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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti molti lo negano ancora, ancorati a pregiudizi e a colpevoli distrazioni, o più semplicemente ce lo siamo scordato: il romanzo, come forma letteraria dell’Occidente, ha una storia lunga almeno duemila anni. Poesie, satire, opere teatrali, narrazioni di divinità, allegorie: è solo questa la letteratura di Atene e Roma antiche? Si tende a pensare che il romanzo, in stile sette-ottocentesco, abbia rimpiazzato l’Epica, secondo l’equazione sbagliata epica/antichità-romanzo/modernità. Invece non è così. Basti pensare, per esempio, al Don Chisciotte, romanzo in apparenza epico, ma sostanzialmente modernissimo inquantoché «il cavaliere dalla triste figura» vive solo lui in un mondo cavalleresco offrendoci l’immagine di un trapasso storico, la crisi di un ideale, l’ironia che è intrinseca nell’avventura di un uomo, strambo ma autentico. Altri ancora sono convinti che la narrazione mitica, o biblica, sia in netto contrasto con il realismo del romanzo dei nostri ultimi tre secoli. Anche critici autorevoli sono del parere che la quotidianità sia stata estranea alla scrittura degli antichi, e come prova dicono che solo a metà del 1600 cominciò a venire in superficie l’amore familiare. A questo proposito basterebbe osservare attentamente alcune lapidi dell’antica Atene per «scoprire» che mariti e mogli si amavano e i genitori amavano i figli. Nel museo nazionale della capitale greca c’è un sorprendente monumento (di migliaia d’anni), eretto a una bambina morta per volere della sua famiglia. Un sublime tocco di tenerezza: la bimba è ritratta con un coniglio in mano. Tutto ciò va contro «le rozze generalizzazioni» come sostiene Margaret Doody in un approfondito studio storico-letterario intitolato La vera storia del romanzo (Sellerio, 732 pagine, 14,00 euro).

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La vera origine del romanzo

TRISTRAM E L’ASINO Parola chiave Aggressività di Gennaro Malgieri È la sfortuna la musa di Mr. E di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

L’ispirazione etica di John Keats tra Bellezza e Verità di Filippo La Porta

Avreste mai detto che tra l’eroe di Sterne e quello di Apuleio ci fossero delle strette somiglianze? Eppure, gli albori della forma letteraria tipica della modernità risalgono all’antichità più remota. È quanto dimostra in un libro Margaret Doody

Kurosawa: nel regno di un cantastorie di Claudio Trionfera Una favola per vecchie ragazze di Anselma Dell’Olio

Al Tefaf delle meraviglie di Marco Vallora


Tristram e l’

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L’autrice, che è canadese ed è docente di letteratura comparata, ricorda tra le altre una frase, tratta da un testo di Achille Tazio: «Appena la vidi, subito fui perso: ché la bellezza ferisce più profondamente di una freccia, e attraverso gli occhi penetra nell’anima: l’occhio è la strada per la ferita d’amore». Ecco: non sembrerebbero parole scritte da Proust, Mann,Tolstoj, Manzoni e da molti altri, compresi quelli che oggi usano il computer? Non ci sono dee che escono dal mare, non ci sono dèi capricciosi che tendono tranelli a fanciulle con forte carica erotica. Un uomo e una donna, per strada.Tutto qui. Quello che noi definiamo «sentimentalismo», o «amore romantico», non è necessariamente da associare al tardo Seicento e al Settecento. Tazio scrisse nel secondo secolo d.C., e mise in scena la storia d’amore tra Clitofonte e Leucippe e le loro peripezie ambientate in terra fenicia. Una struttura molto romanzesca, con un intreccio rocambolesco: innamoramento, molti naufragi, separazioni forzate, rapimenti, fughe, ritrovamenti insperati, flashback. Quello di Tazio è uno dei cinque romanzi antichi ritrovati. Ma è ovvio che ne furono scritti centinaia se non migliaia, a quei tempi. Uno dei più acerrimi nemici del romanzo fu Friederich Nietzsche. A questo genere «decadente» si oppose, scrive la Doody, «in base agli stessi principi con i quali rifiutò l’ebraismo, il cristianesimo e la democrazia». Il filosofo tedesco considerava la tragedia greca come un’espressione apollinea della visione dionisiaca della verità delle cose. Era «in alto» ed Eschilo e Sofocle non si sporcavano le mani e la mente con il privato, non rappresentavano personaggi ma idee.

Poi due ribaldi come Euripide e Socrate (e infine Platone) posero fine alla sublime distrazione nei confronti dell’Uomo Medio. Uno sparigliare le carte che per Nietzsche è cosa vile, «femminea» («la donna fugge davanti alla serietà e all’orrore», asseriva). Il filosofo caduto poi nella follia chiamava sarcasticamente «alessandrino» il calarsi nei sentimenti della vita comune, essendo Alessandria l’emblema di una città «impura», di razza mista, cosmopolita. Tollerante e degenerata quindi, come argutamente annotò Lawrence Durrell quando scrisse Il quartetto di Alessandria. Margaret Doody fa presente che fu proprio la tolleranza alessandrina ad «ammettere sia la differenza che l’individuazione: essa non dissolve e non rifiuta». Il romanzo proviene idealmente da quella terra, simboleggia l’«autocoscienza urbana» e l’apertura verso il mondo intero. Per anni e anni il termine romance, tenuto rigorosamente separato da novel fu connotato da toni spregevoli, marchiato come genere di bassa fattura riservato alle donne non colte. E una come Jane Austen s’indignò. Romanzo come realismo fortemente domestico, così fastidioso, a volte torbido (come negli scenari disegnati da Shakespeare). Ma allora che collocazione diamo, si domanda Margaret Doody, alle vicende di un barone che vive sugli alberi (il riferimento è a Italo Calvino) e di ragazze nate con i capelli verdi? I conti, e si vede, non tornano se si rimane avvinghiati a forzate classificazioni storiche e ideologiche. E ancora: il romanzo spessissimo è legato a eventi storici, anzi «hanno sempre cianno III - numero 11 - pagina II

vettato con la storia». Che cosa sapremo della Gallia prima della conquista romana senza il «romanzo storico» di Giulio Cesare? E quei «femminei» sentimenti che irritavano tanto Nietzsche? La risposta la offre un critico importante, PierreDaniel Huet, vescovo di Avranches: «…essendo che le facoltà dell’anima nostra sono dotate di una troppo grande estensione, e di una troppo ampia capacità, perché possano riempirle gli oggetti presenti, l’anima cerca nel passato e nell’avvenire, nella verità e nella menzogna, negli spazi immaginari, e fino all’impossibile, di che occuparle ed esercitarle». Huet fu sempre scettico verso chi costruisce regole per la letteratura. I primi romanzi, diceva ancora il critico francese, devono essere trovati «non in Provenza o in Spagna, come parecchi credono… no, questa gradevole ricreazione dell’ozio onesto bisogna andare a cercarla in paesi lontani, e nell’antichità più remota». Huet esalta l’origine «orientale» della prosa romanzesca: «Sono i popoli lontani - les Orientaux - a mostrare appieno le facoltà umane di vivacità del pensiero, della parola e dell’immaginazione». Altri obiettano che sì, è vero, il genere viene da Egitto, Persia, Siria eccetera, ma insistono sul precisare che è stata la cultura greca a dare una forma migliore, più armoniosa, alle espressioni orientali. Sarebbe quindi più esatto affermare che il romanzo non è una mera «importazione dall’estero», ma il prodotto di una combinazione, di un contatto tra l’Europa meridionale, l’Asia Occidentale e il Nord Africa. Difficile, anzi forse ridicolo, cercare di individuare il capostipite, quello che in un dato giorno della settimana di un certo anno cominciò a scrivere il primo romanzo. Alcuni citano Senofonte (400 a.C.). La sua Ciropedia ha in-

DA UN SECOLO ALL’ALTRO «Ma eccomi qui, pronto a intrecciare per te varie novelle con questo mio discorso in stile di Mileto, ad allietarti le orecchie ben disposte con un mormorare divertente: così potrai seguire meravigliato le mutazioni di forme e di fortune umane in figure diverse, e poi di nuovo con mutuo scambio in quelle di prima, solo che tu non sdegni di ripercorrere con gli occhi quanto ho scritto, con l'arguzia di una penna del Nilo, su questo papiro egizio». Apuleio Le metamorfosi

asino

reus, che l’esistenza sia veramente compiuta solo quando esiste in un libro. Altri puntano il dito, e lo fanno in modo sicuro, sul Caritone, autore di Il romanzo di Calliroe. L’elenco delle ipotesi, tutte sorrette da studi comparativi, potrebbe essere lungo. Si pensi a Luciano di Samosata, siriano, il quale scriveva in una lingua greca pura e raffinata, con contenuti oltraggiosi e irriverenti, indubbiamente comici. Certamente, ci fanno sapere gli storici, i lettori di romanzi erano tanti. Sia donne che uomini. A tal punto che l’imperatore Giuliano (famoso come l’Apostata) consigliò vivamente alla gente di evitare le storie finte (plasmata) come quelle d’amore e di avventura. Giuliano voleva chiudere l’orizzonte indicando come obbligo lo studio della storia «solenne» e non di quella minuta, piena di vita quotidiana. Ma i romanzi erano tanti.

Non a caso basta osservare alcune pitture murali delle case di Pompei per accorgersi che, per esempio, la storia d’amore tra Menandro e Glicera è stata ispirata a personaggi della finzione letteraria. Abbiamo accennato a Caritone. Questi era il segretario di un retore (metà politico, metà legislatore e avvocato). Il suo romanzo parla di due innamorati sposati, quindi sottolinea l’eguaglianza degli amanti, contro quello che uno studioso chiamò il «Paradigma pederasta» in base al quale l’amore omosessuale è basato appunto sull’ineguaglianza della relazione in cui la seduzione è anche violenza. I greci rivoluzionano l’assioma affermando che i maschi sono

«Ero a caccia, nell'isola di Lesbo, e in un boschetto sacro alle Ninfe si presentò al mio sguardo lo spettacolo più bello che avessi mai visto: immagini dipinte, una storia d'amore». Longo Sofista Dafni e Cloe «Porgete li vostri orecchi con mutabile intendimento a' nuovi versi: i quali non vi porgeranno i crudeli incendiamenti dell'antica Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia…». Giovanni Boccaccio Filocolo

Laurence Sterne fluenzato tante pagine fino ad apparire come modello ispiratore del Tristram Shandy di Laurence Sterne. E a proposito di questo narratore inglese, c’è chi si dice convinto che il padre spirituale sia Apuleio con il suo asino Lucio. Prendiamo una frase dell’opera di Apuleio: «Ma forse tu, lettore scrupoloso (lector scrupulosus) riprenderai la mia narrazione argomentando così: “E come hai potuto tu, asino astutello, là confinato dentro il tuo mulino, sapere quello che in segreto - come affermi - hanno combinato le due donne?”». C’è un continuo rapporto dialettico con il lettore, un interrogarsi sui poteri di chi scrive (tam bellam fabellam). Chi conosce il testo di Sterne non potrà che trovare straordinarie somiglianze. Tristram Shandy è incline a pensare, appunto come l’asino au-

«Lasciamo che i critici letterari sparlino a loro piacere di queste effusioni della fantasia e all'uscita di ogni nuovo romanzo esercitino i loro vieti motteggi sul ciarpame che fa gemere i torchi. Non abbandoniamoci l'un l'altro: siamo un solo corpo ferito. Sebbene le nostre produzioni abbiano fornito piacere assai più vasto e costante di quanto non abbia fatto qualsivoglia genere letterario al mondo, nessun'altra composizione è stata mai altrettanto denigrata». Jane Austen, L'Abbazia di Northanger «La principessa sembrava Hanumân mentre brandiva il ramo di un albero come se fosse una spada…». Yukio Mishima Il tempio dell'alba

altrettanto emotivi delle femmine e piangono altrettanto facilmente. Nessun uomo «deve» salvare la sua donna. E le donne sono intraprendenti, sicure di sé, intellettuali. Caritone narra del matrimonio frantumato tra Calliroe e Cherea nella zona collinare dell’Anatolia, fino ad arrivare nella Sicilia assediata dall’imperialismo ateniese. Una serie di colpi di scena tipici della filmografia classica, fino ad arrivare a un tema scabroso e modernissimo: la riflessione della donna su che cosa fare del bimbo che porta in grembo, figlio del vero marito e non dell’uomo cui è stata costretta a legarsi. Chi decide? Lei, solo lei. Non un uomo. È lei, Calliroe, a suggerire al feto di resistere e ad augurarsi che possa vivere libero (eleutheros) e non da schiavo. Insomma non si tramuta in una Medea. Il dilemma di Calliroe porta alla memoria il romanzo Amatissima di Toni Morrison, americana e premio Nobel, che scrive appunto della riconciliazione che deve avvenire tra madre e bambino. Una modernità che attraversa i millenni.


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parola chiave

AGGRESSIVITÀ

on scomoderò Robert Ardrey, né Konrad Lorenz per definire una patologia del nostro tempo che ha caratteristiche diverse da quelle che i due scienziati scoprirono ed esaminarono finendo per concludere che apparteneva all’istintualità umana e giustificava in parte i comportamenti sociali e politici. Al fondo dell’elementare aggressività che vediamo dispiegarsi sotto i nostri occhi c’è anche tutto questo, ma manca il resto. E cioè la capacità di dominarla, di governarla, di tenerla sotto controllo. Sicché essa si riduce, almeno nella quotidianità, a mero sopruso nei confronti degli altri esercitato con violenza che non di rado assume fattezze eccessive e incontrollabili. Chiedersi perché si scatena, sia pure per un nonnulla, è inutile: ognuno potrà dare le risposte che più lo convincono proprio in ragione del fatto che l’atteggiamento aggressivo appartiene alla sfera dell’irrazionalità che soltanto a posteriori trova giustificazioni in una costruzione logica nella quale sistemarla come elemento «naturale». E in questa operazione l’aggressività torna ad assumere il ruolo e le fattezze primordiali che le sono proprie: la proiezione dell’egoismo nella sottrazione al contendente dei suoi spazi e dei suoi beni e financo delle sue ragioni, la difesa del preteso diritto di dominare, l’attacco a chi contraddice ciò che ritiene non negoziabile. L’istintualità è il fondamento inestirpabile dell’aggressività.

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Questo in generale. Nel particolare che abbiamo dinanzi constatiamo come si verifichi una degenerazione spropositata di quel naturale comportamento che riposa nei recessi del nostro animo e lotta incessantemente con la mitezza e ragione. È inevitabile per capirci qualcosa chiamare in causa le circostanze che l’alimentano. La cultura popolare e di massa ha una responsabilità innegabile nell’eccitare l’istinto aggressivo presentandolo talvolta come elemento positivo testimoniante una volontà di affermazione, nel bene e nel male, che libera i caratteri forti a discapito dei deboli. Peccato che questa motivazione, sociologicamente ineccepibile, cozza con modelli letterari, televisivi, cinematografici i quali, facendo leva sulle bassezze umane, le eccitano a tal punto da far ritenere ai più che soltanto ciò che determina l’affermazione di qualsiasi ragione, soprattutto con mezzi persuasivi immorali, è accettabile e naturale. Accade così che la costruzione dei rapporti interpersonali, che siano occasionali o consolidati, finisca prima o poi per poggiare sulla pedestre filosofia della brutalità i cui effetti si riscontrano tra le mura domestiche, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella contesa politica, nell’eloquio pubblico e privato, nel confronto con chicchessia. La ricerca poi, ossessiva e compulsiva, dell’accaparramento di beni e di spazi a detrimento di altri, e l’imbar-

Il furioso nichilismo a cui è approdata la modernità ha messo in ombra l’altruismo e l’impersonalità attiva, la carità e la pietà, la comprensione e l’apertura agli altri. Ecco perché oggi un eccentrico individualismo ha assunto le fattezze dell’arroganza e della violenza

La società delle assenze di Gennaro Malgieri

Osserviamo ciò che accade in un ufficio pubblico, in una strada intasata, in un ospedale, perfino da un salumiere: c’è sempre qualcuno che grida più di altri, che avanza pretese, che chiede l’impossibile, che reclama diritti incedibili. Quello che succede sulla scena pubblica non è che la proiezione di tutto questo... barimento dei rapporti perfino tra i vicini e i familiari, segnalano lo squilibrio determinatosi nella sfera dell’intimità che non è più preservata da quello spirito di religiosa, si potrebbe dire, perseveranza nel conservare i sentimenti e nutrirli con la ricerca del bene, ma nel farli a pezzi considerandoli quali cascami di un mondo nel quale soltanto la prepotenza giustifica ogni cosa e si assolve nella considerazione della finalità che persegue, vale a dire l’imposizione di una volontà perversa non di rado presentata sotto il manto della libertà di fronte alla quale nessuno dovrebbe avere dubbi nell’accettarla. Quindi le regole saltano, il buon senso va a ramengo, la volgarità - nelle varie forme che conosciamo, dallo sfruttamento del proprio simile all’esibizione della ricchez-

za, alla vendita del corpo - trionfa. Dovrebbe tutto ciò far parte di un paradiso ancorché perverso. Ma non è così. Guardatevi intorno, posate lo sguardo su chi vi sta vicino, osservate la brulicante umanità che vi sfiora, esaminiamoci anche noi che crediamo di aver capito eppure ci lasciamo trasportare dalla corrente. Scopriremo ciò che forse avevamo superficialmente sottovalutato: è sparito il sorriso nella società delle assenze. Il furioso nichilismo a cui è approdata la modernità ha messo in ombra, quando non li ha costretti a nascondersi, l’altruismo e l’impersonalità attiva, la carità e la pietà, la comprensione e l’apertura alle ragioni degli altri.Tutto ciò che si è dissolto, o è in via di dissoluzione, non faceva certamente parte della società edenica che proba-

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bilmente mai si è realizzata almeno nei tempi storici che costituiscono il nostro riferimento. Ma, quantomeno, fino all’esplodere della post-modernità, si coglieva ancora una certa distanza tra chi esprimeva una sostanziale attitudine comunitaria e chi invece la negava per dare sfogo a un eccentrico individualismo che talvolta assumeva le fattezze dell’arroganza quando non della violenza. Oggi, non per banalizzare, provatevi a rapportarvi a ciò che accade in un ufficio pubblico, in una strada intasata di automobili, in uno studio medico, in un ospedale, perfino da un salumiere o in un supermercato: ascolterete sempre qualcuno che grida più di altri, che avanza maggiori pretese, che chiede l’impossibile, che si presenta come depositario di diritti incedibili. E, banalizzando di meno, ciò che accade sulla scena pubblica non è che la proiezione di tutto questo con il risultato che mai il mondo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è stato così diviso e non per ragioni ideologiche, ma di pura aggressività sottostante la tentazione di esplicare un dominio inconscio maturato al ritmo di ragioni insostenibili.

Non credo, tanto per essere chiaro, alla pace perpetua di kantiana memoria: ma un tempo le guerre avevano perlopiù motivazioni se non proprio nobili quantomeno comprensibili. Oggi anche le dittature striscianti, oltre quelle conclamate, sono motivate dall’aggressività. Proprio alla stessa stregua di come l’esercizio del potere nelle società pacifiche esprime arroganza e villania; il giornalismo non informa, ma attacca; l’amore non è vissuto per quello che dovrebbe essere, ma è predatorio, mercenario, ricattatorio, usato nelle forme estreme di una sessualità consumistica e frenetica come scambio; l’educazione è un’anticaglia che è bene non esibire e il linguaggio, specialmente giovanile, è un intrecciarsi di violenze verbali condite con riferimenti animaleschi al sesso e alla predazione di ciò che non dovrebbe essere nella disponibilità di nessuno. L’aggressività è un aspetto della decadenza. La mitezza è il volto delle società ordinate, delle comunità libere, degli aggregati umani che si riconoscono nella pratica del diritto naturale. Non so se Ardrey e Lorenz, tornando in vita, riconoscerebbero all’uomo, giudicandolo dai suoi comportamenti, differenze sostanziali rispetto ad altre specie animali. Forse sì. Concludendo che queste dispiegano l’aggressività in maniera autenticamente istintiva e non strumentale, facendosi guidare dagli impulsi e dalla necessità. Miserabile il tempo che non sa partorire valori, ma soltanto parodie di essi. L’aggressività sociale come perversione della personalità è il prodotto più maturo ed evidente del sovversivismo progressista.


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cd

ntendiamoci subito. Questo non è un disco da fischiettare mentre vi fate la barba. Il rasoio potrebbe sfuggirvi di mano. Né sono pezzi da ascoltare a cuor leggero, se vostra moglie vi ha appena piantato. In soldoni: lasciatelo perdere, End Times, se la vita non vi sta girando per il verso giusto. Sennò, (psichicamente) belli tonici, affidatevi pure a Mr. E, al secolo Mark Oliver Everett, e ai suoi Eels. Vincerebbe lui, se potessimo premiare il più sfigato del rock. Lui, che sulla vita grama ci ha costruito la carriera. Non per opportunismo, sia chiaro, ma per necessità: quando gli cade una tegola sulla testa (e ogni volta sono macigni) Mr. E tira un bel sospiro, scrive una canzone e ne cava fuori un capolavoro. Garantito. Il mi-

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musica

È la sfortuna la musa di Mr. E di Stefano Bianchi

glior modo di fare autoanalisi. È successo con Beautiful Freak del 1996, che oscillava dall’inno agli psicofarmaci che cicatrizzano le ferite dell’anima (Novocaine For The Soul), alla problematica maternità adolescenziale di Susan’s House. È capitato con Electro-Shock Blues (’98), buttato giù di getto dopo che la sorella aveva in-

in libreria

gurgitato troppe pillole. E via così, di sventura in catastrofe, con qualche tocco di humour nero del tipo: la parola d’ordine di Daisies Of The Galaxy (2000) era «Il funerale è finito, andiamo alla veglia!». Oppure, il protagonista di Hombre Lobo (2009) era, appunto, l’Uomo Lupo. Cioè il Signor E: di giorno in un modo, nottetempo in un altro. Allegria. End Times (evitate i gesti apotropaici, please), inizia da dove finiva Hombre Lobo: dal desiderio, «scintilla che accende ogni cosa». Ma poi la spegne, giacché la sfiga (Mr. E lo sa bene) ci vede eccome. Sua moglie l’ha lasciato e questo è l’«album del divorzio». Intonato col cuore in mano da un quarantasettenne che si ritrova solo come un cane, in un seminterrato di Los Angeles. E pensare che l’aveva cantato, definendole donne kamikaze: «Si schiantano con il loro aereo, ma si schiantano contro di te». Profetico. Tant’è che per esorcizzare l’ennesima depressione, ha chiamato a raccolta gli Eels e ha inciso il suo disco più bello

mondo

L’ARTIGIANO CHE AMA JAMES TAYLOR

preoccupandosi di metterci in copertina un vecchio barbuto, raffigurato dal fumettista Adrian Tomine, che annuncia l’Apocalisse. Ma la musica non è apocalittica. Semmai nuda, intima, sofferta. Ascoltare per credere la voce cavernosa di Mr. E che in The Beginning dialoga con la chitarra acustica; la nostalgia di In My Younger Days, filtrata dall’organo e da qualche riverbero elettronico; Mansions Of Los Feliz, che è come gustarsi Simon & Garfunkel in vacanza a Nashville; A Line In The Dirt, con quel fior di melodia pianistica che a poco a poco lievita buttandoti lì un passaggio poetico che nemmeno il Woody Allen più cinico: «Si è chiusa di nuovo in bagno, quindi devo fare pipì in giardino». E il rockabilly di Gone Man? Paradise Blues (il titolo dice tutto) con le chitarre che sgusciano e l’interpretazione alcolica? End Times, con quell’attacco tale e quale a Suspicious Mind di Elvis Presley, ma poi la tristezza incombe e la voce sembra quella di Bruce Springsteen, solo un po’ più impastata? Nowadays, con l’armonica a bocca in puro stile Bob Dylan? «Dentro mi sento uno straccio», canta Mr. E nella conclusiva On My Feet, «e non è facile ora come ora camminare sulle mie gambe. Ma sono sicuro di aver vissuto anche di peggio». Alla fine, ci sono queste canzoni per dare l’ennesimo calcio alla sfortuna. Alla prossima tegola, caro Mark Oliver Everett. Eels, End Times, Vagrant/Spin-Go!, 18,90 euro

riviste

THANK YOU MR. RICHARD

IL BLUEGRASS DI SUA MAESTÀ

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ora Jones non è altro che una grandissima cantante, interprete di belle canzoni, ma il mondo è il mondo di James Taylor, che molti giovani non conoscono. È colpa delle radio e dei media, che trasmettono solo quello che va di moda. Però questo pensiero, quello acustico intendo, mi piace, perché in fondo, dopo tutta questa sfornata di musica elettronica, di suoni elettrici, sta

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uando uscì il suo album d’esordio, i Beatles non avevano ancora debuttato. E da quel 1958, più di cinquant’anni di carriera sono filati via per Cliff Richard tra milioni di copie vendute, lunghi silenz, e ripensamenti. Questo 2010 è l’occasione buona per festeggiare i suoi settant’anni, e l’ex risposta inglese a Elvis Presley lo farà in grande stile con un album che vedrà la luce il

a musica folk, quella tradizionale, intrisa di bluegrass, fatta di cori e accordi di banjo, va di moda. Se poi viene da Londra è necessariamente very very cool. Per il loro primo i album i Mumford & Sons non potevano aspettarsi di meglio; venuti velocemente a galla dalla scena folk londinese, scritturati dalla Island Records, prodotti e lanciati sul mercato dove in me-

Ron racconta il suo percorso musicale nella bella biografia scritta da Andrea Pedrinelli

Per il suo settantesimo compleanno, il poliedrico musicista si regala un album jazz

Mumford & Sons: un disco d’esordio che lancia il guanto di sfida ai Felice Brothers

tornando un mondo abbastanza intimo, che mi appartiene abbastanza». Ron, moniker di Rosalino Cellamare, ha sempre avuto le idee molto chiare a proposito di musica. Capace di affidare a liriche intense e arrangiamenti lievi ma vibranti le proprie emozioni, il cantautore parla di sé nel bel libro di Andrea Pedrinelli: Ron si racconta Quando la musica ha un’anima (Ancora, 176 pagine, 15,00 euro). A metà tra colloquio, biografia e analisi delle più celebri composizioni, le pagine di Pedrinelli restituiscono i freschi sapori della vecchia musica artigianale: passione, competenza e molte cose da dire in strofa, senza alcuna smania di sfornare l’ennesimo tamburellante hit.

prossimo ottobre: Bold ad brass. Disco che segna un’ulteriore evoluzione nella carriera di un artista che ha saputo spaziare dal rockabilly dei primordi al gospel bianco della maturità, il lavoro di Richard sarà segnato da una forte influenza a cavallo tra jazz e swing. Presenti alcune cover, tra cui I’ve got you under my skin, la tracklist avrà una presentazione d’eccezione, grazie ai sei concerti che Cliff terrà alla Royal Albert Hall. Un nuovo album che invita a contraccambiare la riconoscenza che Cliff affidò ai suoi fan con l’antologica di due anni fa: Thank you for a lifetime.

no di un mese erano già all’undicesimo posto nella classifica degli album più venduti». Matteo Vennacci presenta così su ilpopolodelblues.com la nuova speranza della popolar music britannica, che molti ritengono la risposta agli americani (e sensazionali) Felice Brothers. Riuscita contaminazione di folk irlandese ad alta fedeltà, coralità gospel, strumentazioni classiche punteggiate da banjo e chitarre, Sigh no more consacra il combo britannico come uno dei più vivaci esiti del bluegrass in salsa british. Dodici tracce ricche di pathos e classe, che a partire dall’intensa titletrack, lasciano ben sperare per i destini dell’attempato combat folk europeo.

a cura di Francesco Lo Dico

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classica

zapping

DAVE STEWART, L’EX SIDER che si è dato al commercio di Bruno Giurato he c’è di meglio degli outsider? Ci sono gli ex sider, quelli fuori dai giochi ormai che non avendo da nutrire la maschera d’artista si riciclano in modi sorprendenti: commentatori intelligenti, marketing manager, produttori di articoli erotici. Vedi Dave Stewart, il maschio degli Eurythmics ha scritto tante canzoni belle, le ha arrangiate con gusto (in una mattina di primavera There must be an angel, con il solo di armonica di Stewie Wonder che viene fuori dall’altoparlante di un bar rimette abbastanza al mondo) e ora, finito il legame con Annie Lennox, fa il manager musicale. E ha anche lanciato una linea di oggetti erotici, tra cui un elettrointimo incastonato di diamanti del costo di duemila sterline. Stewart assicura che i suoi negozi sono frequentati da gente come Angelina Jolie. A noialtri fa sorridere l’idea della riunione per il product test, tipo quelle che fanno alla Nestlè e in cui i manager assaggiano i vari tipi di cioccolato. Ma non divaghiamo, perché il nostro Dave, che fa anche il promoter di nuovi artisti, ospite alla Canadian music week per presentare la sua creatura non a batterie, la cantautrice Cindy Gomez, ha detto che i suoi sponsor se li cerca non tra le case discografiche ma tra le aziende commerciali, come il produttore di gelati Ben e Jerry (è la strategia Starbucks inaugurata da Madonna). E poi ha aggiunto quello che tutti sanno e che nessuno dice: «Ci sono 57 milioni di band su MySpace e nessuna di loro è riuscita ad avere successo». È vero. MySpace dà soddisfazione a tanti gruppi che non avrebbero altro luogo, ma poi ai fini pratici non ha fatto nascere un fenomeno musicale. Forse gli emergenti dovrebbero pensare seriamente a partnership con aziende commerciali. E se va male ci sono sempre gli elettrointimi.

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La solita “Salome” ma a briglie strette di Jacopo Pellegrini er un mistero tuttora insoluto, al Comunale di Bologna quando si tratta di dare un titolo di Richard Strauss si finisce sempre per scegliere Salome (1905): tre volte dal 1986 a oggi, l’ultima per l’apertura della stagione in corso. Ci sono state anche incursioni in titoli rari, tipo Intermezzo o Capriccio, e un ragguardevole Cavaliere della rosa diretto da un ancor giovane Christian Thielemann, ma per rinvenirne traccia occorre risalire agli inizi del periodo preso in esame. E niente Elektra, niente Arianna a Nasso, niente Donna senz’ombra; solo Salome. Un capolavoro, senza meno, tale da figurare al quarto posto in un sondaggio promosso nel 1956 dal settimanale Tempo di Milano, che aveva chiesto a svariati critici musicali di elencare le «venti opere liriche più importanti» del periodo 1901-’55, e al settimo nel referendum gemello indetto pochi mesi fa tra critici, musicologi e musicisti militanti da Giorgio Venturi, prode discaio fiorentino, e ora da lui incluso, insieme al vecchio, in un attraente volumetto, 20 opere liriche da salvare dal diluvio… ed altro (Dischi Fenice, 9,00 euro; per ordini: negozio@dischifenice.it): dove l’altro sono alcune felici pagine memorialistiche di due direttori d’orchestra, Gianandrea Gavazzeni e Frieder Weissmann, e un irresistibile racconto musicalumoristico di Gianni Gori. Ma un capolavoro meno puro di altri straussiani, bisognoso di cure specialissime al fine di evitare quelle cadute nel kitsch, che di quando in quando sgualciscono la fitta trama musicale e scenica. Una drammaturgia della sensualità in ogni sua declinazione (dall’innocenza alla degenerazione alla santità), calata in un mondo dove il confine tra nevrosi e psicosi si è fatto così labile da non sussistere quasi più, dove sesso è divenuto sinonimo di carattere, per citare il titolo di un fortunato pamphlet di Otto Weininger (1903): l’uomo svirilizzato e isterico (Narraboth, Erode), la vergine perversa (Salomè), la donna masco-

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linizzata (Erodiade). Esaltare l’orgia di colori esoticheggianti stesa sulla partitura da Strauss, quando si disponga di un’orchestra in grado di renderle giustizia, ovvero serrare i ranghi, stringere denti e tempi in una narrazione il più possibile lucida e incisiva: sono due le opzioni principali che si aprono per il podio, e a Bologna Nicola Luisotti, con spiccata saggezza e sano realismo, ha imboccato la seconda. Da pochi mesi a capo dell’Opera di S. Francisco, da non molti anni impegnato in una carriera internazionale, il direttore toscano non perde mai il contatto tra fossa e palcoscenico, e fin dove può tiene le briglie strette all’orchestra in modo da non coprire i cantanti (ma quando si dispone d’una protagonista, la musicale Erika Sunnegårdh, che purtroppo per lei canta da soprano drammatico con una voce adatta a Musetta o a Norina, c’è poco da fare). A questo solido professionismo non corrisponde però ancora una stretta confidenza con Strauss, una visione ben definita di Salome: non affetto da febbre erotica decadente, non da asprezze paraespressionistiche, Luisotti si piega con gusto sugli infiniti dettagli strumentali correndo allo volte il rischio di diluire la tensione interna. Non gli è di grande ausilio la compagnia di canto: esperti delle rispettive parti, Doss (Giovanni Battista) e Brubaker (Erode) sembrano poco coinvolti e non in forma perfetta; di modesto involo Milhofer (Narraboth) e la Schaechter (Erodiade); restano gli efficienti, precisi comprimari, specie Giudei e Nazareni. Per Gabriele Lavia fare regìa consiste evidentemente nel riempire la scena di Alessandro Camera (una pedana rossa irregolare, che nel finale si squarcia per lasciar fuoruscire un testone mozzato del Battista) di soldati in divisa prussiana, nel far stendere a terra oppure correre in qua e in là la Sunnegårdh, nel metterla a seno nudo durante la Danza dei sette veli (neanche fosse un virgulto…): pura convenzione. Contento lui; noi meno assai.

jazz

Sonny Rollins (con Don Cherry): una miniera d’idee di Adriano Mazzoletti a recente pubblicazione, da parte della casa discografica Jazz Lips, del concerto che Sonny Rollins diede il 15 gennaio 1963 a Copenhagen fa riemergere lontani ricordi della prima tournée italiana di colui che era considerato con John Coltrane il sassofonista più significativo e importante del jazz. Il 1962 era terminato con il ritorno, il 2 dicembre al Teatro dell’Arte di Milano, proprio di John Coltrane con il suo quartetto, McCoy Tyner, Jimmy Garrison ed Elvin Jones, che suscitò consensi ma anche feroci critiche. Partito Coltrane, il 1963 si aprì con l’arrivo di Sonny Rollins. Aver potuto ascoltare, a così breve distanza, due fra i maggiori sassofonisti del periodo fu uno degli eventi che maggiormente caratterizzarono quegli anni. Rollins era giunto in compagnia di Don

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Cherry, Henry Grimes e Billy Higgins. Suonò a Roma per la tv, ancora una volta per i buoni auspici di Leone Piccioni, in un programma condotto da Lilian Terry dove era presente il nuovissimo Quintetto di Lucca vincitore della Coppa del Jazz radiofonica e partecipò a diverse jam session private; una a casa di Lele Crespi, cugino di Roberto Nicolosi, dove si incontrò e suonò con Nunzio Rotondo, da cui nacque una amicizia che durò fino alla scomparsa del grande solista italiano. Con Lilian Terry lo guidammo nelle strade di Roma, fra antichi palazzi e monumenti che suscitarono in lui sor-

presa e ammirazione e volle anche farsi fotografare a Fontana di Trevi come un turista qualsiasi. Il 13 gennaio fu in cartellone al Teatro dell’Arte di Milano, ma i due concerti, anche se vennero probabilmente registrati, non sono stati ancora pubblicati. Lo ha fatto invece come si è visto, la Radio danese che ha ceduto i nastri alla Jazz Lips, una etichetta che sta salvando, tramandandoli, momenti importanti della storia del jazz. L’ascolto conferma quanto detto e scritto, a seguito dei concerti milanesi, di un gruppo che poteva apparire ed era anomalo, dove la presenza di Don Cherry,

protagonista con Ornette Coleman delle forme più avanzate del jazz dell’epoca, avrebbe potuto creare momenti di imbarazzo allo stesso Rollins. Furono invece tutti concordi, critici, musicisti, pubblico a considerare quella formazione come una delle più interessanti del periodo. I due cd del concerto danese lo confermano. Gli otto brani, fra cui un esaltante 52nd Street Theme, ma anche versioni inusuali di motivi del suo classico repertorio, Oleo e The Bridge, riconducono a un’epoca di grande fervore e di ricerca dove atmosfere sospese e fluttuanti, si fondono con una inesauribile miniera di idee caratteristica questa dello stile di Rollins, forse il più originale musicista della storia del jazz degli ultimi quarant’anni. Sonny Rollins - Don Cherry Quartet, The Complete 1963 Copenhagen Concert, Jazz Lips, 2 cd, Distribuzione Egea


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narrativa

n legal thriller? No. Trattandosi di John Grisham la domanda viene spontanea, anzi automatica. In otto racconti il bestsellerista americano ambienta in una piccola provincia del Mississippi storie di gente che hanno a che vedere con la legge o sono contro la legge. Tuttavia nessun suggestivo complotto, come nel Socio o nel Rapporto Pelican e in altri suoi romanzi di scorrevole lettura. Qui l’autore s’intrufola nei meandri giudiziari per ritrarre l’uomo sconfitto, l’uomo insoddisfatto, l’uomo oltraggiato. Vicende che accadono quotidianamente in qualsiasi cittadina degli Stati Uniti, o di altri paesi, ma che non sono sbandierate dai giornali, tantomeno sono collocate nella vetrina delle prime pagine. C’è per esempio l’avvocato Stanley Wade che viene rapito in un supermercato da un uomo e da suo figlio. Durante il percorso in auto la sua memoria spaventata riassembla un vecchio caso che lo vide difensore di un medico la cui negligenza causò la nascita di un bambino cerebroleso, cieco e con un’aspettativa di vita di pochissimi anni. Medico assolto e compagnia di assicurazioni che nulla deve risarcire. Una tragedia, umana ed economica, per una famiglia che vuole sbattere in faccia al brillante e cinico avvocato l’esistenza d’inferno di quel bambino, che ora ha undici anni. Il padre, accanto alla moglie, al primogenito e alla sfortunata creatura, lancia un’accusa. A un legale ma anche a un’intera categoria: «Be’, il tuo lavoro è uno schifo, Wade, perché significa mentire, maltrattare, manipolare i fatti e non dimostrare alcuna compassione per chi soffre. Io odio il tuo lavoro, quasi quanto odio te». È un contro-processo, pisto-

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Grisham

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libri

otto storie di povera gente di Pier Mario Fasanotti la alla tempia. L’accusatore si rivela non solo un padre afflitto, ma anche un esperto di legge. Fino all’ultimo non si sa se la rivoltella sputerà il proiettile della vendetta oppure no. C’è poi un altro avvocato, Mack Stafford, dalla vita professionale sull’orlo del fallimento. Riceve una telefonata da un collega di New York. Questi, con la disinvoltura feroce tipica dei grandi studi legali della Grande Mela, gli propone in pratica di seppellire alcune cause di risarcimento, in cambio di una buona ricompensa. Stafford coglie non solo l’occasione economica, ma anche quella umana: una improvvisa libertà dinanzi a una famiglia (moglie e due figlie) che lo considera un fallito e lo mette in mostra come se fosse un avvocaticchio di poco spessore e scarsa iniziativa, e per giunta tendente all’alcolismo. Come uscire dal pantano del lavoro e da un matrimonio «che scivola sempre più in basso»? Mack avrà la sua rivincita, a costo di imbrogliare le carte. Solo, lontano, ma finalmente libero. Ha fregato i suoi clienti, che avrebbero potuto ottenere molto di più da una company milionaria, ma la via di fuga diventa per lui un moto dell’anima, una tentazione irresistibile. Per ricomincia-

re a vivere. È storia dolentissima quella del carcerato Joey Logan, nel braccio della morte in attesa dell’iniezione letale. Avrebbe ucciso un uomo durante una rapina. Come ultimo desiderio chiede alla guardia di poter vedere la luna, dopo diciassette anni di poco sole e notti tutte sempre uguali sotto la luce artificiale. Nel braccio della morte le guardie tradizionalmente non sono violente: i prigionieri, tenuti sotto chiave per ventitre ore al giorno, e molti di loro in assoluto isolamento, sono ormai rottami, esseri docili, sottomessi.Taluno aspetta con speranza l’ora della morte: è una liberazione. Nel cortile del carcere Joey, gli occhi fissi alla luna splendente, racconta alla pietosa guardia di quando assieme a suo fratello osservava il cielo notturno e di quando assieme progettarono un furto, risoltosi poi in una tragedia. Riferisce della propria innocenza, descrive una vita senza famiglia (il fratello non c’è più), accenna alla madre prostituta e alla condizione di bambino non desiderato, «un errore… il prodotto di scarto di una notte di scarto». Joey, che si definisce ormai «un piccolo, triste errore patetico», è ormai un uomo tranquillo. Non crede nel paradiso o nell’inferno, ma sa che c’è un aldilà. L’endovenosa finale è attesa con malinconica gioia. Un ago lo porterà finalmente nel grande mare della tranquillità. Grisham non si preoccupa di avere «il bello stile», racconta correttamente episodi. E sono gli accadimenti che svelano la natura degli uomini. Anzi: della povera gente. John Grisham, Ritorno a Ford County, Mondadori, 327 pagine, 20,00 euro

il bibliofilo

La «vita da capra» della vecchia Zelinda

di Pasquale Di Palmo efinito da Eugenio Montale «un racconto perfetto», Casa d’altri ebbe una travagliata vicenda editoriale. Il suo autore, Ezio Comparoni, nato a Reggio Emilia nel 1920 da padre ignoto, adoperò vari pseudonimi per firmare i suoi scritti, il più celebre dei quali è Silvio D’Arzo. Lo scrittore lavorò assiduamente intorno a questo testo, allestendone diverse stesure, tese a descrivere, in maniera asciutta ed essenziale, le vicissitudini di Zelinda e del prete che dovrebbe dissuaderla dai suoi propositi di suicidio, manifestando in cuor suo una sorta di inspiegabile rapporto di attrazione e repulsione nei confronti di quella vecchia e della sua «vita da capra». Il racconto, la cui redazione originale risale all’estate 1947, fu rielaborato a più riprese negli anni successivi e apparve,

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in forma ridotta, con il titolo Io prete e la vecchia Zelinda nel n. 29-30 del luglio 1948 dell’Illustrazione Italiana; venne successivamente accolto, in versione integrale, nel n. X della rivista Botteghe Oscure, uscita nell’ottobre 1952, qualche mese dopo la morte dell’autore, avvenuta il 30 gennaio dello stesso anno a causa di una leucemia. Considerato uno dei capolavori del nostro Novecento, fu rifiutato da alcuni degli editori più importanti dell’epoca (Einaudi, Bompiani,Vallecchi), con motivazioni a dir poco sconcertanti, come quella inviata dalla redazione einaudiana al narratore: «[…] è un’esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue». Lo stesso Enrico Vallecchi, che aveva pubblicato nel 1942 il romanzo All’insegna del Buon Corsiero, non se la sentì di ricavarne un libro che sarebbe andato «incontro alla indifferenza del pubblico, ed all’insuccesso». Giudizi miopi e paradossali, tesi a svilire

un’opera adamantina, senza sbavature, dove i personaggi si muovono in un ambiente arido, ostile, in una sorta di paesaggio rarefatto e sospeso, dominato da un cielo che pesa come una metafisica cappa d’inquietudine. Nonostante la sollecitudine dimostrata da Emilio Cecchi nel considerare il racconto con «un tono, una serietà, una delicata asperità, che vanno benissimo» e la pervicacia con la quale il medesimo autore lo propose per la pubblicazione, Casa d’altri uscì postumo in volume soltanto nel 1953, per i tipi di Sansoni, sesto titolo della collana «Biblioteca di Paragone», inaugurata dalla raccolta di versi La capanna indiana di Attilio Bertolucci. Lo stesso Bertolucci, amico e corrispondente dello scrittore reggiano, nonché redattore di Paragone, ne aveva caldeggiato la pubblicazione nella collana che faceva capo alla rivista fiorentina, che annoverò D’Arzo tra i suoi col-

laboratori. In sovraccoperta, su uno sfondo color blu notte, campeggia una splendida linoleografia di Mino Maccari, ispirata alla vecchia Zelinda e alla sua capra. Il libro, recante il sottotitolo Racconto lungo, si può considerare, per la sua elegante e sobria impostazione grafica, uno dei risultati editoriali più affascinanti e singolari del dopoguerra italiano. Nel recente catalogo della Libreria Antiquaria Pontremoli di Milano, dedicato alla biblioteca dello scrittore Sergio Pautasso, scomparso nel 2006, figura di spicco dell’editoria italiana, è stato messo in vendita, al prezzo di 400 euro, un esemplare dell’edizione originale che conserva una prova di copertina, non firmata, di Maccari: si tratta, molto probabilmente, di un tentativo scartato che tuttavia non raggiunge, a parte qualche indubbia affinità, l’intensità e la pregnanza di una delle copertine più belle di tutto il Novecento.


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storia

Dalla parte dei vinti, senza pentimenti di Riccardo Paradisi erto lo spirito della storia e i suoi tribunali (Norimberga o piazzale Loreto), il Male assoluto… Ma vallo a raccontare a uno che magari quando arriva il ’43, quando cade il fascismo, aveva tredici anni, un padre colto, amato e fascista, e vede lo sfacelo dell’8 settembre, l’esercito che sbanda gli italiani che festeggiano perché la guerra è finita ma i bombardamenti continuano. Vallo a raccontare a uno come Piero Buscaroli, uno che a ottant’anni sprizza ancora vita e violenza e figuriamoci quando ne aveva tredici, con quel fracasso che c’era intorno. Dalla parte dei vinti di Piero Buscaroli è un libro

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luoghi

pericoloso e bellissimo. È pericoloso per i vinti perché li rafforza nei loro revanscismi, ed è pericoloso per i vincitori: apprendono che non c’è nessuna immacolata concezione della vittoria. Bellissimo perché Piero Buscaroli è un grande scrittore. Un grande scrittore fascista. Aveva tredici anni, Piero quando decise da che parte stare. Dalla parte del padre, il professor Corso Buscaroli, latinista, reggente del fascio repubblicano di Imola pagando quella scelta con anni di galera finita la guerra. Dalla parte dei vinti, restando «un superstite della Rsi in territorio nemico». Non cerca conciliazioni, accusa la resistenza comunista di aver voluto la guerra civile, di essere la causa

diretta delle rappresaglie. Non riconosce Buscaroli agli alleati il titolo di liberatori. Non perdona loro la strategia del terrore dal cielo, pianificata dal 1940 da Churchill e messa in atto dal macellaio dell’aria Harris, e proseguita fino alla fine della guerra. Una teoria del bombardamento terroristico che ha distrutto decine di città italiane. Buscaroli cita una cifra per tutte: le vittime italiane delle rappresaglie tedesche sono state 10 mila, quasi sessantamila quelle per i bombardamenti aerei. Per non dire di Dresda, di Amburgo bombardate con il fosforo, per non dire della rieducazione atomica del Giappone. Norimberga dice Buscaroli - è stata una farsa grottesca. Nessuna riconciliazio-

ne, nessuna comprensione dà e chiede Buscaroli: a ottant’anni come a tredici. Spietato verso Grandi e Ciano, i traditori, che senza tradire avrebbero potuto evitare la sciagura dell’8 settembre, all’Italia guerra civile e ottenere un più onorevole armistizio dopo una strenua difesa. Nessuna riconciliazione nazionale senza la verità. Anche perché il sasso del revisionismo è partito e, dice Buscaroli, non si ferma più. Un grande scrittore fascista «senza pentimenti, senza sospiri, senza lagrime». Piero Buscaroli, Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del mio Novecento, Mondadori, 522 pagine, 24,00 euro

Il passo di uno straniero in Giappone di Vincenzo Faccioli Pintozzi a non si stancano mai questi giapponesi, mi viene a volte da pensare, di controllare sempre ogni gesto e fare tante cerimonie? Di non dire mai una parola di troppo, non mangiare per la strada, mettere la mascherina quando sono raffreddati, sorridere di continuo, inchinarsi in ogni momento?». Evidentemente, si conclude quando si finisce Leggero il passo sui tatami, no. Il bel libro di Antonietta Pastore, ambientato nel Paese del Sol Levante negli anni Ottanta del secolo scorso, va però ben oltre l’incipit qui riproposto. Il cerimoniale che impera su ogni aspetto della vita nipponica viene preso, smontato e analizzato: ma la Pastore, com-

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filosofia

plice anche un matrimonio con un giapponese, non si ostina nella critica accennata all’inizio e tira dritto fino a capire cosa si celi dietro i gesti e i sospiri. Il libro, che parte dall’arrivo della protagonista in Giappone, si presenta come un incontro vissuto col Sol Levante in prima persona, giorno dopo giorno, anno dopo anno, con la curiosità e, allo stesso tempo, gli indugi di uno sguardo straniero. Articolato come un diario di viaggio, fa ricordare a chi le ha vissute le esperienze di spaesamento e sconcerto che affrontano gli occidentali d’Oriente: l’estrema cortesia, l’impenetrabilità degli sguardi e dei gesti, la sensazione di essere - come dice una canzone celebre - An englishman in New York. Il Giappone assurge dunque non più a paese esotico ma a stato dell’animo: quella che viene scambiata

per freddezza calcolata si traduce in pudore, l’educazione (quasi scomparsa dal suolo europeo) diventa un modo per esprimere gratitudine e orgoglio, e allo stesso tempo la vita in comune - i tatami del titolo, dove dormono maestri e allievi insieme - una filosofia che accompagna il saggio. La godibilità del libro della Pastore si sostanzia, di fatto, nella leggerezza della scrittura; nella suddivisione del testo in capitoli-episodi, rilevanti ma non imponenti e nella scelta dell’autrice di presentare la sua permanenza in Oriente per quello che è. Fondamentalmente, un viaggio alla scoperta di una delle civiltà più antiche del mondo con la certezza di non poter arrivare a comprenderla, completamente, mai. Ma questa consapevolezza non rallenta né interrompe in alcun modo la voglia di provare, l’istinto di andare a toccare con mano l’ignoto. Quello della Pastore è un viaggio che vale la pena conoscere. Antonietta Pastore, Leggero il passo sui tatami, Einaudi, 192 pagine, 13,50 euro

Alla ricerca della verità nel secolo breve di Giancristiano Desiderio e cose che scrive Vittorio Possenti meritano sempre attenzione giacché stimolano la riflessione e la comprensione delle umane cose. Il lettore che presta ascolto alla lettura della pagina del filosofo Possenti non resterà deluso. In particolare non lo sarà il lettore di quest’ultimo libro. Nato dalla raccolta di vari saggi pubblicati su riviste e altri testi negli ultimi dieci anni, Dentro il secolo breve si confronta con alcune grandi anime del XX secolo: Paolo VI, Maritain, La Pira, Giovanni Paolo II, Mounier. L’orizzonte della riflessione di Vittorio Possenti, come si può facilmente capire, è il

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cattolicesimo. Ma se dovessimo indicare con una sola parola e un solo «concetto» il filo comune delle riflessioni di Possenti e degli «autori» presi in esame indicheremmo «Persona» e «figlio dell’uomo» (o di Dio). Per capire perché Possenti si sofferma su questi suoi cinque autori bisogna ricordare che cosa è stato il Novecento. Lo voglio dire con le parole di Isaiah Berlin: «Il secolo più orrendo della storia». Come è possibile? Non è forse il secolo XX il tempo del grande progresso e del benessere diffuso? Non è forse il tempo del dispiegamento della Modernità? Non è forse il tempo dell’emancipazione e delle conquiste? Ma è il secolo dei lager e dei gulag in cui si è pensato e pra-

ticato l’annichilimento dell’umanità. È questo che è avvenuto nel secolo dei totalitarismi. Il pensiero cattolico e cristiano, con la Croce, si è opposto alla fine del «figlio dell’uomo». Ecco, è da qui che parte la riflessione di Vittorio Possenti. Ci sono cose in questo libro che si possono condividere e altre che non si possono condividere, ce ne sono alcune con le quali si è in accordo e altre in disaccordo. Ma questo - mi sento di dire - conta davvero poco e, tutto sommato, rimanda a una dimensione accademica del pensiero. C’è un altro aspetto di questo libro che esprime alcune verità filosofiche e civili che ci accomunano in quanto uomini, non in quanto docenti o polemisti. È

questo il cuore più vero di questo libro. Come quelle poche ma giuste pagine intitolate «La verità è Qualcuno». La nostra civiltà si fonda su un dialogo: quello tra Gesù e Pilato. «Io sono la via, la verità, la vita» dice Gesù. E Pilato, scettico, lavandosi le mani, dice: «Che cos’è la verità?». Gesù tace, non risponde. Perché, in verità, aveva già risposto e aveva detto che la verità non è una cosa, ma è l’uomo. Attenzione: non l’essenza-uomo, ma proprio l’uomo. Perché, per dirla con Hannah Arendt, «non l’Uomo, ma gli uomini abitano la terra». Vittorio Possenti, Dentro il secolo breve, Rubbettino, 152 pagine, 12,00 euro

altre letture Pubblicato nel 1947 con il titolo ebraico Netivot be-utopia il saggio Sentieri in utopia di Martin Buber (Marietti 1820, 204 pagine,18,00 euro) è un classico delle utopie del Novecento. Attraverso una rilettura della tradizione socialista, anarchica e marxista Buber propone un’alternativa radicale tra lo Stato - accentrato, burocratico, totalitario per vocazione - e la comunità dialogica decentrata e in sé sovversiva. Buber sostiene che l’utopia del domani è la tensione e la nostalgia verso ciò che è giusto. Dinanzi a un illimitato potere planetario, una sorta di Stato mondiale, viene indicato nel kibbutz, il sentiero impervio del socialismo anarchico e federalista che esplori e inventi gli infiniti modi in cui comunità autonome e autogestite possano dar luogo a una comunità di comunità. Al cospetto di certe vecchine che magari hanno perso il figlio in guerra o in incidenti stradali, il cui marito è morto di cancro mentre loro stentano con la pensione e sono afflitte da dolori atroci è lecito domandarsi: ma come possono amare così sinceramente, così serenamente, così fedelmente la volontà di Dio? A essere sicure che tutto ciò che Lui ha fatto sia buono e giusto? Perché, dice Rino Camilleri in Dio è cattolico (Lindau, 270 pagine, 18,50 euro) hanno il dono dell’umiltà e dell’osservazione, hanno lo sguardo più pulito di molte persone mediamente colte che ritengono irrazionale ogni fede e in particolar modo quella cristiana. Il libro di Camilleri è un viaggio apologetico all’interno della fede cristiana per trovare la risposta alle domande sulla fede che ognuno di noi si pone e alle quali non sai mai bene come rispondere. Al di là degli effetti pesanti della crisi in corso, è da molti anni che il reddito degli italiani non cresce più. In presenza di ostacoli antichi - vincoli e ritardi nei servizi pubblici e sociali, basso capitale sociale - e recenti (stasi della produttività), grandi fenomeni evolutivi quali la globalizzazione, la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, l’aumento progressivo della vita media e i nuovi flussi migratori dai paesi in via di sviluppo ci hanno trovato relativamente impreparati. Per porre le basi di una crescita stabile, dunque, secondo Ignazio Visco occorre Investire in conoscenza, come dice il titolo del suo saggio (Il Mulino, 140 pagine, 11,50 euro), perseguire più alti livelli d’istruzione, formazione e conoscenza, con maggiori investimenti, pubblici e privati, da incentivare puntando sulla qualità, sulla valutazione e sul riconoscimento del merito. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

AKIRA KUROSAWA “RASHOMON”, “I SETTE SAMURAI”, “VIVERE”, “DERSU UZALA”, “KAGEMUSHA”, “RAN”, “SOGNI”. SONO SONO ALCUNI DEI CAPOLAVORI DI UN MAESTRO RIMASTO, CON LA SUA OPERA, IMMUTABILE NELLA MEMORIA GLOBALE. CAPACE DI ABBATTERE I VECCHI STECCATI, CON LA SUA FILOSOFIA DEL CINEMA E DELLA VITA CONCEPITA SEMPRE IN TERMINI UNIVERSALI, HA INFLUENZATO REGISTI A TUTTE LE LATITUDINI. NEL CENTENARIO DELLA NASCITA, BREVE VIAGGIO IN UNA CARRIERA NEL SEGNO DELL’UOMO…

L’Imperatore cantastorie di Claudio Trionfera kira Kurosawa, che oggi avrebbe cent’anni (nasce il 23 marzo 1910 a Omori,Tokyo, e muore il 6 settembre 1998 a Setagaya,Tokyo), è un Maestro del cinema. È, non era. Perché i suoi film sono al presente in quanto fissati in una dimensione immutabile del tempo quale è quella del cinema. Dunque anch’egli immutabile nella memoria globale, con i suoi occhiali da sole dalle lenti impenetrabili, i suoi movimenti lenti e meditativi, la grandezza e la profondità gutturali del suo immenso modo d’essere giapponese discendente di una famiglia di samurai e appartenere a una terra piena di colori, misteri, odori, nebbie, guerrieri e fantasmi.Tanto giapponese, Kurosawa detto l’Imperatore, da passare alla storia per essere rimasto, unico tra i cineasti celebri e di caratura planetaria, a parlare soltanto la sua lingua. Neanche una virgola d’inglese o di altri idiomi. Rigorosamente, ostinatamente e fieramente aggrappato alla propria origine in dinamiche di autodifesa primordiale. Proprio come un vecchio granitico samurai. O come il nobile Washizu protagonista del Trono di sangue con l’ipnotica folle maschera di Toshiro Mifune, solo davanti a un esercito, tanto resistente da sembrare immortale sotto una pioggia di frecce, prima di cadere trafitto dall’ultimo dardo, con espressione di stupore consapevole prima che di dolore senza rimedio.

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Eppure Kurosawa, quasi a dispetto del suo integralismo linguistico e fonetico, è l’autore capace di determinare il più saldo raccordo cinematografico fra Oriente e Occidente. A partire proprio dalla sponda italiana quando, nel 1950, La Mostra di Venezia premia Rashomon con il Leone d’Oro, riconoscendogli non solo l’arte già assoluta, ma anche la distribuzione armonica di elementi diversi tra figurativismo e intenso neo-romanticismo. Quest’ultimo espressione di una tendenza che si proporrà come la più importante e durevole fra quelle apparse nel dopoguerra, una via di mezzo fra quella fortemente progressiva di autori come Yamamoto, Kamei, Shimizu, Sekigawa; e quella dichiaratamente nostalgica di altri cineasti famosi quali Ozu,Yoshimura, Gosho, Kinugasa. La linea neo-romantica riconosce in Kurosawa il suo maggiore esponente, affiancato comunque da nomi importanti come quello del rivale

anno III - numero 11 - pagina VIII

Kinoshita, dell’amico Taniguchi, perfino di un veterano del realismo «convertito» come Mizoguchi e molti altri. Che cosa sia il neo-romanticismo lo racconta Yasuzu Masumura nel suo memorabile saggio sul cinema giapponese (edito in Italia da Bianco e Nero con la traduzione di Guido Cincotti), che da sempre rappresenta un imprescindibile punto di partenza negli studi di questa cinematografia. «Il loro proposito dichiarato - scrive Masumura di quei cineasti - fu quello di rompere una volta per tutte gli schemi tradizionali entro i quali era impastoiato il cinema nazionale, quelli cioè della minuta e realistica descrizione dei piccoli avvenimenti familiari, in un’atmosfera di sentimentalismo nostalgico e spesso piagnucoloso, che pur se aveva dato talvolta risultati di altissimo livello, rischiava di segnare il passo vietandosi a nuove aperture tematiche e a nuovi conseguimenti di stile. Secondo l’opinione di que-

Necessario, se non indispensabile, darne sommariamente conto per descrivere il clima che accompagna la nascita e la crescita del suo talento cinematografico. E comprendere, soprattutto, come e quanto l’opera di questo autore si sia fatta strada abbattendo - non senza sforzo - i vecchi steccati e abbia poi influenzato tanti registi non solo nel suo paese ma anche nel resto del mondo: attraverso una filosofia del cinema e della vita concepita sempre in termini «universali», inquadratura dopo inquadratura, in una esuberanza di stile capace di coprire un largo spettro di generi senza alterare la prodigiosa e «sinfonica» sostanza filmica, sempre presente in Kurosawa, costituita dall’equilibrio tra forma e contenuto, qualità e spettacolo. Non è un caso, ad esempio, che uno dei film più celebrati della sua produzione (e dell’intera storia del cinema) sia I sette samurai: capolavoro tout-court, da molti definito «apoteosi del film d’azione».

Due espressioni apparentemente dicotomiche nella diffusa/ottusa concezione del cinema e delle arti in generale, specie nell’Italia del provincialismo culturale, secondo la quale la cosiddetta autoralità si identifica solo con l’impegno sociale, preferibilmente anche politico, con lo sguardo severo e rigoroso, pochi cedimenti alle passioni, ripudio del box office. Espressioni che, invece, nel profeta giapponese dell’arte completa, del ricorso alla letteratura uni-

Impenetrabili occhiali da sole, movimenti lenti e meditativi, tanto giapponese da parlare soltanto la sua lingua. Ma nonostante il suo integralismo linguistico, è l’autore che ha determinato il più saldo raccordo cinematografico fra Oriente e Occidente sti giovani registi, al cinema giapponese occorreva abbondanza di fantasia e d’invenzione in luogo dei consueti e tradizionali modi narrativi, virilità di accenti e robustezza d’impianti romanzeschi in luogo del pallido e melodrammatico realismo intimista, fertilità e magari sovrabbondanza di elementi spettacolari in luogo delle estenuate contemplazioni della pura forma estetica, vivida rappresentazione del brutto in luogo della sentimentale pittura della bellezza». Questo il quadro entro il quale Akira Kurosawa agisce in termini di creatività e di applicazione delle proprie idee sulla maniera di costruire l’impianto del film.

versale, dell’esplorazione dell’anima danno luogo a uno sbalorditivo, corale concerto di emozioni, quadri, tecniche di ripresa saldati in una sceneggiatura perfetta fino all’apogeo della battaglia conclusiva, pazzesca pagina di cinema del 1954. Sei anni dopo il cinema americano riproduce il film creando il mito western dei Magnifici sette con la regia di John Sturges e un manipolo d’attori del calibro diYul Brinner, Eli Wallach, Steve McQueel, Charles Bronson, James Coburn, RobertVaughn, Horst Buchholz, Brad Dexter. Dal ’43 con Sugata Sanshiro a Madadayo - il compleanno uscito postumo nel ’99, Kurosawa dirige trenta


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A sinistra, Akira Kurosawa. Sopra, il regista sul set. Sotto e in basso, alcune locandine dei suoi film e immagini delle sue opere più celebri film. Con alterne vicende produttive e conoscendo tutte le fasi di trasformazione profonda della società giapponese. Tre premi Oscar, due Leoni d’Oro e uno d’Argento aVenezia, una Palma d’Oro a Cannes, tre David di Donatello e una serie infinita di altri riconoscimenti a marcare, anno dopo anno, una carriera nel (di)segno dell’Uomo, fuori da ogni stereotipo o retorica, legata, insieme, a quei due mondi orientale e occidentale che ne costituiscono le fasi di una perenne transizione creativa tra ambienti moderni e classici, urlanti contrasti sociali, epica ed eroi del quotidiano. Motivi sempre presenti, anche prima del trionfo di Rashomon nel ’50 e della fama mondiale che ne consegue: la violenza delle immagini nella rappresentazione decadente dellaTokyo del dopoguerra assimila i tre film più importanti della prima fase, girati fra il ’48 e il ’49, L’angelo ubriaco, Il duello silenzioso e Cane randagio, ritratti contemporanei che anticipano senza contraddizioni di fondo il dodicesimo secolo di Rashomon e della sua «ricerca della verità» nelle quattro versioni di uno stesso incidente moltiplicate in un gioco di specchi che coinvolge anche lo spettatore nella diversità di giudizi, nell’approdo al «nessun giudizio» e all’amara considerazione sulla giustizia morale degli uomini.

Alla base del film ci sono due racconti dello scrittore Ryunosuke Akutagawa (ma come non pensare anche a Pirandello?), referente importante ed eccentrico che già indica quanto la letteratura costituisca per Kurosawa un imprescindibile momento di confronto. Specie, poi, con i classici. È Dostoevskij, difatti, l’autore d’appoggio successivo per la trasposizione dell’Idiota, che però non ha grande fortuna con la critica d’Occidente che ne rileva l’eccessiva frigidità pure riconoscendone notevoli pregi formali. E si arriva a Vivere, del 1952, primi passi di un decennio che resta comunque il più prolifico, sotto tutti i punti di vista, nel cinema di Kurosawa. Vivere è uno dei suoi meglio riusciti nella vicenda di un uomo che, in punto di morte, cerca di dare un senso alla propria esistenza compiendo una buona azione a beneficio delle classi meno abbienti della società. Operazione non facile, ostacolata da una burocrazia kafkiana che non esiterà, comunque, a prendersene il merito quando il protagonista sarà defunto e la gente lo vorrebbe acclamare come benefattore. Morale alta e concetto ormai rodato di verità relativa fanno di questo film uno dei capolavori non solo nella sfera individuale del regista ma anche nella storia del cinema mondiale. Due anni dopo ecco I sette samurai, cui s’è già accennato, e nel ’57 Il trono di sangue ispirato al Macbeth di Shakespeare in cifra jidaigeki, con una significativa traccia stilistica nel ricorso alle tecniche del teatro No e al campo lungo, due

accorgimenti che facilitano, per così dire, l’accesso di una estetica giapponese nel corpo della tragedia. Con risultati addirittura esaltanti. Tanti titoli in un lavoro, nel periodo, intenso e copioso, da I bassifondi adattato da L’albergo dei poveri di Gorkij a La fortezza nascosta girato con grandi mezzi e in Cinemascope per il colosso Toho prima di fondare nel 1960 la propria casa di produzione indipendente, Kurosawa Productions, realizzando col nuovo marchio I cattivi dormono in pace, un gendaigeki di sapore tutto contemporaneo sullo sfondo del travolgente sviluppo economico nel suo paese. È il primo di un quartetto di film molto importanti: La sfida del samurai, Tsubaki Sanjiuro, Anatomia di un rapimento e Barbarossa, quest’ultimo tratto da un romanzo di ShugoroYamamoto. In particolare La sfida del samurai, un jidaigeki che mette quasi alla berlina certe epiche lotte del passato e interpretato da un Toshiro Mifune grondante solennità sacrali (la recitazione gli vale il premio a Venezia), ispirerà di lì a poco Sergio Leone in Per un pugno di dollari, primo film della trilogia che consacrerà il genere universalmente noto come «western all’italiana».Barbarossa, invece, pure nella sua riconosciuta perfezione tecnica, narrativa e stilistica, oltre a segnare la fine del sodalizio conToshiro Mifune, rappresenta per Kurosawa anche l’inizio di una stagione difficile, ferita da problemi finanziari che travolgono molte case di produzione giapponesi, compresa la sua,

genza di Kurosawa riprendono il cammino interrotto con Dersu Uzala (Oscar per il miglior film straniero), Kagemusha – L’ombra del guerriero (Palma d’Oro a Cannes) e Ran (Oscar per i costumi). Capolavori di natura diversa che giocano sulle tematiche più vicine alle ispirazioni dell’autore, come quella del «doppio» e delle verità simultanee di Kagemusha attraverso il cinquecentesco condottiero Shingen Takeda; o quella di ambito tragico e riferimento shakespeariano di Ran che molti accostano a Re Lear ma che lo stesso Kurosawa, pure riconoscendovi intime complicità, vuole ricondurre a episodi reali di storia giapponese. Ma l’Assoluto, forse, l’Imperatore lo tocca con Dersu Uzala, per il quale deve ringraziare, almeno in parte, l’aiuto produttivo sovietico e due libri di memorie di Vladimir Arseniev. Il risultato è grandioso, commovente, sublime. Il Vecchio Cacciatore che vive da sempre nella taiga e ne conosce ogni segreto incontra il Capitano che si avventura col suo drappello nelle foreste.

Gerarchie rovesciate. Il piccolo uomo delle grandi pianure diventa Maestro, il Capitano è il suo discepolo. Al centro c’è la Natura grande madre del mondo nel suo confronto intollerabile con la città simbolo di una civiltà falsa e contaminante. Immagini e simboli, inquadrature leggendarie come quella, con la macchina in movimento a 180 gradi da Est a Ovest, che riprende il sole calante e la luna nascente

Così si descrisse in un’intervista nel ’93: “Sono felice di avere la possibilità di esprimermi. Provo un senso di responsabilità, verità e onestà nei confronti della mia professione... Cerco di essere franco nel trattare i nostri problemi. Non ho segreti” aprendo un lungo periodo di inattività (cinque anni): di quest’epoca la grande delusione del mancato avvio di progetti hollywoodiani, specie quello del versante giapponese della regia di Tora! Tora! Tora! di Richard Fleischer per il quale, a operazioni già avviate, viene rimpiazzato da Kinij Fukasau con la collaborazione di Toshio Masuda. Uno schiaffo, difficile da assorbire. Anche per un «Imperatore». Una crisi drammatica acuita dalla generale depressione produttiva di quegli anni che culmina, a livello personale e all’inizio dei Settanta, nel parziale fallimento di Dodes’ka-den, ancora da un romanzo di ShugoroYamamoto, ambientato tra le miserie di una bidonville della capitale, che malgrado alcuni riconoscimenti più a livello di stima che di sostanza, lo porta a tentare addirittura il suicidio. Dalla tragedia sfiorata alla resurrezione in tre mosse nell’arco di un decennio aureo (1975-1985). Il talento sterminato e l’intelli-

in uno stesso cielo con i colori che sfumano dal rosso all’azzurro, fanno di questo film un esercizio cinematografico di emozioni forse non ripetibili. Gli ultimi anni parlano di Sogni, Rapsodia d’agosto, Madadayo, altre perle di una carriera lunga mezzo secolo che si completa con toni più sommessi, dialoghi ampi, riflessioni sulla poesia e sulla musica a chiudere il cerchio dell’arte. Con la semplicità che appartiene solo ai grandi, la sua arte, il suo cinema, il suo modo di comunicare con il mondo Kurosawa li definisce così in una intervista data a Fred Marshall nel ’93: «Sono felice di avere la possibilità di esprimermi. Provo un senso di responsabilità, verità e onestà nei confronti della mia professione e ne sono cosciente. Parlo della società giapponese e cerco di essere franco nel trattare i nostri problemi. Spero che si capisca, vedendo i miei film. Sono un cantastorie. Non ho segreti».


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Un giorno in pretura

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tv

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fuori dal limbo del reality

Sopra, Angelo Izzo. Sotto, il luogo del delitto di Maria Carmela e Valentina Maiorano a Mirabello. A destra, Roberta Petrellizzo, conduttrice della trasmissione

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atte bene e affascinanti le storie criminali in televisione. Lì ci sono bravi poliziotti, scienziati che analizzano tutto e colpevoli che se ne vanno con le manette ai polsi e l’aria esterrefatta o contrita. La realtà è un’altra cosa. E allora, ogni tanto, guardiamoli in faccia questi mostri, studiamo il loro comportamento al processo, la loro gestualità. Capiremo di più, molto di più, della vita criminale. E delle persone in genere. Rai 3 con Un giorno in pretura (conduttrice la sobria Roberta Petrellizzo) sposta la nostra attenzione dalla fiction alla realtà. Drammatici sono alcuni momenti del processo, l’inquadratura della telecamera ci consente di capire com’è fatto l’uomo che delinque. O è un agitato o è un simulatore tranquillo. Generalmente è uno che si nutre di menzogne. A volte dà l’impressione di star lì più per celebrare le sue imprese ancora da protagonista, ben sapendo che è l’ultima occasione, che non per svuotarsi la coscienza in una catarsi che raramente viene dopo. Il programma di Rai 3 ci ha mostrato Angelo Izzo, obeso, sofferente di disfunzione tiroidea, con gli occhi che paiono schizzare dalle orbite, mani irrequiete, arrogante, sorridente con sarcasmo. Sì, proprio quell’Izzo che il 29 settembre 1975 ammazzò, per odio verso le donne e il loro censo, e per gioco brutale, la diciannovenne Rosaria Lopez. Delle due vittime, nella villetta del Circeo, sopravvisse quasi per miracolo Donatella Colasanti, che a quei tempi aveva diciassette anni. La trovarono in gravi condizioni nel bagagliaio di una macchina. Tre i massacratori, tra cui Angelo Izzo. E a questo punto veniamo alla stortura barbarica della procedura: nel novembre del 2004, nonostante la condanna pendente, i giudici del tribunale di sorveglianza di Palermo decidono di concedere a Izzo la semilibertà. ll criminale comincia a beneficiarne a partire dal 27 dicembre e ne approfitta presto per fare nuove vittime, Maria Carmela Linciano

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(49 anni) e Valentina Maiorano (14 anni), rispettivamente moglie e figlia di un pentito della Sacra Corona Unita (mafia pugliese) che Izzo conobbe nel carcere di Campobasso. Il 28 aprile del 2005 le due donne sono state legate e soffocate e poi sepolte nel cortile di una villetta di campagna, nella zona sannitica. Izzo è stato processato e condannato all’ergastolo (speriamo non correggibile) il 12 gennaio 2007. Spaventosa è la disinvoltura con cui Izzo racconta come chiamava madre e figlia: «puttana e puttanina». Izzo è bugiardo cronico. Dice di aver avuto rapporti a tre, mentre l’esame autoptico dimostrerà che Valentina, la ragazzina di 14 anni, era vergine. Il mostro del Circeo, ben introdotto nelle bande di spacciatori, ricattatori e manovalanza criminale, viene processato assieme a Luca Palaia che nell’anno del duplice crimine aveva solo 21 anni. Storia triste la sua: figlio di un criminale poi diventato collaboratore di giustizia, racconta di aver visto il padre una sola volta in 23 anni. Sarà lui a trasportare Carmela e Valentina in giardino e a «posizionarle» in una buca, poi ricoperta da calce e terra, a strati. Dopo, in auto, Palaia e Izzo sghignazzano. Perché quell’esecuzione? Izzo dice che gli «stavano sulle scatole» che lo «ricattavano» sapendo i suoi traffici, anche con droga e diamanti. Izzo in tribunale lancia infamie, sottintende ad avidità e sporcizie familiari. Si erige giudice. Sì, proprio lui che è orgoglioso delle sue frequentazioni delinquenziali. Sorride, ripete sempre che la verità la sa solo lui e la deve riferire solo lui. Ecco: c’è la fiction poliziesca in tv, «pulita» ed efficiente. Ma c’è anche il faccione di Izzo nella nostra vita quotidiana. C’è la sua strafottenza e, crediamo, anche la sua malattia mentale. Questa è realtà, non reality show. I giovani dovrebbero disintossicarsi dai reality e guardare le fasi di un processo vero. È un consiglio a tutte le scuole. (p.m.f.)

games

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PARIGI IN VENTISEI GIGAPIXELS

A VANCOUVER PER LA RIVINCITA

IL PRIMO RESPIRO

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impervio da ricordare, ma vale la pena tenerlo a mente: l’indirizzo www.paris-26-gigapixels.com apre le porte della capitale francese a tutti i visitatori del mondo, grazie a una monumentale opera fotografica che permette di percorrerla in lungo e in largo. Un comodo sistema di navigazione consente infatti di fruire dell’ineguagliabile panorama della città tramite un’ope-

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uanti non possono fare a meno di associare a Vancouver un insopprimibile senso di amarezza, misto a improvviso gelo, avranno modo di confortarsi (e tutto il tempo di fare meglio dei nostri azzurri), grazie alla versione ludica delle Olimpiadi invernali appena chiuse in Canada. Disponibile per playstation 3, Vancouver 2010 consente di scegliere da un ricco carnet: discesa li-

ercavo un avvenimento che fosse lo stesso in tutto il pianeta e che ci ricordasse il nostro posto nell’universo. L’eclisse solare è un simbolo. Alcune la vivono in diretta, altre guardano la luna ricoprire il sole alla tv. Ma la luna è anche il simbolo del femminile, è legata al suo universo, ai suoi cicli». Gilles De Maistre presenta così Il primo respiro, pregevole docu-fiction

Più di duemila scatti e grande nitidezza dei dettagli: un tour virtuale nella Ville Lumière

Le Olimpiadi invernali canadesi rivivono nelle appassionanti sfide proposte da playstation 3

Gilles De Maistre racconta la maternità di nove donne in un toccante docu-fiction

razione senza precedenti: 2.346 scatti ad altissima qualità, uniti insieme per un totale di ventisei gigapixels. Numeri assai rilevanti, che tradotti in esperienza visiva significano zoom straordinari e altissima nitidezza dei dettagli.Visualizzabile anche nella modalità a schermo intero, Parigi svetta in tutta la sua bellezza, grazie a comodi indici che conducono ai luoghi di maggiore interesse, e prospetti informativi che ne raccontano origni e sviluppi: dalla Torre Eiffel al Sacro Cuore, passando per il Grand Palais e il Musée du Louvre. Da un’idea del fotografo Arnaud Frich, un progetto che merita epigoni. E soprattutto, una visita.

bera, super G, slalom gigante, slalom speciale, salto dal trampolino, snowboard, pattinaggio, bob, slittino e skeleton. Al giocatore la scelta di sottoporsi a un duro training preparatorio, di gareggiare per i colori della Nazionale, o di misurarsi con amici e rivali occasionali in appassionanti disfide multiplayer e online. (Il tutto a ritmo di rock’n’roll). Di impianto realistico, e di non facile esecuzione, le diverse discipline richiedono fondamentali specifici e tanta pazienza: pena ritrovarsi in pista e sfoggiare esibizioni dagli esiti imbarazzanti.

che intreccia il racconto di nove donne provenienti dai cinque continenti, alle prese con la maternità. Affidata nell’edizione italiana a Isabella Ferrari, la narrazione segue vicende come quella di Pilar, messicana che partorisce tra i canti dei delfini, e di una giovane siberiana, costretta a portare a termine la gravidanza in un clima che sfiora i cinquanta gradi sotto zero. E una donna africana, che dà vita al suo pargolo sulla nuda sabbia, e una giapponese, che secondo tradizione concepisce di fronte alla figlia più piccola. Un interessante squarcio antropologico, che al di là delle differenze culturali, restituisce un’amorevolezza identica a ogni latitudine del globo.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema un anno che si aspetta di vedere Un profeta, il noir carcerario francese che ha vinto il premio per la regia a Cannes, e un vagone di César (gli Oscar francesi). Un film che arriva con troppa fanfara rischia di deludere; non questo. Jacques Audiard si dedica da sempre al noir cerebrale, degno erede di maestri come Jean Pierre Melville e Henri Georges-Clouzot. (Il penultimo, stupendo, Tutti i battiti del mio cuore è un remake di un film di James Toback). Un profeta si svolge per intero dentro un carcere, salvo qualche esterno durante le uscite-premio del protagonista. Malik el Jebena (Tahar Rahim, una rivelazione) è un diciannovenne francese d’origine araba, condannato a sei anni per l’aggressione a un poliziotto. Di lui sappiamo solo che ha fatto anni in riformatorio ed entra per la prima volta in un penitenziario vero. È uno dei tanti ragazzi di strada sbandati e soli, senza famiglia, appoggi o istruzione: un quasi adulto analfabeta. Il titolo prefigura un percorso eroicomistico. Malik, un anonimo delinquente predestinato, vede cose che gli altri non vedono. Trasforma gli anni di reclusione in un’università della vita criminale, la sola che gli è concessa dalla sorte. Per lui la prigione diventa un luogo «di recupero», ma non proprio quello auspicato dagli esperti. Impara a leggere, a scrivere e a parlare il dialetto corso, per meglio destreggiarsi nella banda dominante del carcere, e non soccombere. César Luciani è lo stupefacente, autorevole Niels Arestrup, e si capisce che il ragazzo scelga (si fa per dire) di arruolarsi con lui, che domina il sistema, piuttosto che con il più debole giro arabo. La gavetta di Malik con i corsi inizia con l’ordine di avvicinarsi a un arabo generoso e gentile, che regala consigli e cose utili al detenuto più giovane, e lo incoraggia a istruirsi. L’ordine di César è di entrare in confidenza con lui per poi ucciderlo, oppure essere ucciso per disubbidienza. I valori tecnici e produttivi del film sono superbi, inclusa la fotografia che sfiora il manierismo senza centrarlo. Il film aggiunge spessore e uno sguardo fresco, originale e profondo al film carcerario. Due ore e mezzo passano veloci, una durata che pochi film, specie se di genere, possono sostenere - vedi Shutter Island, un noir psicologico che alla fine stanca, perché esagera e non ha posta in gioco. Scorsese fa una confezione tutta virtuosismi e citazioni ma il francese ha qualcosa d’urgente da raccontare: una trasformazione. Audiard autore non si scervella a inventare chissà quale novità: prende un genere e lo reinventa. Ha preso gli stilemi del thriller noir carcerario e ne ha fatto un’opera di cinema puro in cui una vita dannata invece di precipitare, prende il volo. Da non perdere.

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Nancy Meyers è un’abile autrice di film-confezione per un target assai trascurato: donne adulte. Non ha una firma visiva ma porta una sensibilità politica light (nata nel 1949, ha vissuto il risorgimento femminista degli anni Sessanta-Settanta) a un genere forse inventato da lei: la commedia fantaromantica per ex ragazze. In È complicato, Jane (Meryl Streep) è divorziata da dieci anni, sessantenne, tre figli grandi, una fiorente impresa pasticciera. È corteggiata con passione sia dall’ex

Il riscatto di Malik

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e una favola per vecchie ragazze di Anselma Dell’Olio

“Un profeta” di Jacques Audiard ha gli stilemi del thriller noir carcerario, ma sa trasformarsi in un’opera di cinema puro, in cui una vita dannata prende il volo. “È complicato” di Nancy Meyers è una spassosa rom-com dedicata alle over-quaranta marito Jake (Alec Baldwin), sia da un affascinante architetto brizzolato (Steve Martin) che ristruttura la sua cucina. Durante una trasferta a New York per festeggiare il diploma del figlio, finisce a letto con l’ex marito e si riattizza l’antica fiamma. La giovane, tonica seconda moglie Agness (Lake Bell) af-

fligge Jake con Pedro, un moccioso nato da una scappatella, e l’ossessione di farne un altro con lui, il legittimo marito, costi quel che costi: cliniche della fertilità, conta degli spermatozoi, termometro sempre in bocca, uscite annullate in favore dell’alcova al grido «Sono fertile!». La prima moglie, cura-

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ta e attraente, rassicurante e autonoma, è il porto sicuro e pure sexy che ha fatto male a lasciare.Tiè. Altro che Sex and the City. Meyers costruisce da sempre mondi paralleli, dove le donne «si realizzano» con avventure iperboliche e trovano Uno talmente Giusto che le amiche crepano d’invidia. In Soldato Giulia agli ordini Goldie Hawn è una ragazza ricca e viziata che rimane vedova la prima notte di nozze. D’impulso si arruola nell’esercito, impara a stare al mondo, e trova un latin lover da sballo. In Baby Boom (1987) Diane Keaton, una turbo carrierista che eredita la bimba orfana di un lontano parente, impara a essere una mammaimprenditrice e sposa un veterinario di campagna. Meyers sfonda anche come regista con Quello che le donne vogliono. Mel Gibson è un maschilista che dopo un incidente scopre di sentire i pensieri delle donne, tra cui quelli di un’odiata collega (Helen Hunt) che gli ha scippato una promozione. Il reprobo impara a essere «equo e solidale» e fa la pace e l’amore con l’ex rivale. Il trionfo di Tutto può succedere (2003) ha fatto di Meyers una potenza a Hollywood, grazie anche a Jack Nicholson, anziano discografico infartuato a casa di Diane Keaton, la mamma scrittrice della sua giovane fidanzata, che fugge inorridita; solo, è costretto alla convalescenza con l’ormai ex suocera putativa. Keanu Reeves, il fighissimo cardiologo trentenne che ha in cura il satiro, non s’incapriccia della Keaton ultra cinquantenne (Cougar ante-litteram) scatenando la gelosia del suo paziente e ora rivale in amore? È complicato è spiritoso ma meno riuscito (l’ispirazione non ha retto nel finale); non è sfuggito che Meyers ha fatto della sua eroina una Mamma Ideale che seduce con i dolci ed è «salvata» dalla sindrome del «nido vuoto» dalla corte di due maschi. I film di Meyers sono una libidine per le over-quaranta e fanno soldi a palate.Tutti hanno voglia di vedersi rappresentati sullo schermo, adoratori d’esplosioni, bambini, studenti, adolescenti arrapati, tutti. La voglia di identificarsi con quello che si sta guardando è diffusa (la parola della domenica è scopofilia) e la donna non-schianto è una categoria sottorappresentata al cinema; quei pochi film che le celebrano (Il diario di Bridget Jones, Julie & Julia, eccetera) sono definiti con spregio chick flicks.

Gli Oscar a Kathryn Bigelow per Hurt Locker hanno reso felici le donne con il cervello non tarlato dall’ideologia. Hanno indispettito solo paleo femministe pacifiste imbalsamate nella «politica della differenza»; respingono un’artista che osa occuparsi di violenza maschile (senza giudicarla) e non di «questioni femminili». Sam Peckinpah è il suo modello di riferimento, non George Cukor; forse ci voleva proprio una regista affascinata dagli eroi di guerra (i disinnescatori di bombe) perché fosse premiata da un establishment di vecchi ragazzi. Il film d’azione è rassicurante: la virilità non è in discussione. Verrà un giorno una regista rom-com all’altezza della Bigelow, una Jane Campion comica, per esempio. Ma senza rinunciare alle Meyers e alle Nora Ephron e alle loro spassose, fantastiche favole per vecchie ragazze. Cosa vogliono le donne? Tutto, ecco cosa vogliono.


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poesia

John Keats cronista dell’estasi di Filippo La Porta iamo in grado di capire, di sentire i versi di chi è il più puro tra i poeti romantici (accanto a Hoelderlin)? La sognante contemplazione dell’urna greca, trovata al British Museum, ci appare qualcosa di remoto, di estetizzante, di alieno. Il grande critico americano Lionel Trilling ha osservato che ai moderni è precluso l’accesso a quella visione eroico-tragica. Ma vorrei almeno in parte contestare questa patente di inattualità e inaccessibilità. E per farlo mi servirò sia dello stesso Trilling e sia di una biografia saggistico-narrativa del poeta scritta da Elido Fazi, Bright star. La vita autentica di John Keats.

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ODE SOPRA UN’URNA GRECA Tu della quiete ancora inviolata sposa, alunna del silenzio e del tempo tardivo, narratrice silvestre che un racconto fiorito puoi così più che la nostra rima dolcemente dire, quale leggenda adorna d’aeree fronde si posa intorno alla tua forma? Di deità, di mortali o pur d’entrambi, in Tempe o nelle valli d’Arcadia? Quali uomini son questi o quali dei, quali ritrose vergini, qual folle inseguimento, qual paura, quali zampogne e timpani, quale selvaggia estasi? Dolci le udite melodie: più dolci le non udite. Dunque voi seguite, tenere cornamuse, il vostro canto, non al facile senso, ma, più cari, silenziosi concenti date all'intimo cuore. Giovine bello, alla fresca ombra mai può il tuo canto languire, né a quei rami venir meno la fronda. Audace amante e vittorioso, mai mai tu potrai baciare, pur prossimo alla meta, e tuttavia non darti affanno: ella non può sfiorire e, pur mai pago, quella per sempre tu amerai, bella per sempre. (…) O pura attica forma! Leggiadro atteggiamento, cui d’uomini e fanciulle e rami ed erbe calpestate intorno fregio di marmo chiude, invano invano il pensier nostro ardendo fino a te si consuma, pari all’eternità, fredda, silente, imperturbabile effige. Quando, dal tempo devastata e vinta, questa or viva progenie anche cadrà, fra diverso dolore, amica all'uomo, rimarrai tu sola, «Bellezza è Verità» dicendo ancora: «Verità è Bellezza». Questo a voi, sopra la terra, di sapere è dato: questo, non altro, a voi, sopra la terra, è bastante sapere. John Keats

Anzitutto vorrei dire che siamo tutt’oggi imbevuti di cultura romantica, nonostante, o forse proprio a causa dello sviluppo della tecnologia e della razionalità scientifica. La nostra intera cultura non solo parla continuamente ed enfaticamente di «emozioni» ma si basa su alcuni paradigmi, non esplicitati, su alcune gerarchie di valore introiettate, che appartengono al movimento romantico. In estrema sintesi: primato della notte sul giorno, dell’inconscio sul conscio, della trasgressione sulla norma, della follia sulla sanità, dell’esperienza estrema sulla prosaica quotidianità, infine dell’immaginazione sulla realtà. Dunque la nostra cultura sembrerebbe ben attrezzata ad accogliere e assaporare Keats, specie quei versi famosi: «dolci le udite melodie, più dolci le non udite…». Ciò che si presenta come vago, tremulo, irrealizzato sembra prevalere su quanto invece si è concretamente realizzato (e proprio perciò è esposto al divenire e al disfacimento). Eppure Keats, figura archetipica del poeta romantico, contiene anche i necessari anticorpi nei confronti della deriva «irrazionalistica» e ipersoggettiva di quel movimento, e delle sue insidiose retoriche. Devoto a Shakespeare dichiara di non amare le effusioni e di essere, in quanto poeta, «senza identità», pronto a entrare metamorficamente in ogni corpo e in ogni oggetto terrestre. Il libro prima citato di Fazi ci introduce, direi pudicamente e affettivamente, nella vita di Keats, nelle sue vicende pubbliche e private, in quelle sentimentali e in quelle materiali. Così vediamo il poeta in moltepici momenti e situazioni: legge a letto Milton e Dante, va in birreria con l’amico (anche se predilige il vino!) ed è attratto dalle prostitute, ha in odio gli «intellettuali saccenti», assiste distrattamente a una funzione religiosa, gioca a cricket, non sopporta i preti poiché mentono continuamente, gli piace l’allegria delle cameriere irlandesi, si strugge d’amore per la bella Fanny (algida e fatale), si deprime per le stroncature e si esalta per le recensioni positive, e soprattutto ama la natura, i prati verdi, il paesaggio della campagna inglese davanti al mare… Bene fa Elido Fazi a sottolineare l’importanza nella biografia interiore di Keats di quella «visione» che ebbe il 13 agosto del 1916 su una collina nel Kent. La percezione estatica della «luce d’argento» della luna è l’incontro con la bellezza e un ana-

logo dell’esperienza mistica. Da qui si origina l’intera sua opera, che diventa quasi la cronaca in versi di un’estasi. Decide infatti che «sarebbe vissuto per narrare quegli istanti, uno dopo l’altro». Ma il merito di Bright star (dal titolo di un sonetto d’amore a Fanny) consiste nel sottolineare il valore della eticità nell’ispirazione di Keats. All’inizio accennavo a degli anticorpi. Il poeta, considerato il padre di decadenti e preraffaelliti (che adorarono la sua Belle dame sans mercì), è tutt’altro che un esteta! In questo senso mi pare illuminante l’episodio rievocato da Fazi, quando Shelley in una cena, a proposito del suicidio di Harriet, sua prima moglie (di origini umili) e sua sventurata discepola poi abbandonata, si mette a recitare come in un palcoscenico e trova parole di indignazione solo per i genitori di lei che vogliono sottrargli i figli. Bene, «a Keats non era piaciuto quell’atteggiamento autogiustificatorio: non lo aveva sentito pronunciare nemmeno una parola di pietà nei riguardi della povera Harriet». Keats, che proviene da una famiglia di stallieri, aveva studiato medicina e varie volte pensa di imbarcarsi sulle navi per l’India come medico. In un’altra occasione poi medita di lasciare la poesia e di dedicarsi al giornalismo, a scrivere articoli in difesa degli umiliati e offesi, un po’ come certi suoi maestri, liberi pensatori scettici e radicali (tra tutti Hazlitt). Non intendo sminuire la purezza lirica dell’opera di Keats, la musica rapinosa dei suoi sonetti (su queste pagine Roberto Mussapi ha commentato lo stupendo sonetto dedicato al «sonno», capace di lenire il dolore fisico del poeta e di portarlo ogni notte in paradiso…). Ma proprio il suo ideale di bellezza, inseparabile dalla verità, lo mette al riparo sia da nostalgie decorative classicheggianti e sia da certi esiti del più estenuato decadentismo.

Vorrei concludere con un accostamento spero non del tutto illegittimo. All’inizio ho citato Trilling, che ha osservato come Keats sia «l’ultima immagine di salute nel momento culminante in cui la malattia dell’Europa comincia ad apparire». E poi ha voluto insistere sulla assoluta centralità antiascetica e antiborghese del piacere nella sua opera (mentre dopo di lui la poesia moderna apparirà più volentieri luttuosa, disperata, lacerata…). Piacere come resistenza ai ruoli e doveri sociali, alla logica del potere, perfino alla cultura e alle sue ambigue sublimazioni. Il critico americano, di idee radicali, scrive negli anni Sessanta, e dunque guarda intorno a sé i primi segnali della rivolta di Berkeley e di una nuova sensibilità, utopico-sovversiva. Non so se il ’68 è stato davvero, come qualcuno ha osservato, l’ultimo sussulto del romanticismo, però in quella festa di Pan scolpita per sempre nel bassorilievo dell’urna funeraria al British, in quella «selvaggia estasi», in quelle zampogne e timpani, potremmo anche scorgere un corteo gioioso di studenti e giovani deraciné come Keats, anche loro innamorati della bellezza e della verità.


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il club di calliope torno ad immergermi nel corpo azzurro e buono di una domenica mattina, con i miei muchi e umori affraternati a quelli di altri senza capelli e occhi, muti come me in un qualsiasi giorno di lavoro spinta per corridoi con altre ombre incontro, accanto. Ma in questo chiaro di saliva, cloro e seme, abbandonata ognuno la sua scorza, entriamo estranei per respirare insieme e compiere quel gesto che ci porta bambini con un segno d'acqua in chiesa. Franca Mancinelli

VOCI LIBERE, FUORI DAL CORO TOTALITARIO

UN POPOLO DI POETI Rovisto ancora tra le tessere della nostra profezia e questa storia è già plurale. Annunciazione o verdetto declina alto il nome nuovo senza il mio. Sfoglia sempre con un dito le pagine dei libri, lascia stare l'inchiostro, odora l'anemone. Trattieni nelle narici lo stelo.

in libreria

Vangelo Pasquale Vitagliano

di Nicola Vacca vent’anni dalla caduta del Muro, l’eredità culturale della Repubblica democratica tedesca trova nella poesia un interessante strumento d’indagine. 100 poeti dalla Ddr (a cura di Christoph Buchwald e Klaus Wagenbach, Isbn edizioni, 196 pagine, 19,00 euro) è un’antologia che ci porta a spasso attraverso quarant’anni di storia tedesca. Oltre il Muro c’era la repressione, mancava la libertà, ma si scrivevano poesie. Erano molti i poeti che raccontavano in versi i sogni spezzati dall’arrivo del comunismo e il desiderio di libertà. Accanto ai poeti di partito, asserviti alla propaganda, c’erano numerosi intellettuali che usano la poesia con un’arma dialettica per lottare contro gli oppressori. La loro poesia ha rappre-

A

Andrea Tarquini nell’introduzione scrive che nella Ddr poesia e letteratura erano e restarono a lungo una nicchia di libertà che il regime lasciò agli intellettuali per narcotizzarli nella scelta strategica di tentare di impedire a ogni costo una saldatura tra i loro pensieri e il malcontento della classe operaia e di altri vasti strati della popolazione. Questo in parte corrisponde al vero. Ma dalla lettura dei poeti presenti nell’antologia emerge una cosa più importante. Nella Ddr c’erano intellettuali che decisero di schierarsi dal primo momento con i comunisti e altri che scelsero l’opposizione. Reiner Kunze è uno di questi. La sua avversione al regime gli costò l’espulsione dall’Associazione degli scrittori della Ddr. Il muro è una poesia bellissima che

Raccolti in antologia cento poeti della Ddr che raccontano in versi il desiderio di libertà. Ma c’è anche chi si schierava col regime. Una testimonianza su quarant’anni di storia sentato lo stato d’animo di un paese che viveva nella separazione una tragedia, che finì inevitabilmente per coinvolgere l’Europa. Sono queste le voci più interessanti presenti in quest’antologia. Non è vero, come si legge nell’introduzione, che in questo libro non ci è dato sapere quali fossero le poesie vietate né quali fossero i poeti dichiaratamente di partito. Da un’attenta lettura si riconoscono immediatamente le voci della dissidenza che si opposero alla repressione brutale e che con i loro versi chiedevano libertà, democrazia e apertura all’Occidente. Tra questi spicca Peter Huchel, nato vicino a Berlino. Dopo essere stato direttore artistico e caporedattore della rivista Sinn end Form, nel 1971 espatriò dalla Ddr. I suoi versi hanno una forza espressiva dirompente e si schierano dalla parte della dignità dell’uomo. «…Il vuoto si fa storia/ La scrivono le termiti/ Con le mascelle/ Nella sabbia/ E non la studierà nessuno/ Una razza,/ Zelantemente dedita/ Ad annientarsi».

più di qualsiasi altra esprime lo sgomento e il terrore di quegli anni vissuti da chi risiedeva nella Germania orientale. Vale la pena leggerla: «Quando l’abbiamo abbattuto, non sapevamo/ quanto era alto dentro di noi/ C’eravamo abituati a quell’orizzonte/ E all’assenza di vento/ Alla sua ombra nessuno faceva ombra/ Ora siamo qui/ senza più scuse». Alla caduta del Muro hanno contribuito, e non poco, i poeti liberi e non asserviti che si possono leggere in questo libro. Sulle sue rovine la loro poesia si leva verso il cielo per diventare patrimonio culturale della Germania unita. «Quante scosse può tollerare l’uomo» scrive Heinz Kahlau mentre assiste alla delimitazione dei confini della sua città. Leggere oggi questi versi ci può aiutare a capire come i berlinesi hanno vissuto la tragedia di quella mattina del 1961 quando il Muro dell’oppressione si prese la loro libertà. Da lì a poco sarebbero piombati nel bel mezzo di un incubo totalitario.

Dice che non c'è addio nelle asole e asola allora sia: poca materia intorno e vuoto. Sia passaggio e allaccio sia lo spazio dell'abbraccio e del ritorno sia pertugio e rifugio sia il chiuso esposto alla parola. Lucianna Argentino

Ho fatto a coltellate con i sògni e adèsso nelle òre finèstre cièche e galle. Cirròtiche le idee civettano sul cosa, ma dalla tòrre di babèle della ménte le soluzioni camminano a ritròso. Pièno d'identità è il libro della vita. Ne sbatterei i tappeti che odorano di chiuso per il mantèllo a ruòta di un brìvido di giòia. Vorrei colpirlo alla radice questo black-out di sènsi, avere più di un débito da regolare, abbandonare il ring delle false apparènze. Un brìvido di giòia Monia Gaita «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

Di tutto di più al Tefaf delle meraviglie

urioso destino. Avrei voluto emarciparmi dalla consueta narrazione delle recensioni abituali, in cui bisogna strutturare e pilotare un racconto critico imbrigliato, avrei preferito abbandonarmi piuttosto a un flusso di memoria cinematografica, école du regard, tipo l’Arca di Solokov, senza uno scheletro logico. Solo un continuum visivo di «cose viste», una sorta di elenco della navi dell’Iliade (pur senza essere Omero) in omaggio ironico all’ultimo saggio di Eco, sul fascino-ossessione dell’elenco. Ovviamente in quel posto magnifico, incomparabile, che è la fiera Tefaf di Maastrich, la mostra più bella che si possa immaginare, il museo momentaneo più ricco al mondo, dal momento che passi come in trance dall’Alfa Romeo guidata da Enzo Ferrari (che teneva già scuderia, ma con cavallino ancora giallo) a pittori manieristi quali Pontormo e Rosso Fiorentino, da poppute veneri cicladiche a monete di Carlo V, da supremi cammelli di tradizione cinese e sipari giapponesi a un pianofortejazz, tutto vetro e acciaio, di designer danese anni Trenta. Da un codice miniato a forma di fiore mistico, a un volume berlinese 1905 di disegni e progetti, molto Secessione, di Wright, ma ci sono in mostra anche le poltrone del figlio designer e un curiosissimo doppio trompe l’oeil d’un pittore «boloniense», figlio come dichiara di Antonio Crespi Benen, dunque con ascendenze spagnole, che si chiama Giuseppe, ma non è probabilmente il Giuseppe Maria, pur detto lo Spagnolo, ben più conosciuto, gran maestro d’una vanitas in cui, sotto il falso rilievo d’un arco da viola da gamba, s’inseguono delle stampine di Bertoldo e Cacasenno (dunque Bologna torna) e delle piccole thorà ebraiche. Sì, volevo proprio partire così e non finire più, magari insufflando a un folle-saggio di piantare tutto, prendersi un aereo lowcoast all’ultimo istante e non perdersi un paradiso simile, ma ho appena scoperto che il fido taccuino, su cui avevo annotato tutto, non si fa trovare più e dunque non ho più il bastone della memoria, per partirmene in quarta. Dunque torna il rischio di dover fare della sociologia, di farci prendere in trappola con le so-

C

di Marco Vallora lite domande: «è tornato il bel tempo nel mercato serio dell’arte (e qui è davvero serissimo)?»; «i ricconi che comprano, ci sono sempre?»; «che cosa tira di più?». Per carità, non cadiamo in queste trappole: intanto dal viso dei venditori, non trapela mai qualcosa d’inequivocabile, semmai qualcosa di molto più vero lo capiscicarpisci di più da certi lacerti di confidenza, quando infilzi anche involontariamente certi dialoghi da cellulare, non intercettati davvero, ma corali, soprattutto se si tratta di ugole italiane. Sì, certo, certe linee di tendenza, vagamente, potremmo anche individuarle: per esempio quel tentativo, molto francese, di rivalutare mercantilmente una generazione

arti

di pittura anni Cinquanta, post-école de Paris e informale, tramata di Estève, di Bissier, di Mathieu e di magnifici teleri di Pierre Soulàges, ancora attivissimo a oltre novant’anni, mentre di/da noi non si vede mai né un Morlotti, a pagarlo, né un Chighine, un Ruggeri o che so, un Santomaso. Nulla, solo la prevedibile liturgia consolidata: Morandi, Fontana, Marino, Manzoni, quest’anno a quanto pare nessun Burri, poco Melotti. Così, mentre pare un po’ in calo la pur prolifica Bourgeois (però c’è uno stand tutto per lei) molto sale la febbre per Cornell, e persino delle sue preziose techine, usate, disinvoltamente, come vassoi. Continua la curiosa campagna promozionale per l’uruguaiano Torres Garcia, vicino al gruppo della Section d’or, in cui c’è anche il fratello di Duchamp, Jacques Villon, ma quest’anno buona vendemmia anche per Vieira da Silva. Ma non potremmo certo citare tutti, i nomi, per esempio della pittura, o della scultura o anche dell’architettura (magnifiche quelle leggendarie poltroncine a zig zag di Rietveld, umile legno usurato, da isba) dal momento che ci sono tutti ma proprio tutti (diciamo non Caravaggio, ma una marea di magnifici caravaggeschi, non Vermer e non Velazques, è ovvio, ma Rembrandt, Goya, Rubens, Cézanne sì, e poi molteplici edizioni, per esempio, del raro trattato sulla prospettiva di Duerer, un magnifico Altdorfer, no, Mabuse no, ma molti autorevoli fiamminghi, e poi nazareni, preraffaelliti, simbolisti, impressionisti (Degas con magnifici pastelli o le sue sculture, che riprendono Rodin, pluriomaggiato pure lui. E invece un Monet molto giovane, pre-impressionista, celebre già da ragazzino, per le sue caricature testa-grossa alla Nadar). Ma lo spazio non basta… Un’ultima curiosità: è presente persino una finta-bicchierna del falsario Joni, con un linguaggio, tradotto a pastiglia, un po’ alla Totò. Ove si dice che l’opera è stata «rifatta» da un certo Giovanni di Paolo, senese, «hoperaio della cattedrale». Tutto, tutto: dalle tavolozze sporche di Picasso, alle celebri paperolles di Proust. Con cui lui costellava le prove di stampa sempre rimandate, piovra diventata oggi un’opera d’arte, alla Schwitters.

autostorie

Identikit del manager che ha rilanciato la Fiat di Paolo Malagodi ndicato da un panel di giornalisti quale uomo dell’anno per il mercato mondiale dell’auto, Sergio Marchionne ha coronato nel 2009 un ambizioso progetto. Quello di dare al gruppo Fiat, del quale è amministratore delegato da metà del 2004, una dimensione da player globale, grazie al controllo della statunitense Chrysler. Al termine di un’operazione di spregiudicata fantasia finanziaria che, senza l’esborso di un quattrino, punta al salvataggio di un’azienda ormai destinata al fallimento e grazie al travaso, da Torino a Detroit, di tecnologie capaci di rinverdire i fasti della consociata americana. Con motori e pianali di più contenute dimensioni, rispettosi di un nuovo corso commerciale universalmente orientato al downsizing, oltreché dei ridotti consumi di carburante

I

richiesti dai programmi federali per i prossimi anni. Del tutto ovvio che, in tale contesto, i riflettori dei media siano sempre più puntati su un manager che preferisce il maglione scuro all’abbigliamento formale e che, nato a Chieti nel 1952, ha assunto anche la cittadinanza canadese. Dopo essersi trasferito, all’età di quattordici anni, insieme al padre, nel paese nordamericano e con una prima laurea in filosofia, seguita dalla seconda in legge e da un master in economia. Per occuparsi di consulenza e revisione contabile, in un percorso che lo porterà nel 1994 in Svizzera, per assumere dal 2002 la guida della Sgs di Ginevra, leader mondiale nei servizi di certificazione. Società alla quale partecipa anche Ifil, la finanziaria presieduta da Umberto Agnelli che nel 2003 include Marchionne nel consiglio di am-

ministrazione della Fiat. Succede così che alla morte di Umberto Agnelli, da poco subentrato al fratello Gianni come presidente del Lingotto, a fine maggio del 2004 il manager italo-canadese-svizzero divenga amministratore delegato del gruppo torinese. Spiegando, in una prima intervista al quotidiano La Stampa: «Ho avuto una formazione anglosassone, ma mi sento italiano sino in fondo». Inizia così il difficile risanamento di un’azienda, sulle cui condizioni Marchionne non ha esitato a dichiarare: «Quando entrai la prima volta al Lingotto sentivo puzza di morte. Morte industriale, intendo dire. Quando ho mostrato gli obiettivi triennali la gente pensava che fossi matto». Come riporta, tra molti altri episodi e aneddoti, un agile volume (Marchionne, la Fiat e gli altri, edizioni Il Sole-24 Ore, 250 pagine, 19,00 euro) scritto da Riccardo e

Maria Ludovica Varvelli, esperti di problemi aziendali che hanno anche insegnato cultura di impresa all’Isvor, l’istituto per lo sviluppo organizzativo della Fiat. Un libro di scorrevole esposizione che parte dall’analizzare la rapidità decisionale con la quale è stata completata l’operazione Chrysler, con l’appoggio del presidente Obama convinto che «Chrysler non può restare in piedi da sola - come dichiarava il 30 marzo 2009 - e ha trovato il partner nell’azienda internazionale Fiat, il cui attuale team manager ha realizzato un impressionante rilancio». A ritroso vengono poi ripresi altri episodi, come la vicenda del put con General Motors, mettendo Marchionne anche a confronto con i grandi numeri uno del Lingotto, da Vittorio Valletta a Gianni Agnelli, o dell’auto mondiale come Alfred Sloan di General Motors e Lee Jacocca di Chrysler.


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moda

20 marzo 2010 • pagina 23

Tulle, pizzi, balze e volant... Tutti pazzi per Alice di Roselina Salemi

lice è tornata, 145 anni e non li dimostra, forse perché non è più la stessa, rivista e corretta da Tim Burton e Colleen Atwood, la costumista più corteggiata del momento. Forse perché la bambina stupita, passata da un’avventura all’altra nel mitico Paese delle Meraviglie, oggi è una ragazza ribelle, vagamente gotica, avventurosa e non troppo spaventata. Come sono le donne oggi. E siamo sicuri di non avere incontrato anche noi qualche volta, acide Regine di Cuori e pazzerelloni genere Cappellaio Matto? Per un curioso cortocircuito modaiolo, Colleen Atwood ha saccheggiato i creativi più di tendenza, da Riccardo Tisci (Givenchy), ai coccolatissimi Christopher Kane e Louise Goldin, e si è ritrovata sulle passerelle un’Alice, da lei ispirata, che sarà tra i temi dominanti anche nel prossimo autunno-inverno. Poi, se smette di nevicare, tra poco arriverà la primavera, stagione perfetta per Alice. Certo, non si può andare in giro con gonne e sottogonne di tulle, nastri e cinture ricavate dai cordoni delle tende, ma con le dovute correzioni, c’è un’Alice per tutti, dalla versione teenager (collani-

A

teatro

ne, ciondoli, fiocchi, cuori ), a quella chic con abitini a balze, volant e ricami, o follemente british. Alla London Fashion Week,Vivienne Westwood ha fatto sfilare abiti a strati e una modella con tanto di corona sulla testa… A parte il merchandising legato al film di Tim Burton, che prevede due linee di gioielli firmate Tom Binns per Disney (una a prezzi decisamente alti, l’altra, low cost, da 70 a 350 euro), la collana e il braccialetto di Stella McCartney con perle antracite o bianche, charms a forma di cuori, picche, coniglietti, cappelli, e i quattro smalti per unghie limited edition della Opi (celeste, rosso fuoco, rosso bordeaux e glitterato), negli accessori del filone adolescenziale c’è davvero di tutto. La serie Acid Alice di Tarina Tarantino (orecchini, brac-

ciali, folli accessori per capelli), i cerchietti con il fiocco di Accessorize, la borsa bianca Fixdesign dedicata alla Regina di Cuori, le scarpe in tessuto rosa con le rondini stampate di Miu-Miu, la pochette di Furla con il Bianconiglio come chiusura, il portafoglio di plastica con i cuoricini di Marc by Marc Jacobs.Volendo, c’è anche uno stile più adulto: la collezione di Donatella Versace, con stampe di orologi e carte da gioco, i tulle e i pizzi di Colette Dinningan, gli abitini in pelle nera con ricami di giardini fioriti, croci, costellazioni di Cristopher Kane (visti addosso a Carey Mullingan, elegante star di An education), le gonnette dall’orlo arrotondato di Louise Goldin, il romanticismo ironico e fiabesco di Marras, i sandali e le clutch tintinnanti di cristalli di Miuccia Prada, i bijoux Svarowski con pendenti a forma di coniglio, cuore, tazza da tè, chiave magica o fiore animato, gli strabilianti, surreali gioielli di Delfina Delettrez o gli occhiali rossi a farfalla di Moschino. Non da portare tutti insieme, ovvio. Quanto basta per attraversare lo specchio e cercare l’Altrove. In tempi di crisi non c’è niente di meglio che immaginare un mondo parallelo, stupefacente, per quanto complicato, dove festeggiare, ogni giorno, il nostro «non compleanno».

Cuore a cuore con Vesna, senza effetti speciali successo così mentre dormiva: l’hanno infilata in un sacco come un gatto». Da qui prende avvio la narrazione di Mascia Musy estrapolata da Love, uno dei racconti della raccolta Per voce sola di Susanna Tamaro, edito da Rizzoli nel 1991. Sia ben chiaro, una narrazione che evolve dalla superficie piana della pagina bianca a quella tridimensionale del palcoscenico a seguito di un importante lavoro da parte di Emanuela Giordano che ne ha curato la drammaturgia prima e la messa in scena dopo. Una storia scabrosa, di quelle che fan venire la pelle d’oca e poi montare la rabbia, che non necessita di troppi orpelli per prendere corpo. Un corpo oggetto di scambio, quello indifeso e fragile di una bimba, una merce preziosa nelle mani sbagliate. Parliamo di Vesna una piccola rom più sfortunata di altre che deve fare i conti con l’incomprensibile mondo degli adulti. La bambina parte svantaggiata, di suo non è una bellezza e in più ha il labbro leporino; va quindi considerata come merce di serie C (non come la tredicenne Kalì ceduta a Trieste, pochi giorni fa dai genitori naturali a una coppia di connazionali per la cifra di 200 mila euro perché particolarmente dotata per il furto).

«È

di Enrica Rosso La piccola però è motivata da un addestramento feroce e, in breve tempo, riuscirà ad acquisire un suo valore di mercato. Ma a dieci anni ancora si crede nei miracoli, tutte le strade sembrano percorribili, e ogni sogno, con l’aggiunta di un pizzico di fortuna, pare realizzabile. E allora perché Vesna dovrebbe arrendersi all’evidenza di una sopravvivenza men che dignitosa? Ovviamente si invaghirà del primo che la farà sentire un po’

più di niente e non importa se poi il suo benefattore si lascerà andare e la userà esattamente come il suo sfruttatore abbandonandola al suo destino di bestiolina indifesa. Nel ventennale della Carta Costituzionale dei Diritti dell’Infanzia rileggendo gli articoli 34, 35 e 36, quelli inerenti allo sfruttamento e all’abuso sessuale, al rapimento e alla vendita dei minori, troviamo un ulteriore motivo di interesse in questa messa in scena sen-

za effetti speciali se non la sensibilità dell’interprete. Un tema sgradevole trattato con i guanti per aprirci gli occhi e non voltarsi dall’altra parte, ma al contrario cercare di capire come si sta nella pelle di chi si trova in una situazione disagiata che ha ereditato e di cui non ha colpa. Un raccontare che parte piano e cresce di intensità grazie alla prova esemplare di Mascia Musy (già premio Ubu nel 2008 e Premio Olimpici del Teatro come miglior attrice protagonista) che riesce a mantenere una misura perfetta per tutto l’arco della storia; un angelo bianco di assoluta semplicità: sempre in contatto, sia che narri, sia che si faccia lei stessa storia.Toccante e pudica, instaura da subito un legame profondo con il pubblico. Alla loro terza prova insieme Emanuela Giordano e Mascia Musy affinano una complicità che ancora non avevano esplorato, costruendo una partita che si gioca cuore a cuore con il pubblico, grazie a una scelta registica che espone l’interprete in primo piano, senza filtri, fatta eccezione per la musica di Fiore Benigni che, a tratti, colora la scena.

Love, Teatro Franco Parenti di Milano, fino al 28 marzo, info 02 599944700 www.teatrofrancoparenti.com


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fantascienza

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ai confini della realtà

di Gianfranco de Turris icordate? Alabarda spaziale!, Pugni atomici!, Doppio maglio perforante!, Missile centrale! (nel Grande Mazinga fuoriusciva dal… basso ventre), Missili pettorali! (che, per le robote o robotesse, insomma i robot femminili Afrodite, Diana e Venus uscivano invece, ma sì, dai seni d’acciaio), Miwa i componenti!, Agganciamento! Erano, negli anni Settanta e Ottanta, gli Atlas Ufo Robot, che furoreggiavano in Italia, oltre che sulle reti pubbliche e private, anche con fumetti, giochi e pupazzi, ma soprattutto con i loro motivi conduttori vendutissimi nei 45 giri e che ancora si ricordano con nostalgia, insieme a frasi passate alla storia del costume e sopra riportate: una incredibile saga internazionale iniziata nel 1972 con Mazinga, poi con Goldrake (1974) e Jeeg (1975), tutti creati da Go Nagai, e quindi con Gundam (1979), ideato da Yoshiyuki Tomino dopo Zambot 3 (1977) e Daitarn III (1978). Ora, la Jacobelli, una piccola ma agguerrita casa editrice sita nei Castelli Romani, in quel di Pavona di Albano Laziale, ha creato un’illustratissima e documentatissima (ancorché impaginata in modo un po’caotico) collana dedicata a questi personaggi, di cui sono usciti i volumetti su Mazinga e Jeeg Robot di Alessandro Montosi, e Gundam di Davide Castellazzi (ma si potrebbe anche aggiungere Goldrake ancora di Montosi, Coniglio, 2007).

R

Samurai del futuro

Il ritorno di Mazinga e Co. va ai samurai e al suo folklore mitologico-religioso. Insomma, un’evoluzione della fiaba. Tutto bene? Per niente. Infatti, poco dopo il loro arrivo in Italia (1980) esplose la polemica: da un lato le «associazioni dei genitori» che accusavano di violenza i «robottoni», e dall’altro la denuncia dei politici e dei giornalisti di sinistra di propagandare una visione quasi «fascista», dato che il

Erano i robot giganti, i «robottoni»: alti tra i 12 e i 25 metri, pesanti fra le 25 e le 32 tonnellate, guidati da giovani che s’innestano nella loro testa, combattono contro le invenzioni di scienziati pazzi come il Dottor Hell, o malvagi imperi sotterranei come quello di Jamatai che vogliono conquistare il mondo, in una mescolanza di superscienza e supermagia. Ogni episodio è autoconclusivo e segue in sostanza sempre l’identico schema. Storie per bambini e ragazzi che, all’epoca, rinverdivano in chiave fantastica e tecnicizzata il mito dell’eroe senza macchia e senza paura medievale che combatteva contro mostri, maghi, dèmoni, re crudeli, rivestiti di una armatura diventata ipertecnologica e con armi avveniristiche. Il tutto rivisitato secondo l’imperitura tradizione culturale giapponese, che si riface-

soprattutto alla space opera di uno scrittore americano famosissimo e oggi quasi dimenticato, Robert A. Heinlein, e ai suoi due romanzi Fanteria dello spazio (1959) e La Luna è una severa maestra (1966) che, benché fossero stati accusati di essere «militaristi» e «di destra», vinsero il Premio Hugo come migliori romanzi dell’anno. Quindi, la trama: non episodi autoconclusivi e in fondo ripetitivi nella scaletta delle sequenze, ma una lunga vicenda «a seguire» che narra la Guerra di Un Anno, cioè quella delle co-

Con i loro “pugni atomici” e “doppi magli perforanti” furoreggiarono nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, non senza strascichi polemici. Robottoni senza macchia e senza paura, erano guidati da giovani insediati nella loro testa per difendere il mondo dai malvagi. Ora una nuova collana ci riporta a quelle avventure… samurai, eroe solitario guidato dall’etica dell’onore, si propone paternalisticamente come un difensore del popolo sottraendogli la sovranità. Sciocchezze ideologizzate, si dirà, ma che indicano il clima pieno di astio e faziosità di quell’epoca. In particolare, l’apparizione di Gundam segnò una svolta epocale per questi personaggi. Per almeno tre motivi: i riferimenti alla fantascienza letteraria; la trama; il messaggio ideale. Tomino e i suoi sceneggiatori e disegnatori attinsero

sono - e vengono riconosciuti come tali sia nella Federazione Terrestre sia nel Principato di Zion, così come i traditori e i paurosi. E gli assi delle due fazioni, Amuro Rei e Char Aznable, hanno entrambi i loro pregi e difetti. Insomma, c’è umanità e c’è pure (incredibile a dirsi) una spiegazione delle ragioni di una parte e dell’altra, e anche i personaggi più antipatici come Dozul Zabi si dimostrano mariti e padri amorevoli.

Così, lo scontro fra i robot giganti come il terrestre Gundam guidato da Amuro, e nelle diverse versioni dai suoi amici, da un lato, e gli Zack, i Guf, i Gock di Zion dall’altro, non è tanto fra mostri d’acciaio al comando di superpiloti, quanto solo uno scontro fra questi guerrieri delle stelle che guidano possenti armature futuribili quasi fossero loro estensioni corporee. E proprio come gli antichi samurai hanno un codice d’onore che, indipendentemente dalla parte in cui militano, cercano di rispettare. Non sempre, a causa d’imprevedibili contingenze o di scatti umorali, ma almeno hanno un punto di riferimento, mentre combattono una guerra spaziale con milioni di morti. La guerra spaziale dei samurai del futuro che, magari, ha ancora qualcosa da dirci non solo a livello di divertimento.

lonie, e il pianeta di origine, con innumerevoli personaggi psicologicamente complessi e un intrecciarsi di vicende. Ma il lato più interessante, impegnativo e nuovo della saga di Gundam è che nell’anno 0079 dell’Universal Century (cioè, il 2124) non ci sono gli odierni Male Assoluto e Bene Assoluto, ma un mondo pieno di sfumature dove tutti e due i contendenti hanno, come dice Davide Castellazzi, «i loro scheletri nell’armaSopra, Goldrake dio». Gli eroi e i In alto, Mazinga coraggiosi ci A sinistra, Gundam e Jeeg


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