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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SAN PIETRO DELLE MERAVIGLIE L
di Claudia Conforti
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Magnificenze vaticane provenienti dalla Fabbrica della Basilica in mostra a Roma. Opere non esposte da secoli, sconosciute anche agli studiosi, attestano la qualità e la continuità della committenza papale
Parola chiave Incarnazione di Sergio Valzania
9 771827 881301
80322
ISSN 1827-8817
Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
a committenza papale, che ha rimodellato Roma facendone il modello urbanistico e l’officina artistica dell’Occidente, è il tema della mostra Magnificenze Vaticane, aperta fino al 25 maggio nel romano palazzo Incontro. Ideata da Alfredo Maria Pergolizzi della Fabbrica di San Pietro, che la promuove di concerto con la Provincia di Roma, la mostra espone oltre cento manufatti, dalla pittura alla scultura, dall’architettura al disegno, dai tessuti ai mosaici, tutte provenienti dalla Fabbrica di San Pietro in Vaticano. Gli oggetti, inaspettati e sorprendenti, attestano la continuità secolare e la qualità artistica della committenza pontificia e sono accomunati dalla medesima allocazione: la Fabbrica di San Pietro. Estratte dai depositi della Basilica, le opere, che non incontrano il pubblico da secoli, sono sostanzialmente sconosciute anche agli studiosi. Oltre che per la singolarità dei pezzi esposti, la mostra si stacca dalla consuetudine di esporre opere note e di sicuro richiamo e rivela, in controluce, l’ambizioso progetto scientifico del curatore, che sfida al rischio della conoscenza, presupposto del recupero, della conservazione e della valorizzazione di un patrimonio in gran parte da scoprire. Sono infatti numerose le ope-
La follia naturale di Stefano Bollani di Adriano Mazzoletti
NELLE PAGINE DI POESIA
L’arte della velatura nelle “Grazie” di Ugo Foscolo di Leone Piccioni
Sobieski, ritratto di un liberatore di Franco Cardini Cinema: “La Banda” di Eran Kolirin di Anselma Dell’Olio
Moda: grandi firme al servizio delle star di Roselina Salemi
san pietro delle
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Le architetture in miniatura di Juvarra & Co.
meraviglie
la valutazione del progetto nella sua complessità, compresi gli ambienti interni, le scale e le infilate di stanze. Anche alcuni aspetti costruttivi delle volte e delle grandi cupole sono leggibili nel modello. La straordinaria maestria degli artigiani romani è testimoniata dai modelli per la sacrestia approntati da alcuni degli architetti invitati al concorso pontificio: Antonio Canevari, Filippo Juvarra, Nicola Michetti, Antonio Valeri e qualche anno dopo Lelio Cosatti. Anche se nessuno di questi progetti vedrà mai la realizzazione, i modelli esposti insieme per la prima volta, dopo lo smantellamento del Museo Petriano per far spazio alla costruzione della Sala Nervi, testimoniano concretamente un momento nodale della cultura architettonica del tramonto barocco romano. Nel modello di Juvarra il fronte d’accesso è un’avvolgente esedra colonnata che replica, quasi fosse un calco, la sagoma della prospiciente abside della basilica e configura un frammento dello straordinario colonnato berniniano della piazza. All’interno un originale volume ellittico voltato è destinato alla sagrestia, ornata da strepitose decorazioni pittoriche con cromatismi che vanno dal rosso, al verde antico e all’oro, con minuti inserti scultorei e rifiniti ordini architettonici. La sagrestia sarà infine costruita tra il 1776 e il 1784 da Carlo Marchionni, che riprenderà nel proget-
di Marzia Marandola in dalla ricostruzione cinquecentesca della basilica di San Pietro si presentò il problema dell’edificazione di una nuova sacrestia: con questo tema si misurarono grandi architetti come Maderno, Bernini e Borromini. Nel Settecento i papi tentarono ripetutamente di legare agli anni del loro pontificato la realizzazione di questa impresa: un primo concorso è indetto nel 1711 da papa Clemente XI Albani; un secondo nel 1715 allorché il pontefice chiede ai più celebri e valorosi Architetti, di formarne i disegni e i modelli. I risultati di questo invito sono parzialmente testimoniati da una stupefacente serie di modelli, in diversi stati di conservazione, normalmente riposti nei depositi della Fabbrica di San Pietro, inaccessibili al pubblico, ora trionfalmente esposti nella mostra Magnificenze Vaticane. D’importanza fondamentale i modelli consentono una piena valutazione del progetto da parte del committente e sono uno strumento di controllo compositivo per l’architetto e una guida operativa per le maestranze che costruiscono l’opera. I modelli sono pertanto vere e proprie architetture in miniatura (che delle architetture condividono gli alti costi), in grado di prefigurarne i volumi, i prospetti fino ai più minuti dettagli di ornato e l’articolazione spaziale degli interni. Costruiti in legno, generalmente di pioppo, ma anche di faggio e di tiglio rifiniti con decorazioni in cera, in stucco, dipinti a tempera e oro, i modelli costituiscono dei veri capolavori di ebanisteria. Essi sono smontabili o apribili tramite cerniere metalliche o incastri mobili, per consentire, asportando un elemento dopo l’altro,
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segue dalla prima re di paternità artistica solo ipotizzata: tra esse il magnifico bozzetto in terracotta secentesco, lumeggiato da delicate dorature, con l’incontro tra papa Leone Magno e Attila. Esso prefigura l’unica grande pala a rilievo marmoreo della basilica di San Pietro, commissionata da Innocenzo X Pamphilj ad Alessandro Algardi, artista al quale viene pertanto ricondotto il bozzetto. In attesa di indagini storiche e attributive risulta anche un solenne volto di Cristo, esposto accanto a uno screziato interno fiammingo e a una Consegna delle chiavi di Vincenzo Camuccini. Si tratta di una tempera quattrocentesca su tavola di straordinaria qualità pittorica ed espressiva, che rimanda alla figuralità sospesa di Piero della Francesca. La sezione dedicata alla pittura espone anche incantevoli lacerti, di indubbia qualità artistica, di affreschi della perduta cappella del coro della Basilica, decorata da Melozzo da Forlì. Al genio di Gianlorenzo Bernini sono ascritti i reliquiari che, su una base di bronzo e ottone dorato, montano snelle piramidi di cristallo per l’ostensione dei reperti miracolosi. Commissionati per gli altari vaticani da papa Alessandro VII Chigi, i reliquiari si affiancano alla muta di monumentali candelabri e al Cristo in croce di bronzo dorato, tutti di ideazione berniniana. Lo splendore degli arredi liturgici di Bernini si ripete in una sfavillante sequenza di paliotti realizzati nel Settecento per le canonizzazioni: i pannelli, che ornavano il fronte dell’altare sottostante il baldacchino di San Pietro, sorprendono non solo per la loro assoluta rarità, ma an-
to l’impianto distributivo planimetrico juvarriano, semplificato nelle linee geometriche e ridotto nei volumi. Seppure di indubbia qualità architettonica, la nuova sacrestia non possiederà una propria incisiva identità, forse perché inevitabilmente schiacciata dalla magnificenza della basilica petriana, ma risolverà un problema concreto che aveva assillato il clero vaticano per ben due secoli.
che per la qualità esecutiva e l’inusitato splendore materico. Un’ossatura in ferro innerva una fitta orditura di seta e d’oro, che modella in lucente rilievo i santi canonizzati, accesi di lampi dorati. Se dei paliotti si conoscono gli artisti che li idearono e gli artigiani che li realizzarono; restano tuttavia sfocati i procedimenti costruttivi, la loro origine, la loro diffusione e le successive migrazioni. Appartiene agli allestimenti effimeri per le canonizzazioni anche il rotolo di damasco cremisino con le armi chigiane, anch’esso commissionato a Bernini da AlessandroVII, per la santificazione di Francesco di Sales del 1656, e destinato a rivestire le gigantesche lesene e i possenti pilastri della Basilica. Il sontuoso drappo restò in uso per lunghi anni, come attestano le incisioni delle cerimonie solenni in San Pietro. Due sezioni della mostra sono intrinseche alla storia della Fabbrica di San Pietro, un’istituzione creata nel 1506 da Giulio II della Rovere per gestire la costruzione della Basilica. La prima riguarda i mosaici, una tecnica ampiamente utilizzata nella decorazione interna della basilica a partire dal Cinquecento, ma istituzionalizzata nel 1727 e da allora appannaggio specifico della Fabbrica.Tra i godibilissimi dipinti a olio e a tempera, modelli per le decorazioni musive, spiccano le vedute di città, mentre incuriosisce il campionario a oggi inedito delle tonalità cromatiche per gli incarnati delle figure, e gli impasti vitrei da cui si ricavano le tessere. La seconda sezione espone documenti cartacei, sempre relativi alla Fabbrica, firmati da grandi artisti: Michelangelo, Cellini, Maderno e Bernini. Le tavole grafiche commissionate per divulgare attraverso la stampa i dispositivi e le macchine
per la manutenzione del Tempio, introducono al cuore architettonico della mostra, incentrato sugli spettacolari modelli per la sacrestia di San Pietro. Un progetto questo che nel Settecento impegnò a più riprese gli architetti: se lo smisurato modello ligneo di Filippo Juvarra si confronta con la grandiosità di Michelangelo e di Bernini, quelli di Michetti, di Cosatti, di Valeri o di Canevari attestano la persistente vitalità della tradizione barocca. La sofisticata esecuzione di questi plastici, che coniuga tecniche e materiali diversi: il legno e il metallo con la cera rossa e la carta, con la tempera e la doratura, caratterizza questi capolavori di ebanisteria, capaci di materializzare i volumi e gli spazi dell’architettura. I portentosi disegni di Carlo Marchionni, l’architetto che, al declinare del secolo XVIII, edifica la nuova sagrestia, sono accompagnati da un parziale modello in ciliegio e dai plastici lignei degli ornati. La recente promozione artistica della Fabbrica è testimoniata dalla stupefacente sequenza dei bozzetti in gesso e dalla statua di Pio XII di Francesco Messina, oltre che dal ciclo di oli dipinto, su commissione della Fabbrica, da Philippe Casanova. Il giovane artista francese interpreta in sedici tele, e nei relativi bozzetti, la vertiginosa magnificenza degli scorci basilicali, catturandone la spettacolarità urbana nelle vedute da ponte Sant’Angelo e nella foresta di colonne del porticato berniniano. In copertina, uno dei bozzetti di Philippe Casanova esposti nella mostra “Magnificenze Vaticane”. Sopra uno dei plastici in mostra
MOBY DICK e di cronach di Ferdinando Adornato
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INCARNAZIONE urante la recita del rosario, nel terzo mistero gaudioso si contempla la Nascita di Gesù Cristo. È un modo delicato, timido, di accostarsi a uno dei pilastri fondamentali della nostra fede di cristiani: il mistero dell’incarnazione. La nostra è una religione rivelata. Né la nostra intuizione, né la nostra intelligenza sarebbero capaci, neppure in tempi lunghissimi, di svelare la complessità del reale nel quale ci troviamo immersi, del quale siamo insieme parte e osservatori. Il concetto di mistero sta in questa consapevolezza del limite intrinseco alla natura umana, ossia del fatto che esistono fenomeni tanto complessi da non poter essere conosciuti. Il mistero è quindi l’opposto dell’enigma, di quello che Edipo è in grado di sciogliere liberando così Tebe dall’oppressione della Sfinge. Anche la sensibilità degli antichi percepiva comunque la provvisorietà di quella vittoria sulle forze della natura, sapeva che dietro al mondo che riusciamo a conoscere si nascondono profondità per noi insondabili. Proprio lì si annida il mistero, la verità che la fede rivela ma che l’uomo non è in grado di comprendere. Di fronte al mistero non ci si pone nell’atteggiamento di chi cerca di capire, ma in quello della contemplazione. Un’attività mentale complessa, nella quale preghiera e ragionamento si fondono come il sapere architettonico si unisce con l’intenzione di lodare Dio nel momento della costruzione di una cattedrale. La contemplazione è un’attività libera, alla quale tutti hanno il diritto e probabilmente il dovere di dedicarsi in piena autonomia e con la certezza di arrichirsi.
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Senza alcuna pretesa di percorrere un itinerario più significativo di migliaia di possibili altri propongo alcune riflessioni del tutto personali. La contemplazione del mistero dell’incarnazione è abbagliante. Si tratta dell’evento fondante del nostro mondo e di ogni sua rappresentazione. La prima evidenza è quella relativa ai suoi aspetti storici, immediatamente manifesti in un luogo e in un tempo precisi, dai quali si irradia un messaggio indirizzato a tutti gli uomini. A ben vedere l’irradiamento è multidirezionale, e non solo nello spazio, scende nel tempo e insieme lo risale rimontando nell’esperienza di Israele e dei suoi profeti. L’Antico Testamento vibra dell’anticipazione e dell’attesa del Cristo. In questa dimensione più diretta dell’incarnazione riconosciamo la figura umana del Cristo, la sua esistenza terrena e personale, la sua predicazione e il suo sacrificio dei quali i Vangeli e la tradizione della Chiesa ci tramandano la memoria. Se proseguo nella contemplazione mi si presentano altre considerazioni. L’evento misterioso dell’incarnazione appare così
È l’evento fondante del nostro mondo e di ogni sua rappresentazione. La possibilità di un incontro - quello con Cristo - offerto a tutti gli uomini, indiscriminatamente. È la certezza della nostra salvezza e della nostra libertà
Il bacio di Dio di Sergio Valzania
Il Cristo incarnato è il viandante incontrato dai compagni di Emmaus, i due discepoli smarriti nella fede dopo la crocifissione. Senza essere mai invadente è sempre presente, pronto a soccorrerci nelle difficoltà del nostro cammino potente da non sembrare possibile che gli sia stato posto un limite nel tempo e nello spazio. L’incontro con il Cristo è offerto a tutti gli uomini, indiscriminatamente. Magari in forme diverse, con modalità di comprensione lontane, sempre però senza la violenza dell’immediatezza impositiva. Persino agli apostoli, per essere confermati nella fede, fu necessaria la discesa dello Spirito Santo. Dio propone la fede, non la impone mai. È un amante affettuoso e delicato. Ma costante e premuroso. L’evangelista Giovanni ci conferma nella fiducia in un Dio che trascende il tempo e la storia. Infatti il Verbo era in principio e tutta la creazione è avvenuta per mezzo di lui. L’incarnazione non è quindi un sacrificio di riscatto, un gesto di riparazione per un progetto fallito, l’ultima e definitiva risorsa per ripristinare un patto altrimenti perduto per sempre. Al contrario essa è l’atto fondante, la pietra d’angolo, la cifra assoluta che determina la creazione. Il mondo esi-
ste e ha questa forma solo attraverso la mediazione iniziale e continua dell’incarnazione. Viviamo in un mondo formato a sua immagine, è lei il big bang dal quale scaturisce l’universo quale ci si presenta. La tensione fra spirito e materia, fra anima e corpo, fra mente e fisico è una sorta di radiazione di fondo che ci ricorda e ci testimonia la circostanza della nascita e la natura del nostro essere. Ma l’incarnazione è ancora di più. Trascende il collegamento fra Dio e la sua creazione, supera perfino la modalità della creazione stessa. Si presenta anche come il progetto, completo, operativo e persino già realizzato della salvezza. Nell’incarnazione è racchiuso per intero l’evento storico del Cristo, che non è una tesi astratta o un nascondimento di Dio. È un’esperienza concreta, reale, tangibile e individuabile, anche per le sue creature, dell’accettazione da parte del Signore della natura umana nella sua interezza. Con ogni dubbio e in-
sicurezza propri della nostra esperienza, ogni dolore e ogni solitudine, fino a quella lacerante dell’orto dei Getsemani, quando anche i più amati degli apostoli non sono capaci di rimanergli vicini nelle ore dell’angoscia. In quanto incarnato Dio si fa mortale, nella sua nascita come uomo è compresa e accettata la sua morte, destino comune, orizzonte della vita e dono per noi incomprensibile. Quella della croce è una tragedia ulteriore, non necessaria, che sottolinea e accresce la drammaticità dell’incomprensione con la quale Cristo è accolto e nello stesso tempo della mitezza con la quale regna sul mondo. I suoi aguzzini lo incitano a liberarsi, a sfuggire alla condizione umana, a rifiutare l’incarnazione condannando il mondo. Nel momento della sofferenza riassumono le tentazioni che satana aveva proposto nel deserto. Per amore della sua creatura e di tutto il creato il Cristo rifiuta di nuovo e il suo martirio, conferma dell’incarnazione, coincide con il momento della creazione e della salvezza.
Il dolore della crocifissione, la lacerazione della carne, non sono necessari a che il Cristo muoia e quindi risorga, associandoci a lui e donando in modo amoroso la capacità di superare la morte a tutti gli uomini e forse a tutto il creato. È un dono ulteriore, che l’umanità gli chiede e lui accorda. L’incarnazione ci appare allora l’immenso abbraccio con il quale Dio attraversa e crea in un attimo tutto lo spazio e il tempo storico. Li salva e li rende liberi nello stesso tempo. È anche la certezza che Dio non vive fuori dall’universo, non è una nuova apparizione del motore immobile, indifferente al funzionamento del creato, che aveva immaginato Aristotele. Il Dio dei cristiani è personale, partecipe e presente. Immerso nel mondo lo crea e gli dà forma in ogni istante. Ma soprattutto lo abita fisicamente. Il Dio è in ogni luogo del catechismo è l’eco ulteriore di un’assicurazione ripetuta infinite volte, prima nell’Antico Testamento e poi nei Vangeli. Il Cristo incarnato è il viandante incontrato dai compagni di Emmaus, i due discepoli smarriti nella fede che qualche giorno dopo la crocifissione si allontanano da Gerusalemme. Un Dio che abita il mondo che ha voluto creare, sempre sollecito nei confronti degli uomini che lo abitano, premuroso verso le persone che ama. Sennò che amore sarebbe? Un Dio che ama aspetta gli uomini lungo il loro faticoso cammino, li sostiene e li incoraggia nei momenti di difficoltà, basta che gliene lascino l’occasione. Lui non è mai invadente, ma sempre presente, ha scelto di attraversare nel modo più completo l’esperienza della sua creatura per realizzare la condivisione dell’amore in modo paritario. L’incarnazione è il bacio di Dio.
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ROCK
musica
Nick Cave con Lazzaro e Marilyn nei sotterranei di New York di Stefano Bianchi n Babau. Di quelli che per anni e anni ci è piaciuto immaginare in simbiosi con un corvo nero, appollaiato sulla spalla. L’australiano Nick Cave ha il copyright di principe delle tenebre: fin dal 1981, quando si mise ad architettare epilessie punk coi Birthday Party dopo essersi spostato da Melbourne a Londra. Poi, lustrando i galloni di uomoin-dark, nei locali underground di Berlino diede vita ai Bad Seeds per macinare melodrammi blues, rock tossico, ballate da pelle d’oca, ritornelli «à la» Brecht. Usciva un suo disco e ogni volta si gridava al miracolo. E di miracoli, questo maudit inzuppato di humour nero ne ha compiuti parecchi: citando Gesù ed Elvis (The Fistborn Is Dead), rivisitando Muddy Waters, Johnny Cash e i Velvet Underground (Kicking Against The Pricks), elogiando l’omicidio nudo e crudo (Murder Ballads), titillando romanticismi e amletici dubbi religiosi (The Boatman’s Call), ruminando rock & roll primordiale e crooning (Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus). E si potrebbe continuare all’infinito. Che tanto, Nick Cave, si è sempre mantenuto ben sopra la sufficienza. Anche quando indossava un’aria da predicatore televisivo. Il mefistofelico Nick, da una manciata di mesi, ha compiuto cinquant’anni. Vive beato a Brighton con moglie e prole, confessa che a questa età comporre canzoni è puro gioco, si compiace quando ammette di fare il travet: in ufficio, dalle 9 alle 17. Forse non farà più spavento, il darkman. Ma gli straordinari, sì. Dopo il progetto Grinderman (rock al curaro) e la colonna sonora del film The Assassination Of Jesse James By The Coward Robert Ford, l’ex Babau ha riannodato per la quattordicesima volta i fili coi Bad Seeds e ha inciso Dig, Lazarus, Dig!!! lasciando perdere il pianoforte (musa delle sue ballate
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in libreria
più intriganti) a favore delle chitarre. Nei testi delle nuove canzoni, ha afferrato al volo Lazzaro per catapultarlo nei sotterranei di New York. E il mago Houdini. E Marilyn Monroe. E le parole di Today’s Lesson : il pezzo più duro della sua plumbea carriera, sullo sfruttamento erotico delle donne. Miti e icone da calare nel sordido contemporaneo, permettendo alla musica di volare libera come non mai: con l’elaborazione del sabor latino e l’approccio vocale stile John Cale di Dig, Lazarus, Dig!!! ; il ritmo sincopato e il coinvolgente reading di Moonland; il rock che si fa rumore spigoloso in Albert Goes West e la pianola che osa sbeffeggiarlo in Today’s Lesson. Qualche nostalgico del Cave più trucido griderà al tradimento. Al dark che più bianco non si può. Ma si prenda la briga d’ascoltare, prima di emettere frettolose sentenze, quella voce da Elvis Presley che sembra sbucar fuori dall’oltretomba (Night Of The Lotus Eaters); quel ritmo a singhiozzo (modello Talking Heads) che riempie We Call Upon The Author. E la sdrucciolevole dolcezza di Jesus Of The Moon. Capirà che Lazzaro è resuscitato. E Nick Cave pure. Come sempre. Nick Cave & The Bad Seeds, Dig, Lazarus, Dig!!!, Mute, 20,60 euro
mondo
riviste
VITA E OPERE DI MISTER VOLARE
I FINALISTI DELL’AMNESTY ITALIA
“ROLLING STONE” MADE IN INDIA
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na notte, quando avevo tre anni, fui svegliato da un suono bellissimo, che solo in seguito decifrai come il canto di un carrettiere: fu la mia prima esperienza musicale, quella per me fu la musica per molto tempo. Per questo ho iniziato a cantare con quelle canzoni: il cantastorie stava dentro di me, non era una scelta precisa». Sono trascorsi cinquant’anni da quando il giovane Domenico Modugno, un’infanzia trascorsa a suonare la
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l via la sesta edizione di Premio Amnesty Italia 2008, il riconoscimento assegnato all’artista che durante l’anno ha saputo trattare meglio temi riguardanti i diritti umani. Le canzoni in gara per questa edizione sono: Canzone per Beirut di Eugenio Bennato, Canzone della tolleranza e dell’amore universale di Giorgio Canali e Rossofuoco, Boom! dei Gemelli Diversi, Mosca cieca di Gianna Nannini, Tu ricordati di me dei
nelle edicole indiane dal 27 febbraio scorso la prima edizione locale della storica rivista musicale statunitense Rolling Stone. La Wenner Media LLC ha concesso il marchio alla locale MW.Com India Pvt Ltd, la quale, attraverso i proprietari Anand Mahindra e sua moglie Anuradha Mahindra, metterà in vendita il periodico in una decina di città e conta di poterne smerciare dalle 80 alle 90 mila copie. Il diretto-
Domenico Modugno e venti tra le sue più riuscite canzoni raccontati da Minervini
In gara per la sesta edizione anche Gianna Nannini, Eugenio Bennato e Antonella Ruggiero
La storica rivista ha dato la concessione per l’edizione locale al costo di 100 rupie a copia
chitarra e la fisarmonica a picco sul mare di Poliguano stupì il mondo intero intonando Nel blu dipinto di blu a Sanremo. Regista, attore, compositore, cantante: Mister Volare fu un artista eclettico dalle spiccate doti interpretative e da una levità di scrittura straordinaria. Curato da Corrado Minervini, Volere volare (Arcana, 261 pagine, 17,00 euro) è un’opera a metà fra saggio e biografia, che intreccia analisi e vicende personali del performer pugliese, alla luce di venti tra le sue più riuscite canzoni. Ne emerge il ritratto di un uomo brillante ma pensoso insieme, che canta miserie ed entusiasmi fuggenti, che non smise mai di abbracciare la vita nel dolore e nell’amore.
Negramaro, Milioni di promesse dei Radiodervish, La Guerra dei vecchietti di Remo Remoti, Canzone fra le guerre di Antonella Ruggiero, Canenero dei Subsonica e Avanti pop dei Tetes de Bois. Il premio verrà consegnato nel corso dell’XI edizione del concorso musicale nazionale dal vivo «Voci per la Libertà-Una Canzone per Amnesty», dedicato ai musicisti emergenti, che si svolgerà a Villadose dal 17 al 20 luglio 2008 e il cui bando scadrà il prossimo 15 aprile. Per quanto riguarda la terza sezione del concorso, il Premio Web, i primi 30 artisti che si iscriveranno, potranno avere una pagina sul sito www.vociperlaliberta.it.
re Radhakrishnan Nair ha affermato che, se da un lato si parlerà naturalmente di rock’n’roll, dall’altro si terrà un occhio vigile su tutta la scena cosiddetta Bollywood, «anche perché le colonne sonore vengono fornite da musicisti indiani». Il primo numero indiano costa 100 rupie, mentre finora le copie importate dell’edizione statunitense ne costavano il quintuplo. Cinque le copertine scelte per il lancio, quattro delle quali dedicate a musicisti internazionali, più una a un artista locale.Tra le quattro internazionali la più appetibile sembrerebbe essere quella con i Led Zeppelin.
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SACRO E TRADIZIONI... fermiamoci ad ascoltare
CLASSICA
Martha Argerich e i suoi amici di Pietro Gallina
di Bruno Giurato iamo alla fine della Settimana Santa, e allora lasciamolo da parte per un momento questo rock, questo pop, questo jazz che ci ossessionerà bellamente per i prossimi undici mesi e tre quarti. La storia e l’antropologia italiana offrono materiale in quantità per uno sguardo su rituali bizarri agli occhi moderni, in cui la musica ha il ruolo principe. Per esempio nei paesi del Sud ieri non si è cantato. Le donne si sono riunite in chiesa dopo la processione della Via Crucis, dalla mezzanotte fino a stamattina hanno recitato quelli che sono chiamati «canti della Passione». Da giovedì a oggi hanno risuonato solo certi strumenti di legno: tabelle e martelletti, raganelle, traccole. Quelli che Levi Strauss chiamava «gli strumenti delle tenebre». Un teatro desolato, un trionfo della morte alla maniera del pittore Hieronymus Bosch attorno alla Passio Christi. Solo domenica col Cristo risorto sarà la volta delle campane, lo strumento della gioia, finalmente intonato. Sono usi e riti raccontati e illustrati benissimo nel libro Le forme della festa di Francesco Faeta e Antonello Ricci (Squilibri, 49,00 euro). Poi c’è l’ufficialità cattolica della musica sacra, bisogna citare il Festival di Pasqua che si svolge a Roma. Domani alle 20,30, alla basilica di San Paolo, ci saranno canti gregoriani, musiche di Scarlatti e Palestrina. Il festival continuerà con vari appuntamenti nelle settimane successive (www.festivaldipasqua.org). Ma qui si vorrebbe segnalare che il fracasso apparente delle cerimonie popolari e il rigore dell’architettura vocale di un Palestrina sono figure di una medesima tradizione, forme complesse di un’identità culturale tutta italiana. Troppo poco?
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pero che il pittoresco giudizio dato da Rattalino su Marta Argerich allora 41enne resti appena un divertente ricordo scritto ormai un lustro fa: «…Diamole la medaglia a questa cavalla della Argerich che ancora suona come ai concorsi, e aspettiamo che diminuite le forze e le munizioni preferisca attraversare il tratto scoperto di notte; silenziosa, astuta e calma come un vecchio sergente…». Anche se oggi la signora si è calmata - ma è più una marescialla che un sergente - bisogna ricordare che la scatenata argentina sedicenne vinse i difficili concorsi Busoni di Bolzano e quello di Ginevra sconvolgendo tutti per le sue esplosive doti virtuosistiche che raddoppiò quando la definirono un altro caso prodigio che avrebbe finito per sgonfiarsi. Invece otto anni dopo vinse il favoloso concorso Chopin di Varsavia e da allora - era il 1967 - il suo galoppo e i suoi trionfi continuano senza tregua. La Emi Classics, proprio ora, ha voluto rendere omaggio alla pianista registrando tre cd di highlights relativi al Progetto Marta Argerich al Festival di Lugano. Questo è il quinto cofanetto di una serie che celebra i frutti musicali del progetto stesso in cui giovani solisti esplorano e affrontano un vasto repertorio, dal classico al moderno e contemporaneo, in collaborazione con grandi solisti di livello internazionale inclusa naturalmente la Argerich. Pochi artisti noti hanno promosso con tanto vigore e impegno giovani talenti emergenti e dato loro tanto appoggio e risalto come sta facendo la Argerich. Soprattutto in questa formula da lei voluta che incorpora il giovane solista in coppia o in un ensemble con noti e navigati interpreti internazionali. Oltre ad avere energie infinite ed essere ormai una leggenda della tastiera, la Argerich si è impegnata con tutta la passione che la contraddistingue a far sfavillare di volta in volta la formazione in duo, trio, quartetto etc. a maggior gloria della musica da camera, trasmettendo al collettivo la scintilla giusta per far vibrare tutti in perfetta sintonia interpretativa. Precedenti registrazioni del Festival Progetto Martha Argerich and Friends «Live from the Lugano Festival 2005» hanno avuto la nomina per due Grammy Awards, incluso appunto quello dell’edizione del 2004. L’ultima registrazione, quella dell’estate 2007, un’anticipazione del Festival di quest’anno, comprende due lavori che Argherich
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non ha mai inciso prima: il Trio op. 70 n. 1 di Beethoven e la Fantasie für eine Orgelwalze di Mozart (arr. di Busoni). Oltre a questi ultimi, nei tre dischi vi sono brani di Ravel, Lutos\\u0142awsky, Schumann, Bartók, Glinka, von Dohnányi e Messiaen. Le musiche sono per pianoforte a quattro mani, per due pianoforti, per violino e pianoforte, per trio, quartetto, quintetto e sestetto tutti con pianoforte. Argerich interpreta più della metà dei dodici lavori cameristici incisi nei cd, con un unico pezzo in cui si presenta da sola, le Kinderszenen op. 15 di Schumann. In questa interpretazione toccante, le celebri melodie rimandano all’ansia della gioventù perduta, degli amori che passano e che svaniscono rapidamente, i ricordi infantili come immagini sonore poetiche e gigantesche; tutto scivola fuori dalle sue dita leggere e gli spazi al suo incedere ritmico si spalancano e si restringono sotto l’emulazione del suo fuoco addolcito dagli anni. E per incanto il mondo di Schumann ci appare come in un sogno e i personaggi di Jean Paul fino ai doppi Florestano, Eusebio, Maestro Raro, danzano tutti per celebrare l’età dell’oro della borghesia ottocentesca.
Martha Argerich and Friends «Live from the Lugano Festival 2007», Emi Classic, tre cd
JAZZ
a stagione dei festival del jazz è iniziata e continuerà fino al prossimo settembre. Nel corso dei prossimi sei mesi l’Italia sarà invasa da centinaia di musicisti e decine di complessi che suoneranno in teatri, arene e storiche piazze delle città d’arte italiane. L’intera penisola avrà i suoi grandi e piccoli festival seguiti da centinaia di migliaia di persone. Ad aprire la stagione, Piacenza, con un festival tuttora in corso che terminerà il 5 aprile. Il penultimo concerto di questo festival avrà luogo al Teatro Magnani di Fidenza domenica prossima e vedrà il ritorno del solista di tromba Tom Harrell lanciato oltre trent’anni fa da Woody Herman. Musicista lirico, sceglie meticolosamente le note che suona con un controllo permanente del suono.
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Umbria Jazz intanto ha già annunciato parte del cartellone che vedrà il ritorno di Sonny Rollins. Ma come è consuetudine saranno i musicisti italiani a far la parte del leone, Pieranunzi, Rava, Fresu, Rosario Giuliani, Stefano Bollani, uno dei pochi pianisti europei di jazz che può permettersi di tenere un intero concerto di solo pianoforte. Anzi a pensarci bene sono solo tre, il francese Martial Solal, l’italiano Enrico Pieranunzi e ovviamente Stefano Bollani. Tutti gli altri, anche se eccezionalmente bravi e dotati di tecnica strumentale ineccepibile, alla fine annoiano, perché manca loro il senso dell’umorismo, l’ironia e la capacità di interessare sempre e costantemente il pubblico. Assistere a un concerto di Bollani è un fatto sorprendente. Perché Bollani è sempre in grado, senza la minima esitazione, di passare dallo stride «vero» di Fats Waller a quello «finto» di Caroso-
ne, di citare Chopin in modo esemplare ed eseguire linee melodiche che ricordano i grandi pianisti swing e bop, da Art Tatum a Bud Powell. Spesso i puristi del jazz - ma sono ormai una minoranza - non amano le contaminazioni. Non amano la «follia» che sovente ha contraddistinto le esibizioni di Armstrong, Fats Waller, Dizzy Gillespie mentre si divertivano prendendosi in giro, senza perdere mai nulla della loro Arte esemplare. A Perugia, ma anche a Roma o Verona, vedremo Bollani con quel suo sorriso fra l’ironico e il divertito, attaccare un «pezzo» meravigliando tutti. Perché mentre ci si aspetta che quella canzone, quel brano musicale, quel motivo debba procedere in un certo modo, ecco, all’improvviso, e con un espediente «alla Bollani» assolutamente naturale, convergere verso altre storie, verso altre melodie, verso altri ritmi. Per
FOTO DI
di Adriano Mazzoletti
SERGIO BUONOMO
La follia naturale di Stefano Bollani
coloro che volessero saperne di più sull’artista Bollani potremmo suggerire di leggere un suo libro assai divertente La sindrome di Brontolo e ascoltare un disco, che pensiamo possa piacere anche ai puristi, Piano Solo da lui inciso per Ecm, la stessa casa discografica di Keith Jarrett. Crediamo che sia una chiave di lettura di Stefano Bollani e di tutto il jazz italiano che oggi sta vivendo un momento magico.
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NARRATIVA
libri
Le memorie dal sottosuolo di Paula Izquierdo di Pier Mario Fasanotti intenzione è quella di «svincolarsi dalle idee», abbandonare tutto e ritirarsi per una settimana nella grande casa dove Pablo trascorreva le estati della sua infanzia. A Madrid rimangono i figli, la moglie Amalia dalla quale si è separato da un anno, i pazienti (Pablo è psichiatra), la quotidianità dedicata al lavoro e così poco a se stesso e agli altri. Ma c’è una scatola piena di quaderni: sono quelli che ha scritto la sorella Sara fino al giorno in cui è stata trovata morta nel suo letto, in circostanze che rimangono misteriose e tali devono rimanere perché lui cerca il perché più che il come del lutto che pesa sempre di più e diventa «testimone muto», presenza-assenza dolorosa fino allo spasimo. È abbastanza raro che un romanzo sia dedicato alla sorella. Quello di Paula Izquierdo, fine narratrice spagnola nata nel 1962, psicologa di formazione, è la feroce messa a nudo di un uomo che confessa di non sapere dove essere, dove andare, di non riuscire a collocare i pezzi della sua esistenza. Il terremoto emotivo proviene dalla morte di Sara. Minore di undici anni, era praticamente una sconosciuta. «Come sei bella» le aveva detto tempo addietro e lei col vestitino leggero aveva sorriso. Niente di più, nemmeno durante l’infanzia. E questa afasia affettiva Pablo l’ha sperimentata anche con la moglie: «Forse avevamo distillato la nostra intimità, fino a rimanere in silenzio». Comincia a conoscere Sara leggendo i suoi appunti. Da fratello e da medico, chiedendosi ora dopo ora se la sorella fosse schizofrenica, se la sua personalità davvero si frantumasse sotto i colpi dello sdoppia-
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mento. Scrittrice di modesto successo e prostituta in segreto, una donna che preferiva «essere schiacciata che amareggiata», stanca di «fare il quarto di bue» con tanti uomini ma allo stesso tempo avida di appartenere a qualcuno, anche una sola notte. L’abisso di Sara ricorda la frase di Beckett: «La nostra disperazione è talmente grande che non abbiamo neanche le parole per esprimerla». Sotto il cielo piovoso di Pablo, nel Sud della Spagna, si muove un’altra Sara, coetanea della sorella: gli prepara da mangiare, gli scatena il desiderio sull’onda ambigua dell’omonimia. Tanti grovigli emotivi, compresa l’inattesa confessione della sorella di non essere figlia dello stesso padre, si depositano sulla spiaggia grigia e aspra. Fino a una rinascita radicale. Complice il corpo «ondulante» e ambrato di un’altra Sara e l’ammissione dell’uomo di provare curiosità per il giorno che viene. Paula Izquierdo, La mancanza, Cavallo di ferro, 174 pagine, 15,00 euro
riletture
Arbasino e il fascino delle “Piccole vacanze” di Giancristiano Desiderio e piccoli vacanze uscirono nel 1957 e un mese prima era stato pubblicato il Pasticciaccio di Gadda, mentre nel 1963 vide la luce Fratelli d’Italia e un mese prima era uscito La cognizione del dolore, ancora Gadda. Forse casualità, forse destino, forse accortezza. O, forse, già allora Alberto Arbasino si sentiva ed era «nipotino di Gadda», del mitico (oddio, mitico, qui ci vorrebbe una pistola, esagerato) Ingegnere in blu, secondo il titolo di successo dell’Adelphi e di Arbasino, quattro edizioni in un mese. Meritate, tutte meritate.Va bene. Ma in quelle Piccole vacanze, edite da Einaudi, c’era già il nipotino dell’Ingegnere? Quando Arbasino pubblicò il
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suo primo libro, Italo Calvino fece una scelta. Editoriale e aziendale, ma giusta anche per la letteratura: via L’Anonimo lombardo, perché bisogna farsi furbi. Disse Calvino al giovane Arbasino: «Lo so che a un giovane autore piange il cuore per ogni esclusione, ma il libro d’esordio deve essere breve, sennò non lo leggono e non lo recensiscono. Poi però ti aspettano al “varco”del secondo libro, dove non hai messo tutta la vita. Ma tu non preoccuparti, il secondo è già qui: non si butta via niente». La citazione è tratta dalla nota che lo stesso Arbasino ha voluto scrivere ripubblicando con Adelphi Le piccole vacanze dopo cinquant’anni. All’epoca in copertina c’erano delle «puttanone sfatte di Mino Maccari», mentre oggi nell’elegante volumetto verde pisello ci
sono Nathalie Wood, James Dean e Sal Mineo in un’inquadratura del film di Nicholas Ray Rebel Without a Cause del 1955. I racconti delle Piccole vacanze sono tutti leggibili anche oggi. L’influsso di Gadda è evidente. Arbasino lo dichiara apertamente per L’Anonimo «scritto sotto il nuovo influsso dell’Adalgisa di Gadda» - ma si direbbe che anche i racconti, vuoi a volte per il linguaggio, vuoi per gli argomenti, vuoi per lo stile, vuoi per l’aria che si respira, risentano o, meglio, fanno sentire, un certo influsso ingegneristico. Scritti tra due estati - quella del ’54 e del ’55 - i racconti parlano di cose e modi di cui non si ha più notizia da una vita. Quando ancora c’era la campagna e si usava viverla per una stagione tra tennis, ragazze, letture, cavalli, amori e
dolori, corse in automobile, capelli al vento e vecchie zie e la guerra a un passo dietro le spalle. Il fascino di questo libro di racconti (sette in tutto) è il racconto senza aggettivi, ma fatto di case, luoghi, circostanze: «Ecco Marina di Massa, la villa che zio Fernando prendeva in affitto, tra quei bei pini, e mangiava ridendo gli scampi e maionese, non prevedeva l’infarto così presto. Cinquale: non ballerei più in slip, forse; e neanche per scherzo sugli aeroplanini. Il Forte. Due gocce di pioggia. Case e persone più fitte. E poi il sereno. La piazza. Il caffè sotto i platani; venivamo con quelle di Pietrasanta, a mangiar mandorle salate comprate in drogheria; poi via tutte insieme, in bicicletta, col buio. Le madri paesane severe mettono mano ai battipanni».
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FILOSOFIA
altre letture
Viaggio al centro dell’uomo di Renato Cristin ecensire un’opera monumentale in poche righe può apparire pretenzioso o inutile, però lo scopo di segnalare un autore molto importante ma poco conosciuto dai non-specialisti legittima la scelta. Tra gli apporti fondamentali di Dilthey al pensiero contemporaneo ricordiamo: la scoperta del valore filosofico del mondo storico-sociale, la rilevazione della differenza fra le scienze della natura e quelle dello spirito, la trasformazione della psicologia da scienza sperimentale a terreno di ricerca storico-filosofico, il consolidamento del metodo ermeneutico. Quest’opera, del 1883, parte dalla
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considerazione della distonia fra lo strapotere delle scienze e lo «smarrimento dello spirito riguardo a se stesso e al proprio senso nell’universo», e tenta di dare sistematicità alle scienze dello spirito fondandole sulla ricerca di quel senso, con l’obiettivo di «cogliere il singolare, l’individuale» e la sua irripetibilità. La nuova coscienza della storia e della vita si concretizza intorno al concetto di individuo, la cui comprensione scaturisce dalla coscienza ermeneutica: «ogni scritto, ogni serie di azioni si colloca nella periferia d’un uomo, e noi cerchiamo di arrivare al centro». Non si può conoscere in modo esatto il centro a cui rinviano tutte queste «manifestazioni periferiche», ma lo si può
comprendere (ermeneutica come metodo delle scienze storiche dello spirito). La fondazione delle scienze dello spirito non si configura però come una premessa relativistica a un procedimento arbitrario. Dilthey vuole rifare nel campo delle scienze storiche ciò che aveva fatto Kant in quello delle scienze teoretiche, passando così da una critica della ragione pura a una «critica della ragione storica», con gli strumenti della ricerca storico-ermeneutica e sulla base della tradizione. Se «la metafisica come scienza è divenuta impossibile», la tensione per la trascendenza continua però a caratterizzare l’esistenza umana: «l’elemento metafisico del nostro vivere come esperienza personale, come
verità religioso-morale, resta». Infatti, «la scienza metafisica è un fenomeno storico delimitato, ma la coscienza metafisica della persona è eterna». Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, Bompiani, 905 pagine, 31,00 euro
STORIA
Il rapimento Moro minuto per minuto di Riccardo Paradisi l 9 maggio del 1978, in via Caetani a Roma, il cadavere del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, assassinato dalle Brigate rosse dopo una prigionia di 55 giorni, viene ritrovato nel bagagliaio posteriore di una Renault 4 rossa. È l’atto finale di una tragedia che precipita l’Italia in una profonda angoscia, perché se è vero che il terrorismo colpisce già da anni - nel 1975 702 volte, 1198 nel 1976, 2128 nel 1977 - il 16 marzo del 1978 le Brigate rosse con l’attentato di via Fani e il rapimento di Moro compiono quel salto di qualità che fa davvero tremare le istituzioni. A ricostruire il clima di quei mesi e di quelle giornate, sospese in un tempo irreale, esce ora per i tipi della Bur-Rizzoli Radio Moro, un libro di Andrea Salerno che racconta le tappe cronologiche di quel dramma nazionale,
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pubblicando la deposizione di Giovanni Moro, il figlio dello statista ucciso dalle Br, alla Commissione parlamentare di inchiesta: «Di tutti gli atti processuali e parlamentari - scrive Salerno - è sembrato il più adatto a rendere quel senso di bolla, di vicenda vissuta all’interno (in questo caso dalla famiglia) personale e pubblica allo stesso tempo, che caratterizza tutta l’intenzione narrativa di Radio Moro». Il libro di Salerno è anche corredato di un dvd dove si possono ascoltare le registrazioni dei notiziari radiofonici che nei 55 giorni del sequestro davano conto di quanto si muoveva nel Paese e nelle istituzioni ma diventavano anche lo strumento per
far passare messaggi e avvertimenti politici, come quello che Moro avrebbe scritto le sue lettere in uno stato di lucidità limitata e di condizionamento psicologico tali da non renderle moralmente ascrivibili a lui. Documenti che trascinano di nuovo l’ascoltatore nell’atmosfera plumbea di quei mesi del 1978 dove anche il linguaggio, a cominciare dai comunicati deliranti delle Brigate rosse per continuare con le prose involute dei dirigenti politici, sembrava assolutamente irreale. Andrea Salerno, Radio Moro, Bur-Rizzoli, 136 pagine, 19,50 euro
INEDITI
Rimbaud, la canaglia in lotta con Dio di Giovanni F. Accolla l piccolo e coraggioso editore romano Le nubi, dando alle stampe per la prima volta Rimbaud la canaglia di Bejamin Fondane, ha finalmente sventato la rapina che il silenzio stava consumando nei confronti di un grande obliato della cultura europea del secolo scorso. Benjamin Fondan non è solo scrittore, poeta, filosofo e cineasta originalissimo e neanche solo l’ebreo rumeno deportato da Parigi e morto ad Auschwitz per una certa confidenza col dolore o per incuria del male (come racconta il suo amico e connazionale Emil Cioran), ma il rappre-
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sentante di un umanesimo esistenziale che non lascia indifferenti i lettori, proprio sul piano della loro stessa vita. Il campo d’analisi è sempre la vita: Rimabud è il veggente e l’asceta attraverso il quale leggere l’esperienza del limite e della ribellione. Ma è anche la canaglia perché, camusianamente, è lo schiavo mai libero ed eternamente ribelle. «Attendo Dio con ingordigia. Sono di razza inferiore da tutta l’eternità», scrive
Rimbaud in Une Saison en Enfer, schifato dalla ragionevole adesione del suo amico Verlaine a un Dio che chiede obbedienza. L’esistenza del «poeta bambino» è una lotta, la medesima battaglia che Fondane dichiara sulle orme del maestro Lev Sestov, alle evidenze, alla filosofia dominante. Fondane punta il dito contro la religione divenuta una volgare credenza intellettuale e contro la filosofia che non indica un cam-
mino di felicità, ma è divenuta un viatico per la rassegnazione. Il Rimbaud di Fondane è quindi il combattente indomito, il prigioniero che tenta ogni via di fuga dalle anguste gabbie logiche. «Rimbaud - scrive il filosofo rumeno - vuole la libertà nella salvezza, non ne vuole un’altra. Non vuole una morale modellata di sana pianta dalle filosofie, e che rinnega dove ha perduto i suoi fondamenti metafisici». La sua fede risiede nell’insurrezione, nella lotta a viso aperto con il Creatore. Benjamin Fondane, Rimbaud la canaglia, Le nubi edizioni, 237 pagine, 15,00 euro
Di letteratura sugli angeli sono pieni gli scaffali delle librerie, ma si tratta più che altro di angeologia in salsa new age, pubblicistica consolatoria. Angeli (editrice Novalis, 221 pagine, 19,00 euro), il volume dei quaderni di Flenesburg dedicato alle gerarchie superiori dell’essere offre invece al lettore una base di indagine più sicura. Il volume racconta storia e ruolo delle gerarchie angeliche attraverso una serie di interviste a studiosi e sperimentatori della scienza dello spirito che hanno affrontato temi connessi agli angeli: in quali ambiti essi esercitano il loro influsso, in che modo artisti e pensatori si sono occupati dell’operato degli angeli, come l’io umano può entrare in contatto con l’angelo la notte, quando con il sonno esso penetra nel mondo spirituale. «La responsabilità
è sempre collettiva», «gli atti sono determinati», «la società è ingiusta». Ricordate? Sono i mantra che negli anni Settanta del secolo scorso caratterizzavano la nuova vulgata del sociologismo giuridico: per cui non esisteva il delinquente ma esistevano vittime del sistema che finivano col delinquere. «Improvvisamente però - scrive Vittorio Mathieu in Perché punire, un testo del 1977 oggi ripubblicato da Liberilibri (15,00 euro, 276 pagine) - ci si accorse che qualcuno applicava quelle dottrine come se fossero state vere: faceva a meno di rispettare l’individuo, che non esiste, praticava l’esproprio proletario e non essendo imputabile chiedeva di non essere condannato».
Storico medievista Henri-Irénée Marrou è tra le altre cose l’autore di un Traité de la musique selon l’esprit de Saint Augustin. Scritto nei primi anni del suo insegnamento a Lione (1941-1945) durante l’occupazione nazista della Francia, il libro venne pubblicato nel 1942. Il succo del saggio è che la musica è materiale ma anche invisibile, è effimera ma lascia tracce permanenti, è una debole immagine dell’eterno ma nell’ordine del sensibile la più alta e la più pura. Oggi è l’ediore Medusa a pubblicare in Italia il saggio di Henri Marrou con il titolo Il silenzio e la storia (16,50 euro, 160 pagine).
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ritratti
GIOVANNI III SOBIESKI SALITO AL TRONO DI POLONIA NEL 1674, FU L’ARTEFICE, CON I SUOI “USSARI ALATI”, DELLA VITTORIA SUI TURCHI A VIENNA NEL 1683
Jan, il liberatore di Franco Cardini n quella strana res publica Polonorum dominata da un’orgogliosa e cavalleresca nobiltà che eleggeva il suo re, salire al trono poteva essere una bella gatta da pelare. La nazione polacca, che fin dal Medioevo era strettamente collegata alla Lituania ma non si era mai fusa con essa e che guardava alla vicina Ucraina come a un territorio da contendere a russi e a turchi, aveva sviluppato un suo forte senso identitario lottando per mantenere quella specificità religiosa della quale andava fiera. Nel Medioevo, gli slavi polacchi e i balti lituani avevano dovuto fieramente guadagnarsi la loro libertà, tra Due e Quattrocento, tenendo a bada un formidabile vicino, che a lungo li aveva signoreggiati: l’Ordine ospitaliero di Santa Maria, quei «monaci-cavalieri» che noi designiamo oggi con la non proprio esatta, ma ancor terribile definizione di «Cavalieri Teutonici». Ma il fatto che, con la Riforma, l’ultimo Gran Maestro dell’Ordine, Alberto del Brandeburgo, fosse passato al luteranesimo e avesse laicizzato le terre dominio dei Cavalieri rendendosene signore, aveva radicato ancor più i polacchi nella loro scelta: cattolici e slavi contro i germani protestanti dell’Ovest. A Est v’erano altri slavi, quelli del granprincipato di Moscovia avviato a denominarsi orgogliosamente «impero», ma ortodossi; e a Sud, minacciosi, i turchi della Podolia e i tartari della Crimea (ch’erano tutto quel che restava della gloriosa e tremenda orda d’Oro).
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Circondati da protestanti, ortodossi e musulmani, i polacchi erano andati in cerca d’alleanze guardando verso l’Europa occidentale: ma nel Cinque-Seicento non avevano potuto trovarne nella Germania formalmente soggetta all’impero asburgico, dove il sovrano doveva tener troppo conto dei protestanti nelle sue terre mentre, in quanto signore ereditario di parte dell’Ungheria e della Boemia, minacciava a sua volta il confine polacco da Sud-ovest.Trattar con l’Inghilterra, riformata e quindi apostata essa stessa, giammai; la Svezia, luterana e aggressiva, era una nemica naturale che minacciava la Polonia sul Baltico. Restava la Spagna, cattolica certo, ma dominata dalla dinastia regia degli Asburgo imparentata con il non amico ramo germanico. E allora, a chi mai guardare? A chi offrire i grassi prodotti del suolo polacco, la carne, il grano, il cuoio, che avevano permesso alla nobiltà del paese d’ignorare la crisi economica del Cinquecento, quella che con il nome di «rivoluzione dei prezzi» aveva messo in ginocchio soprattutto i paesi soggetti alla monarchia di Spagna? A parte il Papa, era chiaro chi poteva essere il grande amico della Polonia. La cattolica e antiasburgica Francia, naturalmente. E difatti tra nobiltà francese e nobiltà polacca si era stabilito un legame molto stretto, che aveva consentito a molti aristocratici della pianura dell’Est di scendere spesso tra i vigneti della dolce Francia e di organizzare anche una buona politica matrimoniale con illustri casate francesi. In cambio, il Re Cristianissimo non nascondeva la sua tendenza a occuparsi delle cose polacche e a voler dir la sua quando la nobiltà sceglieva il suo re. Jan Sobieski era nato a Olesko, presso Leopoli, nel 1624. Fu educato a Parigi, come si usava all’epoca da parte dell’aristocrazia polacca; in seguito viaggiò a lungo in varie parti dell’Europa, finché non venne richiamato in patria, minacciata in quel momento, nel 1648, da un attacco dei cosacchi. I suoi meriti militari nelle continue guerre contro i cosacchi
e i turchi gli procurarono presto il titolo di grande maresciallo del regno. Tuttavia, l’episodio forse centrale della sua vita fu una storia d’amore. Nel 1649, l’appena eletto e incoronato re Giovanni Casimiro V aveva sposato Maria Luigia Gonzaga, figlia di Carlo I Gonzaga duca di Mantova e sicuro alleato della Francia nella penisola italica. La giovane regina si era portata con sé alcune damigelle di compagnia tra le quali sembra si distinguesse per grazie e bellezza mademoiselle Marie-Casimire d’Arquien, appartenente a un casato che dal canto suo (come il suo stesso nome suggerisce) aveva già conosciuto precedenti unioni matrimoniali con famiglie polacche. Il giovane Sobieski s’innamorò perdutamente della giovane: fu un vero e proprio «amore a prima vista», pare - ma qui il racconto dei biografi si tinge molto di rosa - immediatamente e profondamente ricambiato. Ma la regina Luigia aveva disposto altrimenti: e Marie-Casimire dovette andar sposa al principe d’Amoches, un attempato aristocratico dal quale essa ebbe sì figli, che peraltro tutti le premorirono. Una storia non si sa quanto attendibile, comunque tutto sommato verosimile, narra d’un patetico incontro tra i due mancati sposi e del loro giuramento, tra le lacrime, di unirsi se la sorte avesse voluto che Marie-Casimire restasse vedova: cosa che evidentemente non sembrava poi così remota. Sappiamo che, quando ciò avvenne, Jan partì all’incontro con l’amata alla testa d’un fantastico corteggio di centinaia di cavalli e cavalieri. Il sogno d’amore fu così coronato.
Frattanto, gli avvenimenti premevano. La nobiltà mordeva il freno, lacerata tra opposti partiti, fautori rispettivamente d’un’egemonia asburgica e di una francese sulla Polonia. Nel settembre del 1668 Giovanni Casimiro V fu obbligato ad abdicare e, dopo un tempestoso anno d’interregno, salì al trono elettivo Michele Korybut Wi\\u015Bniowiescki, rappresentante della fazione asburgica ma personalità piuttosto modesta: egli, in guerra con l’impero ottomano, finì nel 1672 per cedere a esso, con la pace di Buczacz, la Podolia e l’Ucraina meridionale. Era la disfatta, la disperazione. L’impero ottomano raggiungeva, con quella pace, la sua massima estensione. Ma era, per molti nobili, anche la prova che l’alleanza asburgica non era affatto garante - contrariamente a quel che i suoi fautori sostenevano - d’una più efficace difesa contro il Turco. Quando re Michele venne a mancare, nel novembre del 1673, la scelte degli elettori s’orientarono sul grande maresciallo Sobieski, che nonostante la sconfitta aveva dato ottime prove di coraggio e d’intelligenza strategica ed era l’unico ritenuto in grado di fronteggiare il pericolo turco. Dietro di lui, premeva la diplomazia del Re Sole; e Marie Casimire d’Arquien principessa d’Amoches e ormai sposa di Jan era ottima garanzia di fedeltà del nuovo re alla politica francese. Il Sobieski fu difatti eletto nel 1674: avrebbe regnato ventidue anni, fino al 1696. Gli effetti militari della nuova scelta non si fecero attendere: nel 1675 l’Ucraina tornava alla Polonia. Il nuovo sovrano dette anche segni di voler condurre una politica originale, che in un primo tempo ebbe forte carattere antiaustriaco. La vicina Ungheria era, in quel torno di tempo, divisa in tre parti: un’area molto modesta, a Nord-ovest, re della quale era l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo (ma le due corone, l’imperiale del sacro Romano Impero e la regia d’Ungheria, restavano distinte); la Transilvania, a Est, guidata da un principe vas-
sallo della Sublime Porta d’Istanbul; e un’area direttamente soggetta alla Porta e governata dal pasha di Buda. Nell’Ungheria asburgica molti erano gli scontenti, specie nell’aristocrazia protestante che contrastava la politica di ricattolicizzazione imposta da Leopoldo. Le cattolicissime Francia e Polonia appoggiavano naturalmente i protestanti ungheresi contro il loro cattolico sovrano: politique d’abord. Tuttavia, colui che non chiameremo più Jan Sobieski bensì Giovanni III di Polonia non era né tranquillo, né soddisfatto. La Turchia, vittoriosa contro Venezia nella «guerra di Candia» terminata nel 1669 e in quella contro la stessa Polonia nel 1672, aveva sottoscritto nel 1664 una tregua ventennale con l’impero: ma il momento della scadenza di essa si andava avvicinando, il sultano Mehmed IV ostentava un atteggiamento infido e sfuggente mentre il nuovo gran vizir, Kara Mustafà, dava segno di voler abbandonare la linea pacifica del suo successore e riprendere l’espansione balcani-
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sempre un atteggiamento corretto. La diplomazia spagnola, dal canto suo e per il suo specifico interesse, insisteva presso la corte viennese di Leopoldo I affinché il sovrano non si lasciasse troppo prendere dalla preoccupazione della minaccia turca e si preoccupasse invece di quel che accadeva a Ovest, alla frontiera renana. In realtà, Luigi XIV stava soffiando sul fuoco con la sua diplomazia a Istanbul, incoraggiando il gran vizir ad attaccare l’impero nei Balcani: ciò avrebbe provocato un’inevitabile reazione, che gli avrebbe lasciato mano libera sul fronte del Reno.
Il Papa aveva perfettamente compreso, ma non poté far di più che denunziare la politica «filoturca» del Re Sole, che dal canto suo naturalmente negava indignato l’evidenza. Fu pertanto un grave e inatteso colpo per lui il «voltafaccia» di Giovanni III, che tuttavia gli doveva in qualche misura il trono, e lo sapeva benissimo, e ch’era stato fino ad allora suo alleato fedele: ma che si rendeva conto che un’ulteriore espansione dell’impero ottomano nell’area balcanodanubiana era un prezzo troppo alto che la cristianità eurocentrale avrebbe dovuto pagare all’espansionismo francese nell’Europa occidentale. A influenzare comunque le scelte di re Giovanni c’era anche il parere della regina Maria-Casimira, che con il Re Sole aveva una certa ruggine per via di alcuni privilegi da lui negati alla sua famiglia. Da lì, il «rovesciamento delle alleanze» profilatosi alla fine del 1682, allorché l’esercito del sultano aveva già abbandonato Istanbul con alla testa il sultano - anche se pareva che egli avrebbe dovuto fermarsi a Edirne per una battuta di caccia - e il gran vizir.
zioni del Papa: ma la cristianità europea era pigra e incredula, timorosa delle contromosse francesi, piena di scetticismo. Solo quando le truppe ottomane - lasciato a Belgrado il sultano - entrarono in territorio ungherese si cominciò a capire. Il generalissimo imperiale, Carlo V duca di Lorena, riuscì a mettere insieme 60 mila soldati, attendendo i contingenti sassoni, bavaresi e del Baden che tardavano. Come scriveva dalla sua Roma Cristina di Svezia, ormai solo un miracolo avrebbe potuto salvare Vienna, perché era ormai chiaro che il turco puntava su di essa. L’assedio cominciò il 14 luglio del 1683: una settimana prima l’imperatore aveva lasciato la sua reggia trasferendosi a Presburgo, oggi Bratislava, alcune decine di chilometri a Est, sul Danubio. Eroicamente difesa dal conte vescovo Kollonitsch e dagli abitanti, animata dalle prediche ardenti dell’agostiniano Abraham a Sancta Clara,Vienna resisté due lunghi, tremendi mesi di paura, di fame, d’epidemia. Intanto, si organizzava la crociata anche grazie all’ardente apostolato d’un cappuccino dalla volontà di ferro, Marco d’Aviano. Ma il fatto definitivo, che segnò forse decisamente le sorti del momento, fu l’arrivo sul teatro delle colline viennesi dell’esercito polacco guidato da re Giovanni, che si congiunse con le truppe di Carlo di Lorena e, insieme con esse, assalì lo sterminato accampamento turco nella battaglia del Kahlenberg. L’arrogante e imprudente Kara Mustafà, contro il parere dei suoi migliori collaboratori Ibrahim pasha di Buda e il khan dei tartari di Crimea - non si era curato di fortificare le linee turche alle spalle. L’armata ottomana venne sbaragliata in un solo epico giorno di lotta, il 12 settembre. Gli «ussari alati» del Sobieski, con le
Regnò per ventidue anni conducendo una politica originale. L’episodio centrale della sua vita fu la storia d’amore con Marie-Casimire d’Arquien, dalla quale dipesero, in diverse fasi, i suoi rapporti politici con il Re Sole
ca. Obiettivo probabile sarebbe stata l’Ungheria settentrionale: ma, da lì, le armi turche avrebbero potuto minacciare tanto l’Austria quanto la Polonia. Cresceva nell’Europa centrale la sensazione che il tempo scarseggiasse. Anche Papa Innocenzo XI, il comasco Benedetto Odescalchi asceso al soglio nel 1676, invocava incessantemente la stipulazione di una «Santa Lega» tra le potenze cristiane contro il Turco. Il Re Sole sembrava soddisfatto (e lo era) per le nubi che si andavano addensando sulla penisola balcanica: e ne approfittava sia per rafforzare la sua pressione sulla Spagna affinché essa abbandonasse i suoi possedimenti nei Paesi bassi, sia per annettersi, con un’arrogante pretesa di legittimità sostenuta dai suoi legisti a caccia di vecchi diritti feudali, i territori imperiali dell’area renana: e difatti nel 1681 aveva occupato Strasburgo, immediatamente ingraziandosi i cattolici locali in quanto vi aveva perseguitato subito i protestanti, rispetto ai quali viceversa l’imperatore aveva tenuto
Nell’agosto del 1682, nel consiglio sultaniale, la linea del gran vizir trionfò: non si doveva rinnovare la tregua ventennale con l’impero romano-germanico stipulata nel 1664; si doveva colpire subito, prima che scadesse. Obiettivo dichiarato: mutare radicalmente gli equilibri balcano-danubiani a vantaggio della Porta, ora che Venezia e la Polonia sembravano quiete e con la Russia si era raggiunto un patto d’equilibrio per la frontiera a Nord del Mar Nero. Frattanto, proprio negli stessi giorni, si riunivano presso Vienna i consiglieri di Leopoldo imperatore, che si dichiaravano d’accordo sull’opportunità di rinnovare la tregua col sultano. L’incomprensione non avrebbe potuto esser maggiore. Ebbe così inizio, nell’autunno del 1682, la fatale «Marcia turca»: il vessillo rosso sultaniale, quello verde califfale e quello nero del profeta furono esibiti nel cortile d’onore del Topkapi insieme ai thug, le insegne tribali a coda di cavallo dell’etnia turca ottomana. Il sultanto Mehmed IV e il gran vizir Kara Mustafà partirono da Istanbul, con un seguito difficile da stabilirsi, ma sembra non inferiore ai 60 mila tra cavalieri, fanti e inservienti vari: un po’ troppi per accompagnare il Gran Signore a una battuta di caccia in terra trace. Nel marzo l’armata era a Edirne e si andava ingrossando dei contributi dei vari principati e popoli soggetti alla Porta, compresi i cristiani serbi, moldavi e valacchi; poi sarebbero arrivati anche i tartari del khanato di Crimea. Uno sterminato esercito, che finì pare con lo sfiorare le 200 mila persone (ma il computo sicuro è impossibile e le cifre variano). A quel punto, c’era da chiedersi se il Turco puntasse solo sull’Ungheria o se la sua mèta non potesse essere Praga, Cracovia o magari lo stesso «Aureo Pomo» delle leggende turche, Vienna, dalla quale poi il balzo su Roma sarebbe stato facile. In realtà, le cose stavano altrimenti: ma si sapeva che il gran vizir amava vantarsi di voler portare i suoi cavalli ad abbeverarsi nelle vasche di San Pietro e ridurre la basilica pontificia a stalla sultaniale. La critica storica di oggi, quella seria, ritiene che non avrebbe potuto farcela e che tali non erano nemmeno sul serio le sue intenzioni: ma la voce allora correva e con essa cresceva la paura.Troppo tardi la compagine imperiale si mosse, alfine seguendo le indica-
loro grandi ali angeliche fissate sul dorsale delle corazze le cui penne producevano durante la carica un lungo, pauroso sibilo, furono i protagonisti della vittoria. La sera del 12 il campo ottomano veniva invaso e saccheggiato: e Giovanni III poteva scrivere una dolce e trionfante lettera all’amata Maria Casimira.
Fuit homo missus a Deo, cui nome erat Johannes, poteva scrivere Papa Innocenzo XI citando l’inizio del Vangelo di Giovanni in onore del re di Polonia. La vittoria venne dedicata alla Madonna, s’istituì la festa liturgica del Nome di Maria, le insegne turche catturate furono spedite ai santuari di Czestochowa e di Loreto. Ma l’incanto non durò a lungo. L’imperatore, rientrato in Vienna e non troppo bene accolto dai viennesi che non gli perdonavano di averli abbandonati, trattò con altera e invidiosa freddezza il polacco che aveva liberato la sua capitale. Sarebbe stato il momento buono per inseguire l’armata turca in ritirata e annientarla: invece si perse l’occasione favorevole. La guerra balcanica proseguì; furono liberate Buda e Belgrado; Venezia e la Russia raggiunsero la Santa Lega proclamata dal Papa; e si giunse infine alla pace di Karlowitz del 1699, vero e proprio atto politico-diplomatico che segnò d’avvìo del lento ma ormai irreversibile tramonto dell’impero ottomano. Ma re Giovanni, amareggiato per l’ingratitudine che l’aveva circondato dopo la vittoria, si era ormai tirato in disparte. La delusione lo aveva condotto a riavvicinarsi a Luigi XIV, che intanto aveva di nuovo invaso le contese terre a Est del suo regno. Era invecchiato anzitempo, tormentato da un cattivo stato di salute, ormai divenuto grasso fino ad apparire enorme. I polacchi lo amavano, ma lo ritenevano avaro, superbo, irascibile. Era ormai riuscito a riconquistare i territori polacchi e ucraini a Sud e a Est, ristabilendo i confini precedenti al 1672; ma non aveva potuto risolvere l’annoso problema istituzionale polacco, quello d’una res publica di riottosi boiardi che miravano sistematicamente a eleggere un sovrano debole, che li lasciasse far quel che volevano; e che non apprezzavano i suoi sforzi per la fondazione di una monarchia solida. Morì nel 1696 a Wilanów. Aveva settantadue anni: una bella età, per la fine del Seicento e per la sua mole.
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TV
I ragazzi preferiscono
di Pier Mario Fasanotti hi nel 1968 avesse avuto dai 15 anni in su, certamente ricorderà il grande successo di quel serial che era chiamato La famiglia Benvenuti. Con l’ausilio della nuova Garzantina-Tv (a cura di Aldo Grasso) si viene a sapere che l’ideatore era Alfredo Giannetti. Il quale mise in scena un ragazzino lentigginoso e furbetto, Giusva Fioravanti, noto ormai per i suoi trascorsi di terrorista nero nonché marito di Francesca Mambro (entrambi accusati della strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980). Stranezze della vita: il 1968 segnava l’inizio delle turbolenze all’interno (anche) della famiglia, eppure quel serial ne celebrava la coesione offrendo del primo nucleo sociale l’immagine di calore, di emotività forte e genuina. A quarant’anni di distanza c’è qualcosa che assomiglia: I Cesaroni (su canale 5). Grande successo. Di nuovo. A tal punto da impensierire qualsiasi altro programma in concorrenza nella stessa fascia oraria, financo il Festival di Sanremo. Quali le ragioni? Innanzitutto il protagonista Giulio, Claudio Amendola, è bravissimo e si muove senza far minuetti retorici attorno al «volemosi bene» del quartiere romano della Garbatella, sempre in agguato com’è il dolciastro dei valori über alles, della famiglia (allargata) riunita in stile Mulino Bianco al tavolo di cucina, l’orgoglioso sospirare degli adulti quando i ragazzi vanno a letto, il chiacchiericcio con gli amici del bar, il prendersi in giro sul filo dell’amicizia e della cordialità. Il ruolo di Amendola è rafforzato da quello della moglie Lucia, ossia Elena Sofia Ricci: in splendida forma, sia come donna sia come attrice.Tre sono le figlie di lei (ex marito a Milano), tre sono i figli (maschi) di lui (orfani di madre). Lo spettatore prova sollievo: vedi un po’, quelli stanno insieme e si aiutano, e se c’è qualche problema alla fine diventa comune, condiviso. La famiglia come nido: nessuna invenzione teatrale, è solo la verità, priva di acrobazie psico-filosofiche. E poi le miserie del malaffare politico stanno fuori, non inquinano un «dentro» che è composto di affetti, complicità, conflitti, comicità, fraintendimenti, solidarietà. La normalità in cui ognuno vorrebbe tuffarsi. A seguire I Cesaroni sono molti ragazzi. A identificarsi con quello che magari non hanno e che vorrebbero avere. Oppure con quel che hanno e che non vedono così bene da vicino. E così snobbano Le iene (Italia 1), dove uno spilungone genovese ammicca alla furbizia sessuale, e fa l’italiano che si crede vivo solo se afferra con lo sguardo una scollatura esagerata.
C
i Cesaroni
FOTO DI
LUCIANA ZIGIOTTI
(meglio la famiglia delle “Iene”)
web
CRONACA NERA SU CRIMEBLOG
video
games
RING OF FATES, L’AVVENTURA CONTINUA
dvd
ASCESA E DECLINO DELLA LAMBRETTA
È
nato lo scorso gennaio 2008 ma è già tra i siti Internet più cliccati in Italia. Si chiama CrimeBlog (supplemento della testata Blogo.it), è raggiungibile su www.crimeblog.it e aggiorna quotidianamente gli appassionati di cronaca nera e giudiziaria circa gli omicidi, gli assassini, le sparatorie e le curiosità del settore. Dal delitto di Perugia a quello di Garlasco, passando per la strage di Erba o il caso Aldrovandi, i
N
el mondo dei videogiochi si fa un gran parlare di next-generation, riferendosi soprattutto a Xbox 360, Ps3 e Wii, ma molti si dimenticano che la console più venduta degli ultimi anni è il Ds, gioiellino portatile della Nintendo, che domina contemporaneamente il mercato americano, quello europeo e quello giapponese. Proprio sul Nintendo Ds è uscito, in questi giorni, Final Fantasy Crystal Chronicles: Ring of Fates, ultimo capitolo
U
scita a pezzi dalla seconda guerra mondiale, l’Italia del 1947 cerca di risollevarsi dalle ambasce, e anche se alla sua prima uscita la Lambretta non incontra grandi favori, il 1950 la consegna all’immaginario nazionale come un simbolo di rinascita. Le strade si popolano di questi piccoli scooter che corrono verso il mare, la campagna o l’ufficio, e tutti i nuovi centauri accarezzano un’idea di benessere e di ritrovata
Nato a gennaio, è già tra i siti internet più cliccati in Italia. Casi reali ma anche letteratura
Per Nintendo Ds, il nuovo capitolo della saga “Final Fantasy Crystal Chronicles”
La breve avventura di un motorino che fece sognare (e sperare) gli italiani nel dopoguerra
curatori del blog hanno dedicato una sezione anche agli investigatori e ai detective letterari. Tra le rubriche di attualità più visitate, al cui interno è possibile intervenire lasciando un commento scritto nell’apposito forum, spiccano i «casi insoluti», il «cinema criminale», le «inchieste e processi», i «piccoli omicidi senza importanza», o «dei delitti e delle pene». Inoltre, per non perdere gli aggiornamenti più importanti, nell’homepage del sito è possibile anche effettuare una breve e gratuita registrazione per poter ricevere regolarmente le newsletter nella propria casella di posta elettronica.
della saga jrpg di Square Enix. Il gioco, uscito originariamente per lo sfortunato GameCube (sempre di Nintendo), conserva tutti i pregi della versione «non portatile» e si sbarazza dei difetti (soprattutto nel multiplayer) che ne avevano impedito il successo mondiale. Nel suo genere - quello dei giochi di ruolo «japanese-style» - Ring of Fates è praticamente perfetto: spettacolare sistema cooperativo; grafica deliziosa; colonna sonora all’altezza della situazione; sistema di combattimento semplice da imparare e divertente da gestire. Se siete alla ricerca di un mondo da esplorare, anche quando aspettate la metropolitana, questo è il gioco che fa per voi.
libertà. Prodotto dall’Istituto Luce, per la regia di Enrico Settimi, il documentario La Lambretta - Ascesa e declino di un miracolo italiano, ripercorre in maniera frizzante la breve, intensa avventura di un motorino che divise con la Vespa le simpatie degli italiani, per poi svanire nel nulla a ridosso degli anni Settanta, travolta dal boom delle automobili. Immagini del tempo, gran ritmo e musica vivace, ci accompagnano in un mondo semplice, in uno strapaese che sogna a occhi aperti vacanze romane e domeniche d’agosto, che a bordo del mitico modello c prova a mettersi alle spalle la miseria, per inseguire la gioia e la spensieratezza.
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pagina 11 • 22 marzo 2008
Dall’Egitto conamore di Anselma Dell’Olio ppena si finisce di vedere La banda, ci si chiede chi è Eran Kolirin e come diavolo ha fatto a scrivere e dirigere un’opera prima perfetta. Tra i molti riconoscimenti attribuiti a questo debutto sorprendente, il più calzante è quello vinto al Festival di Cannes nella sezione Un certainr regard del 2007: Premio Coup de coeur. Kolirin, classe 1973, è israeliano con un curriculum fitto di lavori televisivi, in un’epoca in cui l’aggettivo è usato unicamente per film piatti, superficiali, di facile e distratto consumo. (Ingiustamente, se si pensa a serie come I Soprano, 24, Six Feet Under, Csi e tante altre, tutte americane). Inteso in senso negativo, La banda non ha un solo fotogramma che può definirsi «televisivo». È un film d’autore con tutti i requisiti, salvo quello di far fuggire gli spettatori, testimoniato dai vari «premi del pubblico» vinti ai festival. Nel cinema d’autore al suo meglio, ciò che conta è lo sguardo, l’insieme di dettagli che traccia non solo una storia, ma uno stato d’animo, una percezione del mondo che sveglia, esprime, rende tangibile qualcosa d’assopito o di afasico o d’informe in noi.
A
Una piccola banda musicale della polizia egiziana arriva in un aeroporto israeliano su invito di una comunità araba. Per un disguido burocratico non c’è nessuno ad accoglierla. I membri della banda restano allineati sotto il sole, nelle loro alte uniformi di un improbabile azzurro-pastello, il colore dei fiocchi sui portoni che, un tempo, annunciavano la nascita di maschietti. Sono smarriti, in terra straniera e per tragica tradizione ostile.Telefonate al Ministero finiscono in una non-comunicazione di kafkiana comicità. Devono sbrigarsela da soli. Il film racconta la loro odissea e il tentativo di mantenere com-
postezza e dignità in una situazione umiliante. Sono arrivati in Israele per suonare all’inaugurazione di un centro culturale arabo in una cittadina oscura. Purtroppo ce ne sono due con nomi simili, ma questo ancora non lo sanno. Dal primo momento si staglia la figura del direttore. «Tenente colonnello Tawfiq Zacharya», come si presenta impettito l’uomo che deve salvare il salvabile dall’esilarante incidente di percorso. Se c’è qualcuno che non s’innamori all’istante del protagonista (abitato, più che recitato, da Sasson Gabai, un attore stravolgente), questo qualcuno è meglio evitarlo: soggetto pericolosamente insensibile.
tafogli e guarda la foto di una donna. A comunicargli l’errore di destinazione sarà Dina, caustica proprietaria di un bar, alla quale si rivolge per informazioni. «Centro culturale egiziano? Non c’è un centro culturale qui, né israeliano né arabo», gli risponde la donna, con un gesto sprezzante verso i casolari desolanti, tutti uguali, e la sparuta fila di palme che fa da mesto arredo esterno.
Sarà questa vitale e tosta cinquantenne a spiegargli la confusione tra «Peta Tikvah», dove sono attesi e «Bet Tikvah», dove l’orchestra si è arenata con l’ultimo pullman della giornata. La buona notizia
Un’orchestra si reca in Israele per l’inaugurazione di un Centro culturale arabo... Nella “Banda” di Eran Kolirin l’autentica nostalgia per la conversazione interrotta con i vicini. Una lezione di pacifismo più efficace delle demonizzazioni antisraeliane e antioccidentali Tawfiq è il ritratto di un ufficiale fuori sede e fuori ambiente, responsabile per la buona condotta, il benessere e soprattutto l’onore della sua piccola truppa d’orchestrali. Dal suo contegno impeccabile traspare un dolore insanabile, un danno profondo, al quale s’aggiunge la beffa della situazione ridicola in cui si trova. L’istituzione che dà struttura e significato alla sua esistenza, lo ha tradito; ma lui, come militare egiziano in missione all’estero, non può nemmeno lamentarsi. In tempo dovuto e al momento giusto, sarà rivelato il segreto intimo racchiuso in ogni fibra di Tawfiq. Per il momento c’è un solo indizio, che può passare inosservato o essere frainteso: tira fuori il por-
è che arriveranno nel posto giusto il giorno dopo, in tempo per la cerimonia; la cattiva è che, dove sono, non c’è uno straccio d’albergo. Ma Dina (l’indimenticabile Ronit Elkabetz, che prende in pugno il film e non lo molla più), felice di qualsiasi novità che rompa la monotonia di questo posto isolato, lo accoglie con cortese voluttà: «Siamo onorati di avere la banda della polizia d’Alessandria qui, generale». La scherzosa «promozione» di grado del capobanda riveste di pugnace ironia il suo interesse per un uomo baffuto, dolente e virile. Dice che due orchestrali possono stare da lei e invita Tawfiq, che si porta dietro Khaled, il più aitante ed arrapato della compagnia, per tenerlo d’occhio; gli
altri andranno da famiglie locali. Seguaimo a turno i vari musicisti negli incontri sfasati e agrodolci che costellano la loro lunga nottata nel deserto. Khaled, il trombettista, prova improbabili rimorchi a colpi di: «Conosci Chet Baker?» e qualche strofa cantata a cappella di My Funny Valentine. Il siparietto in cui insegna all’imbranato israeliano Papi l’arte del corteggiamento di una triste sosia di Frida Kahlo è imperdibile. Il clarinettista Simon (Khalifa Natour), vice di Tawfiq, in eterna attesa di dirigere una volta l’orchestra anche lui, si trova imbarazzato ospite in una casa dove si celebra un compleanno. La delicatezza di Simon di fronte ai classici e comici battibecchi tra i coniugi che lo ospitano crea un aggancio tra i nemici storici che i vari falliti film antiguerra recenti si sognano. Dall’altra parte l’infinita considerazione ebraica per la cultura insidia la diffidenza verso l’arabo, quando gli scettici padroni di casa ascoltano, incantati, l’ouverture incompiuta del compositore frustrato Simon. (Il sapiente uso della musica nella storia, sempre appropriato e mai invadente, è un piccolo miracolo). Nel film si ricorda un fatto vero: negli anni Ottanta tutto Israele si fermava per guardare il film arabo trasmesso ogni venerdì sull’unico canale del paese, con il fiato sospeso per le trame contorte, gli amori impossibili e le tremende sofferenze di Omar Sharif e gli altri attori arabi dell’epoca. Oggi, dice il regista, ci sono oltre 500 canali, ma quei film non si trasmettono più. In La banda non ci sono mai parole usurate come pacifismo e dialogo. Ma nel suo film Kolirin trasmette con struggente consapevolezza la nostalgia per una conversazione interrotta con i vicini, semiti anche loro, più efficace di mille pellicole colpevolizzanti che demonizzano Israele e l’Occidente.
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pagina 12 • 22 marzo 2008
IO DAL MIO POGGIO Io dal mio poggio, Quando tacciono i venti tra le torri Della vaga Firenze, odo un Silvano Ospite ignoto a’ taciti eremiti Del vicino Oliveto: ei sul meriggio Fa sua casa un frascato, e a suon d’avena Le pecorelle sue chiama alla fonte. Chiama due brune giovani la sera, Né piegar erba mi parean ballando. UGO FOSCOLO da Le Grazie
LA NORMALITÀ PERDUTA DI MILANO in libreria
di Loretto Rafanelli l viaggio milanese di Maurizio Cucchi, è una passeggiata, anzi citando il grande Sereni, una traversata (La traversata di Milano, Mondadori, 192 pagine, 17,00 euro), che si snoda nel presente e verso il crinale degli anni trascorsi, senza però affondare nella nostalgia delle belle cose andate. L’affresco che egli traccia ci giunge struggente e delizioso, ricco di conoscenze della città e delle persone che vi hanno abitato, in primis i poeti (a partire dai «milanesi» Stendhal e Petrarca). Come era ovvio, essendo Cucchi non solo uno dei poeti italiani più importanti, ma pure il conoscitore (con antologie, dizionari, attività giornalistica), circostanziato, della comunità dei poeti. Un libro, dalla lim-
I
Con amore e passione, Maurizio Cucchi svela la sua patria, una città segreta e intensa che solo i poeti sanno vedere pida intensità narrativa e dalle vibranti emozioni, che ci ricorda non solo la città d’arte ma pure la Milano «minore», soprattutto la semplice periferia, dove sta il baricentro del sentire di Cucchi. Perché egli tende a dirigersi sempre più verso questo «esterno».Verso quella «normalità quotidiana» che la città effervescente della moda ha smarrito. Le storie minute che ci espone sono un racconto nel racconto, i tanti personaggi di una Milano umile e lontana, eroica e vera. Il libro di Cucchi è squisitamente partigiano, egli non ammette defezioni verso la sua città, sia che si parli di gastronomia - «è tra le più complete e pregevoli del mondo», ed è vile chi non lo riconosce -, o del carattere milanese o dei pittori. Amore e passione quindi per Milano, intesa quasi come un’idea, una patria, per quanto aperta e generosa con gli «altri», una cerchia magica del tempo. La sua «lezione» ci svela, dietro la moderna metropoli, una città segreta e antica, intensa e raffinata. A conferma che solo i poeti, sanno guardare e dirci dei luoghi, dei volti.
poesia
Descrivere mai e diping di Leone Piccioni ra il 1812 e il 1814 Foscolo passa a Firenze giorni belli.Abita a Bellosguardo in una splendida villa, lavora alle Grazie, scrive lettere talmente belle che poteva nascere il sospetto che volesse farne un libro a sé, è circondato da tante donne, come lui vuole, specialmente se belle e piene di carattere. A tre donne dedica le Grazie e vorrebbe inizialmente tenerne nascosti i nomi. Ma non ci riesce. Luogo frequentemente visitato dal poeta (e ne trae molti motivi ironici) è la casa del Lungarno dove visseVittorio Alfieri con la sua compagna Contessa d’Albany legatasi, dopo la morte dell’Alfieri, al pittore Fabre. E da lui Foscolo impara una massima che potrebbe segnare il distacco tra la produzione precedente (Ortis, Sonetti, Sepolcri, Orazione a Pavia) e quella centrale di Firenze: «nella poesia bisogna non descrivere mai e dipingere sempre». Impara anche dal Fabre l’uso della «velatura», un metodo in atto nei pittori per dare lontananze e suggestioni al quadro dipinto. Foscolo saprà fare uso della «velatura» in tanti frammenti delle Grazie. Anche alle Grazie risponde con un’opera di prosa: Le lettere spedite dall’Inghilterra e Il Gazzettino del bel mondo, facendo uso a tutta prova del bon ton (oggi in voga ma in uso da secoli). Sono detti anche scritti didimei, legati allo stile di Sterne, e alla traduzione da parte del Foscolo del Viaggio sentimentale rimandandoli tutti alla Notizia intorno al Didimo Chierico. Come si sa le Grazie sono rimaste allo stato di frammento con un fitto intrico di varianti: varianti per lo
T
stesso frammento, a decine, e varianti per tante poesie concepite e messe da parte. È stato infatti impossibile ricostruire un’edizione critica di questo capolavoro. Gli studiosi che più se ne sono occupati, Pagliai e Scotti (quest’ultimo ha concluso l’edizione critica) hanno cercato di ordinare cronologicamente i vari frammenti senza pretese di continuità espressiva. Se la nascita delle Grazie coincide con quel «descrivere mai e dipingere sempre», c’è un frammento qui riportato che segna uno dei punti più alti e più nuovi non solo della poesia foscoliana. Se ne accorse De Robertis.Tre momenti nel frammento: una splendida apertura che mette Foscolo tra le torri e i venti ribelli della splendente Firenze. Poi con un passaggio di grande quiete ecco un panorama pastorale alle spalle della città: il pastore sconosciuto in quella zona conduce le «pecorelle sue» a bere alla fonte: le chiama per dirigerle verso lo zampillo dell’acqua. Ma qui si determina un miracolo dell’ispirazione, un tratto che sembra nascere da un moto delirante del cuore e della mente: «le pecorelle sue chiama alla fonte / Chiama due brune giovani la sera, / né piegar erba mi parean ballando». Inventare poeticamente sarà partire da un dato reale di bellezza o d’amore, per poi sintetizzare e contemporaneamente ascendere a un clima dove il mito si fondi alla realtà, non lasci più margine, risulti a sé stante: e insieme possa ancora consentire a chi partecipa di quel momento inventivo di ridiscendere ai dati reali della suggestione poetica e aspirare insieme a quelli mitici che valgono per tutti, che abbiano
UN POPOLO D Novembre è finito dentro un bar su quei tavoli piccoli piccoli dove ci stanno le tazza brune di cioccolata e di tè. Sulle basole lisce cammini e mi chiedi delle guance di Marisa della sessione d’esame. Il 225 dalla stazione porta alla fine della città, ha le vene celesti e uno strano cappello la donna che ci siede accanto. Chissà dove va, adesso che è sera.
di Marina Mongiovi
Sei bellissima ma non come prima. Mi dispiace dirtelo ma sono sincero. Non sono un bugiardo nessuno mi ha pagato per dirti la verità il tempo lo sa. Sei bellissima per me più di prima più di quando l’amore rubava le nostre ore. Sei bellissima più di prima sono certo così anche nel vespro.
Bellissima (Gioco di parole) di Aniello Sabatelli
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli a troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal M
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ngere sempre: la genesi delle “Grazie” valore di simbolo ma siano al contempo fatti di sangue e di esperienza. Nel delirio inventivo del poeta si induce anche un delirante momento del fruitore. Nelle Grazie vediamo la bellezza, la leggerezza fluente, un canto mai sazio e un fondo di malinconia quando si riflette ai giorni che verranno: l’agguato del tempo è irrimediabile. E ad Antonietta Fagnani Arese, un Foscolo ancor giovane scrive: «Tutto cangia, tutto si perde quaggiù… tutto! Quelle trecce che tu con tanta cura componi… vedi vedi! ti biancheggiano già tra le dita». La morte dunque è pur presente in questi straordinari frammenti, ma io penso ai Sepolcri come a una grande Messa da Requiem (Verdi, per esempio) e invece ai riferimenti delle Grazie come a una dolce Pavana (di Ravel, ad esempio). «Recate insieme, o vergini, le conche / dell’alabastro, provvido di fresca / linfa e di vita ahi breve ai montanini / gelsomini, e alla mammola dogliosa / di non morir sul seno alla fuggiasca / ninfa di Pretolino, o sospirata / dal solitario venticel notturno». Ed ecco il cavalier del fiorellino. Da una bella donna - descrive «ebbi tutt’al più un fiorellino, colto forse nel suo giardino e regalatomi dalle mani maestre dell’arpa: me lo infilai nell’occhiello del mio frack e m’è forse passato per la mente il capriccio di dichiararmi secretamente cavaliere della bella persona fondatrice dell’ordine del Fiorellino: ma il fiorellino frattanto appassiva; m’ingegnai di tenerlo vivo; avrei voluto spruzzarlo di qualche lagrima e rinfrescarlo, ma io lagrime non ne aveva e le foglie diventarono così aride che il vento di Bellosgardo se le portò via a mezzo luglio. Rimane bensì un po’di fragranza di quel fioretto sul panno del
frack ove fu appeso per qualche giorno, svanirà la fragranza ma non mai la memoria, ma la memoria sarà riscaldata dalla fiamma del cuore, e incarnata dal pennello magico della fantasia». Dalla Contessa d’Albany Foscolo andava spesso a chiacchierare del più e del meno senza sottrarsi a pettegolezzi che a lei piacevano; ma «la Contessa alfiereggia ed io vorrei che le donne petrarcheggiassero tutte giovani e vecchie». Ma dalla Contessa conosce una nuova persona: «È la statua dellaVenere di Canova... Una bocca vergine su la quale avrei sospirato appena, ma non avrei osato baciarla - e poi mi sento ancora errar su le labbra certa dolcezza di tre baci (le tre Grazie evidentemente, nda) ma non bisogna pensarci più» e ancora: «Ah! S’io potessi pigliarmi confidenza e giurerei di non baciarla che su la fronte». Nella loro stessa umbratilità e vibrazione, Foscolo vuol mettere al riparo queste forme di bellezza e se nelle prose o nei frammenti si mostrano a noi già all’estremo rigoglio della bellezza, lì lì al valico del versante che le riponga nell’ombra irrimandabile, nei frammenti più alti delle Grazie le strofe sono investite da una limpida luce, chiarissima, splendono incorrotte, ma non perciò perdono di sangue e di colore umano né si raggelano a distanza: splendono a patto di un’illusione imposta, splendono nella determinata rinuncia da parte del poeta a considerarle se non purissime e ferme nella memoria: incorruttibile memoria che può rendere quelle forme «immortali tra noi pria che l’Eliso / sull’ali occulte fuggano degli anni». Chiama due brune giovani la sera Né piegar erba mi parean ballando.
DI POETI Sorridevi! Mi rammento ancora il tuo viso così gaio e ridente. Ancor oggi sovvien nella mia mente la tua energia. Ricordo te che allora m’eri maestra; rivedo che correggi in quei temi errori di grammatica e nei compiti miei di matematica rifinisci, solerte, quei conteggi. Ti ravviso: la cera bianca, mora con taglio corto, il sorriso bello. Sapevi di morire: in te il fardello di quel tumore. E sorridevi ancora!
E sorridevi ancora! (Poesia dedicata alla memoria della mia maestra Gianna) di Marco di Clemente
autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
il club di calliope Batte un gong misterioso nei cieli e lo registra il cuore della terra. Credeva di dormire all’infinito il seme, né sapeva di non esistere. Oggi lentissimamente si scuote, la novità s’inventa di un respiro. Fossi quel seme. Voglio voglio voglio la sua avventura. Volere l’avventura è già iniziarsi, è già un minimo slancio ascensionale. Nessuno mi ricacci in labirinti terragni senza ossigeno di luce.
Maria Luisa Spaziani da La luna è già alta (Mondadori)
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PITTURA
arti
Penone la verità della materia di Marco Vallora n microscopico, sagomato scorpioncino vivo, chissà se grazie all’olfatto o al respiro simbiotico del mondo, ha trovato la via per scivolare sotto il plexiglas corazzato dell’opera Natura delle foglie, di questa magnifica mostra a Villa Medici, e si è diposto beato per un istante, come un perfetto emblema araldico: non poteva ottener dono migliore il grandissimo, segreto artista Giuseppe Penone, uno dei pochi artisti veri di questo desolante panorama di bluff alla moda. La Natura che risale la via faticosa dell’Arte, il bronzo che riproduce il sortilegio palpitante della natura naturans, com’è subito evidente da quella «pietra d’inciampo e d’incanto» che è l’opera d’introibo, Anatomia 6. Un blocco lavorato di marmo acerbo, quasi fosse la viscera graffiata e convalescente d’un organo, sommerso e respirante, trapassato da un rigagnolo mormorante d’acqua: la linfa sussurrata dello sguardo. Perché Penone è tutto in questo intensissimo e coerente gioco di costellazioni concentriche, di analogie modulate, di respirazioni comuni e cosificate, tra l’universo uman-animale, vegetale, minerale. La circolazione bianco-sanguigna del nostro sentire visivo, le vene tachicardiche della nostra pulsazione interiore, che riverberano nelle vene che si ramificano a rizoma nel legno, e che ritrovi echeggiate nelle vene animate del marmo: tanto solido e polito, quanto fragile e frangibile. L’incredibile sensazione d’entrare dentro le guancie interne e scavate della pelle candida del marmo, guardata dall’altra parte della sua epidermide rasata (altro che l’attraversamento tassonomico delle mucche in formalina di Damien Hirst!). L’onda concentrica dell’acqua, che si fa pietra fluida, lo sguardo dello spettatore che si materializza, come un periscopio di cristallo, sospeso su una piccola piantagione di lecci d’appartamento, il polpastrello che lascia una sua impronta inchiostrata sul foglio. E che poco a poco, cerchio dopo cerchio, l’amplificazione vibratile del gesto di graffite propaga sino a somigliare il volto del mondo. In un’icona concentrica e avvolgente di capigliatura cosmica, che evoca insieme i pianeti occhiuti di Odilon Redon come le macro-grafie di Gnoli, l’Art Brut degli ossessivi e il volto a bersaglio del Cristo di Claude Mellan. Nomi che non hanno probabilmente nessun senso, con Penone, che è davvero un artista diverso, originale, dolcemente
U
feroce, con questo nostro mondo finto, plasticato, lucidato come un cucinino di formica: «con sempre meno rugosità, immagini scivolose come la bava irridescente di una lumaca, che scivola sulla superficie del mondo senza conoscerne il suo volume». Penone ascolta la pelle del mondo, la carezza, la rifluisce e solidifica nella sensibilità del bronzo. Ritrova sotto l’immagine specchiata una rugosità da callo contadino, come un cieco che avverta col tatto la verità assoluta della materia. Raramente un artista sa aggiungere qualcosa alla sua arte: lui te la spiega, ed è essenziale il suo racconto germinante, perché - come suggerisce il curatore Richard Peduzzi, illuminante come sempre: «egli tende la mano verso l’opera come se volesse indicarne il cammino». Da rabdomante. «Vede e respira ogni cosa, tentando di domare la vita». Dà materia all’impronta del fiato, trasforma la gravità in un pensiero acrobatico senza peso, come nel magnifico albero di bronzo d’innanzi la villa, quasi un boxeur sognante: «un pensiero di tre tonnellate, sospeso tra i rami di un albero». Invicibile, se illuminato nel tramonto romano. Accanto allo sguardo immateriale che si fa arco, freccia snudata, esercito di dardi sfoglianti come in un Macbeth pacifico, armata friabile, che aggredisce la scalinata di Villa Medici, con una sapienza del genius loci, che solo Paolini aveva saputo raggiungere, maggiore ancora di quella di Kiefer. Cézanne ripeteva: «Riportare Poussin nella natura». Penone «ripianta» le elucubrazioni dei troppi cloni di Beuys nella verità viva della Cosa.
Giuseppe Penone, Villa Medici, Roma, fino al 25 marzo
MobyDICK
22 marzo 2008 • pagina 15
MODA
Grandi firme al servizio dello star-system di Roselina Salemi
Q
uanto è fondamentale sapere che Cécilia Ciganer-Albéniz (ex Sarkozy) e Richard Attias hanno scelto di indossare abiti e accessori Versace per loro nozze newyorkesi alla fine di marzo? Che il total look si estende anche ai vari figli della coppia? Forse si può vivere benissimo senza saperlo, ma il problema è che è impossibile non saperlo. Il mondo delle celebrity è l’altra faccia della moda, la corsa al «chi veste chi» è l’aspetto concreto della ritualità stagionale: sfilate, tormenti creativi, idee forti. E può capitare che una tendenza passi più attraverso il cinema, la fiction o l‘ego ingombrante di una mezza star, piuttosto che attraverso strabilianti virtuosismi o concettuali tailleur, elaborati come chiese barocche. Tutto è abilmente calcolato, dagli abiti di John Richmond nell’italianissimo Come tu mi vuoi (con Carolina Crescentini e Nicolas Vaporidis) al giubbotto Belstaff, protagonista dell’apocalittico Io sono leggenda con Will Smith. Del mondo si è salvato poco: un cane e la Trialmaster Legend Jacket. Non è stato sempre così. Il famoso abito bianco con gonna plissettata di Marilyn era stato comprato ai grandi magazzini dal costumista William Travilla, che non immaginava di aver creato un’icona. Adesso non c’è star che non porti a spasso una firma, non c’è inaugurazione, premiazione, cerimonia, che non si traduca in una metaforica medaglietta appuntata sul petto dello stilista. Johnny Depp e Beyoncè in Armani, Kylie Minogue in Burberry, Catherine Zeta- Jones in Cavalli rosa shocking, Penelope Cruz in Chanel piumato. Studiare look e consumi è diven-
tato un mestiere, ma quella del successo non è una scienza esatta. Nessuno poteva immaginare che le ragazzine sarebbero impazzite per le Asics nere e rosa portate da Uma Thurman in Kill Bill. O che Sarah Michelle Gellar, ovvero Buffy l’ammazzavampiri (una serie tivù durata sette anni), avrebbe avuto migliaia di sosia con giacchine dark e stivali da combattimento. Per le trentenni metropolitane, a sorpresa, la Bibbia è stata (e continua a esserlo, causa repliche), Sex and The City. Mentre Desperate Housewives, ha consacrato Eva Longoria-Gabrielle, con gli abitini strizzati e il tacco 12. Sommersa dalle richieste, la Abc è passata al merchandising. Sul sito è possibile comprare il corredo delle Casalinghe: il grembiulino di Bree, la borsetta di Edie, le scarpe di Gabrielle, l’abitino di Lynette. Non si tratta soltanto di far girare soldi e riempire gli armadi. Sell’autobus della celebrità sale ogni giorno troppa gente: dappertutto cristalli, strass, ricami, strascichi e pochissimo stile. Per cercare un’icona bisogna andare indietro nel tempo, verso le solite Audrey Hepbrun, Jackie kennedy, Grace Kelly o la povera Lady D. Tutte morte. Ma forse l’icona non serve più. Superata. Ognuno trova il modello che preferisce nel protagonista di turno della gossip society, da Sanremo al Grande Fratello, da Cecilia a Carla, da Nicole a Britney e lo cambia a ogni stagione. Perciò, nell’affollato e volubile Olimpo, agli stilisti tocca vestire tutti.
Catherine Zeta-Jones vestita da Roberto Cavalli. A sinistra, Johnny Depp in Armani
autostorie
Vademecum per l’automobilista arrabbiato di Paolo Malagodi cco un volume che, oltre a regalare alcune ore di spassosa lettura, andrebbe sempre tenuto a portata di mano dell’automobilista. Ben riposto nel cassetto portadocumenti della vettura, per scorrerne qualche brano con i nervi tesi e nel bel mezzo di un ennesimo blocco della circolazione, riflettendo magari sull’assunto che «la coda è uno stress a gradazione progressiva. Prima la speranza consolatoria (“Vedrai che dura poco, non c’è mai a quest’ora”). Poi l’illusione percettiva (“Vedi che si muove? Lentamente, ma si muove”). Poi la consapevolezza razionale (“Non si muove per niente, ci vorrà almeno un’ora”). Poi la rabbia indiscriminata (“Ma perché non si muove, che fanno
E
questi bastardi?”). Poi la disperazione solitaria (“Perderò minimo due ore, come faccio?”). Poi il risentimento universale (“Siamo troppi! L’abbiamo voluta la libera circolazione?”). Poi la rassegnazione filosofica (“Prima o poi tutto finisce, ne verremo fuori, fossero questi i guai della vita”). Rassegnarsi da subito farebbe molto meglio alla salute, ma mica siamo tutti filosofi». Una sequenza non troppo paradossale, dati gli accadimenti quotidiani, che svela le tormentate e tormentose emozioni di chi impugna il volante. In frangenti messi sotto esame senza falsi pudori, né paraventi ideologici, ma con la giusta intelligenza che ha sempre permesso al buon comico di rappresentare il re anche nudo. Allo stesso modo è Gioele Dix - eclettico autore e interprete di molti ruoli, tra cui quello del-
l’arrabbiato automobilista nel televisivo Zelig - a essersi fatto carico di riflettere su introvabili parcheggi e su navigatori satellitari impazziti. Svergognando a colpi di ironia i paranoici comportamenti che assume anche il più corretto dei guidatori, o l’assurdo di scritte che dovrebbero «fornire prescrizioni o utili indicazioni agli automobilisti. L’anomalia italiana è costituita da quelle scritte sull’asfalto che rovesciano, senza motivo, l’ordine logico delle parole di una frase. È così che le scritte per terra risultano incomprensibili, capovolgono il senso del messaggio che contengono». Considerazioni, più che giuste, su esilaranti casi del tipo: «servizio di area (Cos’è?...mentre mi lambiccavo il cervello l’area di servizio è passata); soccorso pronto (Cambiategli pure nome,
tanto si devono sempre aspettare le ore)». Situazioni non di rado sperimentate da chi guida e che Gioele Dix commenta in un acuto libro (Manuale dell’automobilista incazzato, Mondadori, 206 pagine, 14,00 euro), il cui unico torto al bon ton sta semmai nel titolo, essendo tutto il resto invece scritto in modo salace ma garbato. Con tanto di appendice dedicata a una nuova serie di quiz per la patente e, ad esempio, con il noto cartello blu per una prossima area di sosta che presenta, secondo Gioele Dix, le diverse interpretazioni: «1) a 300 metri c’è un parcheggio già pieno (al mare, d’estate); 2) a 300 metri c’è un parcheggio già pieno (in montagna, d’inverno); 3) è comunque meglio parcheggiare subito sul ciglio della strada».Vero o falso? Ai lettori di Autostorie l’ardua sentenza!
MobyDICK
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I MISTERI DELL’UNIVERSO
ai confini della realtà
Chi ha paura di
Isaac Newton? di Emilio Spedicato parere del sottoscritto il più grande scienziato di ogni tempo è stato Isaac Newton, seguito da Von Neumann. Altri scienziati sono infatti soggetti a critiche, che potremo in un futuro approfondire. Intanto, come Diop ha notato, possiamo dire che Archimede passò anni in Egitto, dove apprese sia formule matematiche a lui poi attribuite, sia come costruire macchine idrauliche il cui uso era ivi noto da millenni. Copernico, per parte sua, ha riscoperto quanto era noto a molti antichi (fra cui Aristarco) ma era stato dimenticato, probabilmente per l’opposizione di quel barone della scienza che fu Aristotele, il quale fece bruciare le copie esistenti dei lavori di Democrito. Galileo aveva idee erronee sulla fisica di base (ad esempio che i gravi nello spazio libero si muovessero in cerchio), sbagliò le motivazioni della teoria eliocentrica, ignorò Copernico nelle sue lezioni, non rispose mai a Keplero. Il «suo» (se così si può dire) cannocchiale nulla migliorava rispetto a quelli di Tolomeo, il quale scrisse uno straordinario libro di ottica e fece montare la grande lente del faro a 112 metri di altezza su un supporto di acciaio importato dalla Cina; e certo Galileo conosceva la tecnologia dei Sufi, ai quali Leonardo si rivolse per aiuto, come è emerso dall’analisi di Gabriele Mandel
A
di lettere Sufi del Quattrocento, conservate all’Ambrosiana. Einstein, infine, sta subendo una drammatica revisione per cui è stato definito il più grande plagiatore della storia (si è anche appurato il suo coinvolgimento in un articolo i cui dati sperimentali erano inventati). Ma ci vuole tempo per fare cadere dal loro piede-
notazione ora utilizzata, diversa dalla sua) egli fornì la chiave di lettura dell’anagramma, dimostrando ai dubbiosi di essere arrivato per primo.
- Il risultato appena citato fa parte del calcolo infinitesimale che Newton sviluppò per applicarlo alle leggi della mec-
È stato il più grande scienziato di ogni tempo, ma si stenta a riconoscerlo. Ha raggiunto risultati di cui altri si sono appropriati e ha dimostrato tesi per alcuni inammissibili. Ma molte delle sue ricerche sono ancora sconosciute e non si accenna a pubblicare la sua Opera omnia… stallo i Ceausescu, gli Stalin e i Mao…. Invece Newton giganteggia sempre di più. Ecco alcuni degli straordinari risultati da lui raggiunti:
- Ha prodotto il teorema fondamentale dell’analisi, che permette di calcolare l’area compresa fra una curva e l’asse delle ascisse nei termini ora chiamati integrali definiti. Newton scrisse il risultato in latino, lo anagrammò e offrì l’anagramma ai suoi colleghi: nessuno riuscì a decifrarlo. Quando poi lo stesso risultato fu ottenuto da Leibnitz (che introdusse la
canica da lui scoperte, e in particolare al moto dei gravi sotto la forza di gravitazione. Egli derivò dalle sue equazioni, e dalla legge della dipendenza inversa al quadrato della distanza della forza di attrazione, le tre leggi di Keplero, valide però solo in un problema a due corpi. Fallì quindi nel calcolare il moto della Luna, un problema a tre corpi, la cui complessità resta tuttora una sfida alla matematica, e si prese un terribile mal di testa dopo avere cercato inutilmente di risolvere le immense difficoltà algebriche del problema.
- Ha scritto un fondamentale libro sull’ottica, il primo che segna un progresso rispetto a quello di Tolomeo, che Roger Bacon utilizzò nel Trecento per costruire un potente telescopio (distrutto, con parte del libro, dai concittadini che vi vedevano l’opera del demonio). Quanto sopra descritto è stato il risultato di soli quattro anni di lavoro degli oltre settanta che Newton dedicò allo studio.Tra le sue opere quella che anche lui considerava la migliore è la Cronologia dei popoli antichi, che quasi nessuno legge, dove si conferma, anche secondo Velikovsky, l’accuratezza del testo biblico contro l’attuale opinione dei biblisti cattolici e degli egittologi laici, conseguenza di una datazione (errata) dell’anno citato da Censorino nel suo De die natali, fatta a inizio Ottocento da Lepsius e Champollion… Fra le altre ricerche non pubblicate, quelle relative alla chimica e all’alchemistica, all’interpretazione delle profezie, all’analisi del dogma della Trinità, che secondo Newton era stato imposto da Atanasio, il patriarca di Alessandria, avversario del vescovo Ario, noto per disporre di molti soldi e donne al suo seguito, sulla base di un’alterazione dei testi dai Padri della Chiesa. Newton pare avesse letto l’intero corpus della patristica occidentale e greca, cosa che forse nessun altro ha mai fatto. Esistono altre ricerche poco note, in quanto alcuni manoscritti sono custoditi in luoghi particolari (una parte a Gerusalemme) e non sono mai stati pubblicati. Del resto è già incredibile che l’Opera omnia di Newton non sia mai stata pubblicata né esista, per quanto mi consta, il progetto di farlo. Newton ebbe doti tipiche di un santo: massimo sviluppo dei propri talenti e amore per il prossimo. Quando morì non si trovò traccia del molto denaro che aveva guadagnato, ma i suoi funerali furono seguiti da tantissimi poveri, evidentemente da lui aiutati.