mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Pier Mario Fasanotti
Fotografa il reale e lo trasforma in narrazione. Come nella migliore tradizione letteraria. Opere e autori di questo nuovo genere che coniuga scrittura e disegno. Con un sempre maggiore numero di adepti...
Parola chiave Dovere di Rino Fisichella
9 771827 881301
80329
ISSN 1827-8817
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VIAGGIO NEL MONDO DELLA GRAPHIC NOVEL
k.d. lang, the Voice al femminile di Stefano Bianchi
ino a poco tempo fa le storie a fumetti erano cose da edicola o da negozi specializzati, frequentati da ragazzi e da adulti collezionisti, e lì si doveva andare per trovare le avventure di Hugo Pratt, antesignano di un genere di qualità che si discosta, e di molto, dalla valanga dei prodotti un po’trash, horror, vampiri eccetera, ora di dominio giapponese. Poi alcune case editrici note per la pubblicazione di romanzi e saggi di eccellenza hanno deciso di far raccontare alcune vicende servendosi di due elementi: il disegno e la parola, a volte dosati oltre i vecchi canoni del cartoon. E così è nata la graphic novel, che letteralmente significa romanzo disegnato. Un precedente di qualità eccezionale è Poema a
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NELLE PAGINE DI POESIA
La solitudine moderna secondo Sbarbaro di Francesco Napoli
fumetti (Mondadori, 1969) di Dino Buzzati, che raccontava in forma moderna il mito di Orfeo, con occhio attento ai disegnatori «neri» italiani. L’ultima iniziativa comparsa in libreria è quella del Becco Giallo, che è entrata a far parte della casa editrice padovana Alet. Come molti ricorderanno Il Becco Giallo era il nome di una rivista coraggiosa e irriverente, fondata da Alberto Giannini negli anni Venti. Per prima fece ricorso al disegno satirico in nome della libertà e della democrazia (sotto minaccia in quegli anni in Italia). Simbolo della rivista era un merlo con il becco aperto.
Ottone Rosai maledetto toscano di Mario Bernardi Guardi A caccia di aquiloni (e di storie d’amore) di Anselma Dell’Olio
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Scoprire il design con von Vegesack di Marina Pinzuti
la graphic
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novel
segue dalla prima Poi la censura proibì al merlo di cantare e il suo becco fu sigillato con un lucchetto. Da trent’anni a Oderzo, vicino Treviso, esiste un altro Becco giallo: è una libreria dove si soffermava spesso anche Goffredo Parise. I titoli della «Graphic Alet» finora sono quattro. Il più elegante e incisivo è senza dubbio La grande guerra, di Alessandro di Virgilio e Davide Pascetti. Riprende la tradizione diaristica della Grande guerra e pone in trincea giovani italiani di diverse provenienze geografiche, incapaci di comunicare tra di loro malgrado indossino la stessa divisa. Le donne sono a casa a sbrigare lavori maschili, i bambini hanno negli occhi le immagini della partenza dei padri, catapultati nell’inferno del primo conflitto mondiale. Il più originale per la commistione tra testo e disegni è Abc Africa di Jean-Philip Stassen, cronaca ragionatissima del genocidio del Ruanda. Si alternano immagini senza indulgere al «gusto» della violenza e brani che sono o spiegazioni politiche e tribali o descrizioni in forma di cronaca, si direbbe turistiche se non fosse che riguardano una delle più grandi vergogne internazionali. Il terzo libro è Sonno elefante di Giorgio Fratini, ambientato a Lisbona ai tempi della dittatura.
L’ultimo titolo uscito è Luigi Tenco, di Luca Vanzella e Luca Genovese. Il cantante, un po’ umiliato dal profilo grossolano del suo viso, appare più nevrotico che malinconico, e questo sorprende un poco. Ci sono i suoi amori, le sue ambizioni, la sua ritrosia, e infine la rabbia di essere stato escluso dal Festival di Sanremo, lui autore di una canzone bellissima e struggente, Ciao amore ciao, una poesia in musica in mezzo a pacchianate in passerella in quel gennaio del 1967. Il mistero della sua morte permane: c’è chi racconta di aver visto il suo cadavere a terra, chi sul letto, c’è chi giura di aver scorto la pistola sul comodino (cosa insolita per chi si spara sul pavimento). Nella prefazione intitolata «Un assurdo destino», Mario Luzzato Fegiz, esperto di musica, accusa il magistrato di allora di incompetenza. E fin qui va bene. È però superficiale scrivere, a sostegno del dubbio sul suicidio, che «quel che non torna è quel biglietto: la calligrafia è sua, il testo, per la sua banalità, non gli appartiene». In ogni caso sulla morte del cantautore (e dopo un mese la sua compagna Dalida tentò di togliersi la vita) i misteri sono tanti. Il caso Tenco è stato archiviato definitivamente nel 2006. Il Becco Giallo ha annunciato prossimi titoli, tutti di un certo impegno. Continua quindi il «fumetto civile», fatto di giornalismo, di storie «tra la gente». Così nelle intenzioni. E speriamo che le promesse siano mantenute con onestà nel libro in programma a maggio, Dossier Genova/G8, i fatti della scuola Diaz. Sempre in quel mese sarà in libreria È primavera. Intervista a Toni Negri. Lascia perplessi quanto la casa editrice scrive a proposito dell’ex professore dell’estrema sinistra: «È tra le sette personalità che stanno sviluppando idee innovative in diversi campi della vita moderna». Frase ripresa dal settimanale Time, ma non per questo esatta o condivisibile soprattutto se si tiene conto dei frequenti abbagli presi all’estero sui terroristi o cattivi maestri italiani. Il caso dell’ultra-rosso e omicida Cesare Battisti, che ha «commosso» alcuni intellettuali francesi, grida vendetta prima ancora che indignazione. Affidare a Negri, l’intellettuale ridens delVeneto, la lettura di una porzione di storia italiana ci appare certamente lecito, ma francamente discutibile. Tra gli antesignani del «romanzi disegnato» è assolutamente da ricordare Will Eisner, maestro del segno e della narrazione che nel 1978 pubblicò in America Contratto con Dio, storia di un bizzarro patto con l’essere su-
premo ambientata nello squallore del Bronx. Eisner, figlio di ebrei viennesi emigrati a Manhattan e morto nel 2005, è autore che del Complotto - La storia segreta dei Procolli dei savi di Sion (Einaidi Stile Libero), che Umberto Eco ha definito tragic book. Ha scritto Eisner nella prefazione: «Per la prima volta non ho usato il fumetto per raccontare una storia inventata… stavolta ho tentato di impiegare questo potente mezzo di comunicazione per affrontare un tema che ha un’importanza fondamentale nella mia vita». Ma il via al grande successo in Italia e nel mondo della graphic novel è stato dato nel 2000 con Maus (Einaudi) di Art Spiegelman (primo scrittore-fumettista vincitore del Pulitzer): racconto di un ebreo polacco sopravvissuto ai campi di concentramento nazista. Ha detto Spegelman: «Il fumetto sta alle arti visive come lo yiddish sta al linguaggio». La sua opera, tradotta in oltre venti paesi, ha una grande trovata: trasformare la Shoa in un cartoon dove gli ebrei sono topi postdisneyani perseguitati da feroci gatti tedeschi. Uguale successo per Persepolis (Sperling & Kupfer) della franco-iraniana Marjane Satrapi, ora diventato film e anche per questo ritenuto una «minaccia» dal regime di Teheran visto che racconta lo shock di una bambina dinanzi alla rivoluzione islamica del 1979. È stato tradotto in varie lingue anche L’ebreo di New York (Mondadori) di Ben Katchor, storia di Morderai Noah, sceriffo della Grande Mela e dei vari progetti che si fecero tempo fa su dove trasferire gli ebrei (in Alaska o in Florida). Una domanda d’obbligo a questo punto: come mai tanti ebrei tra i fumettisti e i graphic novelist? Viene da Katchor la spiegazione: «Forse perché diffidare delle immagini non accompagnate dalle parole è una cosa molto ebraica. Dopotutto c’è un’antica prescrizione nella nostra religione, che vieta di dare alle immagini più importanza che alle parole».
Pagine e drammi della storia vengono sempre più sovente raccontati dal binomio disegno-scrittura. È il caso di Palestina di Joe Sacco (Mondadori), reportage sui campi profughi palestinesi, e di L’ombra delle Torri (Einaudi) di Spiegelman, che narra la strage di massa attraverso un diario dell’11 settembre 2001, e di Ghost World di Daniel Clowes, e di Jimmy Corrigan (Mondadori), storia di un relitto umano di Chicago alla ricerca del padre mai conosciuto. Cresce poi il numero di scrittori affermati che si cimentano nella graphic novel. Per esempio Michael Chabon, autore del bellissimo romanzo Kavalier & Clay (Rizzoli), il quale ha creato un fumetto a più voci intitolato Le fantastiche avventure dell’Escapista, uscito presso le edizioni Bd (che sta per bande dessinée, banda disegnata). L’intenzione degli autori è quella di affrontare il «basso» del mondo del fumetto dall’«alto» della scrittura letteraria. Una sperimentazione post-moderna che dà frutti originali e di qualità. L’editore Guan-
Il primo a pensarci fu Dino Buzzati, con “Poema a fumetti” del 1969, dove raccontava il mito di Orfeo in forma moderna, con occhio attento ai disegnatori neri italiani. Oggi i temi trattati variano dalla storia alla cronaca, dall’alta cultura al giallo, alle questioni di impegno civile come il Ruanda o l’Iran da ha creato una collana apposita. Con l’obiettivo di coniugare cultura alta e giallo fumettistico. Chi vuole uccidere Picasso?, edito appunto da Guanda, è testimone di questo filone. Ha scritto il critico e narratore Roberto Barbolini: «Chissà che cosa sarebbe stata l’arte del Novecento in assenza dell’assenzio. Ma sotto l’effetto della fata verde, come veniva chiamato per il colore, ne succedono di cotte e di crude. Parola dell’americano Nick Bertozzi, autore di questa graphic novel vertiginosa per ricchezza di trama, disegni e viraggio di colori, ambientato in una Parigi allucinata, dove un serial killer ha preso di mira Gertrude Stein e la sua cerchia. Il mistero è nascosto, letteralmente, all’interno di un quadro. Georges Braque indaga e fa sogni cubisti». Tra gli italiani sedotti dal genere grafico-narrativo sono da ricordare Carlo Lucarelli, Niccolò Ammaniti, Massimo Carlotto,Valerio Evangelisti e tanti altri. Ultimo in ordine di tempo è il magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio, autore per l’editore Sellerio della fortunata serie gialla che ha come protagonista il tormentato avvocato Guerrieri. Ora si è messo assieme al fratello Francesco, architetto. La Rizzoli ha mandato in libreria Cacciatori nelle tenebre, che ripesca un personaggio minore dei romanzi di Gianrico, un poliziotto, e lo eleva a protagonista. Chiari i riferimenti al Robert De Niro di Angel Heart e a film come Blade runner e Fuga da New York. Quella dei fratelli Carofiglio è una storia alquanto cupa ambientata a Bari, dove i fatti di cronaca mettono in evidenza il lato oscuro e maledetto dell’uomo contemporaneo. La graphic novel fotografa il reale e lo trasforma in narrazione. Operazione tipica del romanzo, appunto.
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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DOVERE È un concetto d’altri tempi, oggi sfrattato dal suo fratello minore, il diritto. Eppure è una necessità, una scelta di libertà che pone ognuno nella condizione di assumere una responsabilità verso se stesso e verso il mondo
Fuori dall’oblio come dovere. Termine caduto in disuso. È la prima reazione che appare spontanea nel momento in cui si affronta la sua descrizione. Forse, si dovrebbe fare un lavoro di archeologia per riportare in auge una delle opere più importanti dell’uomo. Il dovere, infatti, richiama inevitabilmente alla condizione di bene che si auspica o che si esige per il bene di ognuno e di tutti. In un periodo, invece, in cui il termine parallelo di «diritto» conosce un’invocazione quotidiana, soprattutto se si tratta di sostenere quello soggettivo, sottolineare il dovere non sembra affatto una cosa ovvia. Viviamo nel periodo dell’oblio del dovere. Sembra avere lasciato silenziosamente la sua abitazione presso di noi e presso i nostri spazi di impegno quotidiano. È stato lentamente, ma inarrestabilmente sfrattato dal diritto, il fratello minore, che gli ha rubato la primogenitura in modo subdolo e con buona dose di mistificazione. È nei fatti e non ha bisogno di grandi dimostrazioni: chi si richiama al dovere sembra venire da un altro mondo. Il termine stesso è scomparso dai vocabolari in uso nel linguaggio quotidiano e non sembra che alcuno abbia la fretta di farlo rientrare. Guardare al diritto sembra dare molta più soddisfazione e consente di coricarsi la sera con la dovuta dose di gratifica per aver imposto qualcosa di sé agli altri. Un tempo non era così. La sera ci si domandava se si avesse compiuto il proprio dovere e se, anche con fatica, si fosse aiutato l’amico a fare altrettanto. Ma ormai siamo persone di altri tempi. Pensare in questi termini mette subito fuori gioco e se non si vuole stare nell’angolo è importante che si ricuperi subito la zona del diritto per recuperare credito.
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Eppure, il dovere appare come un’esigenza, quasi una necessità quando ci si pone dinanzi alla responsabilità che si acquisisce nei confronti di sé, degli altri e dei ruoli che si svolgono. Esiste un dovere dei genitori nei confronti dei figli e, viceversa, il dovere dei figli verso i genitori; riconosciamo un dovere del politico nei confronti della legge e del popolo così come esiste il dovere del cittadino di partecipare al bene della società. Non sempre si parla del dovere del banchiere nei confronti di quanti affidano alla banca i propri risparmi, eppure esso esiste. Alla stessa
di Rino Fisichella
Mette in relazione l’agire personale con il ruolo che si ricopre sia in ambito pubblico che privato. Per questo, se il diritto sarà capace di coniugarsi ancora con il dovere, allora si potrà pensare di aver recuperato un equilibrio importante e fondamentale per noi stessi e per la società stregua il docente ha un dovere di studiare e ricercare per produrre sempre un nuovo sapere come è dovere dello studente apprendere perché quanto costituisce fatica di oggi è fondamento per quanto sarà domani. È dovere del medico avere un’attenzione peculiare
per ogni paziente così come è dovere del poliziotto garantire la sicurezza. Da ogni parte ci si guarda, lo sguardo intravede dei doveri che possono apparire come una liberazione o come una condanna. Ciò che si ricava è la relazione tra il proprio agire personale e la
corrispondenza che si deve avere nei confronti del ruolo ricoperto. L’insistenza sul dovere potrebbe far perdere di vista che esso è, innanzitutto, un atto di libertà che viene realizzato. Esso non scaturisce, in prima istanza, da una formula contrattuale o da un provvedimento di legge. È, invece, una scelta di libertà che pone ognuno nella condizione di assumere coerentemente una responsabilità. Il dovere nasce nel momento in cui una persona comprende se stessa come responsabile di sé e del mondo che lo circonda; solo nel momento in cui sorge l’indifferenza per l’altro e per ciò che non ci appartiene, allora viene meno il senso del dovere. Esso non è un obbligo naturale, ma un’esigenza di libertà che si apre all’istanza etica come l’espressione del bene scelto e perseguito.
Più cresce il senso di appartenenza alla società, e mediante il proprio contributo si verifica che qualcosa si sta trasformando, e maggiormente il dovere appare come la forma di coinvolgimento personale fecondo. Se il rapporto rimane fermo alla legge, allora il dovere può diventare un peso da portare e sopportare se, al contrario, è posto nell’ordine della libertà allora diventa una sfida da cui non ci si può sottrarre. Non è peregrina l’idea che il dovere riprenda a essere un contenuto da trattare in famiglia, nella scuola, sul lavoro… in tutti quei luoghi dove ognuno di noi vive e agisce. Dopotutto, si tratta anche di un dovere far prendere coscienza che senza un’assunzione reale di responsabilità non si potrà pensare né di avere un futuro migliore né, tanto meno, di vivere il proprio presente in maniera significativa. Nella misura in cui il diritto sarà capace di coniugarsi ancora con il dovere, allora si potrà pensare di aver ricuperato un equilibrio importante e fondamentale non solo per se stessi, ma per la società in cui viviamo. A nessuno, probabilmente, sfuggirà la considerazione che al momento una buona dose di dovere è la medicina che può aiutare per uscire da quella patologia di individualismo e indifferenza che avvolge in modo subdolo molti strati del vivere sociale. Forse, sarà un po’ amara all’inizio, ma è condizione indispensabile per dare il giusto orientamento alla richiesta eccessiva di diritti.
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ROCK
K.D.
musica
The Voice LANG al femminile
di Stefano Bianchi gni tanto mi devo disintossicare da certe voci femminili. Quelle ugole ipertrofiche, quegli acuti fuori registro che, ahimè, incassano valanghe di Grammy Awards e poi, sfidando le telecamere, brandiscono il trofeo ammonendoti con un «lei non sa chi sono io». Vade retro, voci coltivate in provetta: fra una Mariah Carey che squittisce e una Beyoncé in surplus d’adrenalina. Ma per fortuna, quando non ne posso più di certe voci, un rimedio c’è. Infallibile. Mi lascio sedurre da k.d. lang: tutto minuscolo, è da sempre un suo vezzo. Che sta per Kathryn Dawn Lang, 46 anni, canadese di Edmonton. Nome e cognome minuscoli, voce maiuscola. Rotonda, cristallina, da «buona la prima». Una di quelle voci che, quando l’ascolti, non l’abbandoni più. E attendi, bramoso, che si rifaccia viva con un nuovo album, elegantemente bello come Watershed. Ma procediamo con ordine. k.d. lang nasce cantautrice country, con la passione per Patsy Cline nelle corde vocali e in fondo al cuore. Sul country (e sul blues) costruisce negli anni Ottanta il successo di dischi impeccabili, da Angel With A Lariat ad Absolute Torch And Twang, togliendosi lo sfizio di duettare a Nashville con Brenda Lee e Loretta Lynn. Ambiziosa, sicura di sé, Kathryn sa che con quella voce può intonare ciò che vuole. E allora, perché intestardirsi con la country music e non volare alto, nell’easy listening e fra le pieghe delle torch song? Pronti via: dal 1992 al 2000 si susseguono Ingénue (con la sua canzone simbolo, Constant Craving), All You Can
O
Eat, Drag (dedicato al gusto proibito di fumare, con rivisitazioni dal repertorio di Roy Orbison, Steve Miller, T-Bone Burnett e altri notabili) e l’ammaliante Invincible Summer. Duttile e malleabile, k.d. ci prende sempre più gusto a pizzicare introspezioni e orecchiabilità, fino a raccogliere con nonchalance la duplice sfida di incidere insieme al crooner Tony Bennett, nel 2003, A Wonderful World da dedicare a Louis Armstrong; e l’anno dopo Hymns Of The 49th Parallel, omaggio ai grandi canadesi come lei: Neil Young, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Jane Siberry, Bruce Cockburn, Ron Sexsmith. Watershed (undici pezzi inediti, non succedeva da otto anni), come titolo insegna, è il suo spartiacque. Maturità vocale e maturità anagrafica. Poi, chissà. Intanto, sfruttando la forma di un’ugola al top, vale la pena tornare al country, in scioltezza, facendosi accompagnare dal banjo e dalla steel guitar, per dare vita a Jealous Dog e a I Dream Of Spring, al profumo di praterie a perdita d’occhio. Dopodiché deviare, stupire, come sempre. Dando incantevole voce al vellutato esotismo di Je fais la planche e alla jazzata Sunday, con quel vibrafono che suona molto Sixties; alle tentazioni bossanoviste di Upstream e alla stordente delicatezza di Once In A While. Fino a parafrasare Burt Bacharach, nell’approccio lounge di Coming Home e di Thread. E tutte le altre voci? Che vadano a farsi benedire. k.d. lang, Watershed, Nonesuch/Wea, 20,90 euro
in libreria
mondo
riviste
ERIC CLAPTON SI RACCONTA
CURARSI CON MOZART
IL RITORNO DI VECCHIONI
M
ille volte nella polvere, e altre mille sugli altari, Eric Clapton, Slowhand, non è solo un artista che partito con gli Yardbirds negli anni Sessanta, passando per i Cream e i Blind Faith, ha scritto pagine fondamentali della storia della chitarra, ma anche un nomade dell’esistenza che da sempre si aggira per i palcoscenici e le strade senza un baricentro. Le sue linee melodiche riecheggiano i continui naufragi e i nuo-
L
a sonata per piano K448 di Mozart si appresta ormai a diventare un vero e proprio elisir dalle molteplici virtù. L’ultimo beneficiario è un paziente londinese affetto da epilessia, che in seguito ad alcuni ascolti della potente composizione, abbinati alle cure farmacologiche, ha registrato improvvisi miglioramenti neurologici. Il fatto, avvenuto presso l’Istituto di neurologia della capitale inglese, è un’ulteriore con-
la ragazza con il filo d’argento sulla fronte, mi portò via con le sue ali di vento fino al ponte, e disse: scegli tu se vuoi vivere, di qua o di là del cielo». Trascorsi alcuni anni nel silenzio, Roberto Vecchioni libera versi e note cumulati nella solitudine e nel dolore. Seduto in una terra di mezzo, che non è più solo incantevole e suadente, il cantautore milanese infonde nel suo ultimo lavoro un’insanabile nostalgia simile a quel-
Musica, droga, donne, amici e l’amore per la chitarra: autobiografia di “Slowhand”
Casi clinici confermano le virtù terapeutiche dell’opera del grande Amadeus
“Toscanamusiche.it” presenta il nuovo cd, pieno di rabbia per un mondo a corto di tempo
vi approdi, tenacemente inseguiti, di un uomo che ha fatto della musica la sua ancora di salvezza. L’alcol, la droga, gli slanci vitali, la perdita di un figlio in tenera età. La storia di Eric Clapton, scritta da lui medesimo (Sperling & Kupfer Editore, 355 pagine, 18,00 euro) è un labirinto fitto di incontri, fuggevoli e intensi. Con il genio che ispirò il maledetto riff di Layla and other assorted love songs, con amici indimenticati come Jimi Hendrix e George Harrison, con platee in visibilio e donne discusse perdute anzitempo. Un gorgo di passioni e di eclettismo blues, in cui il finger-picking incontra i limiti più estremi della sua biografia.
ferma delle facoltà terapeutiche contenute nella musica mozartiana. Una ricerca dell’Università della California aveva già dimostrato che la sonata K448 producesse sui bambini un incremento del quoziente intellettivo, mentre già da qualche tempo, negli Stati Uniti, le partiture di Amadeus fanno parte integrante delle cure contro l’epilessia. In Svizzera alcuni cardiologi hanno avuto modo di notare come la sonata abbia il potere di regolare le aritmie dei pazienti, mentre in Slovacchia si è scoperto che riduce lo stress postparto dei neonati. Infine, ad Atene è in corso uno studio sugli effetti antidepressivi delle musica di Mozart.
la di un amore perduto. Di rabbia e di stelle, presentato da Toscanamusiche.it, è infatti un album vibrante ma colmo di delusione (Non amo più), pervaso di tenere suppliche e caustiche invettive contro una società sempre più a corto di tempo, di attenzione e di emozioni. Eppure, l’irrinunciabile bisogno di melodiare, di sillabare l’esistenza in rapidi intrecci di anima e fiato, arriva dove non giunge il disincanto. Magnifico rimorso della musica, che non sa affliggere mai completamente. C’è sempre qualcosa, che sia collera o rimpianto, da cantare. C’è sempre un modo e un posto per ritrovarsi, proprio come il maestro, uniti. Né di qua, né di là del cielo.
«E
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CLASSICA
zapping
TUTTO MERITO DI AUTOTUNE il software antistecche
Omaggio alla Olivero, Signora della lirica di Emilio Spedicato
di Bruno Giurato opo una settimana di ascolto in cuffia del mejo del pop internazionale, i 4 minuti di Madonna, la coscialunga mora Rihanna, la coscialunga bionda Beyoncé e anche l’opera omnia di Britney Spears, Anastacia e Justin Timberlake, si sente l’urgenza di rendere omaggio a chi sta dietro a cotali successi. Sì. È ora di finirla con le facce pittate delle popstar, con la sociologia ggiovanile (con due g) presa per valore estetico, con la provocazione presa per sostanza. Dietro a un grande successo c’è sempre un duro lavoro, se non l’Arte in senso sacrale almeno l’artigianato, la creatività umile di chi si confronta con le leggi dell’armonia, della melodia e del ritmo. Dunque ringraziamento vada a chi sta dietro al glamour delle popstar e lavora per la sostanza artistica. Nello specifico si tratta non di musicisti o arrangiatori, ma degli ingegneri della Antares Tech, che hanno eleborato e vanno sempre migliorando un software chiamato Autotune. Il fantastico programmino in questione è usato negli studi di registrazione di tutto il mondo, fa quello che tutte le cantanti (e i cantanti) coscialunga di questo mondo desiderano: corregge le stonature. Tu stoni e lui mette a posto. Melodie perfette, armonie che non sembrano ragli, cori angelici dove in partenza c’erano grugniti. Autotune rende le stecche impossibili. Si può utilizzare anche dal vivo. È meglio del playback (che ancora viene usato da alcuni ospiti in manifestazioni provinciali tipo Sanremo) perché mantiene l’emozione ma assicura il risultato. Viva Autotune dunque (quest’articolo non è una marchetta, non più di quelli sulle Madonne, Rihanne, Britney, e compagnia dei coscialunghi).
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l 25 marzo 1867 nasceva a Parma Arturo Toscanini, gloria della musica italiana nel Novecento. Il 25 marzo 1910, esattamente 43 anni dopo, nasceva a Saluzzo Maria Maddalena, detta Magda, Olivero. In occasione del suo novantottesimo compleanno le dedichiamo questo articolo, per ricordare ai lettori una grande gloria della lirica italiana, anzi mondiale, la cui altissima arte non è stata giustamente valorizzata dai media, interessati molto di più al caso Callas e alla sua pretesa ostilità con la Tebaldi. Definita Signora della lirica, proveniente da una famiglia di buon livello sociale e culturale, Magda fu avviata a una carriera musicale e scelse la strada del canto. Presentatasi a due audizioni presso l’Eiar di Torino, fu giudicata priva di capacità come cantante, trovando tuttavia alla seconda audizione il parere favorevole del maestro Gerussi, erede della grande tradizione di tecnica di canto di Cotogni, che si impegnò a occuparsi della sua educazione vocale. Sotto la sua guida, e successivamente sotto quella del maestro Luigi Ricci, e grazie a un impegno enorme e sofferto, Magda eliminò gli errori nella respirazione e sviluppò straordinarie capacità tecniche. Poteva raggiungere il sol sopracuto (la Callas, stando a Stinchelli, arrivava al fa) e con un solo fiato eseguire due e più vocalizzi (lasciando incredulo un Lauri Volpi). L’esecuzione di un’intera opera non affaticava il suo organo vocale, ma le comportava piuttosto un grande sforzo psicologico, dovuto all’assoluta identificazione con i personaggi affidati alla sua voce. Capitò che dopo quattro repliche nell’arco di una settimana di un’opera, l’otorino dei cantanti della Scala le chiedesse di poter esaminare le sue corde vocali, per valutarne il grado di affaticamento: rimase stupefatto nel notare che non c’era traccia di sforzo alcuno! Ed è grazie a questa straordinaria tecnica che la Olivero è rimasta sulle scene per cinquant’anni! Tecnica rimasta intatta anche in anni più recenti, come dimostrano alcune registrazioni del ‘93 e del ’99. Magda debuttò nel 1932 e fu presto chiamata nei grandi teatri. Dopo un inizio dedicato agli autori del primo Ottocento, si spostò sul verismo, ottenendo immenso successo con la Traviata e con l’Adriana Lecouvreur di Cilea. Dopo l’esecuzione di una Adriana, notò in un angolo del
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suo camerino ormai svuotato, una signora che piangeva. Avvicinandosi l’abbracciò, e le disse: «Finora Adriana sono stata io, ora sei tu». Era Giuseppina Cobelli, grande soprano degli anni Venti, che di lì a poco avrebbe lasciato le scene per la perdita dell udito. Nel 1941 abbandonò le scene per ritornarvi nel 1951, anche per le insistenti preghiere di Cilea. Fu in questa occasione che Tullio Serafin le disse: lei è sempre il numero uno. Da allora per trent’anni Magda fu presente in tantissimi teatri in Italia e all’estero, cantando una ottantina di opere del centinaio circa da lei studiate. Straordinari Magda Olivero ha appena furono i successi in compiuto 98 anni. Nella foto America, a Dallas e al la soprano nei panni Metropolitan di New di Adriana Lecouvreur York, dove una sua Tosca ebbe 40 minuti di applausi, record assoluto. Il pubblico era come «magnetizzato» dalla sua voce e dall’aspetto di questa cantante-attrice dalla figura molto bella, da molti definita l’Alida Valli della lirica. Magda ha lavorato con cantanti come Pertile, Gigli, Schipa, Tagliavini, Corelli, Di Stefano, Pavarotti, Domingo, Protti, Bastianini, Simionato, Stignani… Sul mercato si trovano purtroppo solo poche registrazioni dei suoi concerti, quasi tutte dal vivo e pochissime in studio, segno di una disattenzione delle case discografiche spiegabile probabilmente con gli atteggiamenti non divistici della Olivero. Ma è possibile che una ricerca negli archivi delle radio possa in futuro farne emergere altre… Un compito importante per la musicologia.
JAZZ
Chick Corea & Gary Burton undici anni dopo
di Adriano Mazzoletti l calendario dei concerti jazz del prossimo mese di aprile sta profilandosi assai ricco. È annunciata una breve tournée di Dianne Reeves, una cantante di Detroit che debuttò con il pianista brasiliano Sergio Mendes e che in seguito è stata a fianco di Clark Terry e Harry Belafonte. La Reeves sarà a Correggio il 5 aprile e il giorno successivo a Blue Note di Milano. Il 12 aprile il chitarrista John Scofield che tanto suonò con Chet Baker, Gerry Mulligan, Lee Konitz e Paul Bley, suonerà al Teatro delle Alpi di Porto Sant’Elpidio dove esiste addirittura il Parco dei Teatri Jazz. Giungerà anche il pianista Ahmad Jamal che il 2 aprile suonerà al Metropolitan di Catania e dal 9 al 12 al Blue Note di Milano. E ancora. All’Auditorium di Roma il cantante e pianista Peter Cincotti, emulo, ma
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jazzisticamente assai più versatile, di Michael Boublet, terrà un concerto il 5 aprile. Il 16 sempre al Parco della Musica sarà la volta del trio di Abdullah Ibrahim, che gli appassionati di antica data conoscono meglio con il nome di Dollard Brand, pianista sudafricano di settantaquattro anni portato al successo dalla sua connazionale Miriam Makeba. Fra gli altri appetibili appuntamenti sono ancora da ricordare, l’8 aprile David Murray con il suo quartetto al Teatro dell’Osservanza di Imola. Il 10 Franco Ambrosetti e Uri Caine a Casalgrande di Reggio Emilia e infine il 17 la tromba Marvin Stamm all’Aula Magna dell’Ate-
neo di Ancona. Ma l’incontro da non perdere è quello di domani domenica 30 marzo al Parco della Musica di Roma, dove il pianista Chick Corea e il vibrafonista Gary Burton si presenteranno dopo una lunga assenza. Quando nel 1997 i due musicisti decisero di formare un duo e proporre nuovi temi per lo più composti da Corea o rivisitazioni di composizioni note, Bagatelle di Bela Bartok o Four in One di Thelonious Monk, furono in molti a rimanere perplessi. Corea e Burton avevano già inciso insieme, ma erano trascorsi venticinque anni da quell’incontro e nel frattempo il pianista italo-americano aveva fondato il
gruppo Return to Forever, dove troneggiava dietro un apparato elefantiaco di tastiere elettroniche. L’ambito musicale era prettamente quello del jazz-rock che si attenuò leggermente quando nel gruppo entrò il chitarrista Al Di Meola. La musica si arricchì di quelle sonorità e vezzi spagnoleggianti così cari a Corea. Gli anni successivi furono dedicati alla ricerca. A volte sembrava volersi inserire nella scia di Stockhausen e Cage, non perdendo però mai di vista il valore estetico della tradizione. Quando nel 1998 vennero pubblicate le nuove incisioni del duo le perplessità divennero certezze. Il disco Native Sense ottenne recensioni assai tiepide anche perché quelle raffinatissime esecuzioni non portavano nessuna novità sotto l’aspetto espressivo. Sono trascorsi undici anni. Il jazz ha subito molte modifiche e forse anche la musica di Burton e Corea è cambiata.
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NARRATIVA
libri
Calabria 1863 lo sterminio in diretta di Maria Pia Ammirati eggere un libro di Luigi Guarnirei prima di andare a letto potrebbe creare disturbi notturni, insonnie e avventurosi sogni dai risvegli repentini. Questo per testimonianza diretta e non perché i libri di Guarnirei non siano buoni, tutt’altro: lo scrittore è un bravo costruttore di romanzi di ampio respiro e architetture complesse e razionali. Piuttosto la questione risiede in un particolare gusto di Guarnieri di stare vicino alla Storia, come antefatto del vero, e renderla corporea fino a farla carnosa, vivida. E nel loro essere vivi i racconti si incontrano, il più delle volte, con la morte. Prendiamo l’ultimo libro dello scrittore calabrese, I sentieri del cielo, un romanzo di impianto classico sulla lotta al brigantaggio, anzi sull’ultimo brandello di lotta dello Stato appena formato contro i bifolchi capitanati dal brigante Evangelista Boccadoro. È il 1863, l’inverno del 1863 minuziosamente descritto dallo scrittore nella sua totale crudezza, d’altra parte in questo libro tutto è crudo e crudele, perché appunto libro-corporale. Il corpo esposto alle intemperie, all’acqua, alla neve, al vento, alla notte, alla fame, alla paura. Una natura primordiale e feroce che nasconde in anfratti insenature conche valli dirupi fosse, gente abituata alla fatica, al dolore, alla morte, al tal punto da confondersi sempre più spesso con le bestie: lupi, cani randagi, maiali, pronti a saltare dalle fosse per azzannarti alla gola. Il corpo è stranamente l’ultima frontiera di profanazione: è debole e forte nello
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stesso tempo, è il modo per opporsi alla violenza e per fare violenza. In questa natura così assente dalla pietà è allestito il teatro di guerra tra due uomini, il maggiore Albertis che comanda uno squadrone di cavalleria, e il capo brigante Boccadoro che capeggia la rivolta del popolo dei diseredati calabresi. È lo scontro tra due italie, tra due classi sociali, che si combattono mute e che preparano il terreno per una ribellione mai sopita verso il sopraffattore. Fra i piemontesi e i calabresi la lotta è dura e muta, muta nell’impossibilità di comunicare con una lingua comune, l’unico linguaggio simile è quello del corpo, perché il corpo ha sempre le stesse regole ed esigenze. Per questo nei Sentieri del
cielo non sarà risparmiata nessuna nefandezza verso la vita: non esiste impunità per nessuno, bambini, donne (anche gravide), vecchi. Un corpo a corpo da cui escono budella, sgozzamenti, terribili torture in un crescendo dal quale si viene fuori solo con la vittoria di una parte. È inevitabile non provare inquietudine soprattutto verso quello che sappiamo essere stata la repressione in Meridione e che riguardò le popolazioni inermi, vittime i contadini e le famiglie, giustiziate nelle maniere più assurde (bruciati vivi, seppelliti, stuprati e assassinati), solo per chiudere la partita in fretta e isolare i banditi dalla gente. C’è l’assurdo di questo sterminio descritto senza risparmio dallo scrittore, e il dato storico che conferma l’eccidio, una natura selvaggia e straordinaria, un’umanità stratificata, dove i gradini più bassi si apparentano alle bestie, mentre quelli più alti - militari e governatori - tentano di capire, in un estremo appello alla ragione, se l’umanità trattata come un cane rognoso prima o poi non arrivi a mordere. I colori violacei del sangue che corre e si incrosta fino a coagulare in pozze orrende, ti rimane impresso. Come i bambini piccoli, stracci cenciosi con le piaghe della denutrizione, le donne invecchiate e sdentate ma con gli occhi vivi e alteri, e i vecchi contorti dalla fatica con la fierezza dei poveri e la disperazione dei morenti. Luigi Guarnieri, I sentieri del cielo, Rizzoli, 327 pagine, 19,00 euro
riletture
E “Arcipelago Gulag” irruppe nelle coscienze di Gennaro Malgieri el 1973 fece irruzione nelle coscienze degli occidentali e mise il cosiddetto «mondo libero» davanti a una verità incontrovertibile, il capolavoro del coraggio e dell’abiezione umana: il coraggio dello scrittore, l’abiezione dei carnefici di generazioni senza nome e senza storia. Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn sconvolse chiunque lo ebbe tra le mani e fu il primo e più violento atto d’accusa al comunismo sovietico che valse all’autore il premio Nobel e ai suoi connazionali la nascita della speranza nel lugubre inverno brezneviano. In realtà ci sarebbero voluti altri sedici anni perché l’Impero del Male crollasse, ma è indubbio che la denuncia letteraria, morale, civile, storica e politica
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di Solzenicyn contribuì a far aprire gli occhi a chi si ostinava a non vedere una realtà che, per quanto conosciuta, non era mai stata documentata in maniera tanto cruda e realistica. L’autore, storico, testimone e protagonista a un tempo dell’Arcipelago dei dannati, scrisse il ponderoso volume, apparso poi in due grandi tomi divisi in quattro parti, tra il 1958 e il 1967, in maniera rocambolesca, facendo affidamento spesso soltanto sulla memoria e nascondendo gli appunti che riusciva a prendere durante la sua detenzione nell’isola di Kolyma. Il racconto, totalmente documentario, senza nessuna concessione alla fantasia, si svolge tra il 1918 e il 1956; un’inchiesta narrativa, come lo definì lo stesso Solzenicyn che mette a nudo gli orrori dello stalinismo e il «sistema della menzogna»,
ma non risparmia il «buon» Lenin e i satrapi che dopo il «piccolo padre» hanno terrorizzato i russi. Alla fine di agosto del 1973 il Kgb confiscò a Leningrado una copia dattiloscritta del libro, grazie alla rivelazione di Elizaveta Voronjanskaja, interrogata e forse torturata dagli stessi agenti per cinque giorni di fila. Quando tornò a casa si impiccò. La notizia, fatta filtrare da ambienti del dissenso, aprì la porta in Occidente alla pubblicazione di Arcipelago Gulag che in pochissimo tempo, oltre a un best seller, divenne un documento politico con il quale si confrontarono gli Stati e le nazioni fornendo a chiunque una sorta di dossier sull’Unione Sovietica che mise a dura prova la nomenklatura moscovita. Si può dire che fece più male Solzenicyn al Cremlino che quella consistente parte del mondo che
combatteva il comunismo. «Un uomo solo non avrebbe potuto creare questo libro», scrisse Solzenicyn. Infatti, lo scrittore prestò il suo ingegno, il suo coraggio e la sua tenacia: le storie sono quelle dei detenuti, dei torturati, dei perseguitati del totalitarismo sovietico. In particolare sono state le testimonianze di duecentoventisette persone a renderlo possibile. A loro l’autore espresse la sua riconoscenza e quella di chi non aveva diritto di parola: «sarà - scrisse - il nostro comune monumento eretto da amici in memoria di tutti i martoriati e uccisi». Solzenicyn vive la sua vecchiaia, appartato ma vigile sulle vicende del suo Paese non meno che sui destini dell’umanità alla quale di tanto in tanto fa sentire la sua voce sempre più dolente. Quest’anno compie novant’anni. Quanti lo ricorderanno?
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FILOSOFIA
L’incontro del Giappone con l’Occidente di Renato Cristin n Giappone il nesso fra elaborazione filosofica e spirito generale della nazione è certamente più stretto che nei Paesi occidentali. Ciò deriva dal fatto che in Giappone tutte le attività individuali e sociali sono legate alla concezione del mondo, la quale a sua volta si riflette nella meditazione filosofica etico-cosmologica, che la sviluppa e la perfeziona. Nonostante l’orgogliosa difesa della loro tradizione, i pensatori giapponesi hanno guardato con autentica ammirazione alla filosofia europea. Quando, intorno al 1870, le autorità decisero di aprire il Paese agli scambi con l’Occidente, in un’ottica di attenzione e
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disponibilità si crearono le condizioni per un confronto con le correnti culturali europee e in particolare con quelle filosofiche. Dal positivista Nishi al tradizionalista Onishi, negli ultimi decenni del Diciannovesimo secolo gli intellettuali e gli accademici nipponici inaugurano
un dialogo con la filosofia occidentale e al tempo stesso una rinascita del loro pensiero autoctono, che avranno il suo culmine nei primi decenni del Novecento con la Scuola di Kyoto, il cui principale esponente fu Kitaro Nishida. Alla base di questo confronto c’è il tentativo di conciliare le categorie di pensiero orientali con quelle occidentali. Ma l’itinerario del pensiero giapponese risale agli inizi del VII secolo d.C., si intreccia con la religione (in primo luogo la religione autoctona giapponese, lo shintoismo o via degli spiriti, e poi il buddhismo e il confucianesimo) e si esprime inizialmente nella forma poetica. Le prime scuole sistemano strutture cosmologiche ed etiche che costitui-
scono le premesse per elaborazioni successive, legate in particolare allo Zen, il cui consolidamento definitivo è legato all’opera di Eisai e di Dogen tra il 1150 e il 1250. Ma tutto l’itinerario del pensiero giapponese, descritto in modo approfondito in questo libro storico-filosofico, si può configurare come un perfezionamento della tradizione in dialogo con l’Occidente. Questa riuscita esperienza filosofica giapponese ci dimostra anche che alla stolta propaganda del multiculturalismo si può contrapporre l’intelligente opzione dell’interculturalità. Leonardo Vittorio Arena, Lo spirito del Giappone, Rizzoli, 391 pagine, 10,20 euro
SOCIETÀ
Contro il nichilismo la cultura delle origini di Riccardo Paradisi l deserto avanza, guai a chi nasconde il deserto in sé». Also spracht Firedrich Nietzsche. Che cosa volesse dire il filosofo tedesco alla fine dell’Ottocento, nel clima di plumbeo positivismo in cui scriveva, era quasi un mistero: quel deserto di cui il solitario di Sils Maria parlava pareva solo essere una delle tante metafore di cui punteggiava la sua filosofia visionaria. Oggi però è chiarissimo, oggi che il nichilismo si aggira per le nostre case come un ospite inquietante, la profezia di Nietzsche ci appare nel suo pieno significato. E a subire il deserto - di valori, di significato di senso - sono soprattutto loro, i giovani occidentali che come dice Umberto Galimberti nel suo L’o-
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spite inquietante (Feltrinelli) stanno male. «E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché il nichilismo si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, intristisce le passioni rendendole esangui». Ai giovani, precipitati ormai in un disperato analfabetismo emotivo, mancano soprattutto le parole per riconoscere quello che provano e chiamarlo per nome. E ciò che provano - parcheggiati intanto nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato - non è qualcosa che riguarda solo alcuni di loro. È un’intera cultura, un’intera civiltà ad avere perduto la bussola e a rispecchiarsi nella loro disperazione che trova dei lenitivi nella musica, nella droga, nel sesso e nella violenza. E non basta lo psicanalista a
scuola per curare il problema, non serve la farmacia della mente. «Se l’uomo è un essere volto alla costruzione di senso, nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale e allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire». Galimberti in questo libro bellissimo addita come via d’uscita al deserto l’arte del vivere degi antichi greci, che consiste nel conoscere se stessi, nello scoprire la propria vocazione, le proprie capacità e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura. Il futuro, se ce n’è ancora, sta nelle origini ricordava Gadamer. Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, 178 pagine, 12,00 euro
STORIA
La Raf e la verità sulle due Germanie di Vito Punzi a casa editrice Il Mulino si distingue da tempo per la valorizzazione di giovani storici. Uno degli ultimi casi è quello di Marica Tolomelli, autrice del recente Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta. L’obiettivo era quello di dar conto non tanto dei fatti, in Italia e nella Germania occidentale, che pure vengono ricostruiti nei loro tratti essenziali, quanto della «percezione sociale del terrorismo» nei due Paesi occidentali. Il limite fondamentale di una ricerca altrimenti interessante è dato proprio dalla limitazione del-
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l’indagine, nel contesto tedesco, alla sola Repubblica Federale. Stupisce infatti come le descrizioni e le interpretazioni degli eventi terroristici tedesco-occidentali degli anni Settanta possano ignorare il contesto storico-politico macroscopico, l’esistenza cioè, dal 1948, di due Germanie, una delle quali, la Ddr, di fatto zona d’occupazione sovietica. Nel libro non ho trovato citata in alcuna forma l’«altra» Germania, la Repubblica Democratica, come se gli ideali comu-
nisti su cui era fondata fossero altro rispetto agli obiettivi della Raf, la Rote Armee Fraktion: è noto piuttosto come per la Ddr la Germania Federale rappresentasse l’«avversario di classe occidentale». Come si possono ignorare le posizioni di intellettuali organici al regime comunista come il drammaturgo Heiner Müller, che nel 1992, dunque a mente fredda, non ebbe pudore ad ammettere che la Raf rappresentava, e non solo per lui, «il materiale più interessante
provenente dall’Ovest». Interessante perché quel sangue versato rappresentava «la possibilità di un rinascimento del fascismo nella Repubblica Federale», dunque era ciò che permetteva di «sopportare» la Ddr, in un clima di «paura/speranza». Che dire poi dei rapporti intercorsi tra la Stasi, la polizia segreta di Berlino Est, e la Raf? Privo di un giudizio sugli intrecci politico-sociali con l’«altra» Germania, questo lavoro della Tolomelli non può che risultare riuscito solo per metà. Marica Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, Il Mulino, 295 pagine, 22,00 euro
altre letture Cuba è molto di più di un’isola dei Carabi governata da mezzo secolo da un regime socialista. Cuba è un non luogo, è la proiezione immaginaria del paradiso terrestre di qualche milione ancora di comunisti del pianeta. Un mito. Ma oltre il mito esiste la storia. E la storia di Cuba sta cambiando. Profondamente. Fidel Castro è un uomo ormai molto malato che ha passato la mano al fratello Raul ma cosa accadrà a Cuba quando il Lider maximo abbandonerà definitivamente la scena? Libere elezioni oppure la nomenklatura cubana guidata da Raul resterà saldamente in sella? E cosa faranno i 700 mila cubano-americani in esilio in Florida? Giorgio Ferrari dell’Avvenire si è posto queste e altre domande in un’inchiesta dal titolo Cuba senza Castro (Boroli editore, 14,00 euro, 174 pagine) condotta sul campo tra l’Avana, Trinidad, Guantanamo e Miami. Implosione
demografica, massiccia immigrazione musulmana, egemonia culturale del multiculturalismo: l’Europa potrebbe trasformarsi entro qualche decennio in Eurabia, un continente dominato dall’Islam radicale. A dipingere un quadro così fosco del Vecchio continente è in L’ultima chance dell’Occidente (Rubbettino, 15,00 euro, 212 pagine) Tony Blankley editorialista del The Washington Times e già consigliere di Ronald Reagan. Ma qual è allora l’ultima occasione per l’Occidente? L’Occidente può scuotersi, dice Blankley, solo prendendo sul serio la minaccia islamista e combattendola con vigore, abbandonando il modello assistenzialista e laicista e recuperando le radici cristiane. «L’Europa non diventerà Eurabia», scrive Guglielmo Piombini nell’introduzione al libro, «perché dispone ancora di un immenso patrimonio morale e culturale dal quale attingere».
Lo Stato nazionale è in crisi. E con lui è in crisi la democrazia liberale rappresentativa. A sostenerlo in uno smilzo ma denso libretto, La fine dello Stato (Rizzoli, 120 pagine, 10,00 euro) è lo storico britannico Eric Hobsbawm, preoccupato della piega che sta prendendo il mondo. Stati e parlamenti nazionali infatti, secondo lo storico inglese, sono le sole entità ancora formalmente democratiche rispetto al peso delle multinazionali e delle dinamiche impersonali della globalizzazione. La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica può dunque essere a rischio, anche perché con la scusa della paura e della prevenzione verso il terrorismo gli Stati stanno sempre più alzando il loro livello di militarizzazione interna.
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ritratti
OTTONE ROSAI LA “PIETAS” UMANA E CRISTIANA ERA DIVENTATA LA SUA CIFRA. MA ANCHE QUANDO AVEVA COMBATTUTO, DA FASCISTA RIVOLUZIONARIO, TRA GLI ARDITI O SI ERA ENTUSIASMATO PER LA MARCIA SU ROMA ERA STATO SEMPRE “LIBERO DA PREGIUDIZI, PADRONE DI SÉ E PIENO DI CUORE”
L’ARTE PURA DI UN MALEDETTO TOSCANO di Mario Bernardi Guardi u hai qualcosa da fare nel mondo e non puoi sparire prima di averlo fatto»: così scrive Ardengo Soffici a Ottone Rosai il 3 dicembre del 1915. Ardengo ha trentasei anni e già un bel carico di esperienze: la vie de bohème a Parigi, dove ha conosciuto Guillaume Apollinaire, Max Jacob, Pablo Picasso, la presenza attiva nel «vivaio» prezzoliniano della Voce e poi, insieme a Papini, la fondazione della spericolata Lacerba, organo del futurismo fiorentino, una volta esplosa la pace col «dinamitardo» Marinetti. Ottone è un ragazzo di vent’anni, e sono proprio quelli di Lacerba, Soffici in testa, che lo hanno scoperto. Fiutando il valore di questo «teppista» alto quasi un metro e novanta, di sano ceppo popolare (il padre è intagliatore e falegname ) e di dichiarata vocazione ribelle. A partire dagli arruffati trascor-
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testa del suo maestro di disegno poteva non inciampare nella colorita banda che aveva eletto a proprio covo la «terza stanza» del Caffè delle Giubbe Rosse per partorire l’indiavolata Lacerba? Ha ricordato bene l’«atmosfera» della saletta Alberto Franci nel Servitore di piazza (Vallecchi, 1922). Guardiamo e ascoltiamo: c’è Soffici che «enuncia e spiega, con la chiarezza che gli è propria, le più rivoluzionarie teorie sulla pittura, servendosi del lapis per tracciare sul tavolino qualche disegno catastrofico»; c’è Papini che «demolisce, tra una sigaretta e l’altra, tutti i sistemi filosofici esistenti e di là da venire, e spennacchia, da maestro, i pavoncelli della letteratura contemporanea»; c’è Palazzeschi «che crea tiritere di versi ironico-fumistes», e c’è Ottone, pronto sempre a improvvisare «uno di quei suoi saporosi dialoghi fiorentini tutti moccoli e parole da
Fu Ardengo Soffici a scoprirlo, fiutando il valore di questo “teppista” alto quasi un metro e novanta, di sano ceppo popolare e di dichiarata vocazione ribelle. Tra i due nacque una salda amicizia. Anche Papini riconobbe il suo talento, e con lui Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini, Palazzeschi… si scolastici: 1908, espulsione dall’Istituto d’Arti Decorative; 1913, espulsione dall’Accademia di Belle Arti, dopo una lite col maestro Calosci. Il fatto è che a Ottone la scuola va stretta: meglio l’aria aperta, la campagna che si intrufola in città, gli spicchi di cielo, e poi le strade, i quartieri della Firenze ruspante, con i bottegai, gli artigiani, gli avventori delle osterie e dei caffè, i giocatori di biliardo, le prostitute, i ladruncoli, i poveri cristi. È la sua materia prima, è già il suo mondo: quello che gli gonfia il cuore e gli sboccia sulle tele. Il Rosai nudo e crudo, insomma, che possiamo ammirare nei cinquanta dipinti esposti fino al 6 aprile a Palazzo Medici Riccardi (Catalogo a cura di Luigi Cavallo, Edizioni Pananti, 269 pagine, 20,00 euro). Ora, un tipaccio che aveva spaccato la tavolozza sulla
bordello». Davvero, par di vederli e di sentirli. Maledetti, anzi stramaledetti, toscani che ce l’hanno col mondo, lo rovistano, lo rovesciano. Bèrci, risate, eresie che diventano programmi, quadri e libri, grazie anche al mecenatismo lungimirante di Attilio ed Enrico Vallecchi (cfr. Giampiero Mughini, L’invenzione del Novecento,Vallecchi, 2001). Ottone respira e si ispira. E nel luglio del ‘13 espone in un locale di via Cavour. Nella stessa strada, dal libraio Gonnelli, c’è la mostra futurista di Lacerba. Scambio di visite. Questo ragazzo vale, dice Papini. E Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, Carrà, Severini, Tavolato approvano convinti. Più che mai convinto è Soffici: gli rivolge un elogio che Ottone accoglie come «un’enorme ricompensa». Nasce un vincolo di quelli «finché morte non vi separi». Tra alti
e bassi, perché Rosai, pur sempre grato, addirittura devoto, all’amico-maestro, è un tipo tutto spigoli e impuntature, si lamenta di questo e di quello, bussa di continuo a quattrini, mentre Soffici ora lo rincuora e lo aiuta, ma ogni tanto lo strapazza.
Due amiconi, comunque. Che troviamo, sbronzi di arte e appelli patriottico- rivoluzionari nelle piazze interventiste. E poi in guerra, da volontari. Come altri sodali: Boccioni, Serra, Prezzolini, Marinetti, Ungaretti, Jahier, Slataper e giovanissimi come Maccari e Kurt Suckert (il futuro Malaparte). Qualcuno - Boccioni, Serra, Slataper - si brucia le penne, lasciando eredità di affetti e una consegna: cambiare l’Italia. Il bravo soldato Ottone combatte tra i granatieri, segnalandosi per la sua allegra spavalderia: viene ferito due volte, si ammala di febbre spagnola, guarisce con la terapia d’urto di una solenne sbornia,viene decorato con medaglia d’argento. E non gli basta perché si arruola tra gli Arditi in un reparto d’assalto, «pugnal tra i denti, le
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con tutta la mia ignoranza e la mia intelligenza» ( cfr. Vittoria Corti, Rosai e Soffici. Carteggio 1914-1951, Giorgi & Gambi Editori, p. 62). All’insegna dell’avanguardia e di Masaccio.Testa dura e cuore tenero, Ottone. Cuore che sanguina quando, un mese dopo, babbo Giuseppe, malato e travolto dai debiti, si ammazza buttandosi in Arno. Gli voleva un gran bene a quel babbo, tutto dignità antica e amore per il mestiere. Ottone scrive di lui, con un ricordo così puro e pulito, che meriterebbe di essere accolto in ogni antologia scolastica che si rispetti. La scena: hanno ripescato il corpo in Arno, vicino al Ponte della Carraia, Ottone si avvicina, con una desolazione struggente che da allora non lo abbandonerà mai: «I suoi occhi castani erano rimasti aperti e guardavano fino a farmi subir l’impressione volesse ancora dirmi che il suo più grande dispiacere era di non sapermi suo successore nella piccola industria di mobili che con tanta fatica e infinito dolore era riuscito a crearsi. Questa volta non seppi né mal rispondere né tacere e tra i denti che battevano dal tremito lasciai passare le parole di promessa che salivano dal cuore e, chinatomi infine su quel capo grigio, posai un bacio tra quei capelli che erano così fini e profumati quanto l’erba nuova dei prati in ogni primavera». A bottega, adesso, Ottone ha più che mai da fare per mantenere decorosamente la madre e la sorella. Continua anche la battaglia d’artista: una mostra a Firenze e una a Roma, in entrambi le occasioni presentato da Soffici. E siccome l’artista è anche un fascista, la Marcia gli appare un’occasione storica ed esistenziale. Ottone è uno di quelli che testardamente credono a miti, riti, prospettive della Guerra- Rivoluzione; uno dei tanti intransigenti, che ce l’hanno non solo e non tanto con la «teppa bolscevica», sovversiva e antinazionale, ma soprattutto con l’Italia liberale e
i più aperti, destinato a diventare, di lì a tre lustri, un repubblichino integerrimo e fanatico. Grandi gli attestati di stima nei confronti di Rosai che è l’illustratore ufficiale delle prime annate. Poi, nel ’31, Berto Ricci, tira fuori L’Universale. Bel tipo, Berto: poeta e professore di matematica, alla Marcia non c’è stato perché allora era anarchico, successivamente si è convertito al Fascismo, ora, a modo suo e senza avere la tessere del Partito, crede, obbedisce e combatte. A modo suo, abbiamo detto: perché se è vero che Ricci si farà, da volontario, le guerre di Mussolini, morendo nel ’41 in Abissinia, è altrettanto vero che il suo giornale (una testata che Montanelli e Bilenchi, appassionati collaboratori e grandi amici di Berto, ricorderanno come una delle più significative del Ventennio) ha chiamato a raccolta tutti gli anticonformisti all’insegna del motto «Impero e Rivoluzione». Ottone tra quei ragazzi ci sta bene. E loro vogliono bene a quell’omone che un anno prima ha pubblicato, con la prefazione di Soffici, Via Toscanella, una raccolta di prose e disegni. Gli vogliono bene e lo venerano come una specie di maestro - fiorentino e italiano nelle più intime fibre, ma «universale» come chiunque senta che una rivoluzione è una missione di civiltà -, al punto che gli hanno dedicato un opuscolo: Il Rosai (cfr. Paolo Buchignani, Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Il Mulino, 1994).
«Giovane, più di noi giovane, e nostro capo», scrive di lui Berto, che lo chiama «artista puro», «santo», «fanciullo», «poeta dei poeti». Ma Rosai «santo» non è. Si è sposato nel ’21, ma tutti sanno che è un «pederasta» (allora si diceva così). Va a caccia di ragazzini proletari, ne fa i suoi modelli, i suoi allievi, i suoi
Fiorentino e italiano nelle più intime fibre, ma “universale”, cinquanta dipinti ora esposti a Firenze a Palazzo Medici Riccardi testimoniano la sua arte, sospesa tra avanguardia e Masaccio, fatta di uomini, donne, spicchi di cielo e di strade, poveri Cristi crocefissi
Rosai al Caffé Fontana nel 1955 bombe a mano», «monte Grappa tu sei la mia patria» e una nuova meritata medaglia al valore. Naturalmente non ha smesso di disegnare e di dipingere. Naturalmente torna a casa con in corpo tutte le frenesie dell’artista patriota, che sui campi di battaglia si è dato da fare anche per aver poi il «diritto» a sbaraccare la vecchia Italia. Nel suo diario di guerra, Il libro di un teppista, pubblicato da Vallecchi nel ’19, c’è il ritratto di un popolano «libero da pregiudizi, padrone di sé e pieno di cuore», che, dopo aver sparso e sudato sangue, dal futuro si aspetta qualcosa. E allora eccolo in camicia nera: un metro e novanta di rissosità plebea.Vigoroso e generoso, fiero di essere un «umile» figlio del popolo, ma con un’alta idea di sé. Insomma, l’artista ci tiene a difender la sua «identità». In una lettera a Soffici del 22 gennaio ’22 si legge infatti: «Vedi, Ardengo, tu ài infinita ragione di dirmi come mi dici, ma anch’io ne ò altrettanta per dire come dico io (…). Vedrai che un giorno si decideranno a prendermi come gli capito, con tutti i miei difetti e le mie qualità,
borghese, restìa a ogni rinnovamento sociale, sorda a ogni entusiasmo creativo; insomma, uno di quelli che, negli anni a venire, mai daranno tregua al fascismo «normalizzato» e al paternalismo autoritario del «regime», e sempre faranno propri umori e malumori del «movimento». Fascisti «rossi» o veraci custodi dell’«Idea», così come era stata partorita in origine, nell’infuocata fucina della guerra e nei giorni baldi e ribaldi dello squadrismo (per un dibattito sul tema si veda Paolo Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, Mondadori, 2006)?
Sia come sia, Ottone da subito fa parte della variegata banda «movimentista»: estrosa, vivacissima, polemica, anticonformista, con in canna proiettili di provocazione, da sparare uno dopo l’altro. Di buon grado, dunque, collabora al Selvaggio, battezzato da Mino Maccari nel ’24, proprio nei giorni del «delitto Matteotti», quando Mussolini se la vede brutta e ha bisogno di avere accanto gente di provata fede. Come, appunto, quella «tribù» di strapaesani, inneggianti al «santo manganello» e al «sugo di bosco». Poi, intendiamoci, ritornato in sella senza più timore di esserne sbalzato, Mussolini, con inarrivabile cerchiobottismo, richiamerà all’ordine i chiassosi intemperanti attraverso i prefetti, ma continuerà a tenerli come «esercito di riserva», nell’attesa della «seconda ondata». Ovviamente, rivoluzionaria. Oddìo, non è che a Ottone piacciano i compromessi, ma nel Fascismo continua a credere, e, cessata nel ’29 la collaborazione al Selvaggio, comincia quella con Bargello, settimanale della Federazione provinciale fascista fiorentina. Lo dirige Alessandro Pavolini, un intellettuale fascista allora tra
amanti. Il fascismo «macho» gli spara addosso. Aria di confino? No, perché Ottone è stato squadrista. Comunque, quando nel ’34, Mussolini convoca a Palazzo Venezia la «banda» dell’Universale, Ottone non c’è. Un camerata «scomodo»? Uno scandaloso «peccatore»? Beh, fino a un certo punto, visto che i cattolicissimi fascisti del Frontespizio lo accolgono a braccia aperte, convinti che il suo umanesimo cristiano esprima «il sentimento dell’universo». E visto che, dopo anni difficili in cui ha dovuto tirar la cinghia e ha dovuto difender la sua arte contro non pochi critici malevoli, nel ‘39 è nominato da Bottai professore per chiara fama al Regio Liceo Artistico di Firenze e nel ’42 gli viene assegnata la cattedra di pittura all’Accademia di Firenze. Ma le sorti della guerra precipitano. «Precipita» anche il Fascismo nel cuore di Rosai e dell’amico Bilenchi, ora comunista. Ma lo squadrista Ottone, ai suoi tempi, si è messo troppo in vista, e dopo l’8 settembre viene aggredito dai soliti «vendicatori». I quali, dopo la Liberazione, chiedono il suo allontanamento dalla cattedra. Eppure Ottone, durante la guerra civile, ha nascosto a casa sua fior di antifascisti, compreso il gappista Bruno Fanciullacci, l’assassino di Giovanni Gentile. E tutto questo in nome della pietas umana e cristiana, che ormai è diventata la sua cifra. Non avrà però pietà di lui, anzi gli farà uno sberleffo, la morte, sorprendendolo di notte - lontano da casa, lontano da Firenze, dall’Oltrarno «degli omini, delle viuzze, delle osterie» - in una cameretta anonima dell’albergo Dora a Ivrea. È il 13 maggio del ’57. Il giorno dopo Ottone avrebbe dovuto inaugurare una mostra, con sessanta dipinti. Uomini, donne, poveri Cristi crocefissi.
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TV
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di Pier Mario Fasanotti proposito del mitico John Wayne, tutto sella, pistole e autostima, qualcuno diceva che aveva soltanto due espressioni. Quando portava il cappello e quando non lo portava. Sono molti gli attori che hanno una sola faccia, in ogni circostanza.Anche la nostra Monica Bellucci, offre un movimento facciale minimo pure in situazioni emotivamente o sessualmente sconvolgenti. La si perdona perché è bella, ma affermare che è una grande attrice è un azzardo: basta confrontarla con Juliette Binoche o con Laura Morante.Tuttavia avere un solo viso, così granitico da stupire, può essere un conforto. Si sa, i cambiamenti geniali possono turbare. L’uomo che non osa variare le nostre aspettative è Chuck Norris, il più grande della serie B. Lo vediamo su Rete 4, nella serie Walker Texas Ranger. Lui è la legge, quella che non ti perdona e, se è il caso, ti ammazza di botte. Non può perdere, mai. E quando pare sull’orlo della sconfitta ha l’aria serafica di chi s’è fatto un graffietto. Ha i capelli corti e la barba rossastri, chiaramente tinti visto che l’eroe infrangibile ha 68 anni. Ben portati. È nato come Carlos Ray Norris Jr., in Oklahoma, da madre irlandese e da padre discendente dalla tribù Cherokee. Cintura nera in karate (ex campione negli anni Sessanta), ha iniziato la carriera grazie all’amicizia con un suo allievo di arti marziali, Steve McQueen. Sul grande schermo è apparso per la prima volta nell’Urlo di Chen, regia di Bruce Lee. Poi son venuti ruoli da protagonista, tutti tagliati sulla sua personalità di duro che mena le mani e che non perde tempo in stramberie mentali: il prossimo o è un malvagio o è un buono, il resto, ossia la sfumatura, è solo chiacchiera. Ha scritto anche dei libri autobiografici tra cui Il segreto della forza interiore, un enorme successo. Mica si tira indietro, quando si deve parlare di forza. È la forza il perno della sua esistenza. Grazie alle pratiche Zen, di cui ha parlato anche in un libro. È un professionista medio e ce la mette tutta. La serie Walker Texas Ranger inizia nel 1993: ennesima prova della sua tenacia. E pare non s’arrabbi per un fenomeno diffusissimo su internet, noto come Chuck Norris Facts: siti, blog, mail e newsgroup che lo caricaturizzano. Sono molti i ragazzi (ma non solo quelli) che stampano paginate di battute sul nostro uomo di pietra. Qualche esempio: «Chuck Norris fa gli origami con lastre di ghisa»; «Chuck Norris è in grado di sollevare se stesso dalla terra»; «Chuck Norris ammazza il tempo con un calcio rotante»; «Chuck Norris non lancia la palla al cane, lancia il cane»; «Quando Chuck Norris gioca a squash, il muro perde sempre»; «Il settimo giorno Dio si riposò, Chuck Norris ne prese il posto».
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Il segreto di Chuck Norris forza interiore e un volto granitico
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games
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IN EUROPA SI COMUNICA DI PIÙ
COMBATTERE UNA GUERRA MODERNA
ELEGIA PER IL TIBET
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a teoria dei sei gradi di separazione, elaborata da Stanely Milgram nel 1967, sembra trovare ulteriori conferme anche nei social network della rete. I due ricercatori della Microsoft, Jure Leskovec e Eric Horvitz presenteranno infatti i dati di una loro ricerca sull’istant messagging nel corso della International World Wide Web Conference 2008 di Pechino. Dopo aver processato trenta mi-
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opo tre emozionanti giochi ambientati durante la seconda guerra mondiale, gli sviluppatori di Infinity Ward sbarcano nel presente con Call of Duty 4: Modern Warfare. Distribuito da Activision e disponibile per Pc, Xbox 360, Playstation 3 e Nintendo Ds, Call of Duty 4 è - semplicemente - il miglior gioco di guerra (almeno tra i first-person shooter) disponibile sul mercato. La campagna per il singolo giocatore è ben realizzata, lunga abba-
rima di addormentarmi, penso sempre per qualche minuto. Penso alla gente in Tibet. A quello che sta soffrendo, al suo dolore. E mentalmente recito una preghiera di ringraziamento per essere libero. Un rifugiato, ma libero. Che può parlare per il suo popolo e cercare di alleviarne le sofferenze». Sono trascorsi settant’anni da quando il piccolo Lhamo Dondrub, non ancora diventato Dalai Lama, passava i suoi giorni a gio-
Due ricercatori della Microsoft presentano i dati raccolti nel 2006 sull’istant messagging
“Call of Duty 4” abbandona gli scenari del passato e ambienta il gioco nel presente
In “Impermanence” la vita del Dalai Lama dall’infanzia alle ultime tragiche vicende
liardi di conversazioni intrattenute da 240 milioni di persone in tutto il mondo, nel 2006, i due studiosi hanno ricostruito un grafico di relazioni sociali che conta su 180 milioni di nodi della rete sociale, stretti fra loro da 1,3 miliardi di relazioni. Dati alla mano, per qualunque utente bastano in media sei mediatori per riuscire a raggiungere il contatto desiderato. Lo studio ha delineato inoltre una mappa della comunicazione globale, che vede tre le aree geografiche più comunicative l’Europa, il Nordamerica e il Giappone. Afflitti dal digital divide, restano per ora indietro i Paesi emergenti.
stanza e con una trama migliore di tanti film che infestano il circuito cinematografico. La meccanica di gioco della serie CoD - collaudata e acclamata da critica e mercato - viene finalmente applicata a un conflitto moderno, per la gioia di chi non ne poteva più di stanare cecchini nazisti dai palazzi di Stalingrado o dalle chiese delle Fiandre. E l’impatto grafico, con i suoi 60 frame al secondo e gli eccezionali effetti atmosferici, è davvero notevole. Come al solito, però, il vero punto di forza della serie è il multiplayer: a poche settimane dall’uscita, già migliaia di giocatori affollavano i server della Microsoft per organizzare sfide all’ultimo sangue. Da provare.
care con l’acqua davanti a povere baracche di legno. Sin da allora,Tenzin Gyatso capì come le miserie umane corressero lontano. Un incessante fluire che fa provvisoria l’esistenza, e però ne impreziosisce il valore. Nonostante l’invasione cinese, le rivolte represse nel sangue, l’esilio e i negoziati, il Buddha non ha mai smesso di essere Kundun, presenza di un intero popolo. Impermanence, documentario del regista Goutam Ghose, ripercorre il tempo di Tenzin Gyatso, dall’infanzia alle ultime scottanti vicende, ma anche il suo spazio, quel Tibet silenzioso e mistico, per molti versi risulta inedito grazie a speciali permessi di girare in luoghi sacri. Un’opera necessaria.
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cinema
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A caccia di aquiloni (e di storie d’amore) di Anselma Dell’Olio uò succedere che un recensore si vergogni alla so- meno è Ahmad Khan, visetto tondo e sguardo antico, Per una buona fetta di pubblico, i film d’amore non la ipotesi di amare un film imperfetto. È successo che offre del piccolo analfabeta hazaro Hassan un ritrat- sono mai troppi. Per loro c’è Un bacio romantico di Wong per Il cacciatore di aquiloni, tratto dall’omonimo to di sentimenti limpidi e d’innocenza violata difficile da Kar Wai, opera lontana dalle elusioni e dagli sguardi best-seller di Khaled Hosseini. Manohla Dargis dimenticare. Hassan è amato e protetto (ma non istruito) enigmatici del suo capolavoro In the Mood for Love. Quedel New York Times ammette di essersi emozionata per da Baba; è lui il superbo cacciatore d’aquiloni del titolo, sta è una tenebrosa riflessione che gira intorno a quelle il libro, scrivendo a bordo pagina: «possente», «affasci- che suo malgrado suscita la gelosia del più introverso e anime sofferenti, respinte in amore, che non riescono a nante», «inquietante» e «indimenticabile». Subito dopo meno agile Amir. La parte più corposa del film, quella in darsi pace né a smettere di chiedersi perché. «C’è sempre sente il bisogno di rifarsi il trucco scommettendo che il cui avvengono i fatti che sono il motore della storia, si un perché» dice Elizabeth (Liz), la protagonista, debutto film sarà arrotolato in abbondante «lardo». Uno snobi- svolge a Kabul. Sopra tutto il comprensibile, ma non per cinematografico della cantautrice Norah Jones, figlia del smo da fanciulla. Il cacciatore di aquiloni è una riuscita questo meno spaventoso atto di codardia di Amir, del maestro di sitar Ravi Shankar. Il film inizia con Liz che e coinvolgente commistione di alto e basso. Molto del quale molti anni dopo sarà chiamato a rispondere. Sono apprende da Jeremy (Jude Law), il padrone di un ristomerito va a David Benioff, lo sceneggiatore che ha adat- in gioco temi teologici, biblici e freudiani: il peccato ori- rante, che il suo fidanzato è stato lì con un’altra. tato con destrezza il romanzo, la storia di due bambini e ginale, Caino e Abele, la cattiveria e l’invidia degli ado- Scaricata ufficialmente, getta le chiavi di casa sul bancodelle conseguenze di un’amicizia sbilenca. È riuscito a lescenti, l’aggressività e la voglia di rimozione covate nei ne e più tardi torna per sapere se sono state ritirate. Jecondensare personaggi ed eventi del libro senza imba- confronti di chi, anche senza volerlo, provoca in un altro remy le fa vedere un vaso pieno di chiavi, che quasi nesstardire i momenti e le emozioni princisuno viene mai a ritirare. «Perché non le pali: tradimenti abissali, segreti di famibutti?», chiede Liz. «Per non chiudere Forster tratto dal best-seller Riuscito il film di Marc glia ed espiazione. sempre una porta», le risponde lui. di Khaled Hosseini: un intreccio tra cinema d’essai Amir è un dodicenne ricco che appartieQuando Jeremy le dice che conserva le ne all’etnia afghana dominante Pashtun. cassette registrate dalla videocamera di e di grande consumo. E per chi è alla ricerca Hassan è un coetaneo, figlio di un antico sorveglianza, lei chiede di vedere quella di un lieto fine ecco “Un bacio romantico” servitore della famiglia di Amir, della didella cena del suo ex con il nuovo amodi Wong Kar Wai: fotografia ricercata, musica sprezzata minoranza Hazara, e la sua re. Poi va sotto casa di lui a guardare i devozione per il signorino è incondiziodue amanti attraverso le finestre. Per i melodica, atmosfera da vendere… nata. L’amicizia di Amir per Hassan è incuori devastati che elaborano il lutto rovece tormentata, ed è intorno al conflitvistando nella piaga, il film è un bisturi to tra sentimenti contrastanti che il padroncino nutre per sensi di colpa mostruosi. La storia è ricca di sentimenti, ghiotto. Jeremy è a sua volta abbandonato, ed è fin tropil fedele compagno di giochi che ruota la vicenda. Il film di melodramma, d’avventure, di coincidenze e di simme- po pronto ad ascoltare le pene di Liz. Ma quando la baè ambientato nell’Afghanistan del 1978 e la storia proce- trie forse un po’ troppo perfette, ma succede anche in cia, lei sparisce per un viaggio, con soste a Memphis, Aride fino all’invasione sovietica, nel paese ormai in mano Dickens. zona e Las Vegas, mantenendosi come cameriera. ai talebani, e nella provincia Californiana della diaspora Marc Forster, regista di Neverland - un sogno per la vita Incontrerà Arnie (David Strathairn), un poliziotto alcoliafghana negli anni Ottanta. Inizio e fine sono a San (nominato all’Oscar come miglior film) e Monster’s Ball sta che piange Sue Lynne (Rachel Weisz), la moglie Francisco dove Amir, ormai giovane scrittore, è raggiun- (Oscar all’attrice Halle Berry), ha osato la soluzione più sgualdrina che lo tradisce platealmente, e Leslie (Natalie to da una telefonata che lo riporta al passato. Non occor- pericolosa, un intreccio tra cinema d’essai e film di gran- Portman), giocatrice d’azzardo ed Elettra ossigenata, re conoscere la storia afghana degli ultimi tre decenni de consumo. Invece di attori noti, utili al botteghino, ha che soffre per un rapporto malato con un padre inaffidaper apprezzare Il cacciatore di aquiloni, ma se si vede preso sconosciuti che parlano Dari, quando è appropria- bile. Durante l’anno del suo pellegrinaggio attraverso anche La guerra di Charlie Wilson, un film avvincente to, un dialetto afghano del Farsi; questo comporta l’uso l’America, Liz scrive molte cartoline a Jeremy, senza mai che racconta la vera storia della resistenza dei di sottotitoli, che se per gli europei è poca cosa, rappre- farsi trovare fin quasi alla fine. Masochismo a parte, i muhaheddin ai sovietici, se ne avrà un’idea più precisa. senta sempre una grossa sfida nella conquista del mer- piaceri del film sono estetici: fotografia e inquadrature Tra gli attori brilla Homayoun Ershad nella parte di Ba- cato di lingua inglese. Il ritmo incalzante, la suspense, la ricercate, colonna sonora melodica e straziante, atmoba, l’autorevole, colto padre di Amir, che finirà i suoi voglia di sapere come va a finire, la fotografia espansiva sfera da vendere. Se si è a ruota di storie d’amore penogiorni dietro la cassa di una stazione di benzina in Ca- e le riprese aeree dei tornei d’aquiloni non deluderanno se con happy end, Un bacio romantico offre una pera di lifornia, avendo perso ricchezza, status e patria. Non da i tifosi di popcorn movie. metadone purissimo.
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Camillo Sbarbaro, la s
TACI, ANIMA STANCA DI GODERE Taci, anima stanca di godere e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata). Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d’ira o di speranza, e neppure di tedio. Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d’una rassegnazione disperata. Noi non ci stupiremmo non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato… Invece camminiamo. Camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioja e di dolore non ci tocca. Perduta ha la sua voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso. CAMILLO SBARBARO da Pianissimo
poesia
di Francesco Napoli sistono nella storia letteraria, ancor più in quella novecentesca, dei percorsi appartati tutti svolti lontano da qualsiasi scuola che comunque gettano straordinarie luci sull’intero panorama della nostra poesia. È sicuramente il caso di Camillo Sbarbaro, di Santa Margherita Ligure, classe 1888, la cui biografia è tanto priva di elementi esteriori da suscitare quasi più curiosità della sua lirica. Dopo alcuni anni agli inizi del Novecento vissuti partecipando al dibattito in corso nell’allora vivace cittadella della poesia italiana attraverso numerose pubblicazioni in rivista, si ritirò nel 1951 in un piccolo borgo ligure, Spotorno, con la sorella, dove la sua vita terminò nel 1967 quasi in silenzio. La peculiarità può allora essere la sua straordinaria passione per lo studio dei licheni, con molte e apprezzate pubblicazioni a riguardo, che coltivò fino alla fine. «Autobiografia è tutto quello che ho scritto; esauriente, mi pare, anzi abbondante di particolari superflui. Non saprei proprio cosa aggiungervi», dichiarava a Ferdinando Camon nella preziosa intervista contenuta in Il mestiere del poeta. A ben vedere è proprio così, accettando però come autobiografia trasmessa quella legata alla dimensione spirituale e formativa dell’esistenza, vissuta da Sbarbaro sempre con una sorta di sordina come alcuni titoli delle sue opere lasciano intendere (Pianissimo, Trucioli, Liqui-
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dazione, Scampoli, Contagocce, Rimanenze). Si può quindi iniziare dalla poesia prescelta, apertura di Pianissimo, raccolta alla quale Sbarbaro lavorò tutta la vita (con ben tre successive edizioni nel 1954, 1960 e 1971) ma che dalla prima uscita, datata 1914, va letta in quanto quella più riuscita, come unanimemente riconosciuto dalla critica e infine accettato dallo stesso autore in vita. Un occhio alla data: D’Annunzio e Gozzano, Pascoli e i futuristi sono presenze attive. Certo li legge e li conosce Camillo Sbarbaro, ma ha deciso di camminare autonomamente per la sua strada con determinazione rara. Non ama certo l’enfatiche movenze poetiche del primo; del secondo, pur ricalcandone talvolta il ricorso all’ironia, non crede alla classicità come possibilità formale ancora attuabile, ma piuttosto nel disincanto si serve del classico per un proprio rinnovato modulo sentimentale; del terzo, poi, gli dà fastidio una consonanza biografica fatta di convivenze con sorelle; e dei quarti non apprezza l’ottimistica visione della città, altro motivo così caro a Sbarbaro e a lui disceso direttamente da Baudelaire, tema sul quale si dovrà giocoforza tornare. Classico, Petrarca e/o Leopardi docet, eppure moderno, Sbarbaro sin dall’attacco del componimento riportato instaura un soliloquio con la sua anima («Taci, anima stanca di godere»), introdu-
UN POPOLO D IL DISAGIO DELL’IO E DELL’UMANITÀ in libreria
di Loretto Rafanelli el libro di Enrico Testa (Pasqua di neve, Einaudi, 140 pagine, 11,00 euro) ci giunge, come una gelida lama che penetra fin nella più profonda carne, l’ombra costante che ci accompagna.Vale a dire: la brevità della vita, il nulla. Una versificazione che scuote e ci interroga. Un libro che scandaglia una situazione esistenziale personale e collettiva; il coro di una umanità composita di fronte al proprio disagio. Un disagio che si definisce innanzitutto a partire dallo sconcerto che si prova nello stabilire la misura del tempo («chi ha misurato il nostro tempo?/Lo sconsolato gesto con cui la donna nella baita/afferra il coltello per tagliare il pane,/ il volteggio radente della paura…»), e che si può solo camuffare,
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Enrico Testa in “Pasqua di neve” si interroga sull’ombra costante che ci accompagna: la brevità della vita come fa Testa, attraverso la catalogazione infinita delle cose che ci circondano, anche se il rebus della vita è irrisolvibile e quantunque si faccia esercizio di volontà e di resistenza poco rimane. E non varrà gettare i nostri sguardi sui luoghi, quelle mirabili suggestioni paesaggistiche dal profumo montaliano, fulminee e affascinanti («L’acqua bruma, radendo la riva, /corre verso la foce».), che il poeta disegna, ma che risultano in effetti solo desolate testimonianze di una fine. Lo stesso per la natura, una natura non compiaciuta, lasciata nel proprio oggettivo vivere e morire, appena visibile, di scorcio, ornamento e pena, o orpello, certamente «agevole e mortale». Quella di Testa è una poesia dai colori scuri, scandita in modo perfetto, scavata in un dettato duro e feroce, come la sua angusta terra ligure, quel soffocato spazio tra la montagna e il mare, dove neppure la luce dell’acqua porta conforto.
Ri-trovo un uomo senza baffi Col petto gonfio di spugne Imbevute, traspirate, strette strette Al lenzuolo che l’ha portato A nascere nelle trasparenze A portare il vestito scucito Per non essere Del tutto pieno Del tutto vuoto. Ri-traggo La sagoma, le larghe spalle, il rotondo delle ginocchia. Le sue braccia come tranci d’ulivo, le sue unghie alabastro. Ri-sorgo Dalle acque dello stagno sotto i tremori a
Ri-pulirmi gli occhi dai ritratti algati. S-rotolo papiri Sonno tonfo Concerti d’aria Arena piena di folla. Se non fossi nata non avrei pianto Acque, melodia, sorgenti, cristalli. Somiglio alla natura alle ciliegie, al vino rosso alle formiche, al dentro dei tetti dove s’appoggia un nido per ri-conoscere la luce che filtra e tutto muove. Antonio Carollo
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli a troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal M
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solitudine come condizione inevitabile cendo uno dei temi di fondo dell’intero Pianissimo: la separazione dell’anima dal mondo e, contemporaneamente, la sua vuota interiorità («Giaci come/ il corpo, ammutolita, tutta piena/ d’una rassegnazione disperata»). In queste condizioni per l’uomo non c’è più spazio per gioie o dolori e quanto c’è di mondano non costituisce più nessuna attrattiva («Perduta ha la sua voce/ la sirena del mondo») anzi, la voce suadente della modernità si spegne in un vuoto assoluto che, leopardianamente, costituisce il punto di partenza di ogni ulteriore, e forse si potrebbe dire postrema, osservazione con la quale il poeta poi chiude: «Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso». La «negazione» per l’uomo è un atto eroico nel poeta di Recanati ma in Sbarbaro, poeta borghese, non può più essere così, si trasforma in una sorta di pessimismo esistenziale con il quale fare i conti e che anticipa il medesimo, e più noto, atteggiamento del Montale di Ossi di seppia, suo amico, ammiratore e debitore in poesia anche del senso dello scabro e dell’essenziale. Leopardi appartiene con pienezza all’orizzonte di riferimento di Sbarbaro. Prestiti, lessicali e tematici, se ne rintracciano tanti e sparsi, ma che Sbarbaro utilizzi lo spoglio e sciolto endecasillabo leopardiano per torcere, primo in Italia con Saba, per davvero il collo all’eloquenza (non come hanno millantato i futuristi che di fatto sostituirono l’eloquenza classica con una diversa eloquenza rutilante e simil dannunzia-
na) senza neppure l’aria di volerlo fare, questo mi pare davvero altamente riuscito. «Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso»: la dissociazione del punto di vista, il guardare se stesso come una «cosa» da un altro angolo, anticipa e introduce nella poesia novecentesca italiana il tema dell’alienazione tra l’essere e gli altri, tra l’essere e il mondo, non tanto intesa come sentire gli altri quali nemici o come incomunicabilità ma quale indecisione e bisogno di solitudine. Una prospettiva di riflessione che, pur nel suo naturale rinnovarsi, tuttora non è spenta. «Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso»: la desertificazione-alienazione è anche quella indotta dal nuovo modello di vita imposto dalla città moderna. Deserto e città è tema baudelariano direttamente importato in Italia da Camillo Sbarbaro. Probabilmente se «la sirena del mondo» ha perso la sua voce è anche perché nel clamore frastornante di quel luogo non trova più ascolto, una città che si è «fatta immensamente vasta e vuota» - recitano i versi di un altro componimento di Pianissimo - come l’anima dell’uomo che vi ci vive e in questa desertificazione l’immagine è quella di «una città di pietra ove nessuno/ abiti, dove la Necessità/ sola conduca i carri e suoni l’ore». Simmetrie sintomatiche tra città e anima, strade mute e indifferenza quasi immobile, alle quali Sbarbaro, partecipe, avverte che non può che in qualche misura cercare di assuefarsi così come l’uomo contemporaneo.
il club di calliope
DI POETI apro il pugno, pochi granelli il vento ha risparmiato; vorrei costruire un’ enorme scatola dove raccogliere tutti i granelli che il vento disperde la clessidra si è rotta e io non so che fare Come sabbia nel vento di Ludovico Brancaccio Nuvole a catafascio, oggi, nell’azzurro degli occhi. fragili prospettive s’affastellano e germinano nomi rocciosi in ogni atto germinante dissoluzioni distratte; opaca, l’esistenza va oscillando tra fonte e fonte, verbalità sopraffanno la confezione di petali a precipizio… – Ecco!, qui fiorisce il mio sguardo straziato di dolcezza. di Sandro Montalto
autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
«Tu l'hai visto come lei può passare destando moto e soffio e io lasciare l'antica consuetudine, far morto il foglio del disperare: signore, tutto rimane vero, esatto il conto eppure per rispetto al tuo chiamare io mi alzo ancora, agghiaccio, provo freddo cerco nei quadrilateri una traccia. Poi ritorno a distendere trattati…» Tutto questo lo dice certo uno che stamattina ha preso pane e latte è sceso nelle sotterranee buie e nel giorno non ha ragione alcuna che non sia il balenare di quel lume.
Daniele Piccini
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PITTURA pazzapan - scriveva il suo amico pittore goriziano Veno Pilon - rimane nella vita come nel suo lavoro un fenomeno bizzarro come un fuoco d’artificio che si chiude nel cielo della sera con una miriade di colori». L’immagine, per commemorare il pittore giuliano Luigi Spazzapan, celebrato con una convincente mostra riassuntiva alla torinese Galleria Narciso nel cinquantenario della sua morte, ottimo saggio di Adriano Olivieri, è piuttosto illuminante. Il viluppo indistricabile tra vita di dandy anarchico e di pittore febbrile. L’isolamento doloroso da eccentrico sospetto, in una situazione di radicamento atipico, tra decentramento ed esilio, in quella Torino poco consenziente ma seduttiva, che era quella di Gualino e del nascente razionalismo architettonico. L’immagine spampanata d’un esplosivo e rapido fuoco d’artificio, coltivato in serra e presto in frantumi, su uno sfondo crepuscolare e in fondo ancora gozzaniano. Meteora provocatoria e folgorante, quasi una girandola impazzita. Certo, se si comparano i suoi santoni neo-bizantini, dalla tonda testa a spini rotanti di cardo, o i suoi cavallerizzi spumosi, annotati col lapis capriccioso della fulminea velocità calligrafica alla Tiepolo, i suoi gatti magnetici e rissosi oppure le sue donne vistose e disponibili, al bacio violento dell’inchiostro frullato, alle prospettive raggelate e presbiteriane del secessionista-metafisico Casorati, o con le galanterie cromatiche del Gruppo dei Sei, si capisce come la sua calata imprevista nelle rettilinee vieprigioni, castigate e cartesiane, della torinesità gobettiana, funzionasse da miccia esplosiva, da detonatore irrefrenabile. E a guardare certe tele, in rapida transizione verso le decomposizioni informali degli ultimi suoi anni Cinquanta, lo si direbbe più vicino a certe soluzioni paludose-pirotecniche d’un Pinot
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L’estro ispirato di Luigi
Spazzapan di Marco Vallora
arti
Gallizio o da cripto-Cobra, che non alle liete scritture annodate, stile Dufy, d’un Paulucci o alle cromie liquide d’un Menzio. Non a caso intrigò un tutore delle forme autre, come Michel Tapiè, che a poche ore dalla sua morte riconobbe quella sua apertura europea, tra «le nuove vie maestre delle strutture insiemistiche di Mark Tobey o Clyfford Still». A vedere l’Apparizione notturna del ‘56, con inserti di stracci, più burriani che non prampolineschi, o la celebre Palude ardente, che fu presto riconosciuta da Lionello Venturi quale tela emblematica di svolta verso l’esaurirsi del figurativo, s’intuisce come i vari dissidenti Ruggeri, Moreni, i Soffiantino e le Carol Rama, guardassero a lui come a una valvola di sfogo d’un casoratismo troppo idolatrato e vincente (anche se il rogo di questo dissidio agonistico è stato poi troppo gonfiato). Certo, col suo carattere scontroso e costituzionalmente «futurista», da deraciné insaziabile, così lo ribattezza Persico (lo provano le sue prime scomposizioni giuliane di tessuti a spettro) Spazzapan, in una Torino brillante e meno sopita di quanto si racconti (c’erano accanto a lui Soldati e Massimo Mila, l’architetto razionalista Cuzzi con Mollino e Pagano, lo scultore Mastroianni e il designer nascente Sottsass, il poeta-critico Bargis e il giornalista dell’Unità Raf Vallone, non ancora attore, Alfonso Gatto Galvano e Cremona, ma pure un «mestatore» di genio, come il Maccari del Selvaggio) Spazzapan non fu comunque fortunato. Lo amavano Venturi, Carluccio, Marchiori, che non è poco, ma le sue monografie, improvvisamente fitte e convinte, escono postume, come impaurite da questo «corsaro salgariano», che nelle sue irritate soffitte predicava: «estro, nell’ispirazione».
Luigi Spazzapan, Galleria Narciso, Torino, fino all’8 aprile
autostorie
Da Pristina a Bruxelles su una Land Rover di Paolo Malagodi nziché valersi di un comodo volo può succedere che - dopo anni di missione nei Balcani - un diplomatico decida di affrontare il rientro nella capitale europea al volante di una robusta Land Rover. Sul cui cruscotto, la sera prima di lasciare il Kosovo, il conducente sistema due libri come guide di viaggio: Memorie del Mediterraneo di Fernand Braudel, insieme a Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic; scegliendo, invece di puntare a Nord, di allungare il viaggio tra le montagne albanesi e verso l’Adriatico. Per capire, con l’assistenza dei due scrittori, «dove finissero i Balcani e avesse inizio il Mediterraneo, riconoscendo ogni indizio, anche il più piccolo, capace di preannunciare il
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mare già dal continente. Osservando dove compare l’ulivo e dove gli odori del mare si mescolano con quelli delle resine di pino, dove il pastore diventa agricoltore, dove la gente riconosce la lingua italiana». Parte così un complesso itinerario, che Fernando Gentilini descrive in modo appassionato (Infiniti Balcani, viaggio sentimentale da Pristina a Bruxelles, edizioni Pendragon, 224 pagine, 14,00 euro) attraversando regioni poste «fra mondi che si sfiorano e si compenetrano, che sanno ancora d’Oriente e di Mitteleuropea, né Est né Ovest e contemporaneamente sia Est che Ovest. Secoli di letteratura di viaggio hanno chiarito che i Balcani non sono soltanto geografia, ma una terra dove Europa e voglia di Europa non appaiono necessariamente più evidenti man
mano che da Oriente ci si sposta verso Occidente, come sarebbe per certi versi più naturale. Dove anzi può accadere esattamente l’opposto: pensi che Belgrado sia la vera frontiera, e poi prosegui verso Ovest, raggiungi Sarajevo, e ritrovi di colpo i minareti e l’Oriente». Sono queste le linee che ispirano un libro scritto usando diversi registri, nel quale storia e politica si mischiano al reportage di un viaggio su strade percorse da vetture per lo più datate: «la 128 Fiat, la Citroën Ami 8 o la 2 Cavalli, il Maggiolone della Volkswagen, le vecchie Renault 4, la mitica Yugo»; ma nel paradosso di vedere a Belgrado più Ferrari che a Roma, parcheggiate di fronte ai wine-bar e alle discoteche alla moda. Fra le tante contraddizioni di una terra all’affannosa ricerca di equilibri, che le eredità del passato e le
tragedie recenti rendono ancora più difficili. Come ben documenta questo attualissimo reportage sui Balcani, riferito a un contesto sul quale «è necessario astenersi da giudizi affrettati. Più che altrove bisogna studiare, cercare la storia dei luoghi e delle persone, cogliere i segni, annusare l’aria, sapere cosa c’era prima, altrimenti si rischia di non capire. Sono anni - scrive Gentilini nel suo libro - che percorro le strade del Kosovo e ancora non riesco a scrollarmi di dosso lo strano odore che a tratti sento nell’aria, così simile a quello dell’acqua stagnante nei vasi di fiori appassiti. Un odore tiepido e immaginario, che gli altri non avvertono: reminescenza olfattiva personalissima di una mattina d’estate del 2000, in un bosco vicino Pristina, davanti a una fossa comune appena scoperta».
MobyDICK
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ARCHIETTURA
Il genius loci? Basta leggerlo sotto-sopra di Marzia Marandola n Italia sono celebri i grandi centri archeologici, come Pompei, Paestum, Ercolano, Aquileia e naturalmente Roma, solo per citare le mete di un turismo consolidato e di massa; ma la penisola è punteggiata anche da infiniti siti archeologici di dimensioni molto meno ragguardevoli, ignorati o pochissimo conosciuti al di fuori del mondo degli specialisti. Non raramente questi siti si trovano anche in posizioni geografiche appartate, lontano dalle infrastrutture viarie più importanti e dalle grandi città. Questa marginalità, se da un lato pone problemi di conservazione di queste testimonianze piccole, ma non minori, dall’altro, è condizione di una straordinaria qualità paesaggistica e naturale. Si tratta infatti di siti localizzati in aree spesso collinari o montagnose poco compromesse sotto il profilo naturalistico. Da alcuni anni, meritoriamente, le sovrintendenze in collaborazione con gli enti locali hanno avviato la valorizzazione di questi siti, finalizzata sia alla conoscenza più approfondita che alla protezione, senza trascurare le attrezzature per l’accoglienza di visitatori. In questi luoghi i segni architettonici devono essere ridotti al minimo, ma capaci di interpretare il genius loci, di predisporre i servizi fondamentali, quelli igienici in primo luogo, senza intaccare la grazia primitiva dell’ambiente. Aderisce perfettamente a queste premesse il progetto per il centro visite nel parco archeologico del Piano della Civita ad Artena dello studio romano 2TR Architettura dei giovani Luca Montuori, Riccardo Petrachi e Marina Cecchi. A circa 40 chilometri da Roma, presso i Monti Lepini, sorge il grazioso borgo medievale
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di Artena, feudo dei Colonna, degli Orsini e infine dei Borghese, caratteristico perché le sue strade sono transitabili solo a piedi o a dorso di mulo. A pochi chilometri dal borgo, con una piacevole passeggiata, si raggiunge un altipiano chiamato Piano della Civita, dove al clamoroso panorama si associa la presenza dei resti di mura ciclopiche di un antico insediamento preromano e di un sistema di 20 grandi cisterne cilindriche ipogee. Questi contenitori per l’acqua piovana, scavati nella terra e costruiti in pietra, supplivano alla mancanza di sorgenti in un sito strategico per l’avvistamento e la difesa della valle. L’insediamento archeologico è il cuore di un parco con forti valenze naturalistiche, che si estende per circa 80 ettari, oggetto di un recente intervento architettonico che si caratterizza per il suo minimalismo, contrassegnato da una parsimonia di segni quasi acrobatica. Il progetto individua, attraverso un’elegantissima pavimentazione lapidea, due minuscoli spiazzi posti a quote diverse: quello superiore incentrato su un antico fontanile delimita un’area regolare che funge da belvedere, aperta a 360° sul paesaggio, quello inferiore ugualmente pavimentato con lastre di pietra, ospita un piccolo volume regolare schermato da eleganti doghe di legno, che individua il centro visite e contiene i cilindri che allogano i servizi. Questi corpi, orditi in blocchetti di pietra locale, replicano in forma estrovertita i volumi delle cisterne scavate nel terreno, istituendo con esse un singolare rapporto di positivo/negativo ovvero sotto/sopra come recita il titolo del progetto.
DESIGN
Von Vegesack, i percorsi del collezionismo di Marina Pinzuti Ansolini orld Design Capital, ovvero, per tutto il 2008, Torino, per volere dell’International Council of Societies of Industrial Design. Un riconoscimento alla città, la quale, negli ultimi anni, ha dato segni considerevoli di rinnovamento e di crescita: le Olimpiadi, il turismo, i restauri di regge e palazzi, la riqualificazione urbana, il Cinema, la gastronomia. Il capoluogo piemontese sarà, per tutto l’anno, teatro di mostre, dibattiti e incontri; quasi 200 eventi sulla cresta del design internazionale. Il Lingotto, ex stabilimento della Fiat, simbolo per eccellenza della rivoluzione industriale italiana, è diventato, oggi, una grande «macchina utile» per la città, che comprende, ultimo fiore all’occhiello della struttura, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, nata da una grande passione dell’Avvocato, il collezionismo d’arte. Ed è l’omaggio a una collezione privata, la mostra ospitata nella Pinacoteca per partecipare alla grande festa di Torino, Scoprire il design. La collezione von Vegesack. La vera scoperta è lui, Alexander von Vegesack, ragazzo di poco più di sessant’anni, quasi due metri di altezza, nato in Germania da genitori originari del Baltico, tante vite, tanti viaggi, una passione instancabile per i mobili in legno curvato. A vent’anni, ad Amburgo, realizza Vanity, boutique all’avanguardia, dove vende abiti usati, scovati nei mercati delle pulci; gli attori di Hair sono suoi clienti. All’inizio degli anni Settanta, in una fabbrica abbandonata, organizza una comune e un club alternativo, Fucktory e mette in scena spettacoli sperimentali, balletti, pantomime, a volte messe nere e sabba di streghe. Arrivano artisti da tutto il mondo e Fuktory diven-
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terà un centro ufficiale di animazione culturale. In questo periodo von Vegesack continua incessantemente a organizzare mostre ed eventi, a viaggiare e a cercare mobili in ogni angolo del mondo. La sua collezione cresce a dismisura tanto da essere citata nelle riviste più autorevoli di arredamento. Nel 1980, il Centro Pompidou richiede la sua collaborazione per la mostra Le Bois Courbée. La mostra da lui concepita, nel 1984, per la American Federation of Art, Bent Wood and Metal Forniture, farà il giro di dieci musei americani. Nello stesso anno, apre nella città di Boppard, sul Reno, il primo museo dedicato a Thonet e nel 1986 conosce l’imprenditore svizzero Rolf Fehlbaum, direttore generale dell’azienda Vitra, produttrice di mobili per ufficio. Da quest’incontro nascerà il Vitra Design Museum, tempio assoluto della storia del design, diretto, naturalmente ancora oggi, dallo stesso von Vegesack. La mostra a lui dedicata a Torino si articola in un percorso espositivo diviso in ventidue sezioni dove convivono pezzi cult della storia del design, gli arredi di Jean Prouvé, le prime sedie Thonet e di Mies van der Rohe, e una moltitudine di oggetti curiosi e souvenir di viaggi. Libri, cataloghi, piatti, teiere, bicchieri, selle, speroni, insegne pubblicitarie, gioielli, tessuti, orologi; ognuno di essi è un ricordo, un materiale, una scoperta, un colore, un regalo, un acquisto, un affare, una tessera della vita, meglio dire, delle tante vite di Alexander von Vegesack.
Scoprire il design. La collezione von Vegesack, TorinoPinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, fino al 6 luglio, Catalogo Electa
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FANTASCIENZA
arà il bisogno di sognare, sarà il bisogno di evadere dalla prigione del «politicamente corretto», sarà il bisogno di sicurezza anche solo psicologico, sarà il bisogno di identificazione, sarà quel che voi volete, ma sta di fatto che questo mondo così frastornato, insicuro, quasi incubico pare sentire l’impellente necessità del ritorno dei vecchi, cari eroi, quelli creati per l’Immaginario collettivo del Novecento dalla grande macchina onirica che è Hollywood. E così riappariranno sui nostri schermi sia John Rambo di Sylvester Stallone, sia Indiana Jones di Harrison Ford. Anche per loro il tempo è passato: gli attori sono ormai sessantenni, così anche i personaggi, ma non per questo hanno gettato la spugna, non si arrendono e continuano a impersonare l’archetipo per cui sono stati creati. Il fatto che siano passati parecchi anni dagli ultimi film che li hanno visti protagonisti e nonostante ciò siano attesi dal pubblico, vuol dire semplicemente che la loro funzione è ancora d’attualità. Ovviamente, a noi interessa Indiana Jones che arriverà sugli schermi italiani il 23 maggio con la quarta puntata della saga: Il regno del teschio di cristallo, come sempre diretto da Steven Spielberg. Sono trascorsi diciotto anni dall’ultimo film e addirittura ventisette dal primo, che avevano quindi una loro compattezza e coerenza. Anche se non bisogna dimenticare che per tre stagioni, dal 1991 al 1993, uscì una serie televisiva prodotta sempre da Lucas, dedicata alle Avventure del giovane Indiana Jones che per così dire ha riempito i «vuoti» temporali venendo incontro ai desiderata del pubblico. E non sono mancati i fumetti e i videogiochi ispirati al personaggio.
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Questa ultima avventura si svolge nel 1957, quindi anche qui all’interno della cronologia filmica sono trascorsi due decenni dalla precedente storia: stavolta l’archeologo professor Henry Jones jr. viene distolto dai suoi studi per andare alla ricerca di una reliquia dai misteriosi poteri dal Connecticut al
ai confini della realtà
Indiana Jones e la vera storia dei teschi di cristallo di Gianfranco de Turris Nuovo Messico alle giungle peruviane. I teschi di cristallo non sono un’invenzione del film, ma esistono effettivamente: il primo venne trovato un secolo fa nello Yucatan, altri sono venuti fuori da musei o da privati e alcuni sono stati dichiarati
crociata (1989) ebbero - soprattutto il primo, ovviamente - la grande idea di riattualizzare un personaggio che sembrava tramontato: l’eroe avventuroso stile anni Trenta e in parte anni Cinquanta. A George Lucas l’idea venne
Non sono un’invenzione della nuova puntata della saga (il film uscirà il 23 maggio), ma esistono veramente. Il primo venne trovato un secolo fa nello Yucatan. Non se ne conosce la funzione ma sono collegati a una leggenda maya secondo la quale, quando saranno rintracciati tutti e tredici si aprirà una porta su un’altra dimensione falsi. Non se ne conosce la funzione, ma sono stati collegati a una leggenda, che fa riferimento al calendario maya (quello che predice la fine del mondo nel 2012): essi sono soltanto tredici e quando saranno trovati tutti si aprirà una porta su nuove dimensioni e nuovi livelli di coscienza. Finito un mondo ne nasce un altro. Chissà se questo nuovo film ne parlerà? I predatori dell’arca perduta (1981), Indiana Jones e il tempio maledetto (1984) e Indiana Jones e l’ultima
addirittura nel 1973 quando, convalescente, la sua attenzione fu attratta da un vecchio manifesto cinematografico di questo tipo. In Indiana Jones (che avrebbe dovuto chiamarsi Indiana Smith) si concentra una serie di figure e simboli: quella dell’esploratore tipico dei pulps magazines così diffusi tra le due guerre, zeppi di avventure esotiche, fantastiche, esoteriche, di popolazioni perdute, di maledizioni egizie e incaiche, di sette misteriose, di sacrifici
cruenti, di eventi sovrannaturali, di templi sepolti nella foresta, di trappole mortali, di figure sinistre. Alle spalle di tutto questo c’erano i romanzi dell’inglese H. Rider Haggard e del suo personaggio Alain Quatermain (quello delle Miniere di Re Salomone), del francese Pierre Benoit di L’Atlantide e di molti altre opere ambientate in Africa, dell’italiano Emilio Salgari con i suoi ottanta romanzi sui pirati, l’India dei Thugs, dei «tigrotti della Malesia», di Sandokan e TremalNaik.Tutto un immaginatrio che si concentra in Indiana Jones.
Inoltre, la predilezione che Lucas e Spielberg hanno dimostrato per un aspetto «occulto» del nazismo (la ricerca dell’Arca della Alleanza nel primo film e della coppa del Graal nel terzo), dimostrano indubbiamente la conoscenza e l’influenza di tutta quella produzione saggisica (seria, ma anche assai meno seria) che ha invaso le librerie mondiali, a partire dal Mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (1960). Una moda, che tuttora imperversa, in cui si mescolano realtà e fantasia, certezze e le più azzardate e improbabili deduzioni. Che però colpisce e affascina il pubblico. Non mancano neppure, all’interno di tante vertiginose avventure, anche spunti seriamente esoterici, come si vede nell’Ultima crociata (il ponte invisibile, la coppa di legno e così via). Indiana Jones, dunque mescola insieme a una avventura talmente tradizionale da essere retrò, anche fantasia, fantascienza ed esoterismo, ricorda le giungle salgariane e Doc Savage, personaggio di una serie di romanzi popolari degli anni Trenta, le meraviglie degli effetti speciali e il sapore di un’epoca perduta, facendo accettare senza batter ciglio agli spettatori tutte le cose più impossibili che il vecchio Indy fa (tanto per ricordarne una: nel primo film, per seguire i cattivi nazisti si aggrappa al loro sommergibile e si ritrova trasportato in Egitto, dimenticando forse che quel battello si chiama così proprio perché non naviga in superficie...).