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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“Poesia” di Lee Chang-dong
METAFISICA
DELLA SEMPLICITÀ di Anselma Dell’Olio
l cinema, di solito, è intrattenimento. Qualche volta arriva un’opera che rismo del suo Paese in un governo liberale). Il nuovo cinema sudcoreano è dinutre l’anima. In casi rari e felici, offre ai più attenti, la grazia di un screto e temerario, e assai godibile per il suo modo di proporre la vita, È un’opera Dio nascosto. Questa settimana c’è un film coinvolgente come spesso con crudezza mai triviale e senza sentimentalismi. I film di un buon romanzo e sobriamente filosofico; un sottile saggio Chang-dong ruotano intorno a protagoniste investite da pene che nutre l’anima, metafisico, elegante, profondo, con il dono della semplitravolgenti, in un mondo a loro spesso indifferente e anche coinvolgente come sprezzante (Oasis ha vinto l’Osella per la regia a Venecità. La storia - una donna riceve due notizie rovesciaun buon romanzo e sobriamente budella e una grazia - propone in chiave alcune zia, Secret Sunshine, in concorso a Cannes, ha domande. Se la vita ti si rivolta contro, come vinto per la migliore attrice). Le sue eroine filosofica quella del regista-scrittore ci si deve comportare? Fino a che punto si può sono donne imperfette, riconoscibili nelle loro coreano, Palma d’oro a Cannes aiutare una persona amata colpevole di un repelcontraddizioni. I suoi uomini sono anche loro fallalente delitto? O una persona sofferente di cui ti prendi ti e umani, persino troppo. Sono consapevoli di apparteper la migliore sceneggiatura. cura, che ti chiede qualcosa d’immenso per andare avanti? nere al genere che ha diritto alla primogenitura, eredità autoDa non perdere Quali sono i confini della misericordia, del perdono, del sacrificio? matica per chi nasce maschio. Il regista nasce scrittore, e a 43 anni si dedica alla regia. Mija (JeungPoesia è scritto e diretto da Lee Chang-dong, raffinato e sanguigno rohie-Yun) è una signora di 66 anni. manziere e cineasta coreano (è stato anche ministro della Cultura e del Tu-
I
Parola chiave Sport di Sergio Belardinelli Il nuovo romanzo di Margaret Mazzantini di Maria Pia Ammirati
NELLA PAGINA DI POESIA
Il blob ante litteram di T.S. Eliot di Filippo La Porta
Sua Maestà Franz Liszt con un’intervista a Mario Bortolotto
di Pietro Gallina Memoriette politiche di Leone Piccioni
Gli alberi della vita di Henrik Hakansson di Marco Vallora
metafisica della
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Abita in una località fuori Seoul, con un piccolo sussidio statale e un lavoro da badante. Il nipote Wook (Da-wit Lee) vive con lei, sua madre lavora in un’altra città. Il film apre su un grande fiume con bambini che giocano sulla riva; avvistano qualcosa che galleggia nella corrente. All’inizio sembra un tronco, poi scorgiamo il corpo di una ragazza, il viso parzialmente coperto di capelli neri. Poesia ha vinto la Palma per la migliore sceneggiatura a Cannes l’anno scorso, e se lo merita abbondantemente. Il modo in cui sono centellinate le informazioni mostra l’abilità, anzi la maestria di un artista in possesso di un forte talento per la narrativa, distribuita sapientemente tra immagini e parole. La successione studiata delle scene in questo film, il modo in cui il racconto è dosato lungo l’arco narrativo, è un master class di sceneggiatura.
Mija veste con cura. Ci tiene al suo aspetto, come dice quando riceve un complimento: cappellino bianco, lunghe gonne di stoffa leggera, camicie a fiori color pastello, una borsa di paglia, sandali signorili bianchi e blu con tacco basso e una civettuola sciarpina bianca lavorata all’uncinetto. La incontriamo in una sala d’attesa d’ospedale mentre guarda il telegiornale con altri pazienti. Il notiziario parla della ragazza trovata nel fiume, una del liceo locale, forse un suicidio. Suona il cellulare di Mija mentre chiamano il suo nome per la visita. Il modo in cui s’affretta a spegnerlo per non disturbare, racconta una donna garbata, attenta. Dal colloquio con il medico s’apprende che lei ha una buona salute, senza i soliti acciacchi dei suoi coetanei. Negli ultimi tempi, però, ha un formicolio strano, «come se l’elettricità mi passasse lungo il braccio», e tende a dimenticare le parole più comuni, per esempio «candeggina». È riuscita a farsi capire al supermercato, perché si è ricordata di un marchio comune. Il dottore le prescrive la ginnastica per il formicolio; ha i muscoli induriti. Per l’altro problema, più preoccupante, deve recarsi in un grande ospedale universitario a Seoul per esami approfonditi. Di nuovo in strada sdrammatizza l’esito della visita al telefono con la figlia preoccupata, sua unica confidente. Mentre parla arriva un’ambulanza con un cadavere coperto da un lenzuolo. Una bellissima donna di campagna con il viso stravolto, in evidente stato di shock, gira nei dintorni mentre la barella è portata in ospedale. Biascica parole al vento, cade per terra. «Sei crudele! Perché? Dove sei?». È seguita anno IV - numero 13 - pagina II
nel suo doloroso sbandamento dal figlio piccolo, in allarme per la mamma e deciso a non staccarsi da lei. È la madre della studentessa annegata, Heijin Park. Mija entra in un supermercato, dove la cassiera la saluta con calore e le consegna la chiave di un appartamento al piano di sopra, dicendo che il suocero ha chiamato più volte per chiedere dov’era. Mija spiega che era in ospedale, poi corre di sopra ed entra in una bella casa dove vive il suo assistito, il signor Kang (Hira Kim), vittima di un ictus che l’ha lasciato parzialmente paralizzato (il modo in cui cambia il rapporto tra Mija e Kang è tra i filoni più potenti del film). Lo lava nella vasca con la doccia a mano, scherzando con lui garbatamente per convincerlo a cooperare. Rivestita con gli abiti buoni, saluta Kang, dispiaciuto che vada via «così presto». Lei risponde che ha fatto le sue tre ore, bucato, pulizie e il resto, ed è ora di andare. Lui le dà dei soldi come regalo, raccomandandosi di non dirlo a nessuno. Mentre restituisce la chiave, Mija dice alla nuora del regalino (aiutino per godersi meglio il film: seguire i soldi). La cassiera non è scandalizzata ma stupita; suo suocero è notoriamente avaro. «Si vede che gli sei davvero simpatica».
Mija scava nella borsa. Non riesce a ricordare come si chiama quella cosa «dove si mettono i soldi». «Il portafoglio», suggerisce l’altra. Mija ringrazia sollevata ma non riesce a trovarlo. La donna le fa notare che ce l’ha in mano. La badante ride, «sono un po’ svampita ultimamente». Mentre arriva una cliente alla cassa, Mija racconta della ragazza nel fiume: «Dicono che è saltata dal ponte, la povera madre è impazzita». Le altre due, indaffarate con la conta della spesa, non l’ascoltano. A casa trova Wook addormentato con la musica altissima. È il classico adolescente insopportabile e autoreferenziale, preso dai suoi passatempi e insofferente verso gli adulti. Al mattino dice che non ha risposto alle chiamate della nonna perché erano sul cellulare, secondo lui troppo vecchio; ne vuole uno nuovo. La nonna gli ricorda che ha appena un anno e mezzo; poi gli chiede se conosceva Heijien. Aveva la sua età e frequentava lo stesso liceo. Wook è scocciato, la conosceva appena, non è intimo di tutti quelli del suo stesso anno. Mija gli dice di chiedere il nuovo telefonino alla mamma; la nonna non se lo può permettere. Dopo, alla fermata dell’autobus, vede un avviso per un corso di poesia. D’impulso va al centro culturale e riesce a farsi accettare, anche se le iscrizioni sono chiuse e la prima lezio-
semplicità ne è già in corso. S’infila in un banco mentre il professore spiega che per scrivere poesie bisogna imparare a guardare in profondità, e vedere come se fosse la prima volta le cose più ordinarie, una mela, per esempio. L’insegnante è competente ma non particolarmente ispirato. Presa dalla voglia di esprimersi come poeta, Mija si beve ogni parola. Dio manda i panni secondo il tempo, dicono i credenti. Con queste poche, semplici scene siamo entrati nel mondo di Mija, con tutti i punti principali da sviluppare, salvo uno. È convocata per telefono a un incontro con i padri del gruppo di liceali amici del nipote. Sono in un ristorante davanti a una parete-finestra. Con crescente angoscia lei, unica donna, apprende che Heijin aveva lasciato un diario in cui ha scritto di essere stata stuprata ripetutamente dal branco per sei mesi prima di morire. Gli uomini, tutti borghesi, commercianti o professionisti, sono sbrigativi e preoccupati solo per il futuro dei loro ragazzi. Bisogna intervenire subito, per ora sono in pochi a conoscenza della causa del suicidio. Devono offrire una cospicua somma alla madre della vittima, vedova e coltivatrice diretta, con un bambino da crescere. Devono impedire che faccia una denuncia che costringerebbe la polizia a indagare e i giornalisti a curiosare. La cifra è alta ma divisa per sei si potrà mettere insieme. Conoscono la situazione economica di Mija ma insistono perché anche lei versi la sua parte.
POESIA GENERE DRAMMATICO DURATA 135 MINUTI PRODUZIONE COREA DEL SUD, 2010 DISTRIBUZIONE TUCKER FILM
REGIA LEE CHANG-DONG INTERPRETI YOON HEE-JEONG, LEE DA-WIT, KIM HIRA, AHN NAE-SANG
Mija è sotto shock, per la vergogna, il senso di colpa, la somma impossibile, la fiscale ottusità di questi padri facoltosi, ansiosi soltanto di evitare guai ai pargoli. «Due di loro l’hanno fatto per primi; poi gli altri quattro si sono aggiunti». «Era piccola e bruttina - dice uno dei padri - chissà perché proprio lei». Di colpo la donna si alza ed esce. Dalla finestra vedono che guarda intensamente dei fiori rossi, come per la prima volta. Saprà in seguito che soffre del morbo di Alzheimer e la sua lingua è in via d’estinzione. «Prima spariscono i nomi, poi i verbi», dice il medico. «I nomi sono più importanti», risponde Mija. D’intuito è spinta a cercare un linguaggio nuovo, per lasciare un segno limpido, un canto al cielo dove la prosa non arriva. È notevole la scena della Messa da Requiem per la vittima, Agnes Heijin Park, battezzata con il nome della vergine adolescente, santa e martire, profanata dalla libidine maschile. La ragazza apparteneva alla grande comunità cattolica della Corea del Sud, terza nazione asiatica per numero di fedeli dopo le Filippine e il Vietnam. Da non perdere.
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parola chiave
i sono almeno tre modi diversi di praticare lo sport, che, sebbene abbiano qualcosa in comune, non vanno tuttavia confusi. Un conto è lo sport praticato per sviluppare forza e agilità fisica, altro conto è lo sport praticato per passatempo, come quando si dice che uno fa qualcosa «per sport», altro conto ancora è lo sport praticato per competizione, il quale peraltro sta diventando ormai sempre di più una professione. Un campione olimpico deve ovviamente sviluppare anche la propria forza e agilità fisica; può allenarsi e considerare le gare come un passatempo; ma evidentemente, se gareggia, lo fa perché ama la competizione, perché aspira a primeggiare in questa o in quella disciplina. Ebbene a me pare che lo sport abbia a che fare soprattutto con quest’ultima dimensione. Che cosa c’entra lo sport olimpico con l’attività motoria che una signora svolge periodicamente in palestra o con il body building di tanti giovani? Mi rendo conto ovviamente che la ginnastica che praticavo a scuola poteva essere anche classificata come attività sportiva; lo stesso dicasi per le corsette che mi capita di fare ogni tanto ancora oggi; ma, anche a rischio di semplificare eccessivamente, direi che c’è sport soltanto laddove c’è agonismo e competizione.
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Proprio per questo, ad esempio, trovo assai discutibile lo «spirito» che ha mosso la nostra legge sulla «Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping», la legge 376 del 2000. L’idea che lo sport debba servire «alla promozione della salute individuale e collettiva» mi sembra quanto meno «astratta», se non addirittura sbagliata. Alla salute servono le cosiddette attività motorie o uno sport praticato senza troppi affanni e con spirito dilettantistico («per svago», avrebbe detto il mio allenatore di calcio), non certo lo sport praticato con intensità ai massimi livelli. Come tutte le attività condotte al massimo delle nostre capacità psico-fisiche, l’attività sportiva può dare grandi gioie e grandi soddisfazioni, ma dubito si possa dire che faccia bene alla salute. Nemmeno il lavoro che svolgo, seduto tutto il giorno a leggere e scrivere, fa bene alla salute. Eppure lo faccio con passione e lo considero un grande privilegio. Segno evidente che, con buona pace di certa ideologia «salutista» che ormai fa sentire il suo peso dappertutto, la salute non è necessariamente il valore più alto che si persegue nelle umane attività. Meno che mai lo è nello sport. Il cui grande «capitale sociale» consiste nel senso del sacrificio, nel rispetto delle regole e degli avversari, nella lealtà, nella temperanza, nella bellezza della vittoria, nell’onore della sconfitta, non nella salute. Esiste ovviamente il problema di salvaguardare la salute degli atleti e di tutti coloro che a vario titolo praticano lo sport. Ma questo è un altro discorso che qui non voglio aprire. Per comprendere un po’ il senso di ciò che sto dicendo, trovo invece assai utile il discorso del filosofo americano Alasdair MacIntyre sui valori «interni» e su quelli «esterni» alle nostre pratiche e sulla loro connessione con le virtù. Lo studio di una disciplina scientifica, la pittura, la musica, il gioco degli scacchi, il lavoro dell’artigiano o lo sport sono tutte pratiche, secondo MacIntyre. Ciò che le accomuna è il fatto che ognuna com-
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SPORT Il suo «capitale sociale» risiede nel senso di sacrificio, nel rispetto delle regole e degli avversari, nella lealtà, nella bellezza della vittoria, nell’onore della sconfitta. Valori “interni” in via di estinzione...
La pratica della virtù di Sergio Belardinelli
Come tutte le attività condotte al massimo delle nostre capacità psico-fisiche, quella sportiva può dare grandi gioie e grandi soddisfazioni, ma non si può dire che faccia bene alla salute, la quale non è necessariamente il valore più alto da perseguire. Per questo è discutibile lo spirito che ha mosso la legge 376 del 2000 porta sia modelli di eccellenza e obbedienza a regole, sia il conseguimento di determinati valori «interni» alla pratica stessa, da non confondere con quelli che sono invece «esterni». Se, poniamo, voglio diventare un calciatore, debbo possedere determinate doti tecniche e atletiche, allenarmi con passione, sottomettermi a una rigida disciplina; debbo, in altre parole, applicarmi nel gioco del calcio, anche se potrei essere attratto so-
prattutto dal successo, dal denaro o dal prestigio che penso di ricavarne. I primi sono valori interni alla pratica, i secondi sono invece esterni. L’aspetto importante riguardo ai valori interni alle pratiche è che essi, per essere conseguiti, implicano l’esercizio di determinate virtù (la perseveranza, la giustizia, il coraggio, l’onestà, il rispetto dell’avversario, il senso dell’onore, ecc.), grazie alle quali impariamo anche a ri-
conoscere i talenti e i meriti degli altri, diciamo pure, che cosa è dovuto a chi. Occorre essere onesti per riconoscere che gli avversari hanno giocato meglio di noi; allenarsi con perseveranza e sacrificio è un dovere nei confronti di se stessi e dei compagni di squadra; lo stesso dicasi per la lealtà, il coraggio e via di seguito. Questo ovviamente non significa che i mediocri o i meschini non possano battere tutte le strade possibili e immaginabili per affermarsi in una determinata pratica. Ma essi possono farlo soltanto finché la pratica continuerà a sopravvivere grazie alle virtù di coloro che si applicano in essa, guardando soprattutto ai suoi valori interni. I molti adolescenti che vogliono diventare calciatori, mossi non tanto dal desiderio di emulare le giocate straordinarie di Maradona, quanto dal denaro o dalle veline che ne verrebbero, e che, spesso incoraggiati dai genitori, fanno di questo l’essenziale della loro vita, rappresentano non soltanto la crisi di una «pratica», nella quale i valori esterni hanno preso il sopravvento su quelli interni, ma anche la crisi di una società che, colonizzata dal denaro, dalla lussuria e dal potere, direbbe Eliot, non riesce più ad apprezzare altro. Qui davvero possiamo dire che lo sport appare come lo specchio di una dimensione sociale più vasta che sta contaminando un po’ tutte le «pratiche» della nostra vita. Eppure, proprio per questo, proprio per arginare questo fenomeno, potrebbe essere utile non perdere di vista i valori interni dello sport, il «capitale sociale» che essi potrebbero rappresentare anche al di fuori, magari per non dimenticare mai che nella vita ci sono cose ben più importanti di quelle che avvengono in un qualsiasi stadio.
Lo sport, come si dice, è una metafora della vita; non viceversa. Se accade che la vita diventa una metafora dello sport, allora vuol dire che entrambi hanno perduto il loro senso più profondo e bisogna correre ai ripari. A questo proposito penso a uno dei film più belli che siano mai stati realizzati su argomenti sportivi: Momenti di gloria. Il film, come è noto, ruota intorno alla preparazione e alla partecipazione della squadra della Gran Bretagna alle olimpiadi parigine del 1924. Tutti gli atleti, seppure in modi diversi, hanno investito tempo e sacrifici per prepararsi al meglio al grande evento. La vittoria è l’obbiettivo esaltante a cui giustamente ognuno di loro tende. Ma, alla fine, e qui sta la grandezza del film, vittoria o sconfitta non sono «tutto». Si può cadere, rialzarsi e perdere, come nel caso del mezzofondista, e trasformare la sconfitta in una dimostrazione di forza a se stessi e agli altri; si può vincere l’oro olimpico nei cento metri piani, come nel caso dell’ebreo Habrahams, e scoprire che questo non cancella le inquietudini e le insoddisfazioni di una vita; infine, come nel caso del pastore protestante Liddel, si può fare dell’oro olimpico una forma di testimonianza di qualcosa di più grande, di una sorta di «corona incorruttibile», direbbe San Paolo, che, anziché sminuire, rende ancora più belle quelle «corruttibili». Lo sport - questo un po’ il messaggio - è una «pratica» esaltante, ma soprattutto è esaltante il suo collegamento a qualcosa che è più grande e più bello ancora. Qualcosa che non è certo la salute, né il denaro, né il potere.
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Pop
musica
Bob Geldolf: Africa, MONEY & ROCK ’N ROLL di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi chi se li dimentica più? Ricordo l’imbarazzo di quel negoziante di dischi che mi allungò di soppiatto il loro primo ellepì che in copertina li ritraeva pittati e agghindati come certe drag queens della Factory di Andy Warhol. Nel 1973 e nel ’74, stracarichi di fondotinta e con le zeppe ai piedi, i New York Dolls si mettono a sparare un rock & roll al vetriolo (Personality Crisis, Trash, Bad Girl) che anticipa i violenti ceffoni punk. L’album di debutto, che le canta chiare e tonde al glam rock inglese di David Bowie e T. Rex, si chiama come loro. Il secondo, s’intitola Too Much Too Soon. Poi si sciolgono in un lampo. Passano trent’anni, e nel 2004 Morrissey (già cantante degli Smiths) propone alla band di riunirsi al Meltown Festival di Londra per un solo concerto. Rispondono all’appello il vocalist David Johansen (che dopo l’incipriata esperienza con le «bambole» aveva inanellato rock dei bassifondi, lounge music come Buster Poindexter e blues), il chitarrista Sylvain Sylvain e il bassista Arthur «Killer» Kane. Johnny Thunders (chitarra) e Jerry Nolan (batteria) sono da tempo morti e sepolti via overdose. Il concerto, comunque, si fa. E funziona talmente bene da meritarsi il cd Live From Royal Festival Hall, 2004. C’è poco da festeggiare, però: Arthur Kane, riguadagnato il palco, felice come una Pasqua, raggiunge Thunders & Nolan lassù in cielo. Addio New York Dolls? Giammai. Johansen & Sylvain, nel 2006, fanno il lifting al gruppo con quattro baldi giovanotti, entrano in sala d’incisione e scolpiscono il rock duro e puro di One Day It Will Please Us To Remember Even This. Poi, raggrinziti ma pimpanti, nel 2009 tornano alla carica con ‘Cause I Sez So, prodotto da quel mattacchione di Todd
no conforto al core le ultime dichiarazioni di Bob Geldof, una volta bello e figo dei Bontown rats, poi messia della salvezza alimentare con Live Aid, infine bello e d’annata del music business. Il suo ultimo disco si chiama How to compose popular songs that will sell: come comporre canzoni pop che venderanno. A parte che i titoli beneauguranti di solito non funzionano (vi dice niente il caso Una bella canzone di Flavia Fortunato? Se non vi dice niente vi è andata bene). Geldof già dal nome del disco confessa l’insana passione per (o bisogno di) soldi. Si colloca quindi nel filone delle rockstar pure, cioè venali. Sesso, droga e rock costano. Poi aggiunge: «Il rock è il prisma da cui guardare la società, è un linguaggio universale che le nuove generazioni hanno perso. O forse faccio queste considerazioni perché sono io che sono troppo vecchio, ho quasi sessant’anni». E si dice pure vecchio. Se continua così prenderà nel nostro cuore il posto di Keith Richards, gli manca solo un pizzico di cattiveria. Rovinano tutto gli intervistatori che, parlando con l’attivista e l’ideatore di Live Aid si sentono in dovere di fare domande social-geopolitiche. Alle quali Geldof risponde: «Bisogna connettersi al mondo africano e aiutare le persone nei loro Paesi, investire in un’economia crescente, entro il 2040 l’Africa sarà al centro del mondo. Le tre parole cardine sono cooperazione, consenso, compromesso. Invece la politica occidentale non va oltre il suo ombelico. L’America è stanca di essere l’America e non esiste una vera leadership europea. Se l’avessimo avremmo anche un futuro. Questo è il momento storico giusto per essere vitali e noi stiamo a guardare». E sembra perfino un discorso sensato, ma che poteva tranquillamente fare Lucio Caracciolo, direttore di Limes, o il grande scenarista americano Parag Khanna. Dal musicista preferivamo musica e sincero culto dell’io.
U
E
Jazz
zapping
I New York Dolls
dai tacchi alle ballerine Rundgren, già «colpevole» della glam revolution di New York Dolls. Ci ha ormai preso gusto, la coppia rock che in realtà non è mai scoppiata: incide un disco, dà una bella riverniciata al logo e se ne va in tournée. Non incassano cifre stratosferiche, David Johansen e Sylvain Sylvain. Mai successo, nemmeno per sbaglio. Ma chissenefrega: l’importante è soddisfare i fans che li seguono da una vita. Capiterà anche stavolta, che in gioco c’è Dancing Backward In High Heels suonato con Frank Infante (chitarra), Jason Hill (basso) e Brian Delaney (batteria). Disco urticante in almeno tre pezzi (Talk To Me Baby, con riff chitarristico alla T. Rex e wall of sound alla Phil Spector; I’m So Fabulous e Round And Round She Goes, gemelli rock & roll nel più classico Dolls Style) e per il resto vintage: nel senso che Johansen & Sylvain saltano da una
cotta giovanile all’altra. Streetcake, ad esempio, è tutta giocata alla maniera dei gruppi femminili anni Cinquanta e Sessanta (Ronettes, Shirelles, Shangri-Las, Supremes…) che tanto ispirarono i New York Dolls di Too Much Too Soon, così come la cover di I Sold My Heart To The Junkman (1962, Patti LaBelle & The Bluebelles). E fra due reggae come Baby, Tell Me What I’m On e End Of The Summer che David Johansen padroneggia con enfasi da crooner e coretti doowop, s’infilano il caracollante blues di Kids Like You addomesticato dalla slide guitar; la ballata per cuori infranti You Don’t Have To Cry, fra Willy DeVille e i Rolling Stones; il rhythm & blues di Funky But Chic, che l’istrionico Johansen ha ripescato dal primo disco solista del ’78. Le bambole di New York sono scese dai tacchi a spillo per infilarsi le ballerine. Ma è sempre un gran piacere ascoltarle. New York Dolls, Dancing Backward In High Heels, Blast Records, 18,90 euro
Quando Django e Stéphane suonavano la Marsigliese arà l’Inno nazionale la «colonna sonora» della prossima edizione di Umbria Jazz. Tutti i musicisti italiani presenti a Perugia, fra l’8 e il 17 luglio, dovranno dare una loro interpretazione di quella composizione che due patrioti genovesi, Goffredo Mameli e Michele Novaro, scrissero nell’autunno 1847 e che il 12 ottobre 1946, dopo che gli italiani per quasi un secolo hanno dovuto ascoltare la Marcia Reale e per oltre vent’anni Giovinezza, venne scelto per diventare il nostro inno nazionale. I musicisti italiani dunque all’inizio di ogni loro concerto, sia che si tenga in teatro, all’aperto o in qualche ristorante dovranno eseguire l’Inno di Mameli con tutti i presenti rigorosamente in piedi. Ascolteremo dunque almeno una trentina di versioni del nostro inno patrio, da parte di Renato Sellani, Franco D’Andrea, Danilo Rea (che ne ha dato la sua versione in anteprima durante la conferenza stampa
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di Adriano Mazzoletti svoltasi la settima scorsa a Roma), Flavio Boltro, Rosario Giuliani, Fabrizio Bosso, Francesco Cafiso, Antonello Salis e tanti altri. Ognuno di loro eseguirà quelle note che imbarazzano non poco i nostri calciatori quando debbono cantarle durante gli incontri internazionali. È questo dunque l’omaggio (come già abbiamo accennato in un precedente articolo) di Umbria Jazz per il 150° anniversario della nostra nazione. Fortunatamente questa ricorrenza non è caduta negli anni Settanta, quando i nostri musicisti erano impegnati a emulare più o meno fedelmente (forse meno che più) i creatori del free. Quelle esecuzioni sarebbero probabilmente state oggetto di molte interrogazioni parlamentari. Vilipendio al-
la Bandiera, vilipendio all’Inno nazionale. A questo proposito vorrei ricordare un illustre precedente. Lo scoppio della seconda guerra mondiale sorprese il celebre Quintette du Hot Club de France a Londra. Immediatamente dopo l’annuncio della dichiarazione di guerra, Django Reinhardt e gli altri tre musicisti manou-
che fecero le valigie e tornarono velocemente in Francia, mentre Stéphane Grappelli preferì rimanere a Londra. La guerra fu lunga e terribile. Django e Stéphane non ebbero più nessun contatto per oltre cinque anni. Pochi giorni dopo la fine del conflitto, Django si recò a Londra ansioso di vedere il suo vecchio amico. L’incontro avvenne nella camera d’albergo che Stéphane occupava da cinque anni. I due amici si guardarono e senza dir nulla presero gli strumenti ed eseguirono La Marsigliese. Qualche mese dopo registrarono su disco quella versione jazzistica del loro inno nazionale. Il generale Charles de Gaulle vietò che quell’esecuzione «blasfema» fosse trasmessa dalla radio. Per diverso tempo la Marseillaise di Django e Stéphane non venne pubblicata e solo in qualche edizione estera il disco uscì con il titolo Echoes of France. Indubbiamente il mondo è fortunatamente cambiato.
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arti Mostre
è una parola insopportabile del gergo espositivo contemporaneo, che ha preso sempre più possesso in quelle pappette tipografiche o internautiche, che sono i comunicati stampa e che dilagano come invadenti tsunami per le lenzuolate quotidiane di mail. Una paroletta presunta magica, che va via via sostituendo un altro non meno insopportabile tic linguistico, che è la chicca. Per cui fino a poco tempo fa non c’era telefonata di molesto ufficio stampa, che non ti promettesse un’assicurata kikka tutta forgiata privilegiatamente per te, mentre, ovviamente, se tutto diventa kikka la kikka non ha più senso d’esistere. Ora invece la sostituta parola dilagante, che non demorde e che arroventa l’eloquio di pr e galleristi e infioretta lo smorto stile-comunicato-mail, parrebbe esser diventata il sesamo international: site specific. Per cui qualsiasi ruttino o sbadiglio o prodigio concettuale emetta un artista (qualsivoglia in qualunquanda galleria) è già in sé e di per sé, magicamente: site specific. Cioè creato e progettato e meditato e misurato appositamente per quell’istesso luogo, sfruttando pieghe e anfratti e gradini di quel sito specifico (perché non è poi che il termine in originale, in sé specifico, voglia dire poi molto di più). Come se poi un vecchio artista volpone e non già in vena di snobismi (dell’ancora inesistente critichese) non avesse, da sempre, prodotto e prescelto opere che andavano miracolosamente a incasellarsi in quella parete, sì proprio quella (versione casalinga del vantato specifico), in quel preciso contesto, in quella logica, non soltanto architettonica, della galleria prescelta. Allora, sia lode alla sempre propositiva Galleria Franco Noero di Torino, che ci fa grazia dell’inflazionata formula, testè svillanaggiata, epperò ci propone una bellissima e levitante e profumata mostra, che più site specific di così non si potrebbe. E bisogna anche ammettere che di gallerie, così particolari (come sito) e così «specifiche» (come caratteristiche pressoché uniche) c’è da giurare che non ne possono certo esi-
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Moda
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Gli alberi della vita di Henrik Hakansson di Marco Vallora stere altre, di simili, nel mondo, da poter replicare l’effetto, seducentissimo. Perché la Galleria Noero ha sede nella cosiddetta «Fetta di Polenta» dell’eccentrico architetto Antonelli, sì lo stesso della Mole Antonelliana e del San Gaudenzio di Novara, ed è già di per sé un eccezionale sito «specificientissimo», che - come rivela l’affettuoso nomignolo popolare - sottilissima, esile, tagliata da un’immaginario salumajo celeste ed edilizio, quasi fosse una fetta di condominio umbertino, da sbattere sul bancone della via e avviluppare con grazia pedementona, si sviluppa in allampanata altezza e in una strettissima dimensione di larghezza. Come se si salisse avvitati dentro un mobile ospitale ma angusto, o nella cavernosa bocca d’un grande camino o d’un laico campanile. Quasi un annuncio titubante, ma promettente, di grattacielo, sparagnino e sabaudo, spiritoso e insieme avventuroso. Nell’eccentrica palazzina verticale, il gallerista ci abita, tra trafiggenti passa-vivande e angolini, riadattati a piattaie o guardaroba triangolari, che dan da ricordare la fantastica casa-museo di Soane, a Londra. E ogni tanto, a capriccio, a piani alternati, tra vecchi bagnetti pompeiani (che lampeggiano a sorpresa) e stufette bizantino-mosaicate (memoria d’un rifacimento ormai d’epoca e demenziale firmato da Mongiardino, décorateur da madame meneghine), ecco che fiorisce lo spazio espositivo della galleria. Così
non stupisce che, seguendo l’andamento a propellente celeste della casa, un artista sensibile e verde e un poco andersoniano, come lo svedese Henrik Hakansson, forse proprio tranfiando fiati tabagisti, su per le scalette da piroscafo dei nove piani della Fetta di Polenta, ha avuto questa gioiosa trovata di far attraversare l’intiera palazzina antonelliana da un’unica respirante e profumata quercia, non da ghiande ma con fogliette lanceolate, che trapana i vari pavimenti del sito e, inseguendoci nell’ardua scalata, occupa frondosamente (anzi, satura) i diversi livelli della galleria, degradando via via e poco a poco diramando (mai parola fu più acconcia) dimensione e fronde della fioritura a ombrello dei suoi rami generosi. Sin che, all’ultimo piano, ecco che non singhiozzano più che alcuni spruzzetti stanchi e isolati di foglie stentate, come una fontanella palazzeschiana, che lentamente muore, assopendosi. Ma è anche bellissimo l’avvio di quest’opera, con quel grumo lieve di radici e di tracce di terra sospesa, che non nasce banalmente dal pavimento, ma levita, in una
meditazione orientale, e pare come sospinto, pneumatico, da una propulsione intrattenibile, da «albero della vita», che lo spinge a vincere e bucare la gravità dell’architettura. Certo, non una novità assoluta - basterebbe pensare ad alcune invenzioni di décor trafiggenti del Dalì di Cadaques, o a certe soluzione naturalistico-architettoniche di Wright, Ambasz e Barragan. Al Merzbau di Schwitters o all’ulivo sospeso con radici di Cattelan, molto più sussiegoso e ideologico, e va da sé all’opera-bussola di Penone, ma Hakansson ha anche la decenza di ammetterlo, proprio facendo riferimento alla sua nascita - 1968 - e all’orma degli anni dell’Arte Povera: figlio d’uno strano incrocio tra il Calvino del Barone rampante e le verdi intuizioni di Penone.
Christian Dior, la grandeur dell’architetto delle donne destino che in questa primavera Dior debba tenere banco. Primo, per il licenziamento del geniale direttore creativo John Galliano (beccato al caffè, mentre ubriaco insultava una donna, che poi non era neanche ebrea) proprio alla vigilia della sfilata, meravigliosa: 62 uscite, abiti leggeri in mussolina, pelle e colori cupi nelle stole di pelliccia e delle cappe di giorno, per una donna modernissima, molto vestita e anche poco vestita quando serve. Secondo, per la mostra Inspiration Dior nelle sale spettacolari del Pushkin Museum di Mosca dal 28 aprile al 24 luglio. Ogni abito rimanda a un pittore - Giovanni Boldini, per esempio, con le sue eleganti signore drappeggiate dentro tessuti sensuali, impalpabili - o Matisse con le sue curve, o Picasso, con le sue geometrie, però ci sono mille altre citazioni, legate ai fiori, ai giardini, alla storia francese e al suo spirito grandeur. Sì, perché a Christian Dior, classe 1905, architetto mancato, illustratore per necessità
È
di Roselina Salemi (il crollo di Wall Street del ‘29 aveva rovinato la sua famiglia), gallerista per passione (ha esposto i moderni: De Chirico, Utrillo, Braque, Fernand Léger), stilista geniale uscito di scena troppo presto (un infarto a 52 anni, nel 1957), è riuscito a costruire l’identità femminile del secondo dopoguerra. Al contrario della sua collega-rivale Coco Chanel, che creava abiti comodi per donne liberate, nel ‘47 venne fuori con la stupefacente Ligne Corolle che Carmel Snow, direttore di Harper’s Bazar, battezzò New Look. Dimenticata l’austerità, Dior aveva disegnato una creatura romantica, con la vita sottilissima, strizzata in un bustino, enfatizzata da gonne immense, provocatoriamente fruscianti, che arrivavano a 25 centimetri dal pavimento. Dei suoi successori, John Galliano è stato di sicuro il più capriccioso, visionario, creativo. Preceduto dal motto «Che noia la sem-
plicità! Spesso le cose di cattivo gusto sono le più divertenti», ha trovato ispirazione nei dandy, nelle donne Masaï, nelle principesse del Rajastan, nel rap del ghetto, nelle dive dell’opera lirica, nelle geishe, nelle signore del burlesque o addirittura, criticatissimo, nei clochard. Senza tralasciare l’arte, la musica, i costumi dei pirati, incarnando lo spirito Dior che ritroviamo a Mosca. Il percorso della mostra rende omaggio alle muse, alle dive degli anni Settanta e a quelle contemporanee, come Penelope Cruz, recupera memorabilia accanto a gioielli, orologi e profumi ormai introvabili e pezzetti di storia nostalgica. Per esempio c’è la foto «Dovima con gli elefanti», scattata da Richard Avedon nell’ormai lontano 1955. Ci sono i leggendari vestiti, dove Christian Dior metteva 20 metri di stoffa. E c’è, anche se involontaria, la sensazione che quell’epoca, romantica, eccitante, sia finita per sempre. Certo, c’è sempre un bouquet di venerate testimonial, c’è la nuova, scintillante Natalie Portman fresca di Oscar, la sempre trasgressiva Kate Moss, un mito intramontabile, la bionda Charlize Theron di J’adore. Ce n’è abbastanza per mantenere vivo il sogno. Ma la multinazionale del lusso Lvmh, proprietaria del marchio, non può che celebrare i suoi anni d’oro, mentre cerca un altro stilista per far dimenticare John Galliano.
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il paginone
Sua Maestà Franz Liszt di Pietro Gallina e musicista deve esser scelto a rappresentanza dell’Europa in quanto uomo europeo e cosmopolita, quello deve essere senza il minimo dubbio Franz Liszt! Alcune nazioni già se lo contendono per offrire i migliori concerti ed eventi e festeggiare così in grande stile il bicentenario dalla nascita del più grande pianista della storia. L’Anno di Liszt è stato inaugurato soprattutto dall’Ungheria, ma appunto nazioni come Francia, Austria, Germania, Slovacchia, Gran Bretagna, Usa e Italia hanno già cominciato a offrire eventi di rilievo, maratone pianistiche, inzeppando di musiche lisztiane i calendari delle stagioni concertistiche e i programmi radiofonici di mezzo mondo. Ma perché questa contesa? Per motivi biografici. Nacque (1811-1886) a Raiding nella contea di Sopron allora Ungheria, ma riannessa all’Austria nel 1920. Padre e madre di ceppo austriaco e in famiglia si parlava solo tedesco. Dodicenne è già acclamato a Vienna, Baden, Bratislava, Ödenburg: un fanciullo prodigio per il quale il principe Esterházy e altri nobili ungheresi offrirono una borsa per farlo studiare sei anni. La strada di Parigi è aperta. Arriva nel 1823 e nei salotti frequentati da tutti i grandi nomi dell’arte, è sempre grande trionfo. Gli piace, per darsi un tocco esotico, dichiarare a tutti: Je suis hongrois! Invece il francese che imparò subito, lo usò come sua prima lingua dopo il tedesco, mentre la sua conoscenza dell’ungherese fu sempre approssimativa. Dal 1839 al 1847, in otto anni di viaggi intensi, percorse tutta l’Europa, dal Portogallo alla Russia alla Turchia e cosa unica in ogni nazione visitata c’è un pianoforte-reliquia da lui suonato oltre ad amanti e allievi lasciati in loco. Poi comincia a vivere lunghi periodi tra Weimar, Bayreuth, Roma. Dal 1861 fino alla morte, Roma è la città dove prenderà i voti e indosserà l’abito talare con il desiderio di diventare, dopo l’incontro con Pio IX, compositore ufficiale del Vaticano. La nomina non la ottenne mai e anche se deluso
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non disdegnava di alloggiare nella Villa d’Este di Tivoli ogni volta messa a sua completa disposizione. Invece un’altra nomina giunge (1871): consigliere reale dell’Ungheria con 4000 fiorini di stipendio. Liszt da allora non fece altro che viaggiare tra l’Italia, l’Ungheria e la Germania definendo quella vita «triforcuta», senza una nazione che prevalesse, cittadino d’Europa, «mezzo tzigano e mezzo francescano». Franz Liszt è noto come il grande pianista virtuoso, meno come compositore di musica sacra, da camera, per orchestra. Non tutti sanno per l’appunto che è stato uno dei compositori più prolifici degli ultimi tre secoli con 1400 numeri d’opera che abbracciano quasi ogni genere musicale. Incisioni e concerti in programma, però, scandalosamente riguardano sempre i celeberrimi pezzi pianistici, una sparuta quantità della produzione totale. Liszt è dunque un autore che, sebbene popolarissimo, rimane ancora tut-
smo paganiniano e la melodia del belcanto; dalla Germania forma e costruzione sinfonica; dalla Francia i colori crudi del suo Romanticismo, spesso violento ed esuberante; dall’Ungheria i melismi zigani e le visioni di stravolte czárdás; dalla Polonia gli impeti delle Polonaises filtrate attraverso Chopin; dalla Russia gli accenti e i ritmi orientali. Questo è il sunto delle motivazione per le quali solo Liszt può essere davvero nominato musicista europeo per eccellenza. Questo è il messaggio che l’Ungheria vuole passare proprio nel semestre in cui ha acquisito la presidenza dell’Europa: rivendicare Liszt, attraverso i grandi festeggiamenti organizzati per il bicentenario, suo figlio prediletto; ma, come si è visto, non lo è stato mai completamente. A Mario Bortolotto - musicologo e storico della musica, Accademico di S. Cecilia, collaboratore di diverse riviste e quotidiani (dall’Europeo alla Repubblica, Piano Time, Amadeus e
parte del piccolo Liszt fu sempre modesta. Più tardi prese lezioni quando i nobili ungheresi gli offrirono un titolo nobiliare con la consegna della spada. In questo caso egli arrivò effettivamente a biascicare alcune frasi in ugherese. Come d’altronde fece la principessa Sissy, ottimamente preparandosi il discorso... il popolo andò in delirio sentendola comunicare nell’idioma ungherese. Arrivato giovanissimo a Parigi egli non diceva di essere austriaco, era fiero
Sebbene popolarissmo, è ancora tutto da scoprire. Le donne, la tastiera e il pentagramma furono i leitmotiven della sua vita. In fatto di musica è stato uno degli uomini più colti mai esistiti: un vero imperatore
to da scoprire. Già in vita molte sue composizioni si scontravano contro un muro di incomprensione per la loro modernità, lasciando tiepidi perfino gli amici: da Berlioz a Schumann, a Wagner. Era una musica che spezzava le barriere nazionalistiche, costituita da apporti di tutte le culture, alfine di forgiare con audacia il nuovo linguaggio musicale europeo. Liszt infatti ha tessuto come nessun altro il vessillo della musica europea, fatta del suo patrimonio colto e popolare: dall’Italia gli deriva il virtuosi-
attualmente collaboratore del Foglio), autore di otto libri fondamentali (quasi tutti pubblicati da Adelphi, l’ultimo è Corrispondenze del 2010) rivolgiamo alcune domande su Liszt in occasione de bicentenario della nascita. Le celebrazioni dei centenari di artisti, personaggi e fatti del passato a volte possono essere noiose o banali, a volte invece possono stimolare nuove perlustrazioni nella vita e nell’opera del celebrato: adesso è il turno di Ferencz (o Franz) Liszt. Anzitutto dobbiamo dire Franz e non Ferencz! Egli si chiamò così per tutta la vita anche se nacque in Ungheria, ma sua madre era tedesca e tedesco si parlava in casa, tanto che la conoscenza dell’ungherese da
di gridare nei salotti Je suis hongrois! Certamente! In quegli anni a Parigi faceva molto esotico venire dall’Est o da Paesi come l’Ungheria... come le sue Rapsodie che si chiamano ungheresi, quando tutti sanno che di ungherese non c’è nemmeno una nota. Sono di carattere zingaresco, molto simpatiche e gradevoli, ma si tratta di zingari e non di ungheresi o magiari che sono tutt’altra cosa. Listz è un compositore «anomalo» nel panorama ottocentesco? Ritengo che il cammino della musica nell’Ottocento sia affidato a mani austro-tedesche. È l’unica parte del mondo che non abbia mai saltato una generazione - da Schütz a Stockhausen - senza produrre un grande compositore. Accan-
to a questa tradizione vi sono apporti provenienti da altri Paesi, ed è molto curioso che alcuni tra i musicisti più innovativi provengano da terre non austro-tedesche; ne nominerei tre: Chopin, Berlioz e Liszt. Non ve ne sono altri che abbiano deciso in maniera così tranchante sul linguaggio musicale. Questi hanno dato un contributo che benché notevolmente «anomalo», ha portato sapori e profumi diversi nella casa della musica degli austrotedeschi. Liszt in particolare rappresenta con la sua musica una specie di condimento comune in tutto il Romanticismo, che egli ripensa quando è ancora in corso e ne riassume la storia. La Fantasia sulla Norma di Bellini è più bella di qualsiasi cosa che Bellini abbia anche vagamente sospettato. Strawin-
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Nato in Ungheria, lingua madre il tedesco, di casa a Parigi, Roma, Weimar e Bayreuth. Ha forgiato con audacia, spezzando le barriere nazionalistiche, il nuovo linguaggio musicale d’Europa che nessuno meglio di lui può rappresentare. Nell’anno del bicentenario della nascita, la gara a chi lo celebra meglio è già cominciata. Ne parliamo con Mario Bortolotto
A sinistra, un’immagine di Franz Liszt che sarà esposta, dal 13 aprile al 5 giugno, a Villa D’Este a Tivoli (dove il musicista soggiornò lunghi periodi, componendovi gran parte delle sue opere di ispirazione religiosa), nella mostra “Franz Liszt nelle fotografie d’epoca della collezione Ernst Burger”. Nell’anno del bicentenario, la mostra è l’evento di apertura di “Franz Liszt un abate a Villa d’Este”, una serie di eventi dedicati al compositore che si svolgeranno nell’arco di tutto il 2011. A destra, Liszt in uno scatto di Nadar. In basso, un ritratto giovanile del Maestro, sua figlia Cosima e suo genero Richard Wagner
sky e Liszt sono in questo senso paradossalmente vicini: si sono posti come problema fondamentale il comporre su musiche altrui. Di Liszt vengono eseguite in concerto solo una parte delle opere pianistiche, quelle per orchestre quasi mai: come si spiega? Effettivamente è una lacuna che la vita concertistica sta già pagando. Ma anche per quanto riguarda il pianoforte ci sono opere dell’ultimo Liszt che hanno carattere sperimentale e che lui ha scritto per sé e per pochi altri e che non vengono mai eseguite. Da noi è da anni che le diffonde Michele Campanella, un pianista che si è dedicato totalmente al pianismo lisztiano (autore di un libro appena uscito, edito da Bompiani, Il mio Liszt - Considerazioni di
un interprete, ndr). Tuttavia tali musiche aspettano una nuova perlustrazione e non tutte sono destinate a una grande popolarità per la semplice ragione che mentre le Rapsodie Ungheresi sono alla portata di chiunque abbia un minimo di sensibilità musicale, i lavori dell’ultimo periodo invece (come La Gondola Funebre, Richard Wagner a Venezia o la czárdás Macabre, che dispiacque molto a sua figlia Cosima e non meno al genero Wagner), non son nate né per le orecchie di Cosima, né per altre «signore». Liszt era inviso a Toscanini che non apprezzava la sua musica, insieme a molti altri che lo consideravano un musicista debole che si pavoneggiava
usando motivi celebri di altri compositori e trasformandoli in Reminiscenze, Trascizioni, Fantasie, Parafrasi. Un debole e un parassita? Che le composizioni di Liszt non siano tutte stratosferiche e che ce ne siano nella sua sterminata produzione molte deboli non si può negare... Ma da qui ad affermare che si appropriava di musiche altrui mi pare esagerato. Quello che lui prende dall’aria di un’opera o dai concerti o pezzi famosi del suo tempo - materiale musicale che ha già una sua forma e un suo essere melodico - passando nelle sue grinfie, pur rimanendo riconoscibili le melodie, viene trasformato in qualcosa di assolutamente suo, lisztiano, che perde il legame coll’originale e diventa assolutamente un’altra cosa. L’ottimo risultato giustifica quindi il procedimento. Anche coloro ai quali non piace Liszt in proprio, quello
della Sonata in si per esempio, devono chinarsi di fronte alla sua straordinaria maestria nel trasformare brani altrui. Cito sempre la Réminiscences su motivi della Norma di Bellini: nel famoso finale dell’opera «Ah Troppo tardi t’ho conosciuta», Liszt aggiunge nel pianoforte, ben inteso, un rullo di timpani nell’ottava bassa, il quale è a tal punto straordinario e di miracolosa esattezza che riascoltare la stessa musica come l’ha scritta Bellini è davvero impossibile! Tra Liszt e Wagner pare esserci tanta vicinanza eppure tanta distanza: uno cosmopolita ed europeo, l’altro sulla strada della germanizzazione della musica. Quanto deve Liszt a Wagner e quanto Wagner deve a Liszt? Wagner di Liszt, anche se era suo suocero, non apprezzava quel modo di ficcare il naso in tutte le musiche, scrivere pezzi ungheresi, trascrizioni di arie italiane, musica leggera francese... Wagner, nonostante riconoscesse la grandezza di Liszt, era determinato, sul suo cammino dalla Tetralogia al Parsifal, a scrivere la musica in quel suo nuovo stile e basta! Mentre Liszt ha sempre generosamente apprezzato Wagner, aiutandolo spesso con tanti consigli, temi, idee musicali... Dunque credo che Liszt a Wagner non debba nulla! È semmai l’opposto, molte cose che son dette wagneriane - armonie, successioni di accordi - sono in realtà lisztiane. È noto che il celeberrimo tema del «sonno» della Walküre fu scritto su una cartolina da Liszt e inviato a Wagner il quale ne fece appunto nientemeno che la scena conclusiva della seconda giornata del Ring. Liszt poi precede già Wagner nella Sonata in si minore dove sfoggia armonie wagneriane quando le cosidette tali erano ancora in mente di Dio e di Wagner.
Ciò che conta di più, però, da un certo punto in poi, è invece il distacco da Wagner: quando Wagner diventa celebrativo (Parsifal), tanto più Liszt diventa allusivo, aforistico, balenante, con una carica di sfacelo formale che Wagner ignora, ma che è pronta a passare ai primi che ascoltano: ai russi fino a Scrjabin, Debussy, più tardi la Scuola di Vienna e Bartok. Liszt mondano: salotti, donne, abito talare. Un mattatore? Sì, era un uomo molto acceso, con vivissimo colore romantico, un dandy. Il ritorno alla religione confessionale poi andava in voga; è la «religione d’arte» di cui parla Remy de Gourmont. Si sa anche che SainteBeuve disse di Chateaubriand: Il croit croire. Successe anche a Liszt e il suo cattolicesimo romano gli diece tutto un froufrou, un profumo attorno, proprio come le sottane che indossò nell’ultima parte della sua vita e che non valevano meno delle sottane di infinite signore - dalla Francia al Caucaso - che egli si affrettò a togliere, quando fu il caso, prima e dopo i suoi ordini sacerdotali. Già suo padre lo avverti da piccolo: «Temo per te le donne». Le donne, la tastiera e il pentagramma furono i leitmotiven della sua vita e rimane ancora sbalorditivo immaginare dove egli prendesse il tempo necessario per queste sue attività, se si tiene conto del numero impressionante di musiche composte, in più vanno contate le infinite ore di lezioni a pianisti di tutta Europa che dava senza voler essere pagato. Fu un uomo di una generosità unica, di una apertura mentale esemplare, era disposto ad accogliere qualsiasi elemento della musica che amava di un amore profondo e universale, conoscendo a menadito tutto quello che era possibile sapere in quegli anni. È stato uno degli uomini più colti in fatto di musica che la storia abbia mai conosciuto. Dovunque per lui erano trionfi: un vero imperatore della musica.
Narrativa
MobyDICK
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Dopo la Bosnia di “Venuto al mondo”, l’intenso corpo a corpo di una coppia in disfacimento. Senza esclusione di colpi
l passo marziale, a cui sembrerebbe appartenere quello di Margaret Mazzantini, giustificherebbe l’espressione «Margaret va alla guerra», per definire ancora una volta l’ultimo romanzo, fresco di stampa, Nessuno si salva da solo. Una parafrasi, la guerra, di un pensiero profondo dell’autrice che, per spiegare le sue opere, non ha esitato a parlare della scrittura non solo come di una necessità, ma anche come di un acerrimo confronto con la realtà. Sarà questo il motivo per cui nell’affrontare il commento all’ultimo testo, ci è difficile non pensare al precedente Venuto al mondo, al suo mondo guerresco ma senza mitologie, solo la cruda realtà della guerra bosniaca, della odissea dolorosa e improvvisa di Sarajevo. Ora quella guerra, giocata allora su uno scacchiere internazionale, si trasferisce, nell’impeto e nella violenza, intorno allo stretto e vincolante tavolo di una trattoria romana, «uno di quei posticini di tendenza… i tavolini ballano un po’ sull’asfalto irregolare». Una battaglia coniugale, delle tante disseminate nel mondo, così come i tanti focolai accessi nel pianeta di guerre dimenticate. Difficile non pensare allo scarto di scala, non come giudizio di valore ma di misura, la misura con cui uno scrittore definisce la propria grandezza ed efficacia. Anche con questi scarti, dallo scenario globale al sistema chiuso e infinitesimale di una coppia e di una famiglia. Una guerra di posizione è quella che giocano i due protagonisti di Nessuno si salva da solo, tutta consumata in una serata attorno a un piccolo tavolo in uno spazio per lo più estraneo e definito, con accanto altre forze, uguali e contrarie che avranno un ruolo d’eccezione nella storia: «li hanno strizzati in
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Riletture
libri Margaret Mazzantini NESSUNO SI SALVA DA SOLO Mondadori, 189 pagine, 19,00 euro
manzo per questo essenziale, con poche figure, tranne che per la coppia di anziani che mangia nel tavolo accanto, e per la figura della cameriera, estranea ai protagonisti, troppo conforme al mondo - «la cameriera, la pancia scoperta appoggiata al loro tavolo». Il tono del confronto alternato tra ricordi, rapidissimi flashback, è duro. Una sorta di monologo interiore, franto e scomposto tra presente e passato, tra emozioni, rabbia e brevi dialoghi. Un discorso viscerale e brutale, ricco di espressioni gergali e volgari. I due si affrontano pieni di rabbia, ognuno rinfaccia all’altro il fallimento di un amore e la fine di una famiglia. Tutto durante la cena, le pause sono per mangiare, per bere un sorso, ma per il resto è in scena una rabbiosa guerra. Una storia che contiene l’universo delle storie d’amore, una storia universo, con al centro due persone che «da ferme» raccolgono e spiegano la loro storia, il loro passato, le relazioni di una vita, i particolari minuscoli disseminati nel logorio quotidiano. Ecco come una storia che sembrerebbe racchiusa in poche ore si dilata fino a comprenderne tante. Con il tratto proprio della Mazzantini, la durezza dello sguardo sulla realtà accompagnato da uno stile impietoso. Il romanzo, che ha tensione morale, allude non tanto al lieto fine quanto all’apertura verso un mondo parallelo e diverso come quello rappresentato dal tavolo accanto, una coppia speculare, vecchia e felice. Proprio la coppia accanto, una sorta di romanzo parallelo muto, diventerà la sorpresa per la fine della cena e della storia. Nessuno si salva da solo è la dimostrazione di una grande perizia costruttiva che non deve cedere il passo al pericolo dell’autocompiacimento.
Margaret torna alla
guerra
di Maria Pia Ammirati quel tavolino con i sottopiatti di carta da macelleria, in mezzo al bordello… non si condisce il disamore con il buon vino». Il passaggio dunque è come se fosse progettato dall’autrice più che per esibizione virtuosistica per una sorta di sfida: misurarsi col breve spazio nel più breve tempo, ma dilatando al massimo le due categorie. Gaetano e Delia, due giovani, esuberanti di vita, sposati per amore, genitori di due piccoli, si affrontano a cena per sancire il fallimento del loro amore e definire i confini delle legittime proprietà dopo la separazione: i figli. Il loro incontro è il romanzo, la cena (acqua vino primo secondo dolce) è il romanzo. Un ro-
L’Italia, un vecchio popolo in un giovane Stato centocinquanta anni dell’Italia unita nello Stato sabaudo e la storia che ne è seguita ci obbligano a ripensare e rileggere noi stessi. Il Mulino ha dedicato una collana all’identità italiana e il primo libro è stato ora ristampato in edizione paperbacks: L’identità italiana, appunto, di Ernesto Galli Della Loggia. Un testo che prova a mettere a sistema un problema come quello dell’identità di cui gli italiani sarebbero fatti. Un compito arduo e affascinante. Per capirci: a pagina 61 si legge quanto diceva Edgar Quinet, storico francese, all’indomani del 1848: «Non si tratta soltanto di indipendenza, ma di dare vita a ciò che non è mai esistito un solo giorno: creare un’Italia, ecco il problema». Ma come, non riteniamo noi italiani che l’Italia sia una cosa antica, ma così antica che in fondo è sempre esistita? Non pensiamo che l’Italia sia la più antica tra le nazioni? La culla della civiltà? Il libro di Galli Della Loggia mette insieme queste due «tendenze»: quella di un’Italia giovane e quella di un’Italia antica, quella di un’Italia che nasce solo con il suo Stato e quella di un’Italia che è sempre esistita anche senza uno Stato. È probabile, anzi, che il
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di Giancristiano Desiderio «problema italiano» sia proprio questo: un vecchio popolo in un giovane Stato. «L’Italia -scrive Della Loggia dopo aver citato la frase di Quinet così simile a quella famosa del Metternich - tuttavia alla fine fu creata, fu creato cioè uno Stato unitario più o meno corrispondente all’intero spazio geografico italiano. Ma proprio le modalità di tale processo rivelano in pieno, grazie al loro carattere singolare, quanto colma d’incongruenze fu l’unificazione e perciò quanto stentata e faticosa doveva essere la vita della compagine nazionale e statale che ne nacque». Le «incongruenze» dell’unificazione e la vita «stentata» e «faticosa» sia del corpo nazionale sia del corpo statale costituiscono l’identità italiana. Detto in due parole: Stato e nazione non coincidono, non si incontrano e quando si incontrano non si riconoscono e se si riconoscono si sopportano male. Gli italiani non si riconoscono nello Stato ma nel Comune: l’invenzione di governo del territorio tipicamente italiana, tanto al Nord quanto al Sud (anche se al Sud in modo minore) è l’entità comu-
Incongruenze dell’unificazione nell’“Identità italiana” di Ernesto Galli della Loggia
nale, la città, il borgo. La ricchezza italiana deriva indubbiamente da qui: da qui nascono le mille Italie. Ma da qui nasce anche il pessimo rapporto tra la società e lo Stato, la periferia e il centro, le città e Roma. Galli Della Loggia dice che la «geografia dello Stato» e la «geografia della società» non coincidono. Conviene rileggere il passo dello storico ed editorialista del Corriere della Sera (cito anche il lavoro giornalistico perché in fondo non è estraneo al lavoro storiografico). Rileggiamo: «In Italia, dunque, geografia dello Stato e geografia della società non si incontrano. In generale, tutta l’offerta di novità politiche degli ultimi centoventi anni appare concentrata nell’area centrosettentrionale del pluricentrismo urbano (a cominciare dalle culture politiche per così dire «storiche» della modernità italiana - socialismo, cattolicesimo, fascismo - fino alla Resistenza e in tempi più vicini a noi alla Lega) ma questo pluricentrismo non sa, non vuole, e comunque non riesce a “farsi Stato”: certamente per propria incapacità a pensare in termini adeguati la dimensione di una statualità diversa, ma anche per la resistenza passiva che il Mezzogiorno si è ogni volta mostrato capace di opporre». È quanto accade ogni giorno sotto i nostri occhi.
Memoriette
MobyDICK
el 1950 quando si discuteva alla Camera dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, mentre era in corso l’ostruzionismo dei comunisti,Vittorio Emanuele Orlando, ex presidente del Consiglio del periodo prefascista, pronunciò un’altisonante denuncia contro De Gasperi per il suo - lo chiamava - «servilismo agli americani». Orlando era molto vecchio, novantenne, ma ancora pieno di vitalità e in grado di pronunciare un discorso a braccio. Fu quasi portato in trionfo dai comunisti. Nel corridoio del Transaltlantico Orlando si incontrò con Francesco Saverio Nitti, anche lui ex presidente del Consiglio prima del fascismo, passo passo con il suo bastoncino. Dell’età suppergiù di Orlando: non erano mai stati amici. Orlando chiese a Nitti se aveva sentito il suo discorso e cosa ne pensasse. Nitti rispose così: «Alla nostra età o dà alla testa o dà alle gambe. A me mi ha dato alle gambe!», indicando il suo bastoncino con il quale camminava con molta difficoltà. Era presente mio padre Attilio Piccioni.
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ALTRE LETTURE
L’INTRANSIGENZA DI GRAMSCI di Riccardo Paradisi
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Al banco del governo un anziano ministro democristiano sembra sonnecchiare mentre Pajetta parla. Il deputato comunista ne approfitta subito per gridare: «Ecco l’importanza che il governo dà all’opposizione. Mentre l’opposizione parla al governo si dorme». L’anziano ministro si sollevò nel busto e con voce piuttosto flebile disse: «No, onorevole Pajetta, non dormo, vorrei dormire ma la sua voce mi dà troppo disturbo». Prima delle elezioni del’48 il governo De Gasperi si presentò in minoranza alla Camera. Se avesse ottenuto la maggioranza andava alle elezioni. Il discorso conclusivo prima del voto di fiducia toccò all’on. Piccioni, allora segretario del partito. In un intervento che fu definito «storico» passava in rassegna le posizioni dei vari partiti. Tra questi c’era quello della Democrazia del Lavoro, piccolo quanto intrigante e fumoso: giunto a quel punto Piccioni fece una pausa e disse: «C’è poi la Democrazia del Lavoro. Perché parlarne?».
Un deputato era specialista di statistiche. L’on. Proia, uomo molto spiritoso e simpatico che faceva volentieri scherzi al telefono, un giorno lo chiamò e gli disse: «Ma lei fa anche le statistiche delle fregnacce che dice?».
Si dice che Mussolini avrebbe fatto questa dichiarazione: «Gli italiani non è difficile governarli, è inutile». In pieno fascismo Mussolini fece un discorso in piazza a Livorno, città rossa per vocazione. Ma Mussolini sfidando la grande massa di gente che lo ascoltava diceva: «Questa era una città comunista, poi è venuto il fascismo e le cose sono cambiate. Dove sono finiti tutti i comunisti di ieri?». E dalla piazza si levò una risposta a bassa voce: «Non lo vedi che siamo tutti qui!». Un giornalista che voleva far carriera nel Partito comunista, per iscriversi dovette riempire il modulo per definire la sua posizione politica. «Fui volontario nella guerra di Spagna» scrisse; in verità era stato in Spagna come volontario dei fascisti.
uando discuti con un avversario prova a metterti nei suoi panni, lo comprenderai meglio». Leggi queste parole e dici ma che bel liberale Antonio Gramsci, poi però continui: «Ho seguito questo consiglio, ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare questo schifo che fa svenire». A questo punto lo riconosci: è il capo dei comunisti italiani che parla la sua lingua, quella dell’odio e del disprezzo per il nemico che magari, per reazione, prova nei suoi confronti lo stesso schifo e lo stesso disgusto fino a diventare partigiano dell’anticomunismo più acuto. Odio gli indifferenti (Chiarelettere, 108 pagine, 7,00 euro) è una raccolta di testi gramsciani che rendono bene l’idea dell’intransigenza del pensatore comunista sardo. Che pagò le sue idee con la violenza del carcere fascista. Idee a volte così originali ed eterodosse, seppure nel solco del marxismo, che in Unione Sovietica gli sarebbero costate la vita.
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Su e giù
per il Transatlantico L’incontro tra Orlando e Nitti, Mussolini a Livorno e Gronchi a Torino. Pacciardi e la guerra di Spagna. Bilenchi, comunista con stile. Nenni e Giovanni XXIII. Battute e aneddoti dall’Almanacco dei ricordi di Leone Piccioni Un deputato comunista molto spiritoso e molto simpatico, l’on. Lajolo, un giorno chiese seriamente a Togliatti: «Perché quando eri in Russia hai firmato l’ordine di condanna a morte dei comunisti bulgari?». «Perché - rispose Togliatti - se non firmavo sarei stato ucciso». E Lajolo: «E se ci fosse stato Gramsci cosa avrebbe fatto?». «Si sarerbbe fatto ammazzare», concluse freddamente Togliatti. Quando Gronchi, presidente della Repubblica, andò a Torino per l’inaugurazione di una grande fiera internazionale, due cittadini conversavano tra loro in dialetto. «Quando è arrivato Gronchi - diceva uno - hanno sparato 21 colpi di cannone». E l’altro: «Non l’hanno colpito?». L’on. Randolfo Pacciardi, allora segretario del Partito repubblicano, che aveva valorosamente combattuto in Spagna contro il regime di Franco, alle invettive che riceveva dai comunisti rispondeva: «State zitti che in Spagna vi ho veduto scappare come lepri». Un ministro degli Esteri democristiano era in vacanza a Fregene con un nipotino prediletto. Si alzava presto, quando i familiari ancora dormivano, si infilava una camicia e un paio di calzoni corti, si metteva un qualsiasi cappello in testa, prendeva il nipotino e andava in bicicletta al mare. Giunto sulla spiaggia gli si precipitò incontro un signore tutto vestito di blu, con camicia e cravatta che gli si rivolse, quasi protestando: «Io l’ombrellone lo voglio vicino al mare». L’interpellato rispose: «Guardi che io non sono il bagnino, io sono il mini-
stro degli Esteri». L’altro fuggì quasi spaventato.
Romano Bilenchi era uscito dal Partito comunista dopo l’invasione dell’Ungheria. Più tardi però rientrò nel partito. Era a Roma, in clinica per una visita di controllo. Un giovane comunista entusiasta lo andava a trovare (del resto eravamo in tanti ad andarlo a visitare) ed era il periodo in cui si discuteva sull’atteggiamento che il Partito comunista avrebbe preso riguardo al governo se avesse avuto il 50 per cento dei voti. I più sostenevano che anche in una tale evenienza sarebbe stato necessario fare un blocco di governo con la Dc. Il giovane non era persuaso di questa coalizione: pensava che il Pci con il 50 per cento avrebbe dovuto andare da solo al governo. Chiese il parere a Bilenchi: «Se Berlinguer pigliasse il 50 per cento - rispondeva - io mi darei alla macchia». Ci fu a Firenze una famosa partita di calcio Inghilterra-Italia. Bilenchi dal settore stampa (era direttore del quotidiano fiorentino Nuovo Corriere) faceva un gran tifo per l’Inghilterra. Gli altri giornalisti protestavano e trovavano contraddittorio essere italiani e tifare per l’Inghilterra. «Non avete capito nulla - disse Bilenchi - io sono un comunista inglese». Lasciato il giornale e in un lungo momento di silenzio come scrittore Bilenchi era un po’ solo. In una intervista io gli chiesi come faceva ad andare avanti senza letteratura e senza giornalismo. Mi disse: «Lo sai come vado avanti? Mi innamoro».
COME SIAMO, COME ERAVAMO *****
er l’Italia il passato è un parente lontano e il futuro un’equazione. Viviamo alla giornata in un permanente equilibrio precario, privo di orizzonti stabili. A dirla tutta l’impressione è che non si sa bene cosa celebrare. Un secolo e mezzo dopo siamo sempre in bilico tra identità nazionale e radici locali, teoria degli insiemi e campanili. Sergio Romano e Marc Lazar con Michele Canonica in L’Italia disunita (Longanesi, 188 agine, 15,00 euro) compiono un viaggio che esplora la realtà quotidiana: sanità, pensioni, giustizia, pubblica amministrazione, trasporti, forze armate, moda e design. Ne viene fuori una fotografia sul rapporto degli italiani con il loro Paese e la loro memoria storica.
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A Carlo Emilio Gadda, notoriamente liberale e simpatizzante per la monarchia, raccontarono che uno scrittore come Angioletti, andando a visitare Padre Pio, aveva ascoltato che egli era del tutto contrario alla riforma agraria. «Questo me lo rende simpatico», disse Gadda. E aggiunse: «Quel nano di Fanfani che va distribuendo a destra e a sinistra terre non sue!». Quando si fece il governo di centrosinistra (Dc e socialisti), Pietro Nenni entrò al governo. Ebbe l’incarico una volta di rappresentare il governo andando a ricevere all’aeroporto Giovanni XXIII che tornava da un viaggio. Emilio Cecchi seguì l’avvenimento attraverso la televisione e poi mi disse: «Hai visto come Nenni guardava il Papa? Lo guardava come un gatto al quale avessero fatto vedere la trippa!».
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di Enrica Rosso alla sceneggiatura del film diretto nel 2003 da Theo Van Gogh - che ha pagato con la vita il suo desiderio di indagare i rapporti tra femminile e maschile - e riproposto nel 2007 da Steve Buscemi, sbarca a Roma adattato per il teatro in prima nazionale Intervista di Theodor Holman tradotto da Alessandra Griffoni. Incomincia improvvisamente, a sipario chiuso, una musica tenue in sottofondo (composta da Andrea Nicolini) e il protagonista in platea che telefona a voce alta, sorprendendo il pubblico non ancora assestato. Niente di più, nessun segno teatrale forte che dia il senso di un inizio - che so, un suono, un cambio di luce rispetto all’ingresso in sala. Si sbiadisce così il testo della telefonata che introduce però informazioni fondamentali per stabilire immediatamente il rapporto empatico che ci fa prendere posizione rispetto ai personaggi in scena. Arduo come dare inizio a una partita a scacchi senza aver prima diviso le pedine. Perché di questo si tratta in sintesi: una raffinatissima partita a scacchi tra un uomo e una donna, Peter, un importante giornalista politico e Katya giovane e affermata stella del firmamento televisivo. L’incontro a scopo intervista parte maluccio: lei si presenta con un’ora di ritardo; non solo, il governo sta per cadere e il prode reporter è costretto a perdere tempo dietro alle più belle tette del Paese. Ognuno mette in campo le sue armi più efficaci: lui il cinismo, lei la seduzione, oltre ai trucchi del rispettivo mestiere. Si annusano, si sfuggono, si divincolano, si lanciano famelici sui resti dell’altro, si divorano. Solo così possono dare sostanza al loro ruolo e passare incolumi, anzi fortificati dall’esperienza. Un’ora abbondante per scrutare a fondo l’anima di chi si ha di fronte - barando il più possibile - per rapirne la segreta essenza da offrire in pasto ai media in una scalata verso l’olimpo degli indimenticati. La scena, una grande piattaforma quadrata concepita da Francesco Mari, è la scacchiera, il ring, chi esce di scena perde il controllo del gioco e regala una
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Televisione
Teatro Maschio e femmina secondo Holman MobyDICK
spettacoli DVD
LE AVVENTURE ACQUATICHE DI LUC BESSON ungo il pericoloso crinale che separa Jacques Cousteau da La sirenetta, c’è il cinema documentario di Luc Besson, fiabesco intessitore di storie come quella di Atlantis. Poemetto in forma di ventiquattro fotogrammi, l’opera del regista francese inocula nel classico acquario in stile National Geographic il vivido veleno di un formalismo estremo, capace di abbinare la Sonnambula di Bellini alle manta-torpedini, e le vertigini sincopate della dance a un gruppo di foche. Ambizioni da cinéma pur, per un film ambizioso, non del tutto riuscito, ma certo affascinante.
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CONCERTI
A MAGGIO AD ASSAGO LA MARCHESINA DEL POP mossa all’avversario, complici la notte, la luce delle candele, i liquori, le droghe. Si scambiano punti di vista, come fossero risposte finalizzate a totalizzare il massimo del punteggio possibile, del tipo: gli uomini trovano irresistibile una donna in calze a rete e tacchi a spillo perché simbolicamente già nel ruolo della preda, sostiene Lei felina agitando il piedino irretito. «Cosa rende attraente un uomo?» rilancia Lui: «Una cicatrice, perché ogni donna nell’anima ne ha una», risponde Lei dopo avergli aperto la camicia che ne occultava una fenomenale. Un testo di grande ritmo il cui pregio maggiore risulta essere il perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Graziano Piazza e Viola Graziosi ne sono gli interpreti, al debutto un po’ rigidi nella loro idea di personaggio ma
sicuramente strutturati per lasciarsi andare a una più libero flusso vitale. La regia, a nostro avviso eccessivamente mossa, è firmata dallo stesso Piazza. Presente in sala alla prima a raccogliere i calorosi applausi anche l’autore. A fine serata il regista dedica lo spettacolo al compianto Franco Quadri, recentemente scomparso, presenza incisiva e autorevole a cui dobbiamo l’istituzione del premio Ubu, il Patalogo, fondamentale memoria storica del teatro contemporaneo, l’ubulibri edizioni dedicata alla diffusione dei testi teatrali e tanto altro.
Intervista,Teatro Vascello fino al 10 aprile info: www.teatrovascello.it - tel.06 5881021
i saranno anche tre inediti nel nuovo album che segna il grande ritorno di Sade. Fissata per il 3 maggio, l’uscita di The Ultimate Collection ha il compito di rinsaldare le azioni dell’artista rilanciata dal trionfo di Soldier of love, due milioni e mezzo di copie vendute e tanto di opportuno Grammy lo scorso anno. Aria sofisticata, voce di straordinaria malleabilità, la dolce marchesina della musica scampata senza danni dal vortice degli Eighties, sarà presto in Italia. Unica tappa prevista per il nuovo tour europeo che parte da Nizza, il 6 maggio al Mediolanum Forum di Assago.
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di Francesco Lo Dico
Da Tokyo all’Aquila, i terremoti minuto per minuto periamo che duri questa trasmissione. Va in onda ogni domenica alle 23,35 su Rai 3, si chiama Cosmo. Utile per tutti coloro che vogliono capire, dopo il bombardamento dei notiziari e un certo parlottare, o litigare, nei talk-show. Si affrontano temi che riguardano il nostro presente. Per esempio i terremoti. Si fa il punto, con l’ausilio di tecnici e di scienziati, ma anche con le testimonianze dirette. La vena polemica non è nelle premesse - e per fortuna semmai è radicata in ciò che vediamo e sentiamo. La conduttrice è Barbara Serra, milanese di origine sardo-siciliana con lieve (ma gradevole) accento britannico. Ha avuto esperienze all’estero, soprattutto a Londra per Al Jazeera English. È l’unica italiana ad aver condotto il Tg in lingua inglese per i canali anglosassoni e internazionali. I terremoti, dicevamo. Cosmo, programma ideato tra gli altri da
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di Pier Mario Fasanotti Gregorio Paolini, Isabella Augias e Simonetta Martone, ovviamente ha indagato su ciò che è successo in Giappone. Una esperta nipponica, nota in tutto il mondo, ha mostrato una cartina allar-
mante: il suo Paese è in testa nella classifica di quelli a più alto rischio geologico. L’isola asiatica registra un forte sisma all’anno, ma ben 300 di modesta entità al giorno. Questo è dovuto alla formazione tettonica a placche, insomma a «zattere» di terra che sotto di noi
si muovono e provocano sconquassi. In California, altra zona predestinata, se ne verificano cento al giorno. E, smitizzando la superiorità tecnologica americana, apprendiamo che gli strumenti di rilevazione là non sono affatto sufficienti. I sismografi sono pochi. Noi italiani manchiamo di una rete informativa eccellente, ma monitoriamo meglio, sia pure con quei pochi soldi che il governo destina alla ricerca e alla prevenzione. Il Giappone ha costruito case in conformità, ma non è riuscito a «prevedere» il cataclisma. Cosa che è praticamente impossibile, a meno di dar retta a maghi e stregoni. La natura può e dev’essere conosciuta, ma non dà previsioni certe in quanto a tempo e luogo. Otto secondi prima del sisma la televisione di Tokyo ha interrotto le trasmissioni e ha lanciato l’allarme. Ci si chiede: in pochi secondi è possibile
salvarsi? In minima parte. È tuttavia possibile fermare i treni ad alta velocità, per esempio. Quel che c’è di buono è che in Giappone, proprio per il pericolo costante di terremoti, la popolazione è costantemente informata (anche sui cellulari). In Italia, come ha rimarcato una rappresentante della Protezione Civile, è carente la consapevolezza di abitare in zone a rischio sismico. All’Aquila la popolazione è stata «rassicurata». Poi sappiamo che cosa è successo. Cosmo ha fatto riprese nel centro della città: qualcosa di spettrale, simile a sequenze di film apocalittici, con cani randagi nelle strade e cornicioni in bilico. Propaganda a parte (brutto l’episodio della falsa testimone aquilana nel programma Forum di Rita Dalla Chiesa, che sarebbe stata pagata per «ringraziare il governo»), quel che vediamo all’Aquila, ma anche a Napoli inondata dai rifiuti, dimostra che noi ce la mettiamo tutta, come scienziati e ricercatori, ma siamo drammaticamente dilettanti nell’amministrare un Paese.
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poesia
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Il blob ante litteram di T.S. Eliot orse più di ogni altro componimento la celebre Terra desolata (1922) ci immette nel cuore esausto, smarrito, intertestuale - della poesia novecentesca. Scritto nella forma del pastiche e della serie di frammenti, ci presenta una serie di immagini tra loro slegate, come balenanti in un dormiveglia, tutte impregnate di letteratura, e come se fossero viste per l’ultima volta. Eliot percepisce se stesso alla fine di un’intera civiltà e sembra volerne celebrare, in modo luttuoso e insieme beffardo, le rovine. A differenza del sodale e mentore Pound (che pure fece un editing impietoso alla Terra desolata), è sempre ironico, scapigliato, perfino nel tono solenne. La sua disperazione ha qualcosa di ludico. Eliot si sente come Dante, poeta metafisico di un’epoca di crisi e alla ricerca di un’autorità morale cui appigliarsi (sia-
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di Filippo La Porta mo ancora lontani dalla conversione all’anglicanesimo del 1927). A Dante, cui è debitore anche per la teoria del «correlativo oggettivo», del tradursi dell’emozione in un’immagine concreta da tutti fruibile (ad esempio nel primo verso i lillà come correlativo del passato antico e dei riti magici di fertilità), dedica più di un omaggio (si veda l’epiteto per Pound «miglior fabbro» o il calco di un verso dell’Inferno: «così tanta,/ Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta»), però è un Dante incline a trattare ogni cosa come un materiale da manipolare, ben consapevole della propria stessa aridità. L’intera cultura è sbriciolata in frammenti, in schegge da riusare dentro nuovi scenari di cartapesta.
LA TERRA DESOLATA Aprile è il più crudele dei mesi, genera Lillà da terra morta, confondendo Memoria e desiderio, risvegliando Le radici sopite con la pioggia della primavera. L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse Con immemore neve la terra, nutrì Con secchi tuberi una vita misera. L’estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee Con uno scroscio di pioggia: noi ci fermammo sotto il colonnato, E proseguimmo alla luce del sole, nel Hofgarten, E bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera. Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch. E quando eravamo bambini stavamo presso l’arciduca, Mio cugino, che mi condusse in slitta, E ne fui spaventata. Mi disse, Marie, Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù. Fra le montagne, là ci si sente liberi. Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud. (…) Città irreale, Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano Su per il colle e giù per la King William Street, Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore Con morto suono sull’ultimo tocco delle nove. Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: «Stetson! Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo! Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino, Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola? Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell’uomo, Se non vuoi che con l’unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto! Tu, hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frère! Thomas Stearn Eliot
P r e n d e t e l ’ e s i l a r a n te , e a volte estenuato, Frammento di un agone (da Aristofane): «Nascita e copula e morte. Tutto è qui, tutto è qui, tutto è qui./ Nascita e copula e morte». E più in là «Sotto il Bambù/ bambù bambù/ Sotto il bambù in fior/ Due vivon come un/ Vive un come due/ Vivon due come tre/ Sotto quel bam/ Sotto quel bu/ Sotto quel bambù in fior». Mario Praz parla giustamente di «forme grottesce da musichall», il genere di teatro-rivista o varietà molto popolare in Inghilterra tra Ottocento e Novecento (Eliot ha scritto anche drammi teatrali). Ricordo solo come il padre di Paul McCartney fosse un pianista di musichall a Liverpool, molto influenzando il figlioletto. Il coltissimo, raffinatissimo Eliot era peraltro attratto dalla cultura di massa, dal cinema e dalle sue icone: si pensi solo al carteggio con Groucho Marx, cui regalò una foto. Non sarà un caso che da un’opera eliotiana si sia ricavato un musical di successo (Cats), mentre la prefazione a un libro-intervista uscito in Italia sia stata firmata da Panella, paroliere estroso dell’ultimo Battisti. Probabilmente il lettore di oggi, di un mondo caratterizzato
dalla frammentazione, dal citazionismo, da un continuo blob visivo e verbale, accostandosi a Eliot non avrebbe quello choc che provai leggendolo negli anni dell’università. La sua tecnica del montaggio e del collage ha avuto una «gran folla» di imitatori, spesso mediocri. Accanto alle avanguardie degli anni Venti è stato lui l’inventore principale della contaminazione, parola-chiave e feticcio dell’arte postmoderna. Proprio in virtù di questa contaminazione la sua non è mai una «poesia pura» alla Mallarmé, non aspira all’ineffabile, né espelle l’elemento razionale dall’atto poetico (come osservò Montale, a lui spesso accostato). Sbaglieremmo altresì a ritenere - in modo dogmatico - che la metropoli moderna, da quel momento, non possa che esprimersi nella forma del collage e dell’ironia modernista. Fortunatamente la poesia, al contrario della scienza, non segue una evoluzione lineare. Vorrei solo ricordare che otto anni prima, nel 1914, esce in Italia Pianissimo del più appartato, «provinciale», Camillo Sbarbaro, dove il territorio desolato della città moderna (e l’ascendente è Baudelaire) viene cantato in un monologo spoglio e dimesso, senza esplicite risonanze culturali: «Invece camminiamo,/ camminiamo io e te come sonnambuli./ E gli alberi son alberi, le case/ son case, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è/ (…)/ Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso».
E poi la stessa Terra desolata può ridursi a una mera e libresca giustapposizione di citazioni. I suoi versi, e anzi il suo recitativo trema di «ricordo e desiderio», di una malinconia invernale, di un’apprensione che a volte si scioglie in gioia liberatoria: «E giù scivolammo./ Sulle montagne ci si sente liberi». Dopo la lenta acquisizione della fede cristiana Eliot pubblicò i Quattro quartetti (1943), da lui giudicati più accessibili, senza quella oscurità legata al fatto di voler dire più di quanto si sa dire. Nel secondo, East cocker, meditazione in forma lirica sulla caducità e la sopravvivenza (il titolo è il nome di un paese inglese dove visse l’antenato del poeta che poi emigrò negli Usa) leggiamo. «O buio, buio, buio. Tutti vanno nel buio,/ Nei vuoti spazi intrastellari, il vuoto va nel vuoto,/ I capitani, gli uomini d’affari, gli eminenti letterati,/ I generosi patroni dell’arte, gli uomini di stato e i/ governanti,/ (…)/ E bui il Sole e la Luna, e l’Almanacco di Gotha/ E la Gazzetta della Borsa, l’Annuario delle Società/ anonime,/ E freddo il senso e perduto il motivo dell’azione,/ E tutti noi andiamo con loro, nel funerale silenzioso». Bisognava scendere nell’oscurità, e poi attendere senza speranza, per poter ritrovare l’amore e la fede, lì dove avviene misticamente una «unione più completa» e dove «nella mia fine è il mio principio».
GLI ALTRI E IL BATTER D’ALI DI UNA FARFALLA in libreria
di Loretto Rafanelli
un’artista poliedrica Loredana Pra Baldi, che spazia tra la poesia, il teatro, la musica, il canto e lo studio della lingua ladina, della cui comunità fa parte. Tuttavia a differenza di altri che mossi da vari interessi patiscono un processo centrifugo e atomizzato che porta a risultati scadenti o addirittura a disperdere l’impegno creativo, la Pra Baldi, trova nel dire poetico quella rete che fa amalgamare e impreziosire il tutto. E in questa dimensione la voce diviene la fonte e il terminale della sua azione. La poesia dell’autrice (Cuore e dintorni, Ellerani editore), rimanda a una oralità che batte il palpito delle giornate e pare proprio di scorgere quella voce intensa che diviene canto (lei è can-
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tante di valore e concertista). La poesia della Pra Baldi ha in sé un grumo di delicatezza («Fa che questo incontro/ sia tiepido come l’estate/ … al profumo di rosmarino/ senza rugiada…») e di forza («Hanno murato di grigio il giardino/ divisa la mente, zittita la voce/ volevano fosse separato anche il cuore»), di semplicità e di una passione che si fa dono. Dono perché pare proprio che per l’autrice la poesia sia una disposizione a porgere, o meglio: a capire, creare e rimettere le emozioni di una vita di relazioni, di amori intimi e universali, agli altri. Disposizione a svelarsi e a consegnarsi a una comunità umana e a chi, soprattutto, ama il sapore di quel «batter d’ali di una farfalla», che è la poesia.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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frodite è una delle divinità del pantheon greco, poi collegato e identificato con quello latino.Appare come la dea dell’amore e della bellezza, anche se certo altre dee erano ben disposte all’amore (con l’eccezione della vergine Atena nata dalla testa di Giove e di Diana cacciatrice, pronta a far fare una cattiva fine a chi tentasse di possederla), anche per ricambiare le frequenti infedeltà dei loro consorti (vedasi Giunone e Giove). Gli dei del panthon greco sono protagonisti in particolare nella guerra di Troia, dove Atena prende le parti degli Achei e Giunone quella dei Troiani. Le loro relazioni con gli eroi dell’epica sono precise e personali, in particolare quella fra Atena e Ulisse, e quella fra Paride e le tre dee di cui deve giudicare la bellezza in un famoso contesto: Giunone, Atena e Afrodite si sottopongono nude al suo esperto occhio di maschio bellissimo e conquistatore di femmine, anche se sposate come Elena moglie di Menelao (Düspari, eidos ariste, gümaimanes, eperopeuta... lo accuserà Ettore in un canto dell’Iliade che imparai a memoria, così si faceva ai miei tempi di liceo classico). E Paride sceglie fra le tre Afrodite. In una delle straordinarie monografie che caratterizzano la produzione scientifica del grande studioso Alfred De Grazia, che riorientò le proprie ricerche dallo studio quantitativo della politica all’analisi delle discontinuità planetari e umane nel passato, influenzato dal libro Oedipus and Akhnaton di Velikovsky, si afferma che Afrodite non è da identificarsi come usualmente si fa con il pianeta Venere, bensì con la Luna.
MobyDICK
A
Qui ricordiamo che le divinità del pantheon greco hanno sia una caratterizzazione antropomorfa, e generalmente non sono immortali anche se dotate di una vita assai più lunga della nostra e di grande capacità di recupero da ferite, sia anche una planetare. Ricordiamo l’associazione fra Zeus e il pianeta Giove, fra Efesto e Mercurio, fra Ares e Marte. Atena e Afrodite sono associate generalmente a Venere, pur essendo due dee distinte, per un motivo astronomico. Il pianeta Venere è l’astro più luminoso nel cielo, con un diametro di un primo. È visibile come un cerchietto in condizioni speciali, da me sperimentate all’osservatorio dei sud Balcani, a 2000 metri di altezza sui monti Rodopi, in una gelida notte di febbraio dal cielo limpidissimo. Ebbene il pianeta Venere, essendo molto più vicino di noi al sole, è vi-
La Luna…
ovvero Afrodite nata dalle spume di Emilio Spedicato sibile solo per alcune ore o prima del sorgere del sole o dopo il suo tramonto. Sembra che solo in tempi ellenistici gli astronomi greci (o indiani, le cui conoscenze arrivavano alla Grecia via l’Egit-
dee planetari Atena e Afrodite era spiegata da due miti diversi.Atena era dichiarata nata dalla testa di Giove, per partenogenesi. Era quindi senza madre, era una guerriera, ed era vergine. Afrodite
Secondo lo studioso Alfred De Grazia, la dea della Bellezza, al cui mito è stato associato il pianeta Venere, va invece identificata col satellite che orbita intorno alla Terra. Un’idea che si appoggia su una vasta documentazione interdisciplinare e che si accorda con alcuni scenari di dinamica celeste risalenti al 9450 a.C. to) abbiano scoperto che la stella del mattino e la stella della sera sono lo stesso pianeta, che ora chiamiamo Venere. Quindi in tempi precedenti i due oggetti erano considerati distinti e associati a due divinità diverse. L’origine delle due
era nata invece dalla «spuma del mare», e ricordiamo anche che la città di Erice, posta sulla cima di un monte a circa 800 metri di altezza nella Sicilia orientale, era in qualche modo associata alla sua nascita. È anche stato notato che il nome di
Afrodite non è greco ma orientale. Nella monografia The love affairs of Ares and Aphrodites, De Grazia, con la sua usuale originalità di pensiero appoggiata a vasta documentazione interdisciplinare, sostiene, sulla base di una analisi della storia omerica di Ares che seduce Afrodite (o ne è sedotto?), moglie ufficiale del claudicante Ermes, che Afrodite non sia associabile al pianeta Venere bensì alla Luna. Chi voglia approfondire può accedere alla Encyclopedia of Quantavolution o al sito di De Grazia che ha oltre tre milioni di visite all’anno. L’idea di De Grazia si accorda pienamente con lo scenario che abbiamo proposto in varie pubblicazioni in merito all’origine della Luna per cattura da un pianeta che sarebbe passato vicino alla Terra verso il 9450 a.C., terminando velocemente l’ultima glaciazione. Marte-Ares va considerato come il precedente satellite della Terra, perduto al momento dell’acquisto della Luna. Usando un enigmatico passo di Censorino doveva trovarsi su una orbita più lontana (circa un milione di km dalla terra).
Per ragioni di dinamica celeste, sarebbe ripassato periodicamente vicino alla terra e al suo nuovo satellite acquisito. Il pianeta che perse il satellite, nel passare vicino alla Terra avrebbe provocato la fratturazione del fondo oceanico, l’emersione di immense quantità di magma con conseguenti pioggie praticamente su tutto il nostro pianeta. Dalla cima di montagne vicino al mare - quindi possibilmente anche da Erice - si sarebbero visti uscire dal mare i vapori prodotti dal magma, le spume associate alla nascita da Afrodite. La Terra sarebbe stata avvolta da una calotta di vapori. Al loro dissolversi nel cielo sarebbe apparsa la Luna, ovvero l’Afrodite nata dalle spume. E volendo possiamo vedere nel nome Afrodite radici veramente orientali: Afro da Afar, polvere, spuma come polvere di acqua, termine accadico; Di = Blu, termine zhangzhung; Te,Ta = grande, termine cinese. Quindi Afrodite = dalle spume del grande blu...