità e tradizione che suscita, a livello internazionale, attenzione ma anche timore. Una paura che la Ottaviani tende ad allontanare, convinta che il paese abbia in seno gli anticorpi per contrastare la deriva islamista che il premier Erdogan, con lenta abnegazione e con pervicace convinzione - come sembra invece a noi di liberal - porta avanti. Chicca del libro, il capitolo dedicato a Cipro, spaccata in due dal 1974 che l’autrice definisce «l’isola del dolore»: che rischia di diventare la più grande sconfitta dell’Europa. Quella di Cirpro, scrive la Ottaviani «è la storia che ha più bisogno di essere raccontata, e non solo perché al momento è uno degli ostacoli più grossi all’ingresso della Turchia nella Ue, ma anche perché è una di quelle che si conoscono meno, o peggio ancora male, e che invece ci riguarda da vicino». Marta Ottaviani, Mille e una Turchia, Mursia, 177 pagine, 17,00 euro

Scandalosa Etty, irriducibilmente cristiana di Marino Parodi tty Hillesum, giovanissima ebrea olandese morta ventinovenne ad Auschwizt alla fine del 1943, diventata famosa in tutto il mondo a seguito della pubblicazione - avvenuta soltanto nel 1981 - del suo Diario e delle sue Lettere (entrambi pubblicati in Italia da Adelphi), torna a essere indagata (insieme con Simone Weil) in un saggio di Beatrice Iacobini e Sabi Moser - Uno sguardo nuovo. Come è stato notato da Gaarland, autore della prefazione, Etty è stata «rivendicata», al tempo stesso, da lettori cattolici come maestra del pensiero cristiano e da ammiratori ebraici, i quali hanno

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visto in lei la quintessenza dell’Ebraismo. Eppure, continua lo studioso, la ragazza segue un percorso spirituale assolutamente autonomo e libero, benché nutrito da corposi riferimenti biblici. La grande gioia di vivere che traspare da ogni pagina colpisce non meno dell’assoluta serenità, lontana da qualunque forma di sentimento negativo nei confronti dei suoi carnefici. Anzi la grande capacità di perdonare della giovane mistica sembra essere profondamente legata alla sua gioia di vivere che paradossalmente sembra trarre nutrimento dalle durissime prove affrontate: il suo è un autentico percorso di guarigione spirituale. In questo senso, quella di Etty è una

delle lezioni più «scandalose», difficili e luminose del cristianesimo. «Trovo la vita assolutamente bella, in tutte le circostanze, non è ciò che ci accadde, in definitiva, a essere veramente importante, bensì ciò che noi facciamo di ciò che ci accade, insomma, il modo in cui noi reagiamo». La fonte di tanta saggezza e di tanto amore nei confronti di tutto il creato è per Etty la scoperta della presenza di Dio nella sua vita e nel cosmo e il dialogo che da quel momento stabilisce con Lui: il rapporto con Dio è infatti il centro e il filo conduttore di entrambe le sue opere che hanno fatto di lei uno degli autori e dei maestri spirituali più studiati, letti e amati dell’intero Occiden-

te negli ultimi decenni. In una prospettiva di amore incondizionato, non è affatto difficile comprendere la suprema scelta di «altruismo radicale» compiuta da questa ragazza della buona borghesia intellettuale ebraica, coltissima studentessa universitaria di slavistica e psicologia, già laureata in giurisprudenza, la quale, pur potendo sottrarsi all’internamento e rifugiarsi all’estero grazie ai contatti di cui disponeva, preferì consegnarsi ai suoi carnefici. Beatrice Iacobini e Sabi Moser, Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e in Simone Weil, San Paolo Edizioni, 240 pagine, 14,00 euro

altre letture Verginità, sesso occasionale, contraccezione, infedeltà, masturbazione, rapporti orali e anali, etero e omoerotismo: come sono cambiati i sentimenti, i comportamenti e le identità sessuali degli italiani? Ci sono differenze fra il nostro e gli altri paesi occidentali? La sessualità degli italiani del sociologo Marzio Barbagli (Il Mulino, 341 pagine, 25,00 euro) presentando i risultati di un’imponente ricerca condotta con interviste e colloqui in profondità su un ampio campione di popolazione - 7mila soggetti dai 18 a 70 anni mostra in maniera netta il diffondersi di una visione più fluida, disinibita e individualistica del sesso, svincolato dalla riproduzione e centrato su emozione, affetto e ricerca del piacere. Il dato che colpisce dell’indagine è che molti dei cambiamenti che hanno interessato la popolazione femminile non sono iniziati nel Sessantotto ma molto prima. Con i suoi maestosi interni d’acciaio la corazzata Roma è l’unità più temuta del Mediterraneo. Poco prima dell’alba del 9 settembre 1943 lascia il porto di La Spezia. A bordo ci sono oltre duemila uomini. Mentre la Roma procede in mare aperto col resto della flotta, in cielo viene avvistato uno stormo di Dornier tedeschi. La Roma viene colpita e affondata. I naufraghi, sopravvissuti alla strage che lascerà in fondo al mare 1393 uomini, vengono trasportati alle Baleari. Qui le navi saranno internate e i superstiti trasformati in merce di scambio. La loro vita resterà a lungo come sospesa, in difficile equilibrio tra gli opposti interessi di un’Italia spaccata in due. Una tragedia italiana (Longanesi, 318 pagine, 19,00 euro) di Andrea Amici racconta la drammatica e avventurosa vicenda della corazzata italiana, immenso sacrario inviolato che giace ancora oggi in fondo al mare. Crac borsistici,

Sovrappopolazione, irrefrenabile spinta al consumo, mercati saturi, carenza di liquidità, disoccupazione. Non possiamo ignorare che un’analoga crisi, quella del 1929, è sfociata nel secondo conflitto mondiale. In Capitalismo e pulsione di morte (La lepre edizioni, 160 pagine, 16,00 euro) Gilles Dostaler e Bernard Maris spiegano la spinta all’autodistruzione umana accostando il concetto freudiano di pulsione di morte all’idea keinesiana di frenesia nell’accumulazione. L’istinto di morte freudiano si manifesta anche attraverso le tendenze capitalistiche al possesso e all’accumulo: pulsioni che congelano la vita nel possesso di cose e denaro, armature che invece che dare sicurezza, come nelle intenzioni iniziali, murano nell’angoscia e nella paura la vita. Una pulsione che in definitiva conduce a quello che Keynes definiva il desiderio morboso di liquidità, un’altra maschera della pulsione di morte. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

PADRE MATTEO RICCI PIÙ CONOSCIUTO E VENERATO IN CINA CHE IN ITALIA, FU MAESTRO IN UNA QUANTITÀ DI DISCIPLINE INNOVATIVE, DALL’INFORMATICA (L’ARS MEMORIAE) ALL’ANTROPOLOGIA CULTURALE. SOPRATTUTTO, RIVOLUZIONARIO FU IL METODO CHE ADOTTÒ PER EVANGELIZZARE L’IMPERO DEL CENTRO E PER IL QUALE VENNE A LUNGO EMARGINATO. ALLA VIGILIA DEL QUARTO CENTENARIO DELLA MORTE, FERVONO LE INIZIATIVE PER CELEBRARE LA SUA FIGURA (A PARTIRE DA UNA MOSTRA ITINERANTE ORA A PECHINO)

Lo stratega della Fede di Franco Cardini ell’immenso salone del Parlamento cinese, alle spalle degli scranni di presidenza, un grande mosaico di gusto realistico-eroico staliniano ricapitola a vivi colori le glorie e gli affanni della storia della Cina. Pochi in esso i cenni al rapporto tra l’orgoglioso «Impero del Centro» e il resto del mondo, il che non stupisce. La Cina si è sempre sentita sufficiente a se stessa. Tra i molti protagonisti eroizzati della millenaria storia cinese, ci sono solo due stranieri: e sono due italiani, cioè un veneziano e un maceratese, entrambi ancor oggi ricordati in tutti i libri di scuola e molto amati anche dalla gente.

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Il veneziano è ovviamente Marco Polo; il maceratese, invece, è Li Madou: nome ch’altro non è se non la sinizzazione di quello del gesuita padre Matteo Ricci, al quale proprio in questi giorni è dedicata una grande mostra itinerante, prima a Pechino (fino al 20 marzo), poi a Shanghai e a Nanchino (mentre da poco si è chiusa quella in Vaticano, al «Braccio di Carlomagno», i materiali della quale sono disponibili nel catalogo Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci fra Roma e Pechino a cura di A. Paolucci e G. Morello, Allemandi editore). Ma, se tutti i cinesi conoscono Matteo Ricci, pochi italiani sanno chi fosse. Il che natural-

mente non stupisce: la cultura media del popolo cinese è stratosfericamente superiore a quella degli italiani grandefratellizzati e portaaportadipendenti. Ma, dal momento che non è mai troppo tardi per colmare almeno qualche lacuna, ricordiamo i tratti fondamentali di questa straordinaria presenza, che a Macao si sente ancora per le strade. Quando la dinastia imperiale mongola Yuen, che aveva dominato la Cina per oltre un secolo, fu negli anni Trenta del XIV secolo cacciata e al suo posto s’insediò la dinastia Ming, rigorosamente sinocentrica ed esclusivista, si procedette a cancellare in modo sistematico tutte le tracce di cultura e di presenza straniera che il cosmopolitismo tartaro vi aveva introdotto. Fra esse, anche una forte presenza cattolica, che aveva dato luogo alla fondazione perfino di una diocesi, a capo della quale era alla fine del XIII secolo il francescano campano Giovanni da Montecorvino. I cristiani occidentali erano stati espulsi e le piccole comunità cristiane locali disperse: al punto che in pieno Settecento la notizia di reperti cristianonestoriani rinvenuti in Cina fu messa in ridicolo dal Voltaire, il quale notoriamente usava credere e amava far credere che tutto quel che ignorava lui fosse inesistente (e per questo,

Nato a Macerata nel 1552 ed entrato nella Compagnia di Gesù nel 1571, era convinto che la conversione al cristianesimo non richiedesse l’accettazione dei simboli e dei costumi della tradizione cattolica romana. Così seppe farsi cinese tra i cinesi

in Candide, presentò i gesuiti del Guaranì come degli oppressori degli indios e il governo illuminista e colonialista portoghese guidato dal marchese di Pombal e protettore dei trafficanti di schiavi come liberatore: idiozia che si continua qua e là a leggere ancora).

Oltre due secoli più tardi fu il gesuita Alessandro Valignano, nominato nel 1572 visitatore delle missioni delle Indie Orientali, a immaginare la possibilità di una nuova evangelizzazione per la Cina, in un piano più ampio che prevedeva anche la predicazione in India e in Giappone. È a lui che si deve anche la felice decisione di inviare Matteo Ricci in estremo Oriente. Il Ricci era nato nel 1552 a Macerata, nella marca di Ancona; di nobile famiglia, fu inviato dal padre a Roma per studiare al Collegio Romano, poi Pontificia Università Gregoriana. Approfondì la teologia, l’astronomia, la matematica, la geografia e la cosmologia, sotto la guida di diversi maestri, fra i quali proprio il Valignano. Matteo entrò nella Compagnia di Gesù nel 1571 e il Valignano lo inviò a Goa, dove nel 1580 venne ordinato sacerdote. L’anno successivo raggiunse Macao su una nave portoghese; qui iniziò a studiare la lingua cinese, favorito da una memoria straordinaria, che avrebbe dato presto ottimi frutti. Nel 1582 Matteo Ricci, il confratello Michele Ruggieri e alcuni interpreti lasciarono Macao diretti a Zhaoqing (a ovest di Canton). Qui guadagnarono l’amicizia del prefetto Wang Pan, collezionista di oggetti occidentali e interessato in particolare agli orologi dei missionari. Quando vennero a mancare i fondi, il Ruggieri decise di tornare a Macao per riguadagnare poi Roma, mentre il Ricci, restato in Cina, iniziò a studiarne più profondamente la cultura. Le sue ricerche e le esperienze pastorali che frattanto andava compiendo lo condussero ad approfondire il concetto di «inculturazione» già teorizzato dal Valignano: in


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particolar modo, fu attratto dal sapere filosofico «Mandarini», cioè dei pubblici funzionari confuciani, così chiamati dagli europei con parola derivante dal portoghese mandarim, «consigliere». Scevro da qualunque pregiudizio, il Ricci non esitò a confrontare la saggezza mandarina con quella greca; convinto che Dio avesse parlato a tutti i popoli e che ciò non inficiasse per nulla il primato e l’eccellenza della Rivelazione cristiana, ma anzi la rendesse suscettibile in quanto universale di venir tradotta in tutti i linguaggi del mondo, il Ricci considerava che la conversione al cristianesimo, da parte dei cinesi, non dovesse per nulla richiedere necessariamente anche un’accettazione dei simboli, dei costumi, del linguaggio europeo occidentale veicolato dalla tradizione cattolica romana. A suo avviso era necessario per convertire la Cina avviare un’opera di sintesi che le consentisse di rinnovare profondamente il suo spirito mantenendo le sue tradizioni, delle quali la nuova fede doveva essere il compimento, non la negazione. Allo stesso modo il primo cristianesimo aveva fatto rispetto all’eredità del mondo classico.

Per questo motivo, la conoscenza approfondita delle culture locali era strumento necessario per il buon missionario: così com’era essenziale un suo distacco da altri interessi europei al di fuori di quelli evangelici. Scriveva infatti il Ricci, nel ricco epistolario che si è conservato, che i missionari non dovevano aver mire di conquista politica né legarsi ai mercanti, e che, con l’esclusione dell’intangibilità dei dogmi e della morale evangelica, essi pote-

vano e dovevano farsi indiani in India, nipponici in Giappone e cinesi in Cina. L’interesse delle élites cinesi verso alcuni oggetti posseduti dagli occidentali lo favorì: già nel 1584 dette alle stampe il suo primo Mappamondo e un Compendio della dottrina cristiana. Grazie a queste opere, al suo orologio a pendolo, ai prismi di cristallo usati come caleidoscopi, il Ricci riuscì a farsi benvolere nei circoli letterari e politici. Egli e i suoi compagni iniziarono a prendere nomi cinesi e a vestirsi come ta-

L’interesse delle élites verso alcuni oggetti degli occidentali lo favorì: grazie alle sue opere, al suo orologio a pendolo, ai prismi di cristallo usati come caleidoscopi, riuscì a farsi benvolere nei circoli letterari e politici li, con le tuniche al posto della veste: ma, poiché andare in giro rasati e con i capelli corti avrebbe significato esser scambiati per buddhisti, ch’erano disprezzati dai letterati, i gesuiti si lasciarono crescere barba e capelli. Scelsero inoltre di farsi chiamare «letterati» e non preti, per non risultare troppo simili ai bonzi. Non è proprio esatto quel che Franco Battiato dice dei «gesuiti euclidei» (splendida

Li Madou in tredici tappe di Marco Vallora he Matteo Ricci, o Li Madou, che dir si voglia, o Xitai, «Il Maestro dell’Estremo Oriente», come lo chiamavano rapiti i suoi interlocutori cinesi, per lo più mandarini o funzionari imperiali, convinti dalla qualità delle rilegature dei libri che egli portava con sé, che lì, in quelle scatole (invece dei loro rotoli) ci fosse dentro comunque qualcosa di degno, e che fosse qualcosa di cristiano non era poi così importante, lo si evince benissimo dalle sue lettere vivaci e vibranti, che mandava ai suoi sospettosi correligionari a Roma, e che ora Quodlibet ha riproposto. Ma il problema è un altro: si può «far vedere», mostrare, raccontare visivamente l’immensa e polimorfa personalità di questo frondoso cervello rinascimentale, che passò dalla cartografia alla mnemotecnica, dalla letteratura alla filosofia (traducendo il Manuale di Epitteto ed Euclide in cinese e i testi di Confucio in latino)? Partito missionario gesuita e divenuto praticamente cinese, inventandosi una scienza che ancora non esisteva: la sinologia? Ci si son provati a Roma, in Vaticano, con una mostra un po’ zoppa e velleitaria. Nella ricca rassegna di pezzi Ming e di giade cinesi, in corso a Treviso, nella Casa dei Carraresi, dal titolo promettentemente di I segreti della Città proibita, c’è un’apposita sezione dedicata a Matteo Ricci e al suo rapporto con la Cina. Ma è la grandiosa mostra pechinese, nel mastodontico Millenium Museum, che si propone davvero, grazie all’impegno profondo di Mondomostre e al sostegno della Regione Marche, di materializzare cum figura quest’incredibile avventura, seconda solo a quella, leggendaria, di Marco Polo. Qui tutto è benissimo documentato, grazie anche alla fonda e brillante conoscenza del personaggio e del suo mondo, da parte di Filippo Magnini, studioso di Spinosa e direttore dell’Istituto Ricci per le relazioni con l’Oriente, che in tredici tappe ha sintetizzato quel suo «viaggio». Dalla nativa Macerata, alla Roma dell’Istituto gesuitico, con le regole di Sant’Ignazio, che sono un prodigio di tipografia e il registro stesso, in cui il giovinetto si iscrive, già pieno di speranze. Quella Roma imperiale e michelangiolesca (Ricci nasce quando si conclude la Sistina, quando il Vasari pubblica la prima edizione delle Vite) ricca di monumenti, rovine e sculture, di cui, dalla lontana Cina, richiede insistentemente, ai suoi confratelli, stampe e immagini trionfali, per colpire l’immaginario degli amici, che vuole convertire. Ma per giungere in Cina, il viaggio

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immagine, questa) abbigliati come bonzi per entrare alla corte dell’imperatore della dinastia dei Ming. Tuttavia, Battiato ne comprende bene il nucleo del messaggio. Anche i simboli e le forme liturgiche ricevettero una sinizzazione-confucianizzazione decisa nelle forme. Queste innovazioni ricevettero l’approvazione del padre generale della Compagnia, Claudio Acquaviva, e di Papa Clemente VIII. Il consenso, però, era tutt’altro che unanime: criticato dai tradizionalisti

sui gonfaloni portoghesi è lungo e tormentato, e la mostra documenta le varia tappe: la sosta a Macao e il culto di Francesco Saverio, i primi apprendimenti della calligrafia cinese e gli studi ostici della lingua. Ogni tappa, una diversa concezione dell’architettura per le missioni in cui Ricci abita, con alcuni compagni che verranno trucidati. La vita è drammatica e via via l’architettura si uniforma ai luoghi in cui s’inserisce, secondo la moderna idea dell’inculturazione, che è qualcosa di assai diverso dal colonialismo, o dall’idea, che ancora possediamo, della pratica missionaria, che vuole solo imporsi o convertire. E del resto, che noia dover far visitare a tutti i curiosi la casa all’europea, notte e giorno, non v’è più requie. E bisogna pure leggere e studiare e tradurre, per cui, meglio convertirsi allo stile-pagoda. Ricci s’impegna talmente che ne va della salute, ma mai smette di operare. Nella cartografia, convincendo i diffidenti cinesi che la loro terra non è così smisurata come credono e che il Cataio non è propriamente la China. Disegna immense e precise carte geografiche, ove la Cina diventa il Regno di Mezzo, fondendo insieme la scienza tipografica orientale con quella europea. Riproduce e perfeziona macchine leonardesche (a Roma ha studiato con l’esperto costruttore in macchine Clavio). Moltiplica e realizza eleganti orologi. Così riesce ad «arrivare» all’Imperatore anche se non lo vedrà mai di persona, e sarà l’unico suo sogno infranto. L’amico-Imperatore Wan Li publica un bando addirittura, per sollecitarlo a farsi avanti, con pretesa di lauti doni. Ricci intraprende un rischioso viaggio nel canale imperiale, arriva in ritardo nel palazzo con ben 32 doni, tra cui anche una Madonna con Bambino, dipinta a olio, una prelibatezza tutta europea, con occhi vispi che terrorizzeranno Wan Li, che la segrega in un armadio. Ma l’Imperatore non si può mostrare: Li Madou depone i suoi doni d’innanzi un trono vuoto. Però avrà diritto a esser sepolto nella Città Imperiale: dono supremo. Solo allora accetterà, da morto, d’esser ritratto. L’esposizione si chiude sul ritratto fattogli dal gesuitaYu-Wen-Hui detto Pereira, che lo mostra con un manto da missionario. Ma c’è il sospetto concreto che, radiografie permettendo, si scopra che il manto non era che un ritocco vaticano. Per principio, il «cinese» Matteo Ricci si rifiutò di portare la tonaca, si rasò, dapprima come un bonzo confuciano, poi si fece crescere la barba: per vivere unicamente da «letterato».

che ne denunciavano anche lo scarso numero di conversioni, il metodo dei gesuiti era avversato anche dai mercanti occidentali e dalle autorità delle colonie portoghesi. Il problema non si poneva tuttavia tanto in Cina, quanto piuttosto in India, a Goa, dove la Compagnia proteggeva i cristiani locali dai rigori dell’Inquisizione e dalle soperchierie dei coloni, non troppo diversamente da quanto sarebbe successo in America Latina; e dove si fece l’esperimento dei «riti malabarici», che nel clima del concilio di Trento furono giudicati troppo affini a quelli «barbari» e «idolatri» degli indiani.

Nel 1595 Matteo Ricci decise di tentare addirittura la strada di Pechino; ma numerosi incidenti di percorso lo fermarono. Si stabilì allora a Nanchino, dove compose il Palazzo della Memoria, un trattato di mnemotecnica che regalò ai figli del viceré per i loro esami, ma che godé allora e in seguito di grande fama. Il Ricci, dotato come si è detto di eccezionale memoria, aveva inventato un metodo di abbinamento di parole e ideogrammi che aiutavano il ricordare. Dopo Raimondo Lullo, Matteo Ricci è il grande elaboratore dell’ars memoriae. Nel 1601 padre Matteo tornò alla carica presso la corte, sottoponendo un memoriale direttamente al nuovo imperatore Shen-Tsung: in esso, si menziona l’amicizia con la Cina e si esprime ammirazione per la sua straordinaria cultura. Dopo la visita al sovrano, il Ricci ottenne il permesso di rimanere a Pechino: nel 1602 fu inaugurata la prima missione cristiana nella capitale. Divenuto amico di Mandarini e di eunuchi di corte, padre Matteo Ricci ricevette presto la licenza di celebrare messa in pubblico; e altri 40 padri gesuiti si unirono a lui. Nel 1609 fondò la Confraternita della Madre di Dio e dette inizio ai lavori della prima chiesa pubblica di Pechino, ma non poté vederla ultimata: morì infatti a 58 anni, l’11 maggio del 1610. Sino a quel punto, i convertiti erano circa tremila. Nel secolo che seguì, le conversioni salirono a 200 mila e non riguardarono più soltanto i ceti colti, ma tutti gli strati sociali. Come aveva previsto il Ricci, la sua strategia non era fatta per dare frutti immediati: essa andava misurata su distanze più lunghe. Ma la Chiesa era impaziente di risultati immediati, e gli Ordini tanto francescano quanto domenicano - concorrenti dei gesuiti nell’attività missionaria - avversavano profondamente il metodo d’acculturazione proposto dalla Compagnia, che consideravano sincretistico e semiereticale. La via proposta dai gesuiti fu abbandonata: la Modernità occidentale non poteva accettare che una qualunque tradizione al di là della propria ambisse alla pretesa di costituire un linguaggio universale. Fu così che il lavoro geniale di questo straordinario padre storico di una quantità di discipline innovative, dall’informatica (l’ars memoriae) all’antropologia culturale (l’«acculturazione») venne a lungo emarginato. Può darsi che il quarto centenario della sua scomparsa, nel maggio prossimo, ne riproponga con forza la figura anche in Europa e soprattutto in Italia.


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ome in un giardino di una grande città giunse un messaggio. In una lingua silenziosa, quella dei pesci. Dalla piccola vasca i pesciolini rossi e neri appresero che quell’anno, quell’estate, la notte del 10 agosto, in quel giardino,davanti ai loro occhi, avrebbe avuto luogo un avvenimento straordinario: l’incoronazione degli uccelli.

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*** L’avviso, ovviamente, arrivò da Lau Lai. Con quegli occhioni in quel corpo lucente era il più bello di tutte le Hawaii, il più bel pesce di quel continente con le sue strisce giallissime e blu con la sua bocca rossa e tornita con quel nasetto girato all’insù, quell’aria un po’ falsamente smarrita, lanciò l’avviso agli amici lontani parlò a lungo in due bollicine: «Amici, presto gli uccelli più strani da cieli e terre distanti o vicine il 10 agosto, lì, in quel giardino, si troveranno al convegno e alla festa, sembrerà un sogno, un prodigio divino, proprio una cosa da uscire di testa... ».

MobyDICK

anticipazioni

Un brano da “L’incoronazione degli uccelli nel giardino”, il nuovo poema in versi e in prosa del poeta piemontese

la vita

Perché vanno d’accordo i pesci e gli uccelli? Be’, è ovvio, perché sono belli. Ma questo non basta, ci sono pescioline che sono belle ma fanno le veline... Non basta essere belli, è necessario avere in sé quel dono straordinario di fondere il silenzio con il canto, quel dono che suscita l’incanto in noi umani e ci fa ricordare qualcosa che abbiamo smesso d’imparare... È meglio, ma non basta, essere belli, altro è il segreto dei pesci e degli uccelli. Gli uni conoscono gli antichi fondali gli altri il cielo, ci volan con le ali, stanno più in basso e più in alto di noi, che camminiamo al livello dei buoi: è bello il nostro mondo della Terra, ma debole, amici, quando non afferra le voci dei mondi più lontani, il fondo del mare e i suoi arcani, le voci delle sirene, il riso dei delfini, e i canti in cielo, con i cherubini. C’è una lingua comune ai pesci e agli uccelli, non lo diresti, ma sono fratelli.

Esplorando tra cielo e terra di Roberto Mussapi Ogni cent’anni, da boschi e savane, dalle scogliere e dai picchi nevosi, da querce, palme e foreste lontane tutti gli uccelli, commossi, festosi volano verso un luogo segnato che il loro re ha indicato in segreto, un vero e proprio Consiglio di Stato un orto, un giardino, un uliveto, un luogo adatto a loro ma chiuso, per loro sempre in volo, sconfinati, un luogo umano, questo è il loro uso, dove l’intero mondo degli alati affronta i suoi problemi, che sappiate sono problemi tra la terra e il cielo, non solo delle anatre accoppiate o dell’allodola che canta sul melo, sono cose di tutti, universali, dell’uomo come di ogni pesciolino, le storie degli amici con le ali, il 10 agosto, nel vostro giardino. Come parlano i pesci? In bollicine. Gli uomini li credono muti perché non sanno leggere le parole nell’acqua, che è la sostanza da cui ha origine la vita. Noi discendiamo dai primi abitatori di quel regno, e un tempo il nostro linguaggio era simile al loro. Lo abbiamo dimenticato. Ma è una cattiva abitudine dell’uomo credere inesistente tutto ciò che ha dimenticato. Parlano eccome, i pesci. Un pesce erudito, un trotone di Torino, aveva tradotto in bollicine tutti i dialoghi di Platone. E anche le lettere di Massimo d’Azeglio. Questo è solo un esempio, naturalmente. Il loro linguaggio è ricco, articolato, spesso deliziosamente cantato. Nessuno nel mondo animato lo avverte, tranne gli uccelli. Sì, gli abitanti dell’aria capiscono quelli dell’acqua, i migliori cantanti del creato intendono la lingua che noi crediamo muta. Anzi, s’intendono alla meraviglia, tra l’acqua e il cielo.

Poesia e infanzia. Sulle orme di Stevenson e di Eliot, convinto della bontà di questo binomio, Roberto Mussapi dedica ai più piccoli (ma non solo) la sua nuova opera L’incoronazione degli uccelli nel giardino (Salani Editore, 109 pagine, 12,00 euro). Dove si racconta, in versi e in prosa, di un grande evento che si svolge ogni cent’anni: il raduno, questa volta a Milano, nel giardino dell’autore, degli uccelli per eleggere un nuovo re. Un’«avventura fantastica in un mondo di piume», un’esplorazione poetica del mondo, tra cielo e terra, attraverso una fiaba, di cui anticipiamo, per gentile concessione dell’editore, le prime pagine.

I primi sono muti, i secondi canori: silenzio e canto, i due grandi tesori tra cui si muove la parola umana per questo quella loro lingua strana ci porta più alto e più in profondo, del mondo in cui viviamo, quello tondo. Se esistesse un poeta perfetto saprebbe fondere in versi il duetto tra il silenzio dei pesci, le parole mute che narrano storie lontane e perdute e il canto degli uccelli, l’inno gioioso alla vita nel cielo, a quel mondo radioso, che ci appare al mattino, vagamente, quando usciamo dal sonno, a luci spente. È un fatto che nel piccolo giardino da sempre ogni bravo pesciolino saliva in superficie a salutare il merlo che si andava ad abbeverare, per non parlare poi del pettirosso, che si lanciava sull’acqua a più non posso, come un tuffatore in una piscina per farsi notare dalla pesciolina...

Poesia per bambini non è un diminutivo. Forte di questa convinzione, l’autore ripercorre, nel segno della fiaba, i sogni e la memoria della specie umana. Svelando il mondo degli alati che un giorno si riuniscono nel suo giardino per eleggere il loro re

Ma queste in fondo sono cose loro, certo che quello con la gran coda, il pesce Moro in quei suoi grossi occhi neri tradiva un po’ di gelosia che lo feriva. Ma poi il pettirosso volava via, e lui si rituffava nella scia sotto il fiore di loto, a contemplare la pesciolina rossa, no, a corteggiare! (Copyright 2010 Adriano Salani Editore S.p.A.)

Le illustrazioni di Fabian Negrin sono tratte dal libro di Roberto Mussapi “L'incoronazione degli uccelli nel giardino” (Salani). Copyright 2010 Adriano Salani Editore S.p.A.


video Whitechapel MobyDICK

tv

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sulle orme di Jack lo Squartatore di Pier Mario Fasanotti li inglesi, ma non solo loro, sono attratti in modo ossessivo dalle imprese criminali di Jack The Ripper, Jack lo squartatore, il misterioso omicida di prostitute che ha agito nelle notti londinesi, soprattutto nel quartiere degradato di Whitechapel e nei bui dintorni. Cominciò a usare il coltello nel 1888. Nessuno seppe mai chi fosse. Si ipotizzò che fosse un macellaio, un nobile, un medico, addirittura una donna (e questo per un tardivo esame della saliva sul retro del francobollo d’una lettera spedita alla polizia). Cinque le vittime accertate. E Whitechapel s’intitola la serie visibile in tarda mattinata su Sky. Non è una ricostruzione storica di quel mistero macabro, semmai un sequel fantastico in una Londra luccicante, selva di grattacieli, insegne al neon, folla in strada ma anche anfratti bui dove, appunto, viene trovata da una poliziotta di quartiere (lì ci sono realmente, in Italia è rimasto un programma nel cassetto) una donna sgozzata e sventrata. Viene mandato a indagare Joe Chandler (già la scelta del cognome è richiamo letterario), un giovane studioso che «deve» fare carriera

G

nella polizia. Maniacale nel vestire e nel tenere gli oggetti ben allineati e puliti sulla sua scrivania, compare come un dandy con tanto di cravattino in mezzo a sbirri malvestiti, volgari, disincantati, pigri. Se le sente dire di tutti i colori, prima alle spalle poi in faccia. È immediatamente classificato come «una verginella» perché ha conati di vomito davanti sulla scena del crimine e all’obitorio. Jo ha la faccia di uno che se lo incontri dieci volte non te lo ricordi. Fa fatica a imporre il suo metodo, a modificare le sciatte abitudini della squadra che si trova a

web

in modo così straziante alcune prostitute allo scopo di «coprire» il matrimonio di Alberto Vittorio di Sassonia-CoburgoGotha, nipote della regina Vittoria, con una donna che faceva mercimonio di sé. Si dovevano insomma eliminare tutte le testimoni. Un intrigo di matrice massonica. Una soluzione al mistero ha provato a darla anche Patricia Corwell in Ritratto di un assassino: Jack lo Squartatore Caso chiuso. La scrittrice americana, dopo aver sborsato un sacco di soldi per l’acquisto di documenti, è convinta, in base anche a perizie calligrafiche e chimiche (sulla carta delle missive), che Jack non fosse altri che il pittore inglese Walter Sickert. Molti esperti hanno definito la Corwell dilettante e arrogante. Altro che «caso chiuso». La serie televisiva, giustamente ondeggiante tra passato e presente (è stata girata nel 2008), procede con il ritmo delle indagini odierne: esami autoptici accurati, sinossi, collegamenti resi più rapidi dall’uso del computer, appostamenti, sviste e trappole. Si modernizza una vecchia e lugubre vicenda senza cadere nel didascalismo storico. L’azzimato Joe Chandler a volte sembra un pesce fuor d’acqua, ma i suoi tratti da gentiluomo (anche un po’damerino) ossessivo danno risultati appunto perché calati in un’indagine che mai deve essere tenuta lontana da ciò che avvenne a fine Ottocento in una Londra cenciosa e piena di nebbia.

dirigere, ma alla fine pare ce la faccia a superare la contestazione dei suoi collaboratori. Sarà uno stravagante studioso di Jack lo squartatore e indurlo a considerare l’ipotesi che l’assassino riproduca fedelmente le gesta del criminale dell’Ottocento, con una puntigliosità e conoscenza del caso estremamente alte. Questo esperto è una guida che la sera tardi fa fare il giro ai turisti nei quartieri dove Jack The Ripper aggrediva donne dalla vita facile e scandalosa, infieriva su di esse secondo un preciso copione mortuario. La ripetizione - stessa modalità, stesso giorno e stessa ora - di un assassinio lascerà sgomenti i poliziotti e aumenterà il punteggio professionale di Joe, che a questo punto diventa credibile. Se più di cent’anni fa l’enigmatico sgozzatore smise di operare, forse suicida, forse buttato nel Tamigi, nei giorni nostri la maschera maniacale se l’è messa sul viso un’altra persona disturbata. Sul fantasma sanguinario di Londra molti hanno scritto, molti hanno tentato di muoverlo sul grande schermo (anche il bravissimo Johnny Depp). Affascinante, ma solo narrativamente, è la tesi chiamata Royal Conspiracy, ordita dalla famiglia reale che avrebbe dato a qualcuno l’incarico di uccidere

games

dvd

VERDI MERAVIGLIE D’ITALIA

HEAVY RAIN? UN CAPOLAVORO

IL TESTAMENTO DI LENI

P

atrocinato da ministero per i Beni culturali, Fai (Fondo Ambiente Italiano) e Aiaap (Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio), ilparcopiùbello.it è il nuovo portale dedicato alle verdi meraviglie della Penisola. Dalla Reggia di Caserta a Villa Pisani, dai Giardini dell’Isola Bella alla Venaria Reale, oltre cento gemme del patrimonio paesaggistico italiano trovano ospita-

H

eavy Rain è uno di quei game che costringe a rivedere le convenzionali distanze di sicurezza tra cinema e mondo ludico. David Cage, designer di punta della casa francese Quantic Dream, ha immesso nelle pieghe della sua creatura tutti i crismi del cinema d’autore. Composto di sequenze animate da alta tensione e dialoghi di spessore, Heavy Rain mostra un solido impianto thrilling,

i sento attratta spontaneamente da tutto ciò che è bello... sì, la bellezza, l’armonia. Cerco un accordo. Quando l’accordo si realizza sono felice. La bellezza del corpo, la grandezza dell’essere umano creato da Dio deve trovare il suo giusto riconoscimento in questo film come mai è avvenuto finora», scrisse Leni Riefenstahl a proposito di Olympia. Grande visionaria afflitta da una imperi-

Patrocinato da Ministero dei Beni culturali, Fai e Aiaap, nasce il portale “ilparcopiùbello.it”

Solido impianto thrilling con sequenze mozzafiato, il tutto affidato solo all’indagine del giocatore

“Impressioni dal profondo”, ultimo documentario della Riefenstahl girato in Africa a 99 anni

lità in un sito che fa di qualità fotografica e cura delle informazioni storico-artistiche il suo punto di forza. Collegato al sito, c’è inoltre un premio internazionale quest’anno giunto all’ottava edizione, volto a promuovere nel mondo bellezze note o misconosciute che popolano il nostro territorio. Grafica ordinata e intuitiva, possibilità di fare ricerche per ordine alfabetico o parole chiave, percorsi tematici e articoli di approfondimento, rendono la fruizione accattivante ed efficace. Un’oasi verde nel traffico sempre più congestionante della rete. Disponibile all’indirizzo www.ilparcopiùbello.it

corredato dagli ingredienti giusti: lenta discesa nel mistero, suspence, personaggi dai malriposti vulnus, colpi di scena mozzafiato. Meccanismo a orologeria, o quasi. Perché la detection del giocatore, affidata alla risoluzione di enigmi ed esplorazioni, conduce a finali multipli: non c’è insomma la scelta giusta, ma soltanto un destino ultimo deciso dalle proprie mosse. Il tutto calato in una computer graphic dagli esiti elevatissimi, sia nella composizione dei personaggi che nelle texture degli ambienti. Doppiaggio irreprensibile e soundtrack suggestiva. Un capolavoro.

tura damnatio memoriae per via di alcune opere girate al soldo del nazismo, la regista tedesca è stata recentemente indicata da Quentin Tarantino come la più importante cineasta di ogni tempo. Un giudizio che ha fatto storcere la bocca a molti, ma che in senso puramente artistico ribadisce il giusto rilievo che da tempo gli ambiti accademici hanno riconosciuto alla tedesca. Che dietro il suo sguardo si celasse molto di più che una bieca mira propagandistica, lo dimostra Impressioni dal profondo, ultimo documentario che la Riefensthal girò a novantanove anni dopo un lungo peregrinare di gente in gente tra le tribù d’Africa. Il testamento di un’artista controversa, ma dal genio indiscutibile.

a cura di Francesco Lo Dico

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poesia

Soffici e quella “lingua da pazzi” di Francesco Napoli ome si mostra il carattere di Ardengo Soffici (1879-1964) che sin dal suo nome, quell’ossimoro tra «arde» e «soffici», porta le stimmate di un interiore contrasto? 1911, Soffici è inviato della Voce in quel di Milano. Gli tocca seguire la mostra dei Futuristi in corso nel capoluogo lombardo. È un incarico di prestigio che Prezzolini gli affida convinto. Ardengo era innanzitutto pittore. Aveva collaborato a disegnare la testata della rivista, i pochi studi che aveva potuto compiere prima del tracollo economico del padre li aveva fatti proprio in questo campo e i primi passi nell’arte li mosse intorno all’Accademia delle Arti e alla Scuola del Nudo, dove erano maestri Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Da Milano e dalla mostra ricava un’impressione pessima e senza mezzi termini, com’era nel suo carattere, non ci pensò su due volte e stroncò quel’iniziativa. Narrano le cronache letterarie del tempo che la reazione dei futuristi milanesi sia stata singolare e violenta: Marinetti, Boccioni e Carrà, arrivati a Firenze, aggrediscono Soffici mentre sedeva alle Giubbe rosse. La sera, però, Ardengo, accompagnato da Prezzolini, Slataper e Spaini rende la contropartita ai milanesi. Eppure non sarebbero poi passati tanti anni dall’episodio che con Giovanni Papini avrebbe dato vita a quella Lacerba, e siamo nel 1913, rivista letteraria futurista certo, ma di un futurismo reintrepretato in meglio, a mio avviso. C’è in quelle pagine un odore di cosmopolitismo parigino ma anche una Firenze che riequilibra lo spirito d’avanguardia del Futurismo che in Arno si tempera alla fiamma di una «toscanità» tutta letteraria.

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Si può oggi concordare con la prospettiva critica indicata autorevolmente da Mengaldo e da Ramat che circoscrivono alla fase iniziale della sua poesia, quella coincidente con Bïf § ZF + 18 simultaneità e chimismi lirici del 1915, così rimbaudiani sin dal titolo con quel richiamo all’alchimie du verbe del poeta francese, il suo momento migliore, prima di un recupero classicista che renderà sterili e accademici i suoi versi o, come dice a riguardo Ramat, «francamente impresentabili». Ma Ardengo Soffici ha l’intuizione, e la forza, di andare a Parigi. Comprende che lì si gioca la partita fondamentale della letteratura europea. È uno dei primi intellettuali italiani a trasferirsi nella capitale francese per entrare in contatto con le correnti più innovative del periodo. Negli anni tra il 1899 e il 1907 vive quindi lì, lavora come illustratore: è malpagato e conduce una vita di stenti. Ha tuttavia la possibilità di in-

contrare sia artisti emergenti che già affermati come Apollinaire, Picasso e Max Jacob. Ma non solo. Ritrova nella città altri artisti e scrittori italiani quali Giovanni Vailati, Mario Calderoni e Giovanni Papini. Proprio a Parigi nasce tra lui e Papini, nonostante la diversità di carattere, quel solidale rapporto di amicizia.

Nel 1910 ritorna a Parigi dove viene a conoscenza dell’opera di Rimbaud, poeta allora quasi ignoto in Italia, e l’anno dopo pubblicherà nei Quaderni de «La Voce» una monografia su di lui.Viene poi la guerra, che Ardengo Soffici di Lacerba aveva ardentemente auspicato come reazione violenta contro la «Kultur ger-

CROCICCHIO

manica», minaccia mortale per la civiltà europea, e parte volontario. Sono tutti interventisti i giovani intellettuali italiani del tempo. E il migliore di questi, Giuseppe Ungaretti, avrà con lo stesso Soffici una lunga relazione testimoniata da un intenso epistolario pubblicato ormai molti anni orsono per le cure di Paola Montefoschi e Leone Piccioni. Ma se Marinetti affronta la guerra in chiave naturalistica, Soffici s’accorge ben presto che è un fenomeno storico del tutto inutile alla causa della poesia. Nei teatri della guerra italiana nasce il Kobilek-giornale di battaglia, come dall’esperienza di Caporetto nasce La ritirata del Friuli a cui fanno da controcanto ideale le pagine dedicate allo stesso misfatto della nostra storia firmate da Carlo Betocchi. «Sono uscito dalla guerra un altro uomo» scriverà all’indomani del conflitto, e in letteratura muta indirizzo: diventa un tradizionalista convinto e in politica fautore dell’ordine e favorevole al fascismo. Scelte che pagherà, anche nella sua produzione pittorica che risente della concezione politica autoritaria. La sua pittura diviene vivace espressione della cultura figurativa italiana che andrà configurandosi prima con Valori Plastici e poi con il Novecento.

«Soffici non è né un’opera, né un genere: è un dono» scrisse Renato Serra dedicando a quel toscanaccio irruento uno dei pochi giudizi positivi da lui espressi sulla poesia coeva, vale a dire sui crepuscolari come Gozzano. Il suo Aeroplano dei Chimismi non è da confodersi con l’aeropoema marinettiano, c’è Rimbaud alle spalle: «Stringo il volante con mano d’aria/ Premo la valvola con la scarpa di cielo» dove quella «scarpa di cielo» equivale alle proverbiali «suole di vento» del maestro francese. Continua Soffici a «scrivere come si sogna» come d’altronde si intravede nei Chimismi: la sua Tipografia, luogo privilegiato della fantasia e di alchimie d’avanguardia, sarà rapidamente rivisitata pochissimi anni dopo da quella «abbandonata» di Corazzini quando il poeta romano arriva a fingere il miracolo di una rivoluzione condotta dai piombi. E legge Nietzsche a modo suo, non come Campana, che quasi ci muore su, ma neppure in pieno antagonismo, come aveva fatto l’amico Papini o il Cardarelli dei Prologhi. Nella sua giovinezza ha cercato «una lingua da pazzi» per la sua poesia, che fosse «libera, generosa, profetica, amorosa», peccato solo che l’abbia persa lasciandoci per fortuna un’opera, Chimismi lirici, da rileggere con più attenzione per restituire quei meriti di poeta che Soffici certamente ha.

Dissolversi nella cipria dell'ordinotte Con l'improvviso clamore dell'elettricità del gas dell'acetilene e delle altre luci] Fiorite nelle vetrine Alle finestre e nell'aeroplano del firmamento Le scarpe che trascinano gocciole di diamanti e d'oro lungo i marciapiedi primaverili] Come le bocche e gli occhi Di tutte queste donne pazze di isterie solitarie Le automobili venute da pertutto Le carrozze reali e i tramways in uno squittio d'uccelli mitragliati Nous n'avons plus d'amour que pour nous-mêmes enfin «È proibito parlare al manovratore» Oh nuotare come un pesce innamorato che beve smeraldi Fra questa rete di profumi e di bengala!

Ardengo Soffici (da Bïf § ZF + 18 simultaneità e chimismi lirici)


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13 marzo 2010 • pagina 13

il club di calliope Poi esplodono le stelle, ancora esplodono le grandi luci nella notte tunisina, si chiude alle spalle la vetrata e si spalanca il buio, i bianchi incendiati fuochi, dolcissimi perduti soli. E gli occhi levandosi sprofondano nel cuore, bruciano da lì, torce nel petrolio. Vento che immergi tutto nel tuo distratto abbraccio e nella randagia pietà africana, porta a lei questo sorriso come un pugno bianco di sabbia, il sorriso del ragazzocapra con le capre immobile da sempre ai lati della strada nell'aiuola senza erba, o di lei che sospende contro l’aria il suo passo e mi regala Dio visto dal taxi anche a Djerba.

UN POPOLO DI POETI Qui stanno gli anni, le storie inconcluse, gli sguardi senza più coraggio, le assenze dentro i sogni o le troppe presenze ancora ancora senza degna sepoltura. Per questo sarebbe meglio cambiare il pensiero ora che è cambiato il millennio e il silenzio si è fatto più fitto e le parole avvizziscono così che si diradi questa luce bruna e la paura sorrida di sé e sollevi il capo dal risentimento. Lucianna Argentino

Qui tira forte vento di dicembre a gonfiarmi interi i polmoni. Qui tira forte vento di dicembre a gonfiarmi interi i polmoni.

Davide Rondoni

PER COMPRENDERE IL MONDO NON BASTA LA SCIENZA in libreria

di Loretto Rafanelli

on sappiamo se la poesia è in grado di salvare la vita, sicuramente è nel giusto il grande poeta Ghiannis Ritsos allorché in un suo verso dice: «Come fanno gli uomini a vivere senza la poesia?». Certo gli uomini vivono senza la poesia, però avvertono che qualcosa manca loro e ciò soprattutto quando la società in cui si vive ha momenti di difficoltà, è allora che l’attenzione verso la parola poetica, come verso il sacro, si fa forte e le domande che ai poeti si pongono diventano più pressanti. Non è un caso allora che in una fase precaria come l’attuale, un testo divulgativo sulla poesia, ma ricco come pochi altri, possa divenire una sorta di pic-

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terizza maggiormente il libro. La Bisutti in tal modo riesce a fornire elementi tecnici esaustivi e a far conoscere a un vasto pubblico i versi dei poeti contemporanei, commentati con sapienza e ricchezza di particolari. È una lettura che consigliamo perché il libro può permettere al pubblico degli iniziati, ma pure agli esperti, di misurarsi con gli interrogativi ricorrenti che la poesia pone. Il suo approccio peraltro è molto obiettivo, accogliendo le più diverse espressioni poetiche. Che la poesia salvi la vita chissà se sarà vero, ma, dice bene la Bisutti, intanto la poesia ci aiuta a essere liberi, inducendoci a «scoprire all’interno di noi ciò che è giusto fare», comprendendo,

Sostiene l’astrofisico inglese Barrow che nessuna descrizione non poetica della realtà potrà mai essere completa. Come dimostra Donatella Bisutti in “La poesia salva la vita” colo best seller: si tratta di La poesia salva la vita. Capire noi stessi e il mondo attraverso le parole di Donatella Bisutti (Feltrinelli, 270 pagine, 9.50 euro). La Bisutti, anche brava poetessa, ha scritto un libro agevole, gustoso, che si legge come un romanzo e non ha la difficoltà di lettura del saggio, pur avendone il rigore. L’autrice pone molteplici quesiti (ad esempio: che cosa è la poesia? È poeta anche chi legge? Come si fa a scrivere una poesia? Perché l’oscurità nella poesia? Quale rapporto c’è fra poesia e musica? E tra poesia, recitazione e danza, ecc.), a cui dà risposte adeguate, soprattutto ricorrendo, per chiarire i temi, ai versi dei poeti. E questo parlare di poesia utilizzando i testi è il dato forse che carat-

aggiungo, quel sottile «altro io», che rappresenta la differenza, il diverso, l’eterogeneo, come già è fissato nel pensiero tragico di Eraclito. La poesia è un atto d’amore verso ciò che ci circonda e verso noi stessi, in quanto sottintende il discorso dell’accoglienza e della consegna di un dono. Vogliamo concludere, sul ruolo della poesia, con le parole all’astrofisico inglese J. D. Barrow: «Il mondo è molto più complesso di quanto qualsiasi formula ci possa dire. Non esistono formule che possano spiegare la verità, l’armonia, la semplicità del mondo. Nessuna descrizione non poetica della realtà potrà essere mai completa». Come dire: nella comprensione del mondo la poesia va oltre la scienza.

Su queste foto - guarda neppure la notte ha voglia di morire coi gomiti piegati sui ginocchi. Ho una finestra - tu sai che s'apre sull'addome dove sporgi accoccolata da cui soltanto luce passa sfibra tende fa smottare i muri si discioglie blu sulla tua faccia coi fili di bava appesi al mento. A sgretolare i fianchi al mondo ora ci pensa questo inverno ma l'acqua no, non teme precipizi. Francesco Iannone

Siamo vicini. In un setaccio fitto d'emozioni è grano macinato la tua voce. Amarti sopra la fronte madida di paura di quest'ora, guidati da un unica vela maestra: il desiderio. Come per magia siamo vicini. Faccio un make-up di oro alle pareti. Siamo vicini Monia Gaiti

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

onna eccezionale, Maruja Mallo, il cui nome, che dirà poco ai nostri lettori italiani, è inscritto stabilmente nella storia delle avanguardie e nel pantheon delle donne pittrici, vicine al Surrealismo, da Leonora Carrington a Frida Kahlo, da Remedio Vayo a Leonor Fini (e di tutte sembra conservare qualcosa: se non altro il visionarismo onirico e la tempra femminista da musa trasgressiva). Una specie di Carol Rama della Galizia, morta a più di 93 anni e nata quasi con il secolo, quarta figlia d’una famiglia prolifica di 14 figli, e d’un padre doganiere, che l’ha abituata a viaggiare. Legata al Surrealismo pittorico, diciamo così «minore», soprattutto del geniale Benjamin Palencia o di Luis Castellanos, e di Alberto Sanchez, lo scultore della stele posta davanti al Padiglione della Spagna del ’36 (in cui si mostrò per la prima volta Guernica, quel Cammino del popolo spagnolo che ascende verso una stella, che oggi si leva d’innanzi al Reina Sofia), in realtà, quando emigrò, in esilio, verso Parigi, lei che di esilii ne conobbe fin troppi, entrò subito in legame con Max Ernst e Mirò, con Magritte e con De Chirico. Esponendo nella celebre galleria Pierre Loeb, ove Breton entusiasta comprò i suoi Spauracchi ed Eluard le dedicò parole elogiative. Ma il primo intellettuale ad apparsionarsi alla sua pittura, mutevole ed eccentrica, fu Ortega y Gasset, che organizzò per lei l’unica mostra d’arte nella sede dell’epocale Revista de Occidente, affidandole poi alcune copertine inconfondibili. Rappresentante tipica di quella Generazione del ’27 di cui è in corso, sempre a Madrid, una polifonica mostra documentaria (in quella meravigliosa Residencia des Estudiantes), l’artista stabilì soprattutto una grande familiarità con la filosofa Maria Zambrano, che oggi finalmente è stata riscoperta e iper-tradotta in Italia. Ma la serie delle sue amicizie-chiave non finisce qui: dopo il legame con Gomez de la Serna e con Rafael Alberti, che le dedica versi alati, anche in forza dei suoi esili, invisa come era al franchismo, prima a Buenos Aires, poi in Uruguay, infine in Portogallo, incontra soprattutto le sorelle Ocampo e Borges, in quella Buenos Aires colta e cosmopolita, che fa nascere l’intelligente rivista Sur, cui lei collabora. Intanto non le basta più farsi fotografare in posizioni curiose (alla Claude Cahun), rivestita di alghe, come una ninfa, o con la testa-bersaglio, sporgen-

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Mutevole, eccentrica

Maruja Mallo di Marco Vallora

te da una cabina miracolosa. Incomincia a studiare geometria e prospettiva, diventa un’adepta fervente della Sezion d’oro, passa dalle sue prime prove surreali e visionarie (danze campestri, dette Verbenas, ricolme di figure e di ritmi, in una quasi parodia dei murales sudamericani) alle grandi teste realiste-déco, di belle fanciulle negre, per dimostrare la parità estetica delle razze. Dalle figure monumentali di lavoratrici e bagnanti (impermeabili però a quelle «ritorno all’ordine»

arti

di Picasso) che con occhi estatici e manoni gigantesche, espongono le loro spighe o gli attrezzi ginnici, a quelle che lei chiama «nature vive», in contrasto con le «nature morte», della tradizione-vanitas. In cui ritrae, pantografate, delle forme vegetali e fossili, vagamente alla maniera della O’Keeffe, ma anche molto delle antiche tabule di Wunderkammern naturalistiche. Forse un declino estetico: ma a vederla nell’ultimo video-testimonianza, ultra-novantenne e ancora combattiva, i pomelli rossi e il trucco pesante, da fattucchiera, l’indulgenza viene istintiva. Forse la Mallo (che in realtà si chiamava Ana Maria Gomez Gonzeles) più che un’artista istintiva (nonostante da giovane avesse studiato nella stessa goyesca Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, in cui oggi viene celebrata, mostrando per la prima volta insieme tutti i suoi voluminosi pannelli della «Religione del lavoro», che tradiscono anche quella sua natura popolista e impegnata) è stata più un’intellettuale eccentrica, che non una vera pittrice. Tenendo conto anche di tutti i suoi periodi attraversati (una scemenza, se si tien conto della mutevolezza di Picasso e di altri artisti) ma certo una certa qual rigidezza programmatica si evince dietro le sue tele. Grande influenza su di lei ebbe, indubbiamente, quel curioso personaggio poco studiato, principe moldavo e poi rumeno, ambasciatore e delegato politico in Roma,Vienna e Madrid, che era insieme poeta, teosofo, teorico del numero mistico, Mattila Ghysha, che scrisse l’Estetique de la proportion e Le nombre d’or. Flâneur e «pellegrino di Parigi», insieme al poeta LèonPaul Fargue, presentato da Paul Morand a Proust, di cui divenne molto amico. Insomma, quella cultura a mezzo tra scienza, follia e sacralità, che raggiunse anche il fratello di Duchamp, Jacques Villon, giunse sin quasi a lambire Le Corbusier e coinvolse l’Amazzone Nathalie Clifford, l’amante-musa della pittrice Romaine Brooks, che probabilmente qualche influenza ebbe sulla svolta déco delle «figure bidimensionali» della nostra artista. «Che scese nelle cloache ove i fiori più fiori sono sputi, che sboccano nel deserto di balli campestri, ove la pioggia si volge in legno marcio ed in funghi che sbucano strisciando» come le scrisse il suo amico Neruda.

Maruja Mallo, Madrid, Academia de Bellas Artes de San Fernando, fino al 7 aprile

diario culinario

Dall’Adriatico un sublime “susci” all’italiana di Francesco Capozza l Conero è la montatura, Portonovo la gemma. Difficile credere che tutto ciò possa esistere a mezz’ora da quella colata di cemento che risponde al nome di San Benedetto del Tronto, a un quarto d’ora dalla raffineria di Falconara (Puro Blade Runner). Il grande Geminello Alvi dice che una volta Portonovo era meglio e che il cemento adesso è arrivato anche qui. Saremo ciechi, ma dal belvedere alto sulla baia si nota solo il magnifico Fortino Napoleonico. Portonovo è il diamante, il Clandestino la punta di diamante. Ci si arriva inoltrandosi nella macchia («tamerici salmastre ed arse»? «Mirti divini»?) e poi sbucando in una spiaggetta tipo The Beach di Danny Boyle. Solo che in quel paradiso tropicale il mare era infestato da

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squali antropofagi mentre in questo paradiso temperato è l’inverso: a mangiare dell’ottimo pesce siamo noi. Il Clandestino è una baracchetta di legno appoggiata su una duna, con pochi tavoli da prenotare in anticipo. Il panorama è il seguente: davanti l’Adriatico, dietro il Conero ripido e boscoso, a sinistra una torre di vedetta, a destra la chiesa di Santa Maria dove Teofilo Folengo, santo patrono di tutti i golosi, visse un periodo d’espiazione. Viene voglia di definire questo il più bel ristorante all’aperto del mondo, poi siccome per certuni gourmet il mondo finisce a Mentone si precisa: è il più bel ristorante all’aperto del nostro piccolo mondo. Al Clandestino più che altro si cena (di giorno ci sono i «panini-susci»). La sera sulla spiaggia può fare fresco, all’uopo forniscono dei caldi plaid. Le cameriere sem-

brano delle balerine, si muovono leggere e coreografiche, in abiti di lino bianco, al suono di musiche rilassanti e ti servono drink e vini con sorrisi e competenza (già aspettarsi dei sorrisi, per noi che giriamo tanto, è diventata pura utopia). Nella microscopica cucina a vista si muovono un paio di giapponesi, senza parlare e senza incredibilmente mai andare a sbattere tra loro. Occhi a mandorla ma allievi del marchigianissimo Moreno Cedroni, inventore del «susci» all’italiana (che anche d’estate continua a officiare alla Madonnina del pescatore di Senigallia). Il Clandestino si definisce suscibar, con la C e senza la H, ma la diversa grafia non basta a rendere l’enorme differenza col sushi giapponese. Mai avremmo parlato bene di un luogo dove il pesce freschissimo dell’Adriatico fosse afflitto da salsa di

soia e wasabi. Al Clandestino, infatti, niente maleolenti salsine bensì olio extravergine d’oliva stupendo, aceto balsamico, erbe aromatiche. Il nome giusto sarebbe «cucina medioadriatica sublime», ma avrebbero apprezzato solo venticinque lettori (oltre, ovviamente, a Geminello Alvi). Le portate più memorabili: gin tonic spumoso; scampi con arancia e pomodori arrostiti; pizzette della casa (una ai quattro formaggi e ricciòla affumicata, l’altra con sgombro marinato, burrata e panzanella); polenta con vongole cotte e cappesante crude (grandiosa). Per finire sigari e distillati al chiaro di luna: avana e rum, giusto, ma più giusto ancora l’abbinamento toscano-grappa di Lacrima di Morro d’Alba.

Il Clandestino, Portonovo (Ancona), tel. 071 801422


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architettura

Calzavara , un artista libero al servizio del Duce e non possono sussistere dubbi sulla condanna ideologica del regime fascista, è difficile sottrarsi all’ammirazione che ancora oggi suscita la progettualità artistica e territoriale che il regime di Mussolini riuscì a promuovere in tempi tutto sommato assai brevi. Le architetture italiane degli anni Trenta godono ormai da alcuni decenni di studi sistematici, approfonditi e criticamente maturi; lo stesso vale per le arti visive, mentre un cono d’ombra continua a oscurare la produzione grafica e tipografica di quel periodo, produzione che pure raggiunse apici di qualità eccezionali. Tra gli artisti più dotati di talento e di capacità tecniche in questo campo spicca l’architet-

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archeologia

di Marzia Marandola to padovano Attilio Calzavara, alla cui opera è dedicata la preziosa mostra in corso al Museo Duilio Cambellotti a Latina, organizzata con competenza e originalità da Maria Grazia D’Amelio, docente della facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma Tor Vergata. Il legame tra la città dell’Agro Pontino e Calzavara passa attraverso la stupefacente veste grafica del volume Opere Pubbliche I° 1922-32, promosso dal Ministero dei Lavori Pubblici ed edito nel 1933, per propagandare la modernizzazione strutturale e infrastrutturale della Penisola voluta dal regime fascista. Un capitolo centrale di questa pubblicazione è dedicato alla bonifica dell’Agro Pontino e alle sue città di fondazione, tra cui Littoria, divenuta Latina nel dopoguerra repubblicano. Questo volume fu un veicolo particolarmente efficace per la propaganda dell’operatività fascista, al punto che Benito Mussolini amava farsi ritrarre nel suo studio romano a palazzo Venezia con una copia in bella vista sulla scrivania. Calzavara, un artista libero che rifiutò di iscriversi al partito fascista, svolse tuttavia l’incarico di presentazione delle opere pubbli-

che costruite dal regime con impeccabile professionalità. Facendo appello a una grafica sofisticata ed efficacissima, tessuta da geometrie elementari, da dinamismi prospettici accelerati che echeggiano la cartellonistica futurista e costruttivista, Calzavara riesce a sintetizzare in ogni singola immagine il manufatto (ponti, ferrovie, dighe, strade ecc.) concentrandovi il messaggio di modernità e progresso che il regime promuoveva. Linee filanti, guizzanti zig zag grafici, colori timbrici, compatti, senza sfumati né tratteggi si coniugano con scritte e numeri diversamente ideogrammati, che quantificano l’operosità del governo e la sua rapidità di esecuzione. Poliedrico e originale, Calzavara, padovano di nascita, romano di adozione, studia arti grafiche e decorative alla regia scuola artistica e industriale dal 1915 al 1920. A Venezia si specializza all’Accademia di Belle Arti dove frequenta anche i corsi di restauro architettonico. A Roma nel 1928 tenta la strada dell’insegnamento che gli viene negato a causa della sua estraneità al partito fascista, ma ottiene tuttavia, tramite amici che lo stimano,

l’incarico di delineare la linea grafica del Ministero dei Lavori Pubblici, producendo una serie di bozzetti a tempera, affiches, tavole, diplomi, tessere dalla figurazione modernissima e dall’altissima qualità formale. Attributi che si ritrovano anche negli allestimenti di padiglioni

espositivi e mostre che Calzavara ideò anche nei pochi anni dell’immediato dopoguerra in cui visse.

Attilio Calzavara (1901-1952): architettura e rappresentazione, a cura di Maria Grazia D’Amelio, Museo Civico Duilio Cambellotti, Latina, fino al 25 marzo

Alla scoperta del regno di Qatna (e dei suoi antichi tesori) aranno esposti per la prima volta in Europa nel museo nazionale del Württemberg di Stoccarda i reperti più preziosi che gli archeologi dell’Università di Udine hanno scoperto in dieci anni di scavi compiuti a Qatna, la capitale siriana del secondo millennio avanti Cristo. La mostra I tesori dell’antica Siria. La scoperta del regno di Qatna, ospitata nel museo tedesco è la prima che il Vecchio continente dedica a uno dei siti antichi più importanti del Vicino Oriente. Qatna è stata riportata alla luce da una missione archeologica internazionale iniziata nel 1999. Ne fanno parte tre équipe di studiosi degli atenei di Udine e Tubinga (dirette rispettivamente da Daniele Morandi Bonacossi e Peter Pfaelzner) e della Direzione generale delle antichità e dei musei di Damasco (guidata da Michel Al-Maqdissi). Nell’esposizione di Stoccarda si possono ammirare circa 400 reperti artistici e di vita quotidiana che abbracciano l’intera storia del sito di Qatna. Dalla fondazione, avvenuta attorno al 2600 avanti Cristo, al suo abbandono, nel 600 avanti Cristo circa. Si tratta, in particolare, di gioielli, opere d’arte e d’artigianato, collezioni di tavolette cuneiformi, sigilli e armi. Il tutto seguendo un percorso che ricostruisce ascesa e declino di una delle più fiorenti metropoli della regione siro-palestinese della media e tarda età del Bronzo. Snodo cruciale tra Mesopotamia e Mediterraneo da un lato e Anatolia, Siria-Palestina ed Egitto dall’altro, Qatna fu una città carovaniera crocevia fra culture dell’Oriente antico e mediatore culturale fra Oriente e Occi-

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di Rossella Fabiani dente. «È una grande mostra - spiega il co-responsabile scientifico dell’evento Daniele Morandi Bonacossi, professore di Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente antico - che presenta reperti di grandissimo pregio e ricostruisce storia, società, economia e ambiente del regno di Qatna dando la possibilità al pubblico di conoscere vita, cultura e commerci di una della regioni geopolitiche più cruciali del mondo antico». La parte orientale del Palazzo Reale, l’adiacente Palazzo Orientale, il Palazzo della Città Bassa, granai e silos per lo stoccaggio di derrate alimentari, un quar-

tiere di botteghe artigiane specializzate nella produzione di ceramiche, un grande ipogeo funerario, un pozzo sacrificale. Sono soltanto alcune fra le principali strutture riportate alla luce in oltre dieci anni di campagne di scavo condotte dal gruppo di studiosi dell’Università di Udine alle quali hanno partecipato oltre cento studenti. Fra le maggiori scoperte compiute dai ricercatori friulani c’è anche lo scheletro di un giovane uomo il cui cranio reca evidenti segni di trapanazione. «Probabilmente - afferma Morandi Bonacossi -, è la prima testimonianza nella storia della medicina di un esercizio chirurgico condotto su un cadavere». Oltre 500, invece, i reperti artistici e archeologici ritrovati. In particolare, un archivio di una cinquantina di tavolette cuneiformi, statue votive, ceramiche dipinte, una ventina di giare, gioielli in oro e pietre semi preziose, ornamenti personali di bronzo, intagli in avorio, armi in bronzo, cretule con impronte di sigilli e sigilli cilindrici. Oltre l’esposizione dei reperti in vetrine, è stata ricostruita in scala naturale la monumentale tomba dei sovrani di Qatna, all’interno della quale si trovano le repliche dei corredi sepolcrali rinvenuti. La rassegna presenta anche un modello interattivo tridimensionale del Palazzo Reale, delle altre residenze e fabbriche palatine scoperte nel sito e una ricostruzione virtuale del paesaggio naturale antico di Qatna. Inoltre, attraverso apposite stazioni informatiche i visitatori potranno scoprire il lavoro degli archeologi e seguire la presentazione virtuale del rituale funebre praticato nell’ipogeo reale.


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essere&tempo

on è chiaro se quei cinque milioni di spettatori per la miniserie tv C’era una volta la città dei matti trasmessa all’inizio di febbraio fossero realmente interessati al destino dei pazienti psichiatrici o attratti dalle immagini crude dei vecchi manicomi (il trash favorisce gli ascolti). Tanto meno è chiaro il motivo di quella produzione. In fin dei conti i manicomi non ci sono più, nessuno ne sente la mancanza e se anche si dovesse modificare la 180 (come lo stesso Basaglia auspicava), gli orrori di quei tempi non si vedrebbero più. Anche se poi ogni tanto si riscoprono in case per anziani o disabili, specie al Sud (spiace dirlo). Parlare male della psichiatria, quella convenzionale fatta di farmaci e psicoterapie, trova molti d’accordo. C’è anche qualche idiota in tv che mette sullo stesso piano Tavor, hashish e cocaina e alcuni applaudono. Solo ai non malati piace pensare alla libertà dei pazienti di essere come sono, pur essendo questi i primi a sentirsi prigionieri della loro sofferenza. A meno che non siano tanto gravi da non rendersene conto, ma sono poi contenti quando scoprono che qualcuno li ha curati senza tenere in considerazione la loro volontà. E invece proprio alla scoperta degli psicofarmaci si deve la possibilità di una nuova assistenza psichiatrica che ha portato alla possibilità del colloquio, della psicoterapia e della socioterapia e da lì alle nuove forme di assistenza non istituzionale.

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La rivoluzione psichiatrica si svolse nel giro di pochi anni a partire dal 1952, quando comparirono le prime efficaci terapie per i più gravi disturbi psichiatrici: litio, antipsicotici e antidepressivi, tutti ancora in uso. Lo stesso Basaglia riconosceva il merito delle terapie mediche e lo indica chiaramente Valeria Babini nel suo Liberi tutti (il Mulino, 28,00 euro), un testo con una attenta e minuziosa documentazione sulla storia della psichiatria italiana del Novecento. Una sorpresa, abituati come siamo a pubblicazioni di opinioni personali sull’argomento non suffragate da basi documentali. Sebbene risalti una forte simpatia per la parte sociale della psichiatria, il libro illustra come il dibattito sulle malattie mentali sia stato assai nutrito fra gli addetti ai lavori. Emerge fin dai primi anni del Ventesimo secolo una tendenza alla contrapposizione fra psicoanalisi e orientamento biologico, pur non essendo poche le voci a favore di una collaborazione fra i due tipi di interventi, ancora non del tutto realizzato. Lo schieramento psicoanalitico ebbe la peggio tanto che nel 1923 si arrivò alla congiunzione fra psichiatria e neurologia nella clinica delle malattie nervose e mentali e a considerare la stessa psicologia del tutto inutile per gli studenti di medicina (poco è cambiato al riguardo). Naturalmente, con la nuova sensibilità verso i problemi mentali della fine degli anni Sessanta si arrivò a una nuova e definitiva separazione fra psichiatria e neurologia nel

MobyDICK

ai confini della realtà

Liberi di guarire

di Leonardo Tondo

cato l’intervento, vista la difficoltà di operare cambiamenti a livello sociale, 1972 senza però che si interrompes- emarginati, abbandonati, disoccupati comunque auspicabili, che vadano rasero le liti fra sostenitori dell’orienta- e svantaggiati economicamente, ma pidamente a vantaggio dell’individuo. mento biologico e psico-sociale. quella era spesso la conseguenza del Tutta la sociopsichiatria è basata su Non poteva mancare un lungo capito- loro disturbo e non la causa, come tut- iniziative lodevoli per i pazienti che lo sull’elettroshock che non viene de- te le scuole serie di psichiatria sociale non possono essere curati ma quelli monizzato sebbene non certamente sanno. Gli altri pazienti, ricchi e soste- che possono trarre giovamento dai esaltato. Viene dato credito al suo in- nuti dalle famiglie, che si ammalavano trattamenti devono riceverli. ventore, Ugo Cerletti, la passione per nello stesso modo (le malattie psichia- Inoltre, le odierne possibilità di terala sperimentazione, l’interesse per la triche non tengono conto del portafo- pia hanno enormemente ridotto lo ricerca coltivato in ambienti interna- glio), si facevano curare in posti diver- stigma associato ai disturbi psichiazionali, anche se poi la sua applicazio- si con prognosi ben più favorevoli dei trici che era fondamentalmente legane fosse rudimentale, dati i tempi. Lo loro disturbi. to alla loro precedente «incurabistesso Cerletti che successivamente si lità», come accadeva per altre malatschierò contro i manicomi paragonan- Ovviamente, la possibilità di miglio- tie croniche come la tubercolosi pridoli ai lager. L’umanizzazione della rare o guarire diminuisce quando è ma della scoperta di antibiotici spepsichiatria attribuita a tutta la corren- presente la combinazione di un di- cifici. La diminuzione dello stigma te basagliana non era certo un proble- sturbo psichiatrico con vari problemi (ancora presente e tanto più pesante ma per chi poteva accedere a tratta- socio-economici, ma focalizzare tutta quanto più grave il disturbo) ha riavvicinato il disturbo psichiatrico a tutti noi. La Dopo la recente fiction dedicata a Basaglia, chiusura del matto in anche un documentato libro sulla storia manicomio aveva il suo significato di allontanare della psichiatria italiana del ’900 suggerisce da noi quelle parti scoriflessioni e riapre interrogativi. Ma giudicare nosciute e temute verso cui mostriamo spesso dal nostro attuale osservatorio i trattamenti aggressività, quella stespsichiatrici d’inizio XX secolo è come sa che veniva espressa paragonare la chirurgia robotica verso il malato mentale. Indubbiamente ne è staa quella precedente all’anestesia ta fatta di strada verso l’accettazione delle dimenti in cliniche universitarie e priva- l’attenzione su questi ultimi fa dimen- versità negli altri che sono poi quelle te ben prima della legge 180, un detta- ticare le componenti cosiddette biolo- che non accettiamo di vedere dentro glio troppo spesso dimenticato che ha giche del disturbo su cui, appunto, si di noi e giudicare con il nostro attuaportato a un profondo errore metodo- può intervenire con trattamenti medi- le metro i trattamenti psichiatrici di logico. I pazienti degli ospedali psi- ci. Non solo. L’attribuzione di respon- inizio secolo Ventesimo è come parachiatrici di Gorizia o Trieste, così come sabilità all’ambiente, nel suo signifi- gonare la chirurgia robotica con nel resto d’Italia, erano effettivamente cato più ampio, rende molto compli- quella precedente all’anestesia.


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