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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
GLI ULTIMI GIORNI DI IPPOLITO NIEVO
Personaggi dell’Italia unita
di Pier Mario Fasanotti
l dover rispondere, il non voler dire né sì né no, era per lui un tal torYork. Rimugina sul sogno di liberarsi di molti legami e si chiede: «Ma, poi, davmento che avrebbe preferito cedere tutti i suoi diritti giurisdiCarattere vero gli Stati dell’Unione hanno tagliato tutti i cordoni con la vecchia Euzionali per esserne liberato». Questa è una frase contenuta ropa?». È a sé, alla propria ancora breve vita che pensa, in realtà. Al vago, come nelle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo largo della costa sorrentina, l’Ercole comincia a dar segni di ce(1831-1861) e bene riassume, con valenza profetica, lo stadimento davanti e dentro un mare in tempesta, il mare neil luogo in cui giace. to emotivo e intellettuale dell’autore, garibaldino e ro che genera mostri. Sballottato nella sua cuccetta, Diligente amministratore scrittore, nel momento in cui, appoggiato sul paNievo riflette malinconico: «…l’ansia di riconsegaribaldino era un “fustigatore dei pigri”. rapetto del vapore Ercole lascia definitivagnarsi alla terraferma, di misurare lo spazio con i propri passi, di rinunciare al moto per la mente Palermo per tornare nel natio Nord. La storia romanzata del suo tormentato quiete… l’immobilità, lo stato inerte, la stagnazioNievo, già responsabile dell’Intendenza della capisoggiorno palermitano, prima ne… ecco la condizione alla quale aspiro». Ippolito sotale siciliana, è diviso, e profondamente, tra amori e dell’addio alla città, miglia molto, anzi moltissimo, a uno dei personaggi del suo umori, terre e visioni del proprio futuro. principale romanzo. La «carretta» Ercole viene sbriciolata dalle Non a caso, prima di salire a bordo di un’imbarcazione che aveva ricostruita in un funzionato bene per trent’anni ma era considerata ormai «una carretonde del Mediterraneo: nessuno si salva. Né lui, né gli altri passeggeri, libro ta», lancia un’occhiata al piroscafo Freedom che ha come destinazione New né gli uomini dell’equipaggio.
«I
Parola chiave Geografia di Maurizio Ciampa Sunny sound per quattro voci di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Mario Novaro tra marketing e verso puro di Francesco Napoli
Fenomenologia di Cees Nooteboom di Sabino Caronia Il femminile senza stereotipi di Anselma Dell’Olio
Hartford-Cinecittà i molti usi del Merisi di Marco Vallora
gli ultimi giorni di Ippolito
pagina 12 • 26 marzo 2011
Malinconica è l’indicazione biografica: nato a Padova e morto nel Mar Mediterraneo. Una dolorosa vaghezza di luogo. Che rimanda al suo carattere. La storia, romanzata, delle ultime settimane di Nievo è raccontata da Paolo Ruffilli, poeta e narratore (in L’isola e il sogno, Fazi editore, 193 pagine, 17,50 euro). L’autore è buon conoscitore di Nievo, sia come persona sia come letterato (ha curato l’edizione delle Confessioni). Quel che a Ruffilli interessa sono i giorni nostalgici, malinconici e tormentati, ma anche accesi da un amore nella cornice barocca e sensuale di Palermo, di un uomo che credette alla missione di Garibaldi e compì diligentemente il suo dovere di amministratore, anzi con tale giusta severità da vedersi affibbiato il nomignolo di «Antropofago Intendente». Sempre dovette affrontare e correggere, quando poteva, la disorganizzazione degli isolani, provandone «nausea e noia». Lo chiamavano «il fustigatore dei pigri» anche coloro che ben sapevano che quella di Garibaldi era una rivoluzione abortita a causa della «diplomazia sporca» e dei mestatori di tutte le razze, delle bande di picciotti ed ex galeotti (deliberatamente liberati dai borbonici per destabilizzare il nuovo regine insulare).
Sia il Nievo che torna in Sicilia, sia il Nievo che lascia l’isola, sempre su una nave, ha modo di ricordare quel che ha fatto e quel che non ha potuto fare. Paolo Ruffilli non s’addentra nel mistero della sua scomparsa. Caso o complotto? Non lo si è mai saputo, figurarsi in un Paese come l’Italia dove le maligne trame si nascondono nella sabbia del gattopardesco «tutto come prima». Il garibaldino-scrittore aveva l’incarico di portare a Torino, capitale del neoRegno italico, tutta la documentazione amministrativa della spedizione dei Mille. C’è ancora chi non esclude che il tragico naufragio sia l’effetto di un complotto politico. Che c’era di così delicato in quelle carte? Magari carte comprovanti l’intervento finanziario, o magari anche indirettamente militare, degli inglesi. O questo, oppure questo e ben altro. Il pronipote dello scrittore, Stanislao Nievo, ha parlato apertamente di «sospetta strage di Stato italiana, maturata dalla Destra e decisa dal potere piemontese per liquidare la Sinistra garibaldina: strage con la quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita». Dichiarazione pesante, contenuta nel romanzo Il prato in fondo al mare (Mondadori, 1974). Altre pubblicazioni hanno ripreso il sospetto complottardo, per esempio La tragica morte di Ippolito Nievo e Il naufragio doloso del piroscafo Ercole di Cesaremaria Glori. Pure Umberto Eco nel suo Il cimitero di Praga adombra la pugnalata alle spalle a vantaggio di una ragion di Stato. Citiamo Eco solo per amore di cronaca, visto che il suo ultimo romanzo è un inno sperticato, e storicamente assai forzato, alla nebulosa del sospetto intesa
anno IV - numero 12 - pagina II
come motore e timone del mondo.Torniamo al Nievo che guarda il mare di Sicilia, nel viaggio di andata e in quello di ritorno. È nel tenore e nel colore del suo sguardo, e nei ricordi che affollano la sua mente inquieta e lacerata, il nucleo più vero della sua personalità. Gli amori, per prima cosa. C’è Bice, figlia del conte Melzi d’Eril e di una Belgioioso, quindi rampolla di una famiglia illuminata e illuminista. Bice è sposata a Carlo Ferrari, cugino dello scrittore. Il quale, nei giorni in cui Nievo allieta Bice con il suo amabilissimo conversare nella grande casa milanese o nella villa di Bellagio (lago di Como), si defila. La donna sostiene che il coniuge ha superato le angustie della gelosia, anzi considera la presenza di Ippolito accanto alla moglie alla stregua di un ricostituente coniugale. Un po’ ambiguo, non c’è che dire. E Nievo ne è consapevole.Tra i due c’è una specie di amore senza corporalità. «È bella, pallida e quieta» pensa lo scrittore. Il quale l’aveva conosciuto anni prima quando tutti insieme erano andati a passare il carnevale in casa Nievo a Mantova. Simpatia profonda o amore? L’interrogativo lo porta a una definizione emotiva che ricorrerà spesso nella sua esistenza: «disagio». Lei, la pallida donna, lo conforta con un realismo che più che poetico o tenero è cinico: «Te lo ripeto un’altra volta, Ippolito. Sarai per forza costretto ad affiancare un’amante di sostegno alla tua amata». A Nievo, che piaceva non poco alle donne siciliane, non mancarono quei «sostegni» nelle «monumentali camere da letto», in città e nei dintorni. A cominciare dalla giovane marchesa Spedalotto, vedova focosa che non disdegnava a farsi vedere in pubblico accanto a lui, o comunque era favorevole al fatto che molti «sapessero». La cornice ambientale favorisce gli abbandoni. Ma non cancella il ricordo di Bice, verso la quale Ippolito avverte il tradimento: «Che vile agguato per l’amore, il desiderio». Ma Palermo, e la Sicilia tutta, è terra di forte desiderio. È facile immaginare come un uomo sensibile del brumoso e freddo Nord si possa sentire accarezzato dalle serate palermitane. Un nobile gli ha detto: «Quaggiù in Sicilia, le femmine, non le lasciamo mai da sole perché fa vacillare anche le sante, l’occasione». Poi ci sarà la sensualissima Palmira che tenterà Ippolito a considerare l’ipotesi di rimanere avvinghiato all’isola degli amori, dove molte cose trovano spiegazione nei miti dell’antica Grecia.
Nievo ricorda come il fascino di Palermo abbia catturato Alexandre Dumas, oltreché se medesimo. L’autore dei Tre moschettieri, sul limitare dei sessant’anni, si era espresso così su questa città che ti accoglie col sorriso della promettente cortigiana: «Se esiste una città nel mondo che può riunire tutte le prerogative della felicità, questa è Palermo… il posto dove sorge è magico e incantato. E ha ereditato i suoi palazzi dai mori saraceni, le chiese dai normanni, le feste poi dagli spagnoli. Diventata poetica come una sultana, graziosa come una francese e
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appassionata come un’andalusa. Per questo il suo benessere le arriva per direttissima da Dio e, agli uomini, è impossibile distruggerlo… preparatevi voi garibaldini a subirne le lusinghe». E Nievo subì, felicemente. Ancora Dumas: «Palermo è un termine: è la primavera, dopo l’inverno. È il riposo, dopo la fatica. È il giorno dopo la notte, l’ombra dopo il sole, l’oasi nel deserto». I siciliani, in specie i nobili, regalarono quiete e riposo e piacere ai garibaldini con le casacche impolverate, stremati - e anche un poco stupiti - dall’impresa militare. Garibaldi, così carismatico, aveva avuto il potere di spalancare, per i suoi Mille, tutte le porte, comprese quelle dei conventi. Paolo Ruffilli riassume così il clima carezzevole della terra dei fiori e dei cactus: «Religione e festa si coniugavano senza timore e senza remore, nelle pratiche dei siciliani». Ma i pensieri di Ippolito Nievo si rivolgono anche alla sua esperienza politico-sociale. È ben consapevole che a specchio dell’irruenza rivoluzionaria, e umanamente generosa, di Garibaldi c’è la grettezza e la miopia politica dei sabaudi, che fino all’ultimo opposero resistenza a far entrare nelle file dell’esercito regolare le camicie rosse che pur spianarono la strada a una dinastia di origine montanara, del tutto ignorante sul Meridione della penisola. «È un’arroganza a cui dovremo abituarci, temo» dice il Nievo del romanzo di Ruffilli. Il quale pensa anche a quelli che covano «idee solide e ristrette». Così come ricorda figure ambigue di siciliani come Giuseppe La Farina, «leccapiedi, faccendiere», mandato da Torino quale «emissario del conte di Cavour». Mestatore e trafficone, con i soldi e le alleanze politiche, «s’era messo ad aizzare i possidenti, convincendoli che noi (i garibaldini, ndr) favorivamo la ventata anarchica. Attribuiva a noi i disordini che organizzava lui con i suoi bravi: gli assalti alle ricche abitazioni, le occupazioni delle terre. Mentre eravamo noi a ristabilire l’ordine ogni volta. La verità è che molto raramente, in queste azioni, avevano colpa i contadini».
La Farina continuò a Napoli, terreno fertile per le voci maligne, la sua campagna di diffamazione contro gli amici di Garibaldi. È per questo che l’intendente Nievo, di fronte alle calunnie e ai giochetti di potere, confida a un suo compagno di viaggio: «Ecco a cosa siamo costretti noi: da vincitori ad accusati, costretti a difenderci dalle calunnie più infamanti. Sono qua, appunto, per mettere assieme i documenti da presentare alla burocrazia sabauda per dimostrare la nostra correttezza nell’amministrazione». Si riferisce al periodo della dittatura di Garibaldi, necessaria per imporre ordine e per tentare di «incivilire» strati della popolazione o profondamente arretrata o naturalmente incline all’agire mafioso. Poi c’è Napoli, odiata dai siciliani. Città dove si balla e si canta prima ancora della disfatta definitiva di Gaeta. La città del perenne Carnevale. La città dei Pulcinella. E come reagisce il Nord? Il console tedesco chiede notizie a Ippolito. Il quale risponde: «Brutta aria. Si preparavano le elezioni. E, nel designare i candidati hanno vinto l’interesse e la mediocrità… i politicanti si stanno impadronendo di quello che è costato sangue e sacrificio a noi… odio e sospetti, e a Milano si vive un gelo che è pari solo a quello dell’inverno». Parola di garibaldino su un’Italia dalla rivoluzione, o riforma, mancata appena dopo la proclamazione dell’Unità. Ma sono parole che purtroppo si potrebbero ripetere anche oggi.
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26 marzo 2011 • pagina 13
GEOGRAFIA on viviamo più nel Rinascimento, da tempo le grandi esplorazioni geografiche si sono esaurite, il mondo virtuale e il processo di globalizzazione sembrano aver cancellato lo spazio, eppure la geografia continua a stupire. È un sapere mobile, in fermento. E in vertiginosa espansione. Ed è quasi aggressiva questa scienza dalle antichissime radici, capace di muoversi al di fuori dei suoi confini disciplinari, come se avesse trovato nuove risorse e nuove energie per colonizzare o fagocitare altre discipline. È uscito appena qualche mese fa un innovativo e celebrato Atlante della letteratura italiana (edito da Einaudi, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà) che stende una nuova mappa della nostra letteratura o comunque comincia a farlo (per il momento c’è soltanto il primo volume: Dalle origini al Rinascimento) ripensandone le espressioni attraverso la nervatura geografica del Paese. Qui la geografia scuote procedure analitiche diventate un po’ polverose. Si parla oggi, diffusamente, di una geocritica, e dunque di una critica letteraria che non si serve più della storia, o non esclusivamente, e si è comunque allontanata dalle scienze del testo, come la semiotica o la semiologia, per attingere alle fresche acque della geografia. Ma sono davvero fresche queste acque? O il loro dinamismo può risultare solo apparente ed effimero? Lo vedremo più avanti, ora voglio ricordare un altro libro di cui molto si è parlato alla sua uscita nel 2006, un libro dal disegno ardito, a tratti sorprendente, una discreta riserva di meraviglie e di stupori per il suo lettore: è l’Atlante delle emozioni di Giuliana Bruno (pubblicato da Bruno Mondadori). «Di solito quando si parla di memoria si pensa al tempo - ha detto Giuliana Bruno in un’intervista. Per me conta lo spazio, il rapporto sentimentale con la geografia. Più che nel tempo è soprattutto attraverso la geografia che la memoria si muove… La storia vede il mondo dal lato della morte, la geografia dal lato della vita».
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Sulle tracce dell’Atlante delle emozioni si mette anche Antonella Tarpino con Geografie della memoria (pubblicato da Einaudi), dove s’insegue e si ricostruisce l’articolata mappa dei ricordi personali. Lo spazio qui non è quello pubblico, monumentale, della grande Storia, è la piccola, ma significativa geografia dell’intimità domestica. Lo spazio dunque si restringe, ma si fa più denso; l’esercizio della geografia non si sviluppa sull’estensione del mondo, diventa piuttosto un sondaggio dell’anima, una topografia della memoria personale. Così la geografia che, fino a qualche tempo fa, pareva essere scivolata verso la periferia
È un sapere mobile, in fermento, in vertiginosa espansione. Perché, capace di muoversi al di fuori dei suoi confini disciplinari, sembra aver trovato nuove risorse per colonizzare altri saperi
La rivincita dello spazio di Maurizio Ciampa
Il tempo, il grande fuoco del pensiero del Novecento, non è più al centro del sapere contemporaneo. Ora in un processo storico si decifrano i segni di un processo spaziale, supporto indispensabile per individuare il profilo del mondo. Ma qualcosa sfugge ancora alla nostra percezione... dei saperi contemporanei, ora ne è al centro. Il tempo, il grande fuoco del pensiero del Novecento, lascia il passo allo spazio. Molti storici sono indotti a «leggere il tempo nello spazio» (questo è il titolo di una raccolta di saggi di un grande storico, il tedesco Karl Schloegel, pubblicato da Bruno Mondadori, un editore che manifesta molta attenzione verso questa piega assunta dai saperi contemporanei), decifrando in un processo storico i segni di un processo spaziale. Con effetti piuttosto inediti, almeno per quanto riguarda Schloegel. Alla ricerca del senso di un evento storico, lo studio-
so tedesco fa largo uso di carte, mappe, atlanti, persino planimetrie di edifici, s’insinua nei passages parigini e consulta gli orari ferroviari per capire il movimento dei convogli nel Terzo Reich. E Schloegel non solo invita a «leggere le carte», ma a far lavorare gli occhi, mentre il ricorso alla geografia supporta il «rinnovamento della stessa narrazione storica». Torno brevemente indietro, riprendendo un interrogativo che, a questo punto, può essere raccolto e sviluppato. Mi chiedevo se sono davvero così fresche e in movimento le acque della geografia. Devo ricordare che fino a ora
mi sono mosso nei suoi dintorni, prendendo in considerazione non geografi, storici o critici letterari, partecipi di una complessiva «rivincita» dello spazio. Ma che cosa accade nel cuore del pensiero geografico? Credo di poter dire che accade molto, a giudicare ad esempio, dalla ricerca di Franco Farinelli, che ripensa in modo radicale l’ordine costituito dell’elaborazione geografica. Farinelli è il più noto dei nostri geografi. I suoi libri recenti (Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo e La crisi della ragione cartografica, entrambi pubblicati da Einaudi) - per me una lettura, e lo dico senza enfasi alcuna, davvero folgorante - sono uno straordinario corpo a corpo con l’intero sapere dell’Occidente e con la sua storia, per poter arrivare a capire quale spiegazione del mondo sia ancora possibile. Oggi viviamo, dice Farinelli, drammaticamente senza modelli, come se avessimo esaurito le nostre possibilità di spiegazione, come se restassimo muti, in un silenzio imbarazzato e a tratti inconsapevole, di fronte al fragoroso dispiegamento del mondo. A guardar bene, le acque vive della geografia sono piuttosto acque nere o morte, opache comunque, niente affatto limpide o trasparenti, e non restituiscono, in alcun modo, il profilo del mondo. Siamo usciti dall’inganno delle mappe, tanto esaltate dai non-geografi, dalla loro rappresentazione lineare, piatta, ma non sappiamo ancora ragionare nei termini della sfera in movimento, del globo che il mondo è. Non sappiamo far valere il mondo come esso è.
Farinelli pensa che tutto il sapere dell’Occidente sia geografico, e che la geografia sia la sua forma originaria, come dire che il pensiero nasce come geografia, scrittura del mondo e suo racconto. Così Farinelli rivendica al sapere che pratica una moderna arcaicità o un’arcaica modernità. Questo sguardo lungo, capace di tener vicino il contemporaneo e l’antico, potrà servire per entrare nel mondo che si è fatto globo, o lo è sempre stato. Qui si disegna un’ombra inquietante: «l’abisso che si sta spalancando - dice Farinelli - tra il funzionamento del mondo e le nostre possibilità di comprensione». Un abisso circonda le acque della geografia. Il nuovo geografo dovrà rigenerare il coraggio di un esploratore come Amerigo Vespucci che, agli inizi del Cinquecento, in Mundus Novus racconta «quello che veramente sopportammo in questa immensità del mare, quali pericoli di naufragio e quali travagli del corpo sostenemmo e quali affanni afflissero l’animo… quelli che hanno esperienza di molte cose sanno quanto sia difficile cercare le cose incerte e investigare l’ignoto».
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Pop
musica
VIVA ALEX BRITTI... che parla con le corde di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi o sempre avuto un debole per i gruppi vocali. Quelli cosiddetti a cappella (ossia voce e stop), ma soprattutto quelli che riescono meravigliosamente a far chiacchierare voci e suoni. La surf music californiana dei Beach Boys, da I Get Around fino a Good Vibrations, è l’esempio più illuminante. Ma penso anche ai quasi sessantottini Turtles di Happy Together; ai Queen, con l’ugola possente di Freddie Mercury che titilla le sinfonie rockeggianti di Bohemian Rhapsody e Somebody To Love; al cabarettistico falsetto degli Sparks griffati Kimono My House e Propaganda; alle voci degli imprevedibili 10 c.c., che si sovrappongono al nobil pop di I’m Not In Love e One Night In Paris; al canto impeccabilmente bizzarro degli XTC e agli ultimi, gustosi soufflè vocal-musicali: da quello psichedelico degli MGMT (altrimenti conosciuti come The Management), all’elettronico dei Passion Pit, fino a quello super orecchiabile degli Shout Out Louds. E siccome le sorprese più gradite e inaspettate arrivano quasi sempre dal sottobosco e dalla scena rock & pop indipendente, ecco Mathias Sørensen, Morten Winther Nielsen, Christian Rohde Lindinger e Niels Kirk che se le suonano rispettivamente con batteria, chitarra, basso e pianoforte, se le cantano tutti insieme che è una delizia, sognano la West Coast, arrivano da Copenhagen, si conoscono dall’infanzia e perciò non sbagliano una virgola: né con la musica, e tantomeno con le voci. Quando il loro disco è uscito in Danimarca per l’impronunciabile etichetta Tambourhinoceros, si intitolava A Collection Of Vibrations For Your Skull (Una raccolta di vibrazioni per il vostro teschio). Adesso che è stato pubblicato dappertutto, via quel titolo, si chiama
H
Jazz
zapping
ra ora che Alex Britti tornasse alla sua specialità. Non tanto scrivere canzoni, anche se ce ne sono di belle tra quelle del romano come Oggi sono io, coverizzata da Mina. Ma per quasi tutti Britti è quello della Vasca («voglio restare tutto il giorno nella vasca/ con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena») e quindi ben venga l’ultima produzione di Britti, un dvd che si chiama Nelle mie corde, in cui torna appunto alla propria specialità: suonare la chitarra e spiegare come lo fa. A qualcuno non sarà sfuggita qualche anno fa a Sanremo la performance di Britti insieme a Ray Charles sulle note di Volare. A chi scrive viene in mente un passaggio in un concertone del Primo maggio dei primi anni Novanta, in cui Britti, non ancora famoso come cantante pop, si presentò in trio: chitarra, basso, batteria, e tirò fuori dai riccioli una performance bellissima-incazzatissima solo strumentale, che naturalmente passò sotto silenzio. Il fatto è che quello di Britti più che un percorso artistico è una sorta di destino generale per chi ha la sfiga di sapere davvero la musica. Nato e cresciuto nelle borgate romane, ha imparato a suonare la chitarra non nelle tante music academy ma sui dischi e per strada: il blues coi bluesman (come Roberto Ciotti), il jazz coi jazzman. Ha girato tutt’Europa tornando a casa con tanti bei concerti all’attivo e le pive nel sacco. Partita doppia in netta perdita. Si è reinventato come cantautore e come idolo delle ragazzine, e ha funzionato. Quand’anche suonasse la canzone più scema del mondo (e c’è il serio rischio che lo faccia) Alex ha le mani, il cuore, di un uomo di borgata che parla con le corde. Non tutti lo sanno ma tutti lo sentono.
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Sunny sound
per quattro voci Treefight For Sunlight come loro, che immaginano un albero che combatte per conquistarsi la luce del sole. E per riuscirci, si mette idealmente ad ascoltare in sottofondo il miglior sunny sound possibile. Che il buongiorno si veda fin dal mattino lo dimostra la prima canzone, A Dream Before Sleep, col suo incipit che è un affettuoso omaggio alle architetture vocali dei Beach Boys e lo svolgimento, furbo e spiazzante, che riscopre i Genesis anni Settanta di Foxtrot e Nursery Cryme. Rock progressive, dunque: ben congegnato anche nelle maestose orchestrazioni di Time Stretcher e, con qualche abile tocco di psichedelìa, fra le evanescenti voci che costellano Tambourhinoceros Jam. I Supertramp di Breakfast In America, invece, occhieggiano fra le toccate e fughe pianistiche di Rain Air e nella soul music in controluce di The Universe Is
A Woman, mentre rimandi ai 10 c.c. e un’innocente freschezza da pop anni Sessanta scandiscono Riddles In Rhymes. Quel che apprezzo dei Treefight For Sunlight, è la capacità di passare con noncuranza dal disimpegno all’impegno: dall’aria vacanziera e un po’ caramellosa di Facing The Sun, agli arditi intrecci vocali che in You And The New World inseguono il suono ripetitivo eppur ballerino del pianoforte; dalla vena cabarettistica in stile Sparks di What Became Of You And I?, all’orecchiabilissimo pop che contraddistingue They Never Did Know, con la chitarra acustica in primo piano e un po’ di sale (disturbi, piccole interferenze) sulla coda. Let The Sunshine In, come la canzone del musical Hair. Intitoliamolo così, il prossimo disco dei Treefight For Sunlight. Perché c’è dell’Hippy, in Danimarca. Treefight For Sunlight, Treefight For Sunlight, Bella Union/Cooperative Music, 16,90 euro
Magnus Oström: sulla strada dell’E.S.T. con Pat Metheny l jazz svedese già dagli anni Cinquanta si era imposto in Europa con musicisti di alta qualità, il sassofonista Arne Dommerus e il pianista Bengt Hallberg ai quali si aggiunsero, in seguito, il trombonista Eje Thelin e soprattutto il sassofonista Lars Gullin paragonabili ai migliori solisti americani. In epoca recente però i musicisti di Stoccolma sono stati superati, nell’interesse del pubblico e della critica mondiale, da altri che hanno dato vita a quella scuola scandinava che si è imposta nel Nord Europa e anche negli Stati Uniti dalla seconda metà degli anni Settanta con i norvegesi, il sassofonista Jan Garbarek e il chitarrista Terje Rypdal, anche se l’antesignano fu soprattutto il sassofonista finlandese Juani Aaltonen, di dodici anni più anziano dei colleghi di Oslo. Quella scuola scandinava, che fondeva linguaggio del jazz e musica etnica, fece immedia-
I
di Adriano Mazzoletti tamente proseliti. Il sassofonista polacco Zbigniew Namyslowski era profondamente affascinato dal folclore della sua terra e il pianista di Praga Adam Makowicz, musicista di livello altissimo le cui Reminiscences de Moscou suscitarono l’interesse di molti pianisti, fra cui il nostro Giorgio Gaslini. L’anno successivo, stabilitosi a New York, venne scoperto da John Hammond che lo presentò come «il pianista più stupefacente degli ultimi trent’anni», facendolo incidere per Columbia. Solo negli anni Novanta, la Svezia rivelò un musicista di grande valore, il pianista Esbjorn Svensson, nato a Vasteras il 16 aprile 1964. Nel 1993, assieme al suo amico d’infanzia, il batterista e percussionista Magnus Ostrom e al contrabbassista Dan Berglund, fondò E.S.T. (acronimo di Esbjorn Svensson Trio),
che si impose immediatamente per le qualità innovative. Secondo John Fordham, critico di The Guardian, Svensson era un fenomeno raro nel mondo del jazz: «Un eroe secondo le critiche più severe, una star internazionale secondo le critiche più scontate». Tredici album ottennero il plauso della
critica e il successo commerciale per l’intelligente fusione fra jazz contemporaneo, rock, pop e musica elettronica. Sfortunatamente la carriera di Svensson non ebbe lunga durata. La mattina del 14 giugno 2008 moriva a causa di un incidente causato da una tuta da sub difettosa. Aveva 44 anni. La strada iniziata da Svensson continua, ancor oggi, a essere percorsa dai suoi compagni, Magnus Oström e Dan Berglund che hanno chiesto a Pat Metheny di ricoprire il ruolo che fu di quell’indimenticato e indimenticabile pianista. Il lavoro pubblicato recentemente, Thread of Life comprende dieci brani firmati tutti da Oström che oltre alla sua ben conosciuta e apprezzata grande capacità di percussionista, rivela altrettanta abilità di compositore. Magnus Oström, Thread of Life, Distribuzione Egea
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arti Mostre
per finirla con Caravaggio... (vedi l’altra puntata. Non se ne può più di visitare mostre spurie e velleitarie dedicate al suo obbligatorio quattrocentesimo anniversario. Ovvero mostre virtuali, leggi pure fasulle. Però non è inutile interrogarsi sul perché del fiorire malato di queste iniziative, per lo più dannose). In attesa di visitare e vagliare la qualità dell’operazione, condivisibile, proposta da Sgarbi, nella mostra milanese al Museo Diocesano, dedicata agli Occhi di Caravaggio, cioè a tutto quanto avrebbe nutrito lo sguardo colto e tutt’altro che autodidatta e brado del Merisi, prima di recarsi a Roma, è proprio sull’uso brado, questo sì, della virtualità, che vorremmo, per un attimo, tornare. Prendiamo per esempio questa sugli «occhi»: il nome furbo di Caravaggio c’è, attira, e non importa poi se si vede soltanto l’intorno e il precedente (tra l’altro con quadri ragguardevolissimi) ma qui si tratta d’una virtualità condivisibile, intelligente, anche se provocatoria. Provare a guardare queste opere da Lotto a Bassano, da Campi a Tintoretto, con gli occhi a venire del Caravaggio, tentando d’immaginare quali possano essere stati gli influssi, i furti, le contaminazioni del suo gusto. Prima dello sbarco significativo a Roma. Ma Lombardia significa Leonardo, significa naturalismo e ricerca quasi sperimentale, insomma Caravaggio non giunge a Roma come uno sprovveduto giovinetto alla ricerca della sua identità... la cosiddetta Cestella del Borromeo sta lì, non per caso, a dimostrarlo, a segnalarci il suo lampeggiante itinerario visivo e non solo romanzesco. Dunque questo «virtualismo» virtuoso funziona benissimo, perché è come se entrassimo, con un microscopio, dentro il suo modo di guardare alla realtà e alla pittura. Altra cosa, invece, mi raccontano - io ne sono stato beneficiato - entrare a Palazzo della Ragione, a Milano,
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Archeologia
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Hartford-Cinecittà i molti usi del Merisi di Marco Vallora facendosi accompagnare da delle damine-putte in costume, stile Carnevale, o da degl’improbabili energumeni secentesco-manzoniani, che ti portano a piluccare delle spudorate copie fotografiche, inventando un museo immaginario acaravaggesco, per definizione, che non esiste, e non è certo alla Malraux, ma semmai da fiera dell’ologramma e della copia-patacca. Ma ancora più incredibile quello che succede a Palazzo
Venezia, a Roma (di cui un po’ si era dettola scorsa settimana, ma vale la pena tornarci), sotto un titolo ambizioso come La bottega di Caravaggio (ingenerando pure equivoci. Perché si sa bene che, senza contare i fedelissimi del caravaggismo, sparsi per tutto il mondo, il Merisi non ha mai tenuto un atelier di gruppo e non s’è mai preoccupato di creare degli allievi o di avere degli aiuti, salvo smentita. Visto che i docu-
menti perennemente cambiano e la mostra agli Archivi di Roma dimostra che il pittore sarebbe giunto a Roma in tempi molto lontani da quelli ritenuti credibili). Lasciamo stare il catalogo, curato da Rossella Vodret e da un esperto d’ottica diciamo così barocca, catalogo serio, che può anche ingannare, perché è più scientifico, interessante e stimolante, di quanto poi la mostra non mantenga (ovvio che un maniaco dell’argomento possa anche impazzire di gioia, durante l’apparizione, nelle vetrine, della prima edizione delle seconde Vite del Vasari, o a certi trattati di ottica dell’epoca). Ma poi, quando si trova di fronte dei finti San Girolami in lattice, che fingono d’essere sotto posa, come pupazzi da vetrine cheap, o da sottomuseo delle cere, uno può anche urlare di profanazione e domandarsi come faccia la gente a non chiedere il rimborso del biglietto. Un conto è leggere il Baglioni o il Bellori, che raccontano lo studio improvvisato in casa del Caravaggio, con quei significativi fori al soffitto, che lasciano filtrare solo un fascio di luce, che colpisce a comando le pareti, rigorosamente dipinte di nero... ma quando quegli effettacci da cinecittà di terz’ordine te li vedi realizzati in stile abboracciato-sceneggiato-tv, ci rimani proprio male e tutto ti pare l’incarnazione a contrappasso della celebre tesi di Longhi. Che Caravaggio avrebbe intuito l’avvenire del cinema, lavorando come di spot. Allora, ancora una volta, si finisce a imbrodare Goldin: perché almeno la mostra di Rimini dedicata al Museo di Hartford (storia assai divertente, primo museo americano aperto al pubblico, battaglie di curators ecc.) non esibisce soltanto un Caravaggio, notevole, ma molti magnifici Gentileschi, Saraceni, Zurbaran, ecc. di contorno, che ti rinfrancano sulla pittura. Un’unica domanda: come mai non è giunta quella curiosissima Natura morta, che Zeri attribuì al Caravaggio-giovane, e che, discussissima, provocò lite e faide, che non sono ancora finite oggi?
Shenute, il monaco dimenticato della Valle del Nilo ra il IV e il V secolo un personaggio dai tratti quasi leggendari anima il panorama religioso dell’Egitto: è il monaco Shenute (348-465 d.C.), evangelizzatore instancabile, maestro ed educatore inflessibile oltre che guardiano coraggioso del suo monastero. Rimasto nell’oblio per più di mille anni, è stato uno dei principali protagonisti di quell’epopea cristiana nella Valle del Nilo, conosciuta come l’epoca copta. Archimandrita del Monastero Bianco di Atripe, situato non lontano dalla città di Panopoli (Alto Egitto), Shenute è completamente e volutamente trascurato dalle fonti greche e latine ed è rimasto sostanzialmente sconosciuto all’Occidente fino alla fine del XVIII secolo, quando alcuni frammenti delle sue opere, appartenuti alla collezione del cardinale Stefano Borgia, vennero studiati per la prima volta dall’egittologo e coptologo danese Jurgem Zoëga (1755-1809). Nato da genitori cristiani nel villaggio di Shenalolet, nel Delta, Shenute vive una vita ultracentenaria in un’epoca in cui la cristianità è messa alla prova dallo scisma post-calcedonense che determinò una crisi
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di Rossella Fabiani profonda tra il patriarcato alessandrino e quello costantinopolitano. E, dopo lo scisma, gli shenutiani divennero il punto di riferimento della Chiesa più propriamente copta, incarnando un ideale anti-intellettualistico - ispirato alla condotta dei primi anacoreti - differentemente dei pacomiani che seguendo il monaco Pacomio rimasero perlopiù vicini alle posizioni della Chiesa di Costantinopoli. Shenute fu un autore estremamente prolifico anche se la piena comprensione della sua opera letteraria è preclusa dallo stato insoddisfacente del lavoro di catalogazione e quindi di pubblicazione dei relativi manoscritti. Le opere di Shenute, infatti, erano gelosamente custodite nella biblioteca del Monastero Bianco (nel deserto orientale egiziano) che, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del successivo, fu saccheggiata da cercatori di tesori. I manoscritti vennero così smembrati in parti più o meno consistenti, attualmente conservate in una cinquantina di collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. I frammenti delle
opere di Shenute rinvenuti in località lontane dal Monastero Bianco, e dunque appartenuti ad altre biblioteche, provengono da miscellane poco curate, che sembrano essere state realizzate ricostruendo le opere di Shenute a memoria, e dunque sono meno attendibili. Tuttavia una parte consistente dei manoscritti del Monastero Bianco confluirono nella Collezione Borgia. Pubblicati per primo da J. Zoëga, furono in seguito ripresi da E.C. Amélineau (1888-1895) in Monuments pour servir à l’histoire de l’Egypte chrétienne aux IV et V siecle. Ora, dopo tanti anni, è stata pubblicata una nuova edizione dei manoscritti dal titolo: Catalogo ragionato dei manoscritti copti Borgiani conservati presso la Biblioteca Vittorio Emanuele III di Napoli, con un profilo storico-culturale del Cardinale Stefano Borgia. L’opera porta la firma di Paola Buzi da poco vincitrice della cattedra di lingua e letteratura copta alla Sapienza di Roma e che da anni lavora sul legame speciale tra la collezione Borgia e la biblioteca di Deir el-Abiad (il Monastero Bianco). Restituendo così al monaco Shenute il posto che gli spetta nella storia egiziana perché troppo ha pagato il suo essere «copto», ossia l’essersi allineato con la posizione anticalcedonense del patriarcato alessandrino, con il totale oblio da parte delle fonti greche e latine che ne hanno decretato una vera e propria damnatio memoriae.
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a trasmigrazione delle anime non avviene dopo ma durante la vita» ha scritto Cees Nooteboom. La sua scelta è stata da sempre in favore dell’immaginazione: «Per me esiste un’unica forza che consente di sopportare quest’esistenza terrena posta fra le nostre due infinite assenze, ed è la forza della fantasia». Al grande romanziere olandese sono state dedicate quest’anno le giornate del festival di Pordenone che hanno preso il via il 12 marzo e che si concludono oggi. In occasione delle manifestazioni ha visto la luce anche il nuovo libro, pubblicato in Italia come al solito dalla benemerita casa editrice Iperborea, che è intitolato Avevo mille vite ma ne ho preso una sola. Si tratta di un’antologia o meglio, come è detto nel sottotitolo, di un «breviario», scelto da Rudeger Safranski ed è l’occasione per ripercorrere l’itinerario letterario di uno dei più significativi e autorevoli scrittori contemporanei.
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La sua opera prima, Philip e gli altri, scritta a ventidue anni, è stata ripubblicata in varie lingue nel 2005 in occasione del cinquantenario della sua uscita e in Italia da Iperborea. Significativo è il titolo con cui il romanzo apparve nella traduzione tedesca, Das Paradies ist nebenan (Il paradiso è qui accanto), che richiama le parole con cui lo zio Antonin Alexander impartisce al giovane nipote una lezione che non di-
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menticherà per tutta la vita: «È una vecchia storia, quella del paradiso terrestre. La conosciamo tutti, e non c’è da stupirsene, visto che l’unica vera ragione della nostra esistenza è ritornare a quel paradiso, anche se non è possibile… Però possiamo andarci vicino, Philip, più vicino di quanto la gente non creda». È il riferimento a questa dimensione del possibile, a «quello stato impossibile e perfetto» di cui parla a Philip lo zio, che costituisce la prima suggestione di questo libro affascinante.Viene alla mente il sant’Agostino delle Confessioni: «Tu ci hai fatti per te, e senza requie è il cuor nostro, finché non abbia requie in te». E una inquietudine agostiniana è quella che accompagna Philip nel suo viaggio di iniziazione in questo singolare romanzo che da una parte riprende la magia e la malinconia del Grande Maulnes e dall’altra anticipa temi e motivi di tanti romanzi on the road. Una delle immagini più indicative dello spirito del romanzo è il cerchio magico che la ragazza dal volto cinese disegna con il tallone intorno a sé a simboleggiare insieme il bisogno di protezione e l’esigenza di un mondo altro con cui compromettersi e in cui riconoscersi. Non a caso il nume tutelare di questo universo fantastico (da cui è tratto il verso posto come epigrafe del volume, Je rêve que je dors, je rêve que je rêve) è il poeta Paul Eluard, costantemente presente fino al gran finale dove il poeta è evocato in effigie nel seguito dei personaggi che accorrono a festeggiare i protagonisti e dove nell’incontro, tra reale e fantastico, di Philip con la ragazza dal volto cinese tornano tanti motivi e situazioni di quella poesia con la consapevolezza che la realtà dell’amore è la realtà della solitudine, che non è altro se non assenza di amore, e che la solitudine è un abisso sempre spalancato e l’amore una tentazione più forte della vita. È stato giustamente sottolineato, anche per i suoi sviluppi futuri (si pensi soprattutto a Rituali), il motivo della
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Celebrato in questi giorni al festival di Pordenone, Cees Nooteboom è uno degli scrittori contemporanei più significativi e autorevoli. Dall’opera prima “Philip e gli altri” agli ultimi racconti, l’itinerario letterario di un autore sempre alla ricerca di «quello stato impossibile e perfetto». In un gioco di specchi dominato dall’immaginazione…
Sognando il P di Sabino Caronia festa, quelle feste che Philip celebra, all’inizio nel tragitto notturno in autobus con lo zio e alla fine nella navigazione al Nyhaven di Copenhagen con la ragazza cinese, quelle feste il cui senso è già nelle parole con cui egli risponde alla domanda «Che cosa ti piace fare?», postagli dallo zio prima e poi di nuovo dalla ragazza cinese: «Andare in autobus di sera tardi o di notte. Stare seduto in riva all’acqua e camminare sotto la pioggia, e a volte baciare qualcuno». Al termine del suo viaggio di iniziazione, che è come un lungo addio («Non vivrai mai veramente nulla, ricorderai soltanto, non incontrerai nessuno se non per dirgli addio»), il congedo dalla ragazza cinese è per il protagonista come il congedo dall’adolescenza. Ora non c’è dubbio che la fine dell’adolescenza sia una ferita immedicabile. Ma per chi, come il nostro autore, vive autenticamente nella dimensione della scrittura l’adolescenza è anche un momento eterno, una realtà sempre presente allo spirito, qualcosa che dentro di noi non muore mai. In proposito è il caso di sottolineare tra le pagine più felici del romanzo quelle che descrivono la
passeggiata del ragazzo solitario tra le panchine su cui siedono gli innamorati e il suo ideale colloquio con loro che, interamente immersi nella felice dimensione del presente, oppongono alla sua disillusa domanda «E allora, qual è la differenza, alla fine?» la più naturale delle risposte: «Che non si vive alla fine, si vive ora».
Giustamente nella postfazione Stefano Ganci può accostare al giovane Philip l’indimenticabile personaggio di Le montagne dei Paesi Bassi, l’anziano signore «che forse già puzzava un po’di morte», e proprio per questo voleva vivere in un mondo «in cui le sordide leggi dei vecchi non vigevano ancora, dove l’esistenza non era ancora un racconto coerente ma un mondo in cui tutto doveva ancora accadere». Il senso positivo dell’avventura di Philip è in questa sottolineatura forte del potere dell’immaginazione, in un mon-
do come il nostro in cui dalla mattina alla sera gli uomini stanno seduti davanti a uno schermo, spettatori passivi di uno spettacolo volgare, è nell’invito a riappropriarsi della propria più autentica dimensione fantastica, a saper immaginare la propria realtà, a essere protagonisti delle proprie immaginazioni, che la determinano non meno di quanto la realtà non determini queste. Per i grandi sognatori i sogni divengono una realtà più profonda della vita di ogni giorno. Per merito loro possiamo credere vera la convinzione irrazionale e assurda che il mondo come lo vorremmo sia possibile, e anzi potrebbe forse sostituire quello reale. Un altro romanzo di Cees Nooteboom, uscito in patria nel 2004, è stato tradotto per Iperborea nel 2006 da Fulvio Ferrari, che ne ha curato anche la postfazione. Si tratta di Perduto il paradiso. Ecco, dunque, ancora una volta il paradiso, ancora la nostal-
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comune - solo poi, alla fine, tutto torna, i personaggi e gli spazi si ricompongono come in un puzzle, scopriamo i legami tenuti in un primo momento nascosti dall’autore che, svelati, danno ragione della unicità della storia narrata, grazie allo strano incastro con cui la vita, paragonata a una cuoca, mescola le vite tra di loro: «la vita […] come cuoca è una perfetta incapace. Ne risentono, quasi sempre, gli esseri umani, e qualche volta, ma non molte, ne approfitta la letteratura».
Paradiso gia di un «paradiso perduto». Qui sono i versi di Milton che fungono da epigrafe a ogni inizio di capitolo, tranne il prologo che è introdotto da un brano di Angelus Novus di Walter Benjamin, come invece in Philip e gli altri erano le parole che il nonno del protagonista diceva al nipote. In Perduto il paradiso l’idea del paradiso terrestre perduto è a ogni passo. Gli aborigeni australiani, presso i quali cerca rifugio la protagonista Alma come in un mondo altro in cui riconoscersi - lei che fin da bambina aveva provato dei momenti di angoscia indicibile, che non riusciva a spiegare («era come se cadessi fuori dal mondo») , vivono in realtà in un paradiso devastato («Pensavo che vivessero in un paradiso, evidentemente non era vero»). Gli angeli, che ritornano in tutto il racconto dalle fantasie di Alma bambina fino alla rappresentazione che la vede fare il ruolo di angelo, suscitano con la loro apparizione una struggente nostalgia di paradiso che è destinata a rimanere inappagata: «Gli angeli non appartengono al mondo degli uomini». Fin qui, sotto vesti diverse, si ripropone la ricerca che era anche in Philip e gli altri, in Rituali e in genere in tutta l’opera del nostro,
di un altrove perfetto da cui si viene e in cui si anela a tornare. Ma Nooteboom, scrittore intelligente, stimolante, mai banale, ci spiazza nella chiusa del libro: «Ha mai pensato a chi ha inventato il paradiso? Un luogo senza malintesi? La noia sconfinata che deve regnarvi può essere intesa solo come una
È questo che fa la letteratura, almeno quella che interessa Nooteboom: edifica mondi paralleli, doppi della realtà, «che in un gioco di specchi o di illusioni guidano tuttavia il lettore a guardare il mondo», come dice giustamente il postfatore. E non a caso l’autore stesso in questo libro (che oltre a presentare una storia ci presenta l’atto di confezionarla da parte dello scrittore, inserisce cioè il romanzo nel romanzo, facendolo addirittura commentare da una lettrice-personaggio - anche se ancora una volta in un gioco di specchi tra Perduto il paradiso e il titolo in cui, appunto, si «specchia», Il paradiso perduto) fa riferimento nelle prime pagine al nostro Calvino: «È un libro sottile, come piacciono a me. Secondo Calvino i libri devono essere brevi, e in genere si è attenuto a questa regola». In un gioco di specchi e di mondi paralleli non può mancare il motivo del sogno, che, come abbiamo detto, già risultava chiaro fin dall’epigrafe di Eluard a Philip e gli altri (Je rêve que je dors, je rêve que je rêve). L’Australia era, per Alma bambina, il tempo del sogno, il tempo prima del tempo e della memoria. Pensiamo al titolo del quadro che affascina Alma, in Australia, e che tanta parte avrà nella sua vita, Desert lizard dreaming at night: «Dreaming, era di nuovo quella parola. […] In inglese ancora ancora aveva un senso, ma prova un po’ a pronunciarla in un’altra lingua cer-
senza fine, un’eternità in cui avrebbero potuto vivere per sempre, in cui nulla sarebbe mai cambiato. Erano venuti degli esseri e avevano sognato il mondo, e ora toccava a loro continuare a sognare il mondo dominato dagli spiriti, costellato di luoghi incantati, un sistema in cui noi non troveremmo posto nemmeno se lo volessimo». In conclusione un libro importante, che ha il pregio di presentare problematiche profonde quasi giocando e scherzando su se stesso e sulla letteratura in genere, fedele alla leggerezza calviniana da cui prende l’avvio, che avvince il lettore spingendolo all’inseguimento, quasi una caccia al tesoro, di una storia, o più storie, sottilmente ma saldamente legate tra loro. Il recente volume di Cees Nooteboom Le volpi vengono di notte è stato pubblicato in Italia da Iperborea nel 2010. All’inizio del primo di questi racconti leggiamo: «“Realtà e perfezione sono per me la stessa cosa”: di chi era quella frase se lo ricordava. Si poteva dubitare che Hegel si riferisse alla situazione in cui si trovava lui, comunque sembrava adattarsi bene». Quella che qui si ripropone è la ricerca, costante in tutta l’opera di Nooteboom, a partire da Philip e gli altri, di un altrove perfetto da cui si viene e a cui si anela tornare. È appunto il riferimento a «quello stato impossibile e perfetto» di cui parla a Philip lo zio che costituisce la prima suggestione di quel libro affascinante. Una suggestione che ritorna nei racconti dello scrittore ormai vecchio e disincantato. Non a caso la fotografia è un leitmotiv che ritorna in tutti i racconti. È appunto dalla contemplazione di una vecchia foto che prende l’avvio il racconto di esordio del volume, Gondole, che, come ben
È la benemerita casa editrice Iperborea a pubblicare in Italia l’autore olandese: fresca di stampa, un’antologia-breviario curata da Rudeger Safranski dal titolo “Avevo mille vite ma ne ho preso una sola” punizione».Vogliamo però mettere sull’avviso il lettore: non è un libro di facile lettura, questo, almeno al primo approccio. Infatti, come già accadeva in Rituali, il libro si presenta come diviso in sezioni: a una prima lettura, sembra si tratti di sezioni completamente separate, addirittura divergenti spazi, personaggi che non presentano alcuna caratteristica in
cando di mantenerne il significato: una religione, una preistoria sacra, il tempo degli antenati mitici, ma allo stesso tempo legge, rituale, cerimonia…». E ancora, poco più avanti e riguardo proprio, stavolta, al motivo del paradiso perduto cercato nel deserto australiano: «L’hanno sempre cercato tutti, no, il paradiso perduto? Hanno sognato un sogno
osserva nella postfazione Marta Morazzoni, è «una sorta di lezione propedeutica all’approccio dell’intera silloge». È il racconto di uno «strano pellegrinaggio. Pellegrinaggio a un’ombra, no, nemmeno: a un’assenza». Un critico d’arte torna a Venezia al richiamo dell’incanto di una ragazza americana dai capelli rossi e dagli occhi di ardesia che crede-
va di leggere il suo destino nelle stelle. L’incanto della protagonista di questo primo racconto è lo stesso della donna amata e persa da Heinz che non a caso si chiama Arielle e ha la levità del folletto delTempesta la shakespeariana ed è anche lo stesso della morta Paula del racconto omonimo, che si apre significativamente con queste parole: «Non credo negli spiriti, ma nelle fotografie sì. Una donna vuole che ti ricordi di lei e fa in modo che trovi una sua fotografia». Al motivo della fotografia dalla cui contemplazione i personaggi riprendono corpo e vita è legato il motivo del tempo. Leggiamo nella conclusione di Heinz: «Guardo ancora una volta quella foto. Il cane, il venditore di case, Philip, Andrea, Heinz, nessuno si è mosso. Sono fermi, congelati nel tempo, non appena si muoveranno racconteranno la mia storia. Osservo il volto di Heinz e vorrei scorgervi qualcosa di quello che ho appena raccontato. Ma non si vede niente. Il bere, la risata, la colomba, la morte,Tonga: ci sono perché ci sono stati, perché io lo so, ma questo non vale per un altro. Resta invisibile».
E al motivo del tempo è legato quello della morte cui fa riferimento il titolo del volume. Leggiamo in Paula II: «Dopo un po’ ho osato domandarti cosa c’era, e tu mi hai detto che ogni notte c’era un momento in cui non volevi più vivere. Volevi essere ironico ma non ci sei riuscito. Avevi paura di quel momento perché sapevi che si ripresentava sempre. Sentivo l’angoscia nella tua voce, ma non mi ingannavi. Non allora e non ora. Spaventato nel buio. E poi hai detto una cosa che non ho dimenticato mai. Le volpi vengono di notte. Una volta, quando eri ancora un bambino, te l’aveva detto tua nonna, e tu l’avevi sempre tenuto a mente». A proposito dell’atteggiamento disincantato che si riconosce in questi ultimi racconti di Nooteboom viene da pensare all’anziano signore di Le montagne dei Paesi Bassi «che forse già puzzava un po’ di morte» e, proprio per questo, voleva vivere in un mondo «in cui le sordide leggi dei vecchi non vigevano ancora, dove l’esistenza non era ancora un racconto coerente ma un mondo in cui tutto poteva accadere».
Narrativa
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libri
Ivo Andric LA DONNA SULLA PIETRA Zandonai, 138 pagine, 15,00 euro
ove splendidi racconti. Ivo Andric, bosniaco, premio Nobel 1961, si stacca dallo sguardo profondo dentro la storia, da quell’indagine che da «romanzo storico» divenne con lui «romanzo della storia» (Il ponte sulla Drina e La cronaca di Travnik), per addentrarsi nelle sfumature psicologiche di uomini e, soprattutto, di donne. Andric, come se avesse in mano una fotocamera digitale, afferra e fissa un istante di esistenza, un momento cruciale che è destinato a separare definitivamente due stagioni. Nel primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, l’autore s’infila nei pensieri di Marta, una donna di quarantotto anni adagiata su uno scoglio a prendere il sole. Sono in tanti al bordo del mare, «tutti insieme vi si perdono, interamente, con ciò che sono e con ciò che desiderano». Marta, cantante d’opera in vacanza, ricorda un episodio che scosse la sua adolescenza e, per la sua carica di muta e forte sensualità, l’avvicinò per la prima volta alla consapevolezza di sé come soggetto di piacere. Poi rimugina l’ossessione - anzi «la maledizione» - dell’invecchiamento che è capace di allargare la sua ombra non solo nel tempo reale ma addirittura nei sogni. Se anni prima la donna viveva «la vita del corpo… splendida, libera, coerente, serena», ora affronta qualcosa che le appare come «vergognoso», ossia la vecchiaia «che non è buona né bella… non è neppure pulita… si sporca da sola, da dentro» e anche se chi la attraversa compie tutti gli sforzi possibili, s’avvia verso «una pulizia sterile, da farmacia», senza raggiungere «la pulizia del fiore». A poco a poco, però, qualcosa succede: complici le onde marine, Marta è pervasa dalla «forza di un tranquillo piacere che non deve né nascondersi né mostrarsi, non s’interroga sulla durata, non pensa a un obiettivo, non conosce la fine». Compare invece l’uomo di sessantuno anni nel racconto intitolato La passeggiata. Il professor V. esce come di consueto la sera, per svagarsi un poco, per osservare cose che non comprerà mai, per «meditare in modo tranquillo e disinteressato». Anche in queste pagine il protagonista è l’attimo, il misterioso e subdolo scatto
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Il bibliofilo
Micro
mondi sulla linea di confine Nove bellissimi racconti del bosniaco Ivo Andric: storie di evidenze quotidiane cariche di drammaticità di Pier Mario Fasanotti del tempo. Senza darsi una ragione precisa, il professor V. insegue, anche in modo affannato, una ragazza dalla chioma fulva. Da quanto tempo non s’era girato per guardare una donna? Venticinque anni, forse. Prosegue, affronta l’agguato del buio e della sporcizia del quartiere popolato da zingari e pescatori. Per una serie di cir-
costanze si troverà in una stamberga e qui sarà minacciato, sbeffeggiato e derubato. Torna a casa, con il sollievo di trovare che «tutto era a posto, adesso». Da quel giorno non uscirà mai più all’imbrunire, passerà il tempo con gli occhi fissi sulle carte rischiarate dalla luce posta sulla scrivania. Oltre, nella zona oscura della stanza e del mondo, non si avventurerà più. In quegli istanti che hanno fatto seguito allo sconcerto e al panico, il professor V. ha ripensato alla sua vita. Oltre alla solitudine di un uomo e quella di una donna, Andric indaga magistralmente nelle dinamiche psicologiche di una coppia. Nel racconto La maltrattata si staglia la malinconica figura di Anica, una ragazza bella e sana che un giorno sposò Andrija, venditore di spazzole venuto su dal nulla, «il tipo perfetto di un uomo brutto». Anica finalmente va a vivere in una casa grande e diventa benestante. A poco a poco il marito, la sera, prende l’abitudine di ipnotizzare la florida e mite consorte con le proprie smargiassate. Legge ad alta voce il giornale e poi dalla sua bocca cariata e feroce escono critiche e improperi. «Se fosse per me… se il Re mi chiedesse… ah, non sai come potrei essere efficiente e crudele…». Anica, sera dopo sera, si sfinisce fino a odiare l’uomo sgraziato e arrogante. Nessuno comprenderà la sua decisione di andarsene e rinunciare così all’agiatezza. È Andric che ci spiega il perché, raccontandoci come un uomo possa trasformarsi in un mostro «rivelando uno scatenato e grottesco odio verso tutti, a lungo tenuto nascosto». Il narratore bosniaco, in questi racconti, esalta il leitmotiv della sua letteratura: «la parola e il silenzio, la giovinezza e l’invecchiamento, l’eternità e l’infinito, i muri e le pietre, il sole e il mare, la solitudine, il gioco, l’esaltazione, il maltrattamento e il diritto alla scelta». I micro mondi scandagliati così acutamente portano alla riflessione sulle «evidenze quotidiane», cariche di «drammaticità esistenziale». Sempre in primo piano c’è la linea di confine, come lo è del resto la sua Bosnia, terra collocata tra Occidente e Oriente.
Il pollastro piumato di Angelo Maria Ripellino l 21 aprile 1978 si spegneva a Roma Angelo Maria Ripellino, uno dei nostri intellettuali più versatili e funambolici. Poeta, saggista, traduttore, docente universitario, critico teatrale, giornalista, Ripellino ha attraversato con le movenze aggraziate di un saltimbanco un’epoca problematica come quella a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento senza mai perdere la propria eleganza e il proprio senso dell’equilibrio. Segnò come un maestro in esilio nella propria terra un gusto, una cultura facendoci conoscere un mondo stravagante popolato di ciarlatani e alchimisti, pagliacci e negromanti, registi e marionette. Ci fece addentrare come nessun altro lungo i vicoli inquietanti di Praga, dove sfuggì miracolosamente alla morte in un sanatorio che distava soltanto un pugno di chilometri dalla «città d’oro» per curare lo stesso male di cui morì Kafka. I versi che scrisse stridono con un suono simile a quello che i violinisti di Chagall ricavavano dai loro strumenti quando, ebbri di felicità, si perdevano tra i lembi dilaniati delle nuvole. Quanti autori ci ha fatto conoscere Ripellino, attraverso mirabolanti versioni e introduzioni, dopo essere diventato
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di Pasquale Di Palmo consulente di Einaudi? Spesso si tratta di nomi insospettabili come quelli di Gombrowicz o di Bruno Schulz, altre volte di classici come Dostoevskij, Puskin, Lermontov,Tjutcev, Cechov, spogliati della cortina di muffa impressa dai cattivi maestri e affiancati ai più significativi esponenti delle avanguardie storiche, non di rado presentati per la prima volta in italiano: da Pasternàk a Majakovskij, da Chlébnikov a Holan, da Halas a Capek. Un vero e proprio universo fantasmagorico in cui la tragedia della storia irrompe attraverso la voce conturbante di alcuni dei suoi più emblematici cantori per svelenire le sterili polemicucce di casa nostra. Ripellino nel 1960, dopo aver pubblicato vari saggi e traduzioni, esordisce come poeta con la raccolta intitolata Non un giorno ma adesso, stampata dall’amico Achille Perilli e Luciano Cattania per Grafica Edizioni d’Arte di Roma. Il libro, una sottile brochure in -8°, consta di 64 pagine ed è illustrato dallo stesso Perilli che fu allievo del padre di Ripellino, Carmelo, singolare figura di studioso che ebbe
L’esordio poetico del grande slavista, in mille esemplari illustrati da Achille Perilli
una forte influenza su quel figlio dall’aspetto fragile e dinoccolato che, appena diciannovenne, conosceva a menadito russo, polacco, olandese e rumeno. Sin da subito la voce di Ripellino si dimostra delicata e funerea, leggiadra e sardonica, fantasiosa e irriverente, «un teatrino onirico, un cabaret di sogni», come la definisce Antonio Pane. Il libro si configura, per l’eleganza editoriale e la singolare pregnanza dei versi che si sposano a meraviglia con le illustrazioni, tipiche del cosiddetto «astrattismo geometrico», come uno dei risultati più significativi della produzione di Ripellino che annovera, tra l’altro, quell’inimitabile caposaldo della critica che è il famoso saggio Praga magica, uscito da Einaudi nel 1973. Non un giorno ma adesso ebbe una tiratura di 1000 esemplari, di cui 25 numerati e recanti un disegno originale di Perilli. L’amicizia tra Ripellino e l’artista romano, documentata a più riprese, trova qui un esempio quanto mai rappresentativo nell’Epistola al signor Perilli, dove si legge: «Con un sacco di spatole e di squadre/ partivi all’alba su un tram sgangherato/ verso l’estuario degli arabeschi,/ tra la caligine del chiaroscuro,/ e con la lancia-pennello imbrattavi l’effigie/ d’un mondo che agli altri appariva/ come un pollastro piumato».
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poesia
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Tra marketing e verso puro
FRECCIA D’ORO È l’alba: incantata apparizione del mondo! oh che a Dio nei cieli, freccia d’oro, io mandi un saluto per la creatura sua più divina, la poesia.
di Francesco Napoli era un adagio pubblicitario relativo a una marca di olio ligure che contrastava nel suo dire il nome della stessa perché il protagonista dello spot, Mimmo Craig, al risveglio dopo un incubo che lo vedeva impotentemente sovrappeso, dichiarava che la lattina di quel prodotto l’avrebbe voluta sempre sul tavolo in quanto, a dispetto dell’etichetta, di fatto quell’olio era sinonimo di leggerezza in cucina. Difficilmente si potrebbe pensare che, dagli inizi del Novecento, quella ditta produttrice sia stata retta da due fratelli, letterati e poeti appartenenti a quell’area protonovecentesca che si mosse tra più o meno timide innovazioni vociane e residui pascolian-dannunziani. I due sono Angiolo Silvio e Mario Novaro.
C’
L’olio così reclamizzato è quello di famiglia, lo stesso per il quale si diede vita a una sorta di foglio pubblicitario. Siamo nel 1895: nasce così La Riviera Ligure di Ponente che insieme al listino prezzi della ditta P. Sasso e figli pubblica giudizi di clienti, medici, personalità del tempo, ospita rubriche di cucina e giochi a premi. Insomma un raffinato antesignano di certi volantini ancora oggi in uso. La scelta è innovativa: si concede spazio, con particolare attenzione a una grafica in linea coi tempi, a tematiche localistiche connesse alla cultura dell’olivo e al paesaggio ligure. Alla rivista, che di ligustico porta già uno dei sapori, manca in un primo momento l’altro, quello letterario. Poi, all’arrivo dei due fratelli a reggere le sorti di quel foglio, un mutamento radicale, in anteprima su altre società, come la Pirelli e il suo Civiltà delle macchine diretto negli anni Cinquanta da Leonardo Sinisgalli, altro dimenticato poeta. Siamo nel 1899 e, in particolare Mario Novaro trasforma la testata definitiva La Riviera Ligure in una autentica rivista culturale con notevole risalto per i contenuti letterari e l’aspetto grafico, per il quale chiama a collaborare i maggiori artisti del tempo come Giorgio Kienerk e Plinio Nomellini, Edoardo De Albertis e Adolfo Magrini. Il loro contributo si conclude però con gli ultimi fascicoli del 1905. La rivista dunque ospita note firme dell’epoca: da epigoni del classicismo come Francesco Gerace, Giuseppe Lipparini, Giovanni Marradi e Guido Mazzoni, a poeti che
il club di calliope
Mario Novaro (In Murmuri ed echi)
guardano a Pascoli e D’Annunzio, come Luigi Orsini e Aurelio Ugolini. Senza aderire a particolari correnti, Mario Novaro accoglie anche giovani autori disponibili a nuove esperienze di scrittura. E qui l’elenco è lungo: Bino Binazzi, Filippo De Pisis, Lionello Fiumi, Francesco Meriano, Giuseppe Ravegnani, Giovanni Titta Rosa.Ai primi nomi di Pascoli, Deledda, Pirandello, si aggiungono in seguito anche altri collaboratori: Campana, Cecchi, che esordisce sulla rivista come poeta, Alvaro, Saba, Rebora, Sbarbaro, Ungaretti, Palazzeschi, Moretti, Papini. Mezzo, se non tutto, il Novecento poetico-letterario lascia una sua traccia su quel foglio che imprime così un segno profondo nella cultura italiana del Novecento. Mario Novaro (1868-1944) è un poeta-filosofo, secondo quel Montale che a lui e ad altri conterranei, Boine e Roccatagliata Ceccardi e Sbarbaro, guarda e attinge con avidità discreta e poi sempre un po’ celata. Compie gli studi universitari tra Vienna e Berlino, dove si laurea in filosofia nel 1893 con una tesi su Malebranche. Due anni dopo consegue la laurea anche all’Università di Torino e pubblica i suoi primi scritti: La teoria della causalità in Malebranche (1893), Il Partito socialista in Germania (1894), Il concetto di infinito e il problema cosmologico (1895). La formazione tedesca ma soprattutto il legame con Gustavo Sacerdote, ebreo piemontese trapiantato a Berlino e corrispondente di giornali socialisti italiani, nonché i rapporti con l’ambiente torinese formano un significativo quadro dei contatti culturali e politici di Novaro. Stabilitosi a Oneglia (oggi Imperia), ne diventa assessore comunale per il giovane partito socialista e, dopo un breve periodo di insegnamento nel locale liceo, si in-
serisce, come detto, con i fratelli nell’industria olearia di famiglia intestata alla madre Paolina Sasso.
Mario Novaro è però poeta finissimo e tormentato, così come è tormentato il percorso della sua raccolta di vago sapore pascoliano sin dal titolo, Murmuri ed echi, in prima edizione nel 1912, poi rielaborata in cinque successive tappe.Traccia con raro acume e precisione l’intera evoluzione dell’opera, e della poetica di Mario Novaro,Veronica Pesce recente curatrice di una edizione critica di Murmuri ed echi (San Marco dei Giustiniani-Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, 26 pagine., s.i.p.) che offre un quadro finalmente chiaro ed esaustivo su questo nascosto ma originale esponente della cultura italiana del primo Novecento, ricostruendo con dovizia anche la lunga storia editoriale della sua raccolta «unica» e verificando così «che cosa hanno letto i contemporanei» di Mario Novaro e «ciò che hanno effettivamente assorbito»... Poeta che «fin da principio, alle sue prime prove e indecisioni, tra verso e prosa, trasferisce nei versi una resistente fiducia metafisica», come ha scritto Giorgio Ficara nella Prefazione al volume, Novaro sembra nel suo frammentismo, e nell’indecisione tra verso e prosa, approssimarsi non poco ai vociani. Si coglie nei versi costantemente rielaborati di Novaro un’assorta meditazione sulla fugacità del destino umano e il senso profondo del mistero che circonda la vita, inscritto in una scrittura di tale secchezza da sembrare perfino povera, al limite della poesia pura dell’ermetismo che seguirà («suoni vari vani/ pensieri vani/ reca il vento/ sperde il vento», da Dall’erta della rupe).
BELLA ACHMADULINA, UNA VOCE NEL DISGELO in libreria
DUE FOTO (IN BIANCO E NERO) ancora imprevedibile e bianca una rosa - due foto, e le altre tra le carte piegate si volge il tuo sguardo si posa fuori campo dove soltanto non muore il presente dallo stelo il rametto allontana la mano indica un punto d’invisibile qualcosa Luca Nicoletti
di Giovanni Piccioni
l nome di Bella Achmadulina, insieme a quelli di Evtusenko (che fu il suo primo marito) e Voznerenkij, appartiene alla nuova generazione poetica poststaliniana, cui il recente disgelo aveva consentito una certa libertà di ispirazione e quindi il distacco deciso dalla retorica ufficiale. Nel 1962, con la raccolta di liriche La corda, la poetessa si pose in prima fila in questa ripresa della poesia russa. Presso Spirali esce una ristampa dell’ampia raccolta Poesia, con traduzione di Daniela Gatti, che comprende un cospicuo numero di liriche cha vanno dal 1956 al 1986.Trent’anni di produzione poetica, dunque, in cui, nell’ambito di un severo, tradizionale impianto metrico, la Achmadulina ha condotto un’originale ricerca sul linguaggio, attenta alle inflessioni gergali, ma sempre
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guidata da un’ansia di purezza espressiva e dalla fede nella funzionalità simbolica della parola. Nei testi compaiono grandi nomi della tradizione poetica russa antica e recente, da Puskin («Dolce è lo sguardo di Puskin - la notte/ è passata e si spengono le candele,/ così puro, il tenero gusto della/ lingua natia agghiaccia le labbra») a Pasternak, a Marina Cvetaeva, quasi a voler sottolineare una continuità. La luna, il ciliegio selvatico, i luoghi familiari, le stagioni, i paesaggi, la religiosità comunicano la dimensione di una Russia millenaria. Nelle poesie più recenti si nota come il virtuosismo stilistico lasci spazio a una più matura espressività. Come scrive la poetessa in chiusura della breve Introduzione «Io ho continuato a vivere nel mondo, ho cercato di essere migliore».
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di Diana Del Monte ayne McGregor è l’unico coreografo contemporaneo che può vantare la conquista dell’anti-materia nel campo del movimento corporeo. Questa sera, prima nazionale al Teatro Valli di Reggio Emilia di Far, il suo ultimo lavoro, ispirato a uno degli ultimi libri dello storico inglese Roy Porter, The age of reason, uno studio sulle ricerche scientifiche del Diciottesimo secolo nell’ambito delle relazioni tra la mente e il corpo. Il titolo dello spettacolo, infatti, altro non è che l’abbreviazione di Flesh in the Age of Reason. L’ultima fatica del coreografo inglese è certamente anche uno dei suoi lavori più convincenti dopo Chrome. Il palco è dominato dalle enormi luci rettangolari disegnate da Lucy Carter che, accendendosi e spegnendosi, riconfigurano il fondale della scena. La sintesi delle luci con il suono e il movimento è semplicemente immacolata, un potente distillato di idee date al pubblico attraverso il corpo. Accompagnato dalle note di Verdi, il passo a due di apertura è certamente
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uno dei pezzi di maggior bellezza che McGregor abbia mai coreografato: un uomo e una donna che toccandosi e abbracciandosi, e combinando il contatto umano con quello tipico del mondo animale, richiamano le questioni sull’intelligenza umana riportate in luce da Porter. Lo stile e il vocabolario sono chiara-
Televisione
Danza Il post classicismo di Wayne McGregor MobyDICK
mente quelli di sempre - le schiene ipermobili, le braccia avvitate su se stesse, le probitive iperestensioni - eppure, si tratta di un McGregor in evoluzione verso una misteriosa forma di post-classicismo. Nato nel 1970 a Stockport, McGregor ha studiato danza all’Univerity College, Bretton Hall e alla José Limon School di NewYork. Nel 1992 fonda la sua compagnia, Wayne McGregor Random Dance, e diventa coreografo residente al Place di Londra.
spettacoli
Da sempre interessato alla tecnologia e al corpo danzante nei suoi aspetti meccanici e biologici, in passato è stato anche coinvolto in alcune ricerche sulle interazioni tra corpo e mente portate avanti dal dipartimento di Psicologia Sperimentale di Cambridge. Coreografo ospite alla Scala di Milano, l’Opera di Parigi, il Nederlands Dans Theatre, il San Francisco Ballet, il New York City Ballet, l’English National Ballet, nonché consulente per teatro e cinema (è stato, tra l’altro, direttore dei movimenti di massa per Harry Potter e il calice di fuoco), McGregor, da sempre, insiste sull’importante ruolo dei suoi danzatori come collaboratori nella sua opera - da qui la formula del doppio nome dato alla sua compagnia. Dopo la prima del teatro emiliano, Far sarà portato in tournée a Trento (29 marzo), Cremona (2 aprile), Padova (12 maggio), Roma (31 maggio). Così, mentre i dieci danzatori illuminati da una perfetta padronanza del loro corpo si avvitano sul palco, ci chiediamo: può la danza metterci in contatto con il Cogito ergo sum di Cartesio? Forse.
DVD
COME FU CHE L’ITALIA DIVENTÒ BELPAESE ioie e dolori di un Paese grande e complicato, si alternano in Ma che storia, bel documentario di Gianfranco Pannone dedicato ai centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Cinegiornali e documentari dell’archivio Luce ricostruiscono buona parte del nostro Novecento grazie a un montaggio brillante, capace di sovrapporre i ricordi della Grande Guerra di Vittorio Foa ai canti di pace di Raffaele Viviani. Un viaggio delicato, non privo di ironia e viva commozione, che riscopre sotto la polvere della retorica, vizi e virtù che ci hanno fatto, nel bene e nel male, italiani.
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PERSONAGGI
È NATA UNA WOOLF DI PERIFERIA ngrandimenti. Non c’era collana più azzeccata, per salutare le attese mémoires che Anna Tatangelo ha vergato per i tipi Mondadori. Intitolata Ragazza di periferia, l’autobiografia si prestava di certo a un’agile formato brochure (90 pagg. 17 euro). Ma l’opus si è già segnalata all’attenzione della critica letteraria anche per alcuni lacerti di indubbio nitore, stillati sulla rivista Chi. A proposito della singolar tenzione con Laura Pausini, Anna rammemora: «Cantava che il suo fidanzato, Paolo Carta, era più bello del mio e che il suo seno naturale non poteva essere paragonato alle mie tette finte». È nata la Woolf di Sora.
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di Francesco Lo Dico
Dopo Las Vegas, New York e L.A., ora tocca a Detroit er fortuna sono in tanti a essersi convinti che il genere giallo, oltre a poggiare su una trama che appassiona, è lo strumento oggi più affilato per descrivere situazioni e problematiche sociali. Senza tralasciare i risvolti psicologici che emergono dal fatto-choc che è il delitto. Gli americani scrivono molti soggetti di marca poliziesca per la fiction televisiva. Da anni a questa parte si sono accorti che le inevitabili variazioni sul tema provengono dall’ambientazione. Se una volta erano New York e Los Angeles le segnaletiche urbane dei noir, oggi conosciamo sfondi diversi, addirittura Las Vegas che di solito è sbrigativamente legata al gioco d’azzardo come se intorno ai casino ci fosse solo deserto. Ora tocca a Detroit, ovviamente definita la città del crimine per eccellenza. L’ex capitale del-
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l’auto e oggi in crisi fa da fondale alla serie Detroit 1-8-7, su Fox Crime. I personaggi sono ben dosati, a rispecchiare la composizione etnica della metropoli. Guida la squadra degli investigatori di polizia una donna massiccia di colore, capelli rasati, determinata ma non spaccona. C’è quello affascinante, dall’aspetto francese, c’è il giovane neo-papà di colore, c’è la bellona ispanica, molto impegnata a tener lontani
sguardi e mani di arrogantelli o psicopatici dal suo corpo flessuoso. In ogni puntata s’intrecciano, secondo il canone battuto da Csi, due episodi. La telecamera si sposta velocissimamente da uno all’altro. Una donna che aveva occupato una villetta in un quartiere degradato - peraltro costellato da edifici storici - viene trovata con un proiettile in testa. Era sola, era impegnata nel campo sociale, aveva in mente di denunciare l’assalto degli speculatori su una zona che con qualche furbizia di malviventi poteva trasformarsi in quartiere residenziale per il ceto medio-alto. E qui entrano in scena figure squallide di agenti immobiliari profittatori, homeless, giovani sbandati, imbrattatori di muri dietro compenso, drogati e altri. La vittima, Sally, era in contatto con un giornalista e stava raccogliendo prove del «delitto social-urbano».
Ma è diventata lei la vittima. Il detective elegante e il neo-papà, confezionano una trappola. Ed ecco che nella rete cade un uomo dagli occhi di ghiaccio, colui che è stato mandato a uccidere Sally. Dalla tragedia sociale si passa a quella personale. I meccanismi sono oliati, ma fuor di misura, e tutti obbedienti ai tempi (stretti) della fiction. Il killer, inchiodato nella saletta dell’interrogatorio con i soliti vetri a specchio, passa in un batter d’ali da una calcolatissima indifferenza al pianto e alla confessione. Il detective con il ciuffo parigino gli mostra la foto di una bambina rapita vent’anni prima e trovata nel bagagliaio di un’auto. Era la sua sorellina. Un foro nella corazza emotiva e il pathos sgorga in forma di lacrime. Quale il mandante? Si sa, ma mancano le prove. È un magnate che vive «alla grande». Il detective «parigino» irrompe nel tempio del denaro facile. Scena western. Molto americana nel senso dello stereotipo - la scena della minaccia, della sfida, della pro(p.m.f.) messa di giustizia.
Cinema
MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
mici, amanti e… è un’opera scoppiettante che usa stilemi e stereotipi della rom-com e ne rovescia i ruoli di genere, non trascurando di rinfrescare i dialoghi e renderli brillanti e a prova di noia. Emma (Natale Portman) è un neo-medico massacrata dal tirocinio in ospedale: non ha tempo per complicazioni sentimentali. «Lavoro ottanta ore la settimana: ho bisogno di qualcuno nel mio letto alle due di mattina a cui non devo fare il breakfast». Adam (Ashton Kutcher, alias Mr. Demi Moore), protagonista maschile, risponde, «Odio il breakfast». Il giovane assistente di produzione tv è il motore della storia che prende l’avvio dal rapporto del giovane con il padre Alvin (Kevin Kline), divo tv single e mandrillo indefesso. Il figlio va in crisi quando l’attempato don Giovanni gli soffia la fidanzata Vanessa (Ophelia Lovibond, nomen omen) e chiama tutte le donne memorizzate nel suo cellulare per chiedere, con improntitudine etilica, se sono disposte a dargliela. Si sveglia il giorno dopo sul divano di un salotto sconosciuto con Shira (Mindy Kaling, fantastica), una giovane indiana in pigiama che dice «Non ti ricordi come mi chiamo, vero?». Poi entra il secondo e trés gay abitante della casa, sventolando un paio di calzini in faccia al ragazzo disorientato: «Questi sono tuoi?». Finalmente entrano in campo Patrice (Greta Gerwig) e Emma, gli ultimi dei quattro giovani medici che dividono l’appartamento, con sorrisi sornioni per lo scherzo che gli hanno combinato. Adam: «Ho fatto l’amore con qualcuno in questa casa stanotte?», alla risposta no, chiede allora cosa è successo. Emma, sua amica sin dall’infanzia e da poco ritrovata, risponde sfottente: «Eri accovacciato sul divano, nudo e in lacrime». Il cast è ottimo, nobilitato da Kaling (40 anni vergine e la serie tv The Office) e Gerwig (Greenberg), pronte per una verbromance sione femminile del (soromance?), i film che cantano l’amicizia virile non erotica (I Love You, Man, SuXbad, Pineapple Express). Le amiche di Emma sono una forza che meritava più spazio. Forse ci penserà la scrittrice Elizabeth Meriwether, che con questo copione inaugura la sua carriera cinematografica, dopo il tirocinio in tv. È certamente farina del suo sacco, e non di Michael Samonek, che ha suggerito la storia, una scena molto divertente e inedita, in cui le tre donne, stese dai dolori e i gonfiori del ciclo sincronizzato, come spesso succede tra amiche, per di più conviventi e soggette agli stessi stress, sono soccorse da Adam con una compilation di canzoni e ballate consolatorie. Ecco il progetto di Meriwether: «Si tende a costringere le donne in un unico modello. A me interessa come possono essere tutto contemporaneamente: una spregiudicata mangiauomini che desidera innamorarsi, o una party girl con parecchia materia grigia. Voglio espandere il vocabolario, trascendere gli stereotipi. Vediamo quanto duro». In bocca al lupo. Il film è diretto da un fuoriclasse come Ivan Reitman, l’insostituibile che da regista e/o produttore ci ha regalato alcune tra le più spassose commedie della nostra epoca: Ghostbusters - l’Acchiappafantasmi, Animal House, Tra le nuvole, I Love You, Man. Da vedere.
A
Il femminile
senza
stereotipi
Per gli amanti dei film di paura, Frozen è tra quelli che saranno apprezzati anche da chi non ama l’horror classico, grondanti torture e viscere sanguinolenti. La storia di tre ragazzi bloccati e dimenticati su una seggiovia che resterà chiusa per una settimana mentre arriva una tempesta di neve, appartiene alla categoria di storie vere o verosimili, in cui ci si immedesima all’istante. Curiosamente sono proprio queste le storie che a volte dispiacciono proprio ai tifosi hardcore del genere splatter, quelli che si esaltano per gli strazi di Saw, Hostel, Hatchet e via sbudellando. O forse non è strano: riescono a divertirsi esclusiva-
L’abile sceneggiatrice di “Amici, amanti e...” ha voluto descrivere quattro donne oltre i consueti modelli. Il film (di Reitman) è riuscito, ottimo il cast. “Frozen”, storia estrema ambientata tra montagne ghiacciate, assicura brividi dall’inizio alla fine. Anche “Space Dogs 3D” è da vedere
mente su orrori talmente esagerati da lasciare spazio per spaventi ed emozioni totalmente ersatz, con personaggi dimenticabili e poco approfonditi, il cui destino non ci sta a cuore. Frozen prende il suo tempo per farci conoscere Parker (Emma Bell), il suo fidanzato Dan (Kevin Zegers) e il suo bromantic best friend Joe (Shawn Ashmore). I due amici sono bravi snowboarders, compagni di discese spericolate. Da quando è arrivata Parker, una principiante, per Joe è una terza incomoda che guasta il piacere dell’escursione virile. Il più subdolo maschilista, però, è proprio il fidanzatino. Spinge una riluttante Parker a scroccare un pass a Jason, l’addetto allo skilift, con la bugia che ha dimenticato la carta di credito. Sbattendo le ciglia chiede per sé e le sue «amiche» un pass. Alla fine Jason cede, e quando il trio chiede di fare un’ultima discesa poco prima della chiusura, è scocciato per la menzogna, ma alla fine dà il suo consenso. Poi chiede a un collega di sostituirlo perché gli scappa la pipì e di aspettare gli ultimi sciatori. L’amico vedendo arrivare un terzetto diverso pensa che sia quello che aspettava, e ferma la seggiovia. I tre amici rimangono sospesi a mezz’aria pensando a un guasto; ma poi intorno a loro si spengono le luci. È domenica sera, il resort resterà chiuso fino al venerdì successivo, fa molto freddo e una forte bufera di neve è in arrivo. Si può gridare, se qualcuno ti sente; si può lasciarsi cadere con il grave rischio di spezzarsi brutalmente le gambe, ci sono i lupi che s’aggirano nella foresta, ululanti e famelici, e si può perdere un guanto e addormentarsi con la mano nuda attaccata alla sbarra di sicurezza gelata. I brividi sono assicurati e non c’è un attimo di noia. Da vedere.
Mosca, anni Cinquanta. Il cosmonauta di Susanna Nicchiarelli raccontava di una ragazzina, comunista precoce, innamorata delle avventure cosmiche sovietiche in competizione con il programma spaziale americano. In principio andò in orbita la cagnetta Laika, prima dell’umano Yuri Gagarin. In seguito fecero 18 volte il giro della Terra Belka e Strelka, le prime a tornare vive. Il film d’animazione russo Space Dogs-3D - Eroi a quattro zampe alla conquista dello spazio, racconta le loro eroiche imprese. Belka è una cagnolina bianca e soignée, star del Circo di Mosca. Durante il numero «razzo spaziale», finisce fuori rotta lontano dalla troupe. Per strada incontra Strelka, una bastardina libera e tosta alla ricerca di suo padre, che secondo lei vive tra le stelle. Quella notte s’aggira per le strade della capitale un’inquietante automobile nera, con un bulldog e un carlino forzuti e sbrigativi che rincorrono e «arrestano» i randagi che trovano, tra cui le nostre eroine. I prigionieri sono portati in una sorta di lager-caserma, dove un temibile doberman li costringe ad allenarsi tutto il giorno. Si pensa al peggio, ma alla fine Belka e Strelka sono selezionate per fare le cosmonaute sullo Sputnik 5. Belka è in delirio, convinta d’incontrare il papà nello spazio; Strelka sogna la gloria mediatica, perché così i compagni del circo la ritroveranno e riprenderà la sua carriera. Il cartone animato mischia il trionfo socialista, i monumenti di Mosca e il meraviglioso mondo animale in un cocktail felice di propaganda, storia scientifica, politica e fantasia. Non perdetevi il materiale d’archivio con alcuni dei veri cani spaziali sovietici che scorre accanto ai titoli di coda. Da vedere.
Babeliopolis
pagina 22 • 26 marzo 2011
n bel po’ di tempo fa, nell’era pre-computer, Umberto Eco affermò che appena vengono delle idee le si devono appuntare su quel che si ha sottomano per non dimenticarle: lui, ad esempio, lo faceva sulle scatole dei fiammiferi, e per questo probabilmente ha intitolato la sua pagina settimanale su L’Espresso, «La bustina di Minerva». Sicché io penso che il professor Giuseppe O. Longo oltre che sulle scatole di fiammiferi appunti le proprie idee o scriva i propri frammenti di racconto anche sui fazzolettini di carta, i tovaglioli dei ristoranti, i fogli e le buste che si trovano nelle stanze degli alberghi, sugli scontrini, sui biglietti ferroviari, sui tagliandi dell’autostrada, sui menù dei ristoranti. Nonostante sia uno specialista di informatica non ce lo vedo troppo a prendere appunti sul notebook elettronico e sull’iPad. Perché altrimenti non si spiegherebbe la sua mole di scritti non solo scientifici (è docente di Teoria dell’Informazione all’Università di Trieste), ma soprattutto letterari (non solo racconti e romanzi, ma anche opere teatrali e radiodrammi): considerando le date che Longo pone pignolescamente alla conclusione di tutti i suoi testi si potrebbe dire che non passi giorno che egli non scriva qualcosa, dovunque si trovi e, ipotizzo, su qualunque «supporto» cartaceo e ormai magnetico abbia sottomano. Insomma: Nullo die sine linea secondo quanto diceva Plinio, intendendo linea come riga di testo e non tratto di pennello.
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Però nel caso di Giuseppe O. Longo (O.? nemmeno sotto tortura, disse una volta, rivelerò quel che vuol dire) non vale l’altro motto, in genere esatto, secondo cui la quantità va a detrimento della qualità, perché quasi sempre il risultato della sua scrittura stile e contenuto ci offre risultati più che originali, degni di essere letti e ricordati, anche se essa si concretizza quasi elusivamente in racconti o frammenti di racconti che non sono visti di buon occhio dalla cosiddetta grande editoria italiana che li snobba. Eppure spesso si tratta di storie eccezionali sin dalle primissime da lui pubblicate, Il fuoco completo (Studio Tesi, 1986) con moltissime aperture verso l’Immaginario declinato in tutti i modi e sfumature possibili. Da allora il professor Longo ha al suo attivo tre romanzi e una dozzina di antologie di racconti (quasi tutte presso Mobydick di Faenza), oltre ad alcuni di testi teatrali.Scienziato a tutto tondo, Longo ha saputo coniugare come pochi l’incontro delle famose «due culture», spesso intrecciando i temi della sua specializzazione (informatica, nuovi media, interazione uomo/macchina, svilup-
MobyDICK
ai confini della realtà
Cronache
dall’abisso di Gianfranco de Turris pi futuribili di questa connessione ecc.) con una fantasia prodigiosa e, si potrebbe dire, senza confini. Molti si sono posti la domanda: ma da dove vengono le idee? È quel che mi chiedo nei suoi confronti anche io: ma da quale fonte iperuranica gli giungono tante idee a getto continuo? Per di più il suo eclettismo non
immaginazione amalgamata con una scrittura totale, coinvolgente, che ti assorbe e ti conduce nei labirinti di vicende di per sé anche banali ma che vengono elevate proprio per come sono scritte. Non che l’autore usi un linguaggio criptico o avanguardistico: al contrario proprio nella politezza della struttura, nel-
La scienza a servizio dell’immaginazione. Così Giuseppe O. Longo, specialista di informatica e docente universitario, ha saputo coniugare mirabilmente le “due culture”, intrecciando i temi del suo sapere con una fantasia senza confini. Leggere per credere “Il ministro della muraglia” scade mai in un dilettantismo, ma ha sempre uno spessore considerevole. L’occasione per rendersi conto dei due volti di Giuseppe O. Longo, quello «fantastico» e quello «realistico» ci viene dalle sue due ultime raccolte di storie pubblicate. Il ministro della muraglia (Trasciatti), che ha per sottotitolo «Dieci racconti dall’abisso» illustrati con i suggestivi disegni di Loretta Schievano; e Squilli di fanfara lontana (Mobydick) che riunisce invece ventidue «frammenti» di varia lunghezza. Non che sia facile «classificare» le storie di Longo perché in esse si mescola di tutto e di più in una illimitata
l’uso di vocaboli spesso desueti sta la sua caratteristica forza. E poi il giro di frase quasi ipnotico, una specie di «flusso di coscienza» che rompe gli argini e trascina via il lettore facendo sì che anche le trame di fatti i più comuni e di ogni giorno diventino qualcosa di «diverso». Realismo magico si sarebbe detto un tempo. Ma qui non si può perché assai spesso le trame di Longo sono crude e terribili, angosciose, ossessive. Ad esempio, cosa è «l’abisso», tema comune alle storie del Ministro della muraglia? È il «vento dell’abisso» che investe Giulia in un non identificato aeroporto africano
quando è alla mercè di un cosiddetto «deposito vivente di organi». Cioè un essere umanoide, forse simile alla scimmia, creato dall’ingegneria genetica, una specie di macchina di carne che serve per prelevare gli organi necessari ai trapianti, ma che a differenza di quel che pensa il suo creatore, non è vero che non provi alal cunché (Aviatore tramonto). Sono gli «abissi del nulla» in cui aleggia il suono da cui avrà origine il Creato, in una breve racconto in cui si descrive la nascita della realtà (Cosmogonia elementare). Sono i resti di una fornace, tra paese e città, oltre la quale nessuno riesce mai ad andare, ferma lì con i suoi ruderi, la sua oscurità, i suoi segreti (Fornace vecchia). È l’abisso della consuetudine e della inconsapevolezza (Il ministro della muraglia) o della burocrazia che domina la nostra vita (Registrazione), due racconti che definire buzzatiani o kafkiani sarebbe non rendere merito a Longo. È l’abisso di un passato così lontano che degli uomini si è persa memoria o che l’ha distorta nei loro confronti (Rimpianto degli uomini). È l’abisso dello spazio che separa lontani pianeti dalla Terra, anche se questi senza rendersene conto la condizionano in un evento epocale (I pianeti della Stella Polare). È l’abisso del tempo che a un certo momento comincia ad andare a ritroso, anche se nessuno se ne rende conto (Premesse a Tirteo). È l’abisso di una morte assurda e insensata, senza motivo, soli ad anni-luce dal proprio pianeta (Venuto da Udvar). È l’abisso del mare, dell’orrore, di una mostruosità senza fine «venuta dall’abisso», in una storia «lovecraftiana» (Dall’abisso).
Da contrappunto a queste trame in cui fantascienza, fantastico, orrore, surrealtà si mescolano fra loro dandoci un’atmosfera trasognata e angosciosa, ci sono i «frammenti» di Squilli di fanfara lontana, ventidue scritti fra il 1996 e il 2008, in cui gli spunti sono più «banali», più realistici; spunti per racconti mai scritti, capitoli di romanzi mai terminati, anche se - in sé hanno tutti una loro compiutezza, che peraltro presuppone un «prima» e un «dopo». Come se nella mente, e nella penna (matita, computer) di Giuseppe O. Longo premessero per venire alla luce e prender vita mille e mille vicende, sentimenti, casualità, esistenze, personaggi, tragedie interiori. Che, ultima notazione, spesso sono in simbiosi con il paesaggio che li circonda. Specie nelle storie del Ministro della muraglia è come se la natura si riverberasse nelle percezioni e nelle sensazioni, e viceversa. Leggere i racconti di Giuseppe O. Longo ci immerge insomma in un mondo straniante, diverso ma allo stesso tempo uguale a quello in cui ci troviamo casualmente a vivere. E proprio per questo tanto più angoscioso.