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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
ALLA RICERCA
Breve storia di una lingua da recuperare
DELL’YIDDISH PERDUTO di Franco Palmieri
opo Babele, ogni lingua divenne uno strumento di interpretazione del quale deposito, scavo, repertorio è mai possibile rinverdirne la presenza? CoDalle mondo (forse perciò fatichiamo tanto a capirci). Ma le lingue, si minciamo dall’inizio, perché tutto ha una sua Genesi. Da Juden, ebreo in sa, devono essere un po’ sgualdrinelle: mescolarsi e farsi antico tedesco, deriva Jiddish, trascritto poi nella grafia corrente usaorigini ai mescolare. Come la vita, la lingua evolve, ce lo insegnò ta in Occidente, Yiddish; quindi lingua degli ebrei. Come tutte le Coen, è il “gergo” che la Scuola di Francoforte fin dagli anni Trenta, e poi Adorcose che si innestano nella «tradizione del nuovo», anche l’yiddish entrò nella koinè (linguaggio e parlata) degli no fino a Cesare Segre & Co.: i linguisti. Ma ci sono è stato capace di rivoluzionare lingue e linguaggi, forme semiologiche e struebrei russo-ucraini-slavo-mitteleuropei in seguito la comunicazione: nella tradizione, nella menti comunicativi che solo in parte possono a una rivoluzione, sia pure pacifica e tutta sul letteratura, nella cultura popolare. Un elemento versante della comunicazione popolare. essere classificati nella sterminata fogliazione degli idiomi. L’yiddish è uno di questi; se ne parla È noto che il mondo ebraico classico, ancora oggi, essenziale della commedia umana che tanto ma se ne sa poco. Se ne parla soprattutto coniuattinge nei suoi libri alle fonti originarie scritte in lingua non deve andare perduto. Al biblica; essendo libri sapienziali di derivazione religiosa - Togandolo insieme a «umorismo»: infatti l’Umorismo yiddish è di là dell’umorismo... rah, Kabbala, Gematria - non possono essere che interpretati suluna specie di luogo comune di marca ebraica mitteleuropea evocato più come timbratura di fabbrica che esaminato nella sua sostanza l’originale scritto in ebraico. Ma il popolo, si sa, è ignorante, pensa prioriginaria. Ma se oggi dobbiamo constatare che l’yiddish non c’è più, da ma alla pancia e poi alla mente. Che fare?
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Parola chiave Paura di Sergio Belardinelli Il tango in 3.0 dei Gotan Project di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
L’Eternità svelata da Emily Dickinson di Roberto Mussapi
Il Vangelo secondo Pilato di Sabino Caronia Steve, Simon e noi italiani di Anselma Dell’Olio
Viaggio nel volto e nel corpo di Cristo di Marco Vallora
alla ricerca dell’yiddish
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Poiché il popolo delle shtetlach - plurale di shtetl, in yiddish: paesotto - dove gli ebrei erano stati confinati fin dai tempi della zarina Caterina di Russia (nel Settecento), parlava una sorta di jargon, come veniva definito l’yiddish, avvenne una decodificazione semplificata dei testi sapienziali riscritti nella lingua che il popolo capiva. La Bibbia ridotta a feuilleton, perdipiù illustrata (la figurazione antropomorfa, come nell’Islam, non è ammessa nei temi religiosi) ristabilì il perduto rapporto tra popolo e tradizione grazie a una rivoluzione delle forme di comunicazione. Già nel Sedicesimo secolo il rabbino Jacob Ashkenazi di Janov (il suo cognome significa: ebreo tedesco), aveva raccontato storie e leggende tratte dal Pentateuco in un’opera ancora oggi famosa, nota col titolo di Ze’enu URe’ena. Ma l’yiddish entrò nel Pantheon letterario askenazita in seguito a una visione laica dell’ebraismo, posizione ebraica riformista da cui negli anni Venti ebbe vita l’Ebraismo riformato - oggi totalmente affermato negli Stati Uniti - teorizzato nella rivista The Reconstructionist con Ira Eisestein, Maurice Samuel e Isaac Bashevis Singer tra gli altri.
Se Marc Chagall, Modigliani e Carlo Levi sono stati pittori figurativi, lo si deve anche alla tradizione laica che nell’Ottocento si innesta nell’ebraismo europeo orientale. Claudio Magris, nel suo saggio Lontano da dove, aveva in parte raccontato la nascita della letteratura yiddish nell’Est europeo, segnalando le opere di Mendel Mocher Sforim (da sefarim, libri, in ebraico) e Isaac Loeb Perez. La differenza è questa: l’yiddish antico era scritto in caratteri ebraici e mescolava idiomi provenzali e slavi oltre a quelli germanici, mentre l’yiddish letterario di Perez e fino a Isaac Bashevis Singer, era scritto in caratteri latini. Una conquista o una spoliazione? Alla Columbia University di New York c’è un dipartimento dove si insegna l’yiddish; ma il giornale yiddish fondato da Abram Cahan agli inizi del Novecento è defunto da un bel pezzo. Ma se sfogliate il Webster, come dire il Devoto-Oli da noi, scoprite l’esistenza nell’anglo-americano di una miriade di parole yiddish perfettamente innestate nella lingua di Faulkner e di Hemingway, ma non per il loro diretto intervento, che anzi non ne hanno fatto mai uso nei loro libri; nel Webster ci sono entrate perché quelle parole sono state usate nel libro di Henry Roth Calli it sleep (Chiamalo sonno, pubblicato da noi da Lerici, uno dei romanzi di formazione in chiave ebraica, come lo furono Il giovane Holden in Usa e Il grande Meulne in Francia), e poi successivamente da Sholom Asch, Maurice Samuel, Philip Roth, Bernard Malamud, Saul Bellow, Chaim Potok, Cinzia Osick oltre a riviste come Midstream e Commentary. Ma la vera rivoluzione l’yiddish la operò in modo furtivo e paradossale, arricchendosi di quella stratificazione illetteraria che è propria della koinè popolare la quale, come nella Commedia dell’Arte, trasfigura le parole in simboli e i nomi in modelli psico-linguistici e, in definitiva, i comportamenti caratteriali in personaggi. Scorporato delle originarie sinterizzazioni bibliche e moralisticheggianti, il racconto popolare in yiddish attinse alla tradizione popolare, una sorta di Andrea da Barberino o Giambattista Basile nostrani che soprattutto Celebri ebrei: dall’alto, Allan Stewart Königsberg (Woody Allen), Saul Bellow, Isaac Singer, Henry Roth e i Fratelli Marx. A destra, il dipinto “Red Jew” di Chagall
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Scholom Aleichen coagulò in racconti vivaci da cui poi, per naturale derivazione, nasceranno il teatro yiddish di Mosca, di Varsavia, di Vienna finiti tra bolscevismo e Shoah. Un teatro fatto di quei personaggi, una vera Commedia dell’Arte yiddish che noi oggi abbiamo riscoperto nel suo umorismo, travisandone tuttavia le origini e i significati. Per non andare troppo lontano, ce ne hanno dato un esempio ferocissimo i fratelli Coen nel film A serious man; come dire, dalla shtetl al Minnesota, dove il film è ambientato. La galleria di tali personaggi è straordinaria e completa: il Lufthmanscen è l’uomo d’aria, quello che a una domanda risponde: nuh?, per evitare di rispondere. La perfetta donna di casa, quella tosta, è una Balabusteh; quindi anche una suocera imperdonabile. Il maldestro, lo sfigato, è uno Schlemiel; praticamente Fortunello cui Sergio Tofano oppose il Signor Bonaventura. Lo Schlemiel è appunto il signor Gopnik di A serious man, il quale ha un figlio che non è certo un Bocher (studente modello) e una figlia che vuole farsi la plastica al naso per sembrare una Chiksah (wasp, cioè americana non ebrea), mentre l’amante della moglie, che si presenta con una bottiglia di vino e dice «Questo non è mica un Manishevish» (il vino dolciastro di Pesach), è il classico sbruffone approfittatore, in yiddish uno Schnorrer (Zangwill scrisse, in inglese, il Re degli Schnorrer); perdipiù, il povero Gopnik (che suona come in yiddish: kopnik, senza testa), è affetto da Schlimazel, cioè da sfortuna totale. Su questi personaggi, negli anni in cui negli Usa, ma soprattutto sulla costa orientale - New York, Connecticut, New England - dove la presenza di ebrei ashkenaziti di lingua yiddish era cospicua, umoristi come Lenny Bruce, Jerry Lewis e Zero Mostel, cantanti come Theodore Bikel, e in tournèe anche i Marx Brothers, hanno dato vita a spassose rappresentazioni molto satiriche di quel mondo ebraico piccolo borghese che dalla città veniva a passare nei Catzkill, i resorts dove colline e boschi ricopiavano il nostalgico paesaggio di un’Europa forzatamente perduta. Anche Woody Allen (il signor Koenigsberg) scriveva i testi di quei cabaret. Estratti da quel jargon popolaresco, i modelli linguistici e lettera-
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ri trasfusi nella fiction americana dettero vita al romanzo amerydish, dove la lingua di Shakespeare si mescola e si amalgama a quella di Sholom Aleichen ed entra nella comunicazione verbale del parlato quotidiano. Facendo un salto all’indietro, da New York all’Italia, direttamente nel ghetto ebraico di Roma (noto tra gli ebrei come «Piazza», già sede delle Cinque Sholae), ci potremmo legittimamente domandare: perché il giudaico-romanesco che è un corposo impasto di ebraico, italiano antico e ladino non è entrato nella koinè locale e tanto meno nella letteratura? Né Giorgio Bassani né Carlo Levi, né Natalia Ginzburg né Primo Levi hanno attinto parole, espressioni idiomatiche e modelli linguistici da quella fonte popolare. Sabatino Lopez, che è stato un autore teatrale di commedie borghesi, ha rappresentato nelle sue opere un mondo completamente assimilabile a quello della borghesia medio-alta lombarda. Il cinema si è limitato a mostrare dell’ebraismo segni esteriori: la yamulkah (nome yiddish per la chippà, che suona come kepì, elmetto austriaco della prima guerra modiale), il talled (lo scialle delle cerimonie religiose) oppure alcune scene del Seder di Pesach (ordinazione della cena rituale della Pasqua ebraica). Si citano due opere dove il giudaico-romanesco-ladino appare: le poesie di Crescenzo Del Monte e la commedia La ‘gnora Luna, della compagnia dei giovani di Firenze, ormai del tutto dimenticata. Sul versante che prese le mosse dall’Haskalàh, producendo una cultura popolare e letteraria ebraica che ha trovato la sua più alta definizione negli Stati Uniti, non si è parimenti sviluppato un analogo percorso in Europa e, sorprendentemente, nemmeno da noi che vantiamo la più antica presenza ebraica della Diaspora. Il revival letterario ebraico è tutto memorialistico-nostalgico e rievocativo-dolente sul filo della Shoah. Eppure lo jargon giudaico-romanesco non ha quasi nulla da individuare all’umorismo yiddish, anche se a esso manca la componente satirica che riscatta con l’arguzia una condizione sottoposta a un rosce; e questa è parola giudaico-romanesca che significa prepotente. Risvolti storici e condizioni sociali non hanno operato quella naturale trasfusione, attraverso tematiche espresse anche semiologicamente, di un mondo popolare vivacissimo che nemmeno il cinema, il teatro, il cabaret hanno saputo sfruttare. Lo stesso Moni Ovadia ricopia una tradizione mitteleuropea ebraica che si innesta nel filone Ottocentesco e produce soltanto accumulazione, impedendo quella naturale trasfusione che rinnova la letteratura redificandola nella contemporaneità, cioè della tradizione nel nuovo.
Oggi nel panorama letterario ebraico contemporaneo troviamo soltanto un nome, che per formazione e carattere culturale possiede doti interpretative vicine a quelle degli autori ebreo-americani, Alessandro Piperno, l’autore di Con le peggiori intenzioni, titolo sottilmente e ironicamente giustificativo di un percorso di formazione fuori dalla Tradizione dei Padri. Come raccontava una vignetta uscita nel 1910 in Polonia: Sholom Aleichen che con le sue opere satiriche solletica lo spirito dell’ebreo tartassato, così avremmo oggi bisogno di un autore capace di far rifiorire modelli narrativi e personaggi di una commedia umana, quella yiddish, relegata nel mondo dei percorsi nostalgici ormai sempre più sbiaditi. Un po’ è anche colpa di certi percorsi ebraici che hanno evidenziato dell’ebraismo solo gli aspetti tragici, come se la memoria avesse solo il volto della ferocia subita. Sergio Leone, nel 1984, ambientando la storia nella Lower East Side di una New York degli anni Venti per girare C’era una volta in America, nel quartiere che era degli ebrei della Mitteleuropa e russi, ci restituisce un quadro che Abraham Cahan, fondatore anche del giornale yiddish Forwertz (che vuol dire Avanti!) aveva narrato nel suo romanzo The rise of David Lewinskj. Era meno tragico nel film con De Niro; tuttavia è singolare che sia stato Sergio Leone da noi a mostrare una tale sensibilità. La forza delle grandi cose resiste al tempo, ma va aiutata.
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parola chiave
a bambini accade spesso che soffitte, cantine e sottoscala siano luoghi abitati dall’uomo nero; luoghi di cui abbiamo paura e dove, per farci coraggio, entriamo fischiettando o parlando da soli ad alta voce. Accade anche che si abbia paura che il compagno di giochi ci chieda di andare in bicicletta senza mani, come sa far lui, e che, per evitare figuracce, si trascorrano interi pomeriggi nel cortile di casa, finché non si è imparato, mantenendo viva negli anni la grande soddisfazione per esserci riusciti. Sono due paure che possono manifestarsi con la stessa intensità, ma assai diverse l’una dall’altra. La prima non ha un oggetto vero e proprio; ci si appiccica addosso in modo quasi paralizzante e sentiamo di non poterci far nulla: scomparirà soltanto una volta che saremo fuori della soffitta. La seconda invece ha un oggetto preciso e sappiamo benissimo che per farla scomparire non dobbiamo far altro che imparare ad andare in bicicletta senza mani. Se poi la paura che il nostro compagno di giochi si accorga che non sappiamo andare in bicicletta senza mani si accompagni a una paura ancora più grande di fronte all’idea di lasciare il manubrio, allora non abbiamo scampo; possiamo soltanto escogitare espedienti affinché nessuno se ne accorga. A meno che la paura di fare figuracce sia talmente grande da spingerci a fare di tutto pur di vincere la paura di andare in bicicletta senza mani. E si potrebbe continuare. In ogni caso quale insegnamento possiamo trarre da questa breve fenomenologia della paura? Anzitutto questo: la paura, quali che siano il suo oggetto o i suoi oggetti, appartiene all’equipaggiamento biologico dell’uomo. Al pari del dolore, il quale segnala una disfunzione o una ferita del nostro organismo, la paura segnala ciò che ci minaccia; essa rappresenta sempre una sorta di appello alla nostra intelligenza a tirarci fuori da determinate situazioni.
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A questo proposito l’esperienza ci insegna che una minaccia ci appare più o meno grave a seconda della capacità che abbiamo di padroneggiarla. Più ci sentiamo impotenti e più abbiamo paura; più abbiamo paura e più diventiamo impotenti, in un vortice sempre più paralizzante. La paura infatti è, sì, un campanello d’allarme per la nostra intelligenza, ma, di per sé, non ci dice nulla su come certe situazioni andrebbero padroneggiate. Come ben sappiamo, essa tende piuttosto a inibire le nostre capacità; tanto è vero che il primo insegnamento che la nostra intelligenza trae dalla paura è che è difficile agire in modo intelligente quando si è impauriti. La paura ci mette sul chi va là; e se diciamo che esistono paure intelligenti e paure stupide, paure infantili e paure che sarebbe stupido non avere è perché siamo convinti che, quando abbiamo paura, dobbiamo anzitutto fare i conti con la realtà, ossia con ciò che concretamente ci minaccia. Per fare un esempio, la paura dell’uomo nero può non essere meno intensa della paura che abbiamo per le conseguenze di una nostra azione, eppure, non appena le commisuriamo alla realtà, sentiamo che sono due paure diverse. La realtà è il vero banco di prova delle nostre paure. Proprio per questo diciamo che esistono paure reali e paure immaginarie, rimedi reali e rimedi immaginari.Voler esorcizzare, poniamo, la paura della morte andando tutti i giorni
PAURA
Appartiene all’equipaggiamento biologico dell’uomo: segnala ciò che ci minaccia, è un campanello d’allarme per la nostra intelligenza. Ma oggi i pericoli possibili vengono troppo spesso considerati reali, diventando così un freno al nostro agire
Le sicurezze impossibili di Sergio Belardinelli
L’ottimismo ingiustificato di ieri ha lasciato il posto a un pessimismo ugualmente ingiustificato, secondo il quale la terra si appresterebbe a diventare una landa desolata, minacciata dalla tecnica, dallo straniero, da coloro che detengono le leve del potere economico mondiale. L’uomo nero è dappertutto dal medico equivale un po’ a fischiettare in soffitta per paura dell’uomo nero. Fatta questa lunga premessa, bisogna tuttavia riconoscere che qualche volta può essere la stessa complessità del reale a rendere difficile stabilire se una paura o un rimedio possono considerarsi giustificati. È il caso, ad esempio, della paura crescente nei riguardi delle conseguenze ecologiche di un certo sviluppo
scientifico-tecnico-industriale e delle nuove sfide etiche, tecniche e politiche che esso porta con sé; è il caso della paura che abbiamo di fronte ai nuovi scenari socio-politici che si profilano all’orizzonte della crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando; è il caso di certe paure che abbiamo nei confronti dello «straniero» col quale dobbiamo ormai convivere quotidianamente; è il ca-
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so, infine, ma si potrebbe continuare, della paura che abbiamo in quanto genitori di non essere all’altezza dei nostri compiti educativi. Alla fine degli anni Settanta, Hans Jonas propose in uno dei suoi libri più importanti, Das Prinzip Verantwortung (Il principio responsabilità), una vera e propria «euristica della paura» come grimaldello per fronteggiare il potere sempre più minaccioso della tecnica sulla natura e sugli uomini. La sua tesi di fondo era che, dovendo scegliere tra le prospettive nefaste di un determinato sviluppo e quelle favorevoli, fosse molto più ragionevole affidarci alle nostre paure che ai nostri desideri. Una tesi indubbiamente molto seria, che però con gli anni mi sembra che abbia subito una pericolosa radicalizzazione. E oggi si tende ad assumere i «pericoli possibili» connessi alle nostre scelte come se fossero «pericoli reali», facendo poi leva sulla paura per impedire qualsiasi scelta della quale non si possa garantire l’assoluta sicurezza. Chi ha paura pretende di aver ragione per il semplice fatto di aver paura. Succede così che l’ottimismo ingiustificato di ieri, la pretesa di realizzare il paradiso su questa terra, sembra aver lasciato il posto a un pessimismo ugualmente ingiustificato, secondo il quale la terra si appresterebbe a diventare una landa desolata, minacciata ora dalla tecnica, ora dallo straniero, ora da coloro che detengono le leve del potere economico-finanziario mondiale. E questo senza rendersi conto del vero pericolo che stiamo correndo: quello di trasformare il mondo in una grande soffitta abitata dall’uomo nero; di rimanere cioè come paralizzati dalla paura e dall’incertezza, sempre più incapaci di reagire in modo razionale sia di fronte ai pericoli «reali» che a quelli «possibili» e quindi di lasciare che le cose si facciano da sole.
So di compiere un’affermazione per molti versi provocatoria, ma nel contesto socio-culturale che ho appena tratteggiato, contrassegnato da una sorta di paura metafisica, il primo dovere che abbiamo è quello di richiamare alcune banalità che possono non piacerci, ma che sono fondamentali. La prima delle quali è la seguente: la vita è rischiosa di per sé; il mito di una assoluta sicurezza, di una sicurezza che non esiste e che non può esistere, rappresenta il miglior brodo di coltura della paura metafisica che sta paralizzando tutti. Meglio attrezzarci dunque a convivere con un’incertezza condivisa e magari «controllabile», che tener dietro a sicurezze impossibili. Per una serie di motivi, che in questa sede posso appena accennare, si tratta di un compito molto difficile. Il nostro potere crescente sulla natura e sulle contingenze della vita sociale e individuale ci ha infatti prima illusi di poter tenere tutto sotto controllo e poi delusi di fronte a un’incertezza e a una finitezza persistenti, che però, a differenza di ieri, non riusciamo più ad accettare. Mai come oggi abbiamo parlato tanto di libertà e di rischi, e mai come oggi, a tutti i livelli, abbiamo tanto desiderato la sicurezza. L’idea che prima o poi la nostra vita finirà ci è sempre più insopportabile. Per paura tendiamo come a rimuoverla, senza accorgerci che in questo modo perdiamo il senso stesso della realtà; rinunciamo al bene possibile per il semplice fatto che ci è preclusa la perfezione. Il colmo della stupidità.
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cd
arlos Gardel, inventore della tango canción, avrebbe sicuramente applaudito il nuovo gioiello «electrauthentico» dell’argentino Eduardo Makaroff (chitarra e strumenti a corda), del francese Philippe Cohen Solal (tastiere) e dello svizzero Christoph H. Müller (programmazione strumenti elettronici). Dopo il sorprendente boom di La Revancha del Tango (2001) e il bis da 10 con lode acchiappato nel 2006 con Lunático (si chiamava così il puledro da corsa del maestro Gardel), i Gotan Project arricchiscono il loro rivoluzionario stile di frontiera con Tango 3.0. Titolo quantomai azzeccato, dal sapore internettiano. Se infatti il Web 3.0 scandisce la molteplicità di significati che illustrano l’utilizzo della Rete e
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musica Il tango in 3.0 MobyDICK
dei Gotan Project di Stefano Bianchi l’interazione fra tutti i percorsi evolutivi possibili, quel 3.0 incollato alla danza argentina ha il potere di trasformarla in un imprevedibile suono multietnico. Merito di questa multinazionale del baile domiciliata a Parigi, che il disc jockey e produttore inglese Gilles Peterson definisce così: «Quando si
in libreria
parla di una nuova World Music che riesca a mixare la DJ Culture con l’Underground, è chiaro che i Gotan Project sono stati i primi a fondere il folklore con l’elettronica. Senza sacrificare un grammo della loro classe». Nel ’99, per poter cominciare la carriera nel miglior modo possibile, il trio rende omaggio a Tango Project, long playing uscito nell’82 che raccoglieva una pattuglia di musicisti americani impegnati a rielaborare storici tanghi come Por Una Cabeza di Carlos Gardel e Alfredo Le Pera. Makaroff, Cohen Solal & Müller si tengono ben stretto il vocabolo ribaltano Project, Tango in Gotan sfruttando lo slang spagnolo del lunfardo (utilizzato dai prigionieri nelle carceri di Buenos Aires e Montevideo per non farsi comprendere dalle guardie) e il gioco è fatto. Dopo aver rivisitato Last Tango In Paris del sassofonista jazz Gato Barbieri e averla inserita nella Hotel compilation Costes del dj Stéphane Pompougnac, nel 2000 i Gotan Project
mondo
prendono a modello il ballo dei sobborghi per comporre Vuelvo Al Sur/El Capitalismo Foraneo, ipnotico pezzo che affianca il suono urticante del bandoneón (stile Astor Piazzolla) a grumi orchestrali e campionamenti elettronici. La forza tanguera, che s’innamora della drum machine, sprigiona brividi di piacere. Sono le stesse, insinuanti emozioni che troviamo in questo disco dove il suono rallenta per farsi uggioso tra fiati e il bandoneón suonato da Melingo (Tango Square); si riempie di voluttà con archi, pianoforte, sax e un coro di bambini (Rayuela); si fa insinuante disegnando la bellezza di Peligro. Ma il tango, in 3.0, è una magia che in Desilusion si sposa col ritmo ska affidandosi alla voce di Cristina Villalonga (la ritroviamo nella «morriconiana» melodia di Erase Una Vez) e che in La Gloria sceglie il metronomo dell’electrodance puntando su Victor Hugo Morales, leggendario commentatore sportivo d’Argentina che trasforma il classico urlo «gooooool!» in «goooooo-tan!». Poi, idealmente, Buenos Aires incontra New Orleans e Nashville. Ecco, allora, il blues e lo swing di De Hombre A Hombre, il tango e il blues e il jazz di Panamericana, l’audace azzardo di un country argentino che scandisce El Mensajero. Varrà la pena riassaporarli dal vivo, questi incroci fatali di tradizione e ultramodernismo: il 25 maggio all’Atlantico Live di Roma, il 26 al Saschall di Firenze, il 27 all’Alcatraz di Milano. Gotan Project, Tango 3.0, ¡Ya Basta! /Self, 17,90 euro
riviste
UN BOSS PER AMICO
LIVERPOOL, ALL YOU NEED IS JOHN
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l tour italiano è ancora negli occhi di tutte quelle migliaia di persone che hanno affollato gli stadi per vederlo esibirsi. Logica conseguenza di un legame che il Boss ha saputo stringere con la Penisola in decenni di attività. Un’eco che risuona sinuosa nel libro che Stefano Pecoraio dedica all’intramontabile rockstar: Bruce Springsteen. Welcome to Asbury Park (Aliberti, 196 pa-
N
asceva il 9 ottobre del 1940 a Liverpool per poi morire in circostanze tragiche quarant’anni dopo a New York, l’8 dicembre 1980. In mezzo una carriera inimitabile, prima come anima dei Beatles, e poi come anima di un mondo in cambiamento. In vista del settantesimo compleanno di John Lennon, Liverpool ha deciso di fare le cose in grande, e da ottobre a dicembre
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Stefano Pecoraio esplora origini e luoghi di Springsteen, ricostruiti con l’aiuto dell’artista
Da ottobre a dicembre due mesi di eventi in riva al Mersey per festeggiare i 70 di Lennon
Metheny a Bari con il suo ”Orchestrion”: nessuna grande novità, ma la classe resta immutata
gine, 17,00 euro). I primi passi nel mondo della musica, luoghi e persone che ne hanno visto fiorire la personalità artistica (da segnalare il reportage esclusivo dall’ Upstage, riaperto per l’autore dopo 38 anni), i saldi rapporti con la gente comune che hanno consentito al Boss di rimanere sempre con i piedi per terra, nonostante le vertiginose altezze dei suoi successi. Non una semplice ricostruzione di date e avvenimenti, il lavoro di Pecoraio, ma anche il risultato di un fortunato sodalizio tra l’autore e l’artista, avviato nel 2007, che beneficia della spontaneità e dell’immediatezza. Un diario di viaggio godibile e attento, in compagnia di un amico speciale.
dedicherà un intero bimestre di eventi al suo più illustre cittadino. «È una delle figure più rappresentative del ventesimo secolo - ha dichiarato il sindaco della città britannica, Mike Storey - il suo messaggio di pace è così forte da essere d’ispirazione per molti ancora oggi». Si parte il 9 ottobre al Cavern Club, storico locale in cui i Fab Four mossero i primi passi, si prosegue con concorsi di poesia indetti in memoria dell’artista, e svariate esibizioni musicali. Il clou il 9 dicembre all’Echo Arena, per il grande concerto Lennon Remembered.
più ingabbiate». La vivida cronaca che Ignazio Loconte affida alle pagine di jazzitalia.net esprime la palpabile emozione provocata di recente da Metheny al Teatroteam di Bari. Un’occasione per presentare al folto drappello di fan italiani, il disco che il musicista di Lee’s Summit ha licenziato in questo 2010: Orchestrion. Ancora un album all’insegna del Pmg sound, composto da cinque suite supportate da liquide pentatoniche, punteggiate qua e là da marimbe e vibrafoni. Dai virtuosismi travolgenti di Spirit of the air al minimalismo di Entry Point non si avverte nessuna novità o svolta epocale, ma numeri d’alta scuola e piacere viscerale sono in cassaforte.
a cura di Francesco Lo Dico
IL FAVOLOSO MONDO DI PAT orride, felice come un bambino. Guadagna il palco con piede veloce, come chi non vede l’ora di incominciare a giocare. Pat Metheny è in ottima forma fisica, con il volto radioso come da qualche tempo non s’avvertiva. Messo nell’angolo dei ricordi il tour con Meldhau, più da showbusiness che non altro, riacquista la sua identità espressiva, i suoni, le sue fantasie non
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zapping
Anche De Simone celebra SAN DIEGO ARMANDO di Bruno Giurato on fa nessuna meraviglia. Abbiamo letto Giuseppe Marotta, genio vero di Napoli (misconosciuto dal secolo devastato e vile). Raccontava di un adagio di sua nonna: «Come visse la Madonna fino ai quindici anni? Digiuna». Così la vecchia confortava il nipote alle prese con la fame di inizio Novecento. Siamo scesi dal treno e siamo finiti alla cappella Sansevero, il Cristo velato rese invidioso Canova, e ci ha fatto tremare. Il panneggio perfetto, dicono derivato da un procedimento alchemico, il sorriso che non è già più da sepolcro. È un annuncio di paradiso o un blasfemo menefoutisme barocco, soave, sui tre giorni abissali? Neanche Giuseppe Sanmartino, ex presepista e autore della scultura lo sa dire. Abbiamo fatto una seduta spiritica proprio per intervistarlo. Poi abbiamo attraversato Piazza Nilo, dove sognamo di vivere in un palazzo antico coi soffitti alti, e siamo finiti a San Gregorio Armeno: le Madonne di terracotta con sguardo da popolana e pizzi lussuosi. E finalmente lui, Diego Armando Maradona, calciatore. La sua statuetta nel presepio come il Santo che è, a scanso di ogni dottrina e per i tanti miracoli che ha fatto. Raccontava un personaggio di Luciano De Crescenzo (che il secolo devastato e vile conosce molto meglio di Marotta, e che da lui ha copiato quasi tutto): «Io ci ho provato a chiedergli la grazia, a Maradona, a mme me pare che funziona!». E adesso Roberto De Simone, che ha letto, studiato, scritto la musica di Napoli dai canti dei fimmanielli all’Apocalisse, sta scrivendo un’opera su di lui. Sul santo Maradona, che, come disse una volta Vittorio Sgarbi, «è come la Madonna». Non fa nessuna meraviglia, nel reale invaso di spiriti e destino che è Napoli.
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E lo speziale (di Donizetti) va in lambretta di Jacopo Pellegrini n teatro dal nome bellissimo e benaugurante, in cui si osserva un’antica usanza altrove purtroppo tramontata. Siamo a Fano, nelle Marche; sulla piazza principale, sotto a dei portici, da un atrio spazioso si accede a un imponente doppio scalone e, di lì, alla sala tardo neoclassica del Teatro della Fortuna. Ogni anno, a carnevale, vi ha luogo un ciclo di spettacoli intitolato al più famoso scenografo del Settecento, il fanese Giacomo Torelli. Nel corso della breve stagione, uno dei dopo recita è riservato a un ballo in maschera, colla platea sollevata di qualche metro, un dee-jay, luci stroboscopiche, e un buffet succulento a disposizione del pubblico. Per Torelliana 2010 il direttore artistico Fiorenza Cedolins (sì, proprio il soprano; vi chiederete come se la cavi nel nuovo ruolo: diamole un po’ di tempo e stiamo a vedere) ha scelto, di Gaetano Donizetti, Il campanello, noto anche come Il campanello dello speziale, nella primitiva versione rappresentata a Napoli nel 1836, con i dialoghi parlati e la parte di Don Annibale (lo speziale) in dialetto partenopeo.A dirla tutta, per voluttà di completezza, nel corpo di questa stesura sono stati introdotti anche il nuovo brindisi e l’aria composti per una ripresa dell’anno successivo, sempre a Napoli ma tutta in italiano e coi recitativi cantati; senza però togliere il brindisi originario (ch’è poi quello celeberrimo, nato per Lucrezia Borgia, «Il segreto per esser felici»), così da raddoppiare un episodio meramente accessorio e decorativo. Ad allungare ulteriormente il brodo, Serafina - fresca sposa del farmacista Don Annibale, col quale non riesce a consumare per le continue interruzioni notturne cagionate dal geloso cugino Enrico (un mago degli scherzi e dei travestimenti), Serafina, dicevo, durante la festa nuziale esegue pure un altro brano di Donizetti, la cavatina di Norina dal Don Pasquale. Un’applicazione alquanto disinvolta della filologia, dunque, ma anche una preziosa opportunità per valutare l’effetto dell’alternanza canto/parlato. Che, a conti fatti, non funziona troppo bene; e ciò in barba a quei due veri mattatori della scena che rispondono ai nomi di Alfonso Antoniozzi e Roberto De Candia, chiamati a interpretare Annibale ed Enrico. Senza scordare Stefania Donzelli, Serafina argutamente svampita. I meno convincenti, in definitiva, ri-
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sultano gli assegnatari delle parti solo (o quasi solo) recitate: Spiridione, l’aiutante del farmacista (Martino D’Amico), e Rosa, madre di Serafina (Elena Bresciani). La colpa, ripeto, non è - non sempre, almeno - degli interpreti, ma semmai dell’ampliamento subìto dai segmenti recitati e del ritmo non abbastanza serrato impresso alla loro declamazione. Mauro Avogadro, il regista, si dev’essere divertito un mondo a montare lo spettacolino ambientato alle soglie del boom economico, tra lambrette e gonne a palloncino che fanno molto commedia all’italiana; in effetti, ha allineato un bel po’ di gag spiritosi, anche se poi non ha saputo conferire organicità al progetto e individualità ai caratteri. I parlati, d’altra parte, stabiliscono un’aura ironica, straniante in rapporto alla musica: la dialettica tra i due mezzi d’e-
spressione innesca il gioco teatrale d’una «commedia nella commedia» basata sulla parodia. Parodia dell’opera seria in genere (Duetto Serafina-Enrico), parodia di se stesso e di Rossini (in uno dei recitativi aggiunti nel 1837 si fa il verso alla Canzone del salice nell’Otello, e a Fano lo si è felicemente ancorché impropriamente ripristinato). Se Antoniozzi non sembra molto interessato sul piano vocale, De Candia, alle prese con una parte molto acuta (Donizetti la scrisse su misura d’uno dei primi grandi baritoni, Giorgio Ronconi), realizza cose egregie. Al podio è Matteo Beltrami: molto brio (fin troppo, alle volte) e polso saldo con un’orchestra e un coro di buona volontà.
Frank Sinatra visto da Oscar Peterson
di Adriano Mazzoletti l pianista canadese Oscar Peterson (1925-2007) è il quarto grande musicista di jazz a cui è stato eretto un monumento. Lo hanno preceduto, Louis Armstrong, il cui busto si trova a New Orleans in Armstrong Park, la vecchia Congo Square, Sidney Bechet con un busto nella pineta di Antibes e infine Wynton Marsalis (caso forse unico di un monumento eretto a una persona ancora in vita) in Francia, a Marciac dove da anni si svolge un festival sotto la direzione dello stesso trombettista americano. Infine, sempre in Francia, la cui straordinaria predisposizione per il jazz è antica e radicata, sarà ben presto inaugurato un momento a Django Reinhardt a Samois-sur-Seine, la cittadina dove il grande chitarrista manouche scomparve nel 1953. Per ritornare a Peterson, il 30 giugno di fronte al National
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classica
Arts Centre di Toronto, sarà inaugurata una statua in bronzo, realizzata da Ruth Abernethy, del più celebre musicista jazz canadese. Lo scultore è lo stesso che ha realizzato la statua di Glenn Gould che si trova, sempre a Toronto, all’ingresso della Cbc (la Radio pubblica canadese). Nella sua statua Peterson è seduto di fronte a un pianoforte gran coda esattamente come in quella dedicata a Glenn Gould. Chi ha avuto modo di vederle sembra che Oscar e Glenn, stiano duettando a distanza. Ma il fatto più sorprendente è il costo del monumento in bronzo, 210 mila dollari, so-
stenuto interamente, con una sottoscrizione, dagli ammiratori di Peterson. L’amministrazione cittadina si è limitata a mettere a disposizione lo spazio. In questi giorni in Europa, invece, la casa discografica Essential Jazz Classic ha pubblicato in cd una serie di brani che Peterson, accompagnato dal contrabbassista Ray Brown e dal batterista Ed Thigpen, aveva registrato il 18 maggio 1959 a Parigi, per Verve, la ben nota etichetta dell’impresario Norman Granz. In tutto dodici celebri canzoni che furono spesso interpretate anche da Frank Sinatra a cui il disco è dedicato (You Make Me
Feel So Young, Come dance with Me, Just in Time, The Birth of the Blues che Sinatra cantò con Louis Armstrong e altri). Il cd comprende altre nove incisioni realizzate da Peterson a Hollywood in epoche diverse e anch’esse, da tempo, fuori catalogo. I compilatori del disco hanno scelto, nell’immensa discografia del pianista canadese, le incisioni di quei motivi che fecero anche parte del repertorio di Sinatra: I’ve got a World on a String, Night and Day, That Old Black Magic, Blue Moon. Un disco questo non solo con grandi interpretazioni di colui che fu giustamente considerato l’erede di Art Tatum, ma di piacevolissimo ascolto per tutti coloro che amano la canzone classica americana, che così raramente oggi è dato di ascoltare. The Oscar Peterson Trio, A Jazz Portrait of Frank Sinatra, Essential Jazz Classic
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narrativa
di Pier Mario Fasanotti n formidabile duello a distanza ravvicinata in questo quasi-giallo letterario che sta riscuotendo un successo enorme in tutto il mondo. Da una parte c’è Rufus Griswold, critico letterario, mancato scrittore, uomo mediocre e imprigionato in paure para-religiose. Dall’altra Edgar Allan Poe, «lo stravagante ubriacone del sud», il genio delle lettere americane che temeva «l’abisso dell’anonimato», povero, incompreso eppure riconosciuto alla fine come «il grande signore del subconscio». I due s’incontrano nella hall di un albergo. Rufus sta ultimando un’antologia dei poeti americani e dubita della forza «malvagia» dei versi del giovane Poe, rendendosi però conto che ha passato la notte a rimuginare sui testi di quel balordo di Richmond fino a impararli a memoria. L’autore di questi straordinari ritratti, ove affascina la sobbalzante esistenza del figlio di attori straccioni e ubriaconi (poi allevato dalla ricca famiglia Allan), è il norvegese Nikolaj Frobenius, che ha raggiunto la notorietà internazionale con Il valletto di de Sade (proposto dalla Tea nel 2004). Frobenius tratteggia con maestria i due opposti che si fronteggiano tra Baltimora, Philadelphia, Boston e New York. Opposti che esistono in qualsiasi società del mondo, non necessariamente letteraria. Rufus ha idee meschine e conformistiche sull’arte e sulla poesia, crede di essere finalmente una persona importante e influente per il solo fatto di aver composto e prefatto un’antologia. Si crede Dio, ma è di una «cattiveria abbagliante». Concede presenza a Poe in quel suo florilegio, ma ne è quasi costretto. E l’emaciato e pallido Edgar comincerà a ossessionarlo nei sogni e nelle veglie, a tal punto che Rufus, una volta infilatosi sotto le coltri e premutosi contro la schiena della moglie, immagina d’avere accanto Poe in camicia da notte. Il suo rapporto con il poeta «maledetto» sfiora l’ambiguità sessuale, almeno nei deliri onirici. Si domanda ogni giorno come fare per schiacciare l’autore di versi e racconti che giudica intrisi di «lussuriosa porcheria». Si tormenta, sfiora a volte la comprensione del genio ma rigetta, con tortuosi ragionamenti e sotterfugi, la possibilità di riconoscere la sua splendida «barbarie». Preferisce in-
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riletture
Quel duello con Poe sull’orlo del precipizio
libri
teressarsi su come vive lo scrittore, s’interroga sul perché abbia sposato la cugina quattordicenne, chiede in giro se mai certe recensioni senza firma, che sono pugnalate mortali, siano da attribuire a quell’uomo che parla bene e male dei libri sulle riviste letterarie e quando ne parla male è come se lanciasse una freccia avvelenata. Da un lato c’è la creazione letteraria, dall’altro c’è il pettegolezzo e il borbottio di un mediocre. La trama duellante s’arricchisce del colore giallo quando Rufus, e non solo lui, si accorge che alcuni delitti assomigliano troppo, in dinamica e in inventiva macabra, a certi racconti di Poe, in particolare a Berenice e a I delitti della Rue Morgue. Il critico mostra la sua bassezza umana con insinuazioni e lettere anonime, si strugge pensando al colloquio sentimentale tra Edgar e la donna che non diventerà sua seconda moglie. Si mette di mezzo, mentalmente e non. Nel contempo è lo stesso Poe, di fronte a strabilianti coincidenze, a chiedersi se viene prima la letteratura o la vita. Lo scrittore, che praticamente venne cacciato di casa dal padre adottivo, vaga tra incomprensioni, barcolla sotto le scudisciate della povertà e dell’alcolismo. Ma continua a osservare la gente - sua intramontabile passione - e inventa trame. Pesca nel pozzo della paura. Non si sofferma filosoficamente sul concetto di peccato, semmai ne descrive le conseguenze. Nel Demone della perversità, Poe scrive: «Siamo sull’orlo di un precipizio.Vi gettiamo dentro un’occhiata, e malessere e vertigini ci colgono. Il nostro primo impulso è di tirarci via dal pericolo. Nondimeno, inesplicabilmente, restiamo». E scrivendo, giorno e notte, lui rimaneva su quell’abisso, timoroso ed estasiato. Sotto i suoi occhi c’era l’anima degli uomini, il mondo violento. E anche la mediocrità dei tanti Rufus che popolano la terra. Il critico che vuole abbattere «la sudicia fama» del genio si autodistruggerà con la sua amorale impotenza. Se Poe ha scritto di delitti scavando nelle profondità dell’anima, Rufus è diventato solo un delinquente. Se il primo brillerà di fama mondiale, il secondo sarà presto dimenticato e cancellato «da uno schizzo di fango». Nikolaj Frobenius, Vi mostrerò la paura, Ponte alle Grazie, 302 pagine, 18,00 euro
La saggezza di Leo Strauss contro Kojève e la Rive Gauche di Giancristiano Desiderio esercizio che oggi vi propongo di fare è di rileggere un testo apparso or sono quarant’anni, ma ora nuovamente pubblicato in Italia nelle edizioni Sylvestre Bonnard: è il libro di Herbert R. Lottman La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico dal Fronte popolare alla Guerra fredda. L’esercizio, però, non finisce qui. Perché il testo di Lottman va riletto in parallelo con la ripubblicazione presso Adelphi del libro e carteggio di Leo Strauss e Alexandre Kojève Sulla tirannide perché, al di là della pubblicazione in questo volume del dialogo classico di Senofonte intitolato Gerone, il vero argomento è il rapporto tra potere e saggezza, politica e filosofia e il diverso modo di intenderlo che avevano questi due grandi
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pensatori del Novecento. Ora, il rapporto tra pensiero e azione non è forse al centro anche di quella speciale Repubblica degli intellettuali - e, si potrebbe dire, Repubblica degli intellettuali vanitosi - che ci fu sulla riva sinistra della Senna tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del secolo scorso? Herbert R. Lottman è un giornalista americano che ha vissuto gran parte della sua vita a Parigi. Proprio perché è un libro scritto da un giornalista La Rive Gauche è ben documentato, non fa uso di retorica e ci dà un veritiero affresco della vita dei membri dell’intellighenzia parigina ripercorrendo tutta la sua parabola dagli anni trionfali del Fronte popolare agli anni delle polemiche e del declino dopo la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra fredda. I quattro leader indiscussi della Repubblica
degli intellettuali, quasi una sorta di quattro moschettieri, furono André Gide, André Malraux, Louis Aragon, Jean-Paul Sartre. Ma qual era la caratteristica di fondo di questa speciale repubblica del pensiero? Che era un pensiero prestato alla politica e anche qualcosa di più di «prestato» dal momento che la Rive Gauche fu antifascista e antinazista ma non fu anticomunista e, anzi, si può definire filosovietica. Il tratto negativo, dunque, di quella repubblica parigina così alla moda e diventata col tempo mitica e pittoresca, tanto da diventare meta turistica, fu la sua incapacità di essere anti-totalitaria. Tra il 1932 e il 1965, quindi ricoprendo per intero lo stesso dell’affermazione e declino della Rive Gauche, si sviluppa l’interessantissimo scambio epistolare tra Strauss e Kojève che ora, edito, va ad arricchire questo vo-
lume già così ricco con il Gerone di Senofonte, il commento Sulla tirannide di Strauss, la risposta dialettica di Kojéve Tirannide e saggezza e la Replica di Strauss (ma di Leo Strauss mi permetto di suggerire ai lettori, perché l’argomento è il medesimo, anche il testo ora uscito da Marietti: La città e l’uomo). I due filosofi sono divisi sull’essenziale: mentre Kojève, con la sua lettura di Hegel e di Marx, crede nella possibilità e necessità di conciliare filosofia e società, Strauss avverte che proprio in questa pretesa, insieme filosofica e politica, c’è il vero pericolo per la libertà e la radice del male moderno. Strauss si mostra più saggio di Kojève perché non solo sa che non è possibile, ma è consapevole che non è neanche auspicabile una società pienamente razionale. Oggi è ancora questo il problema delle nostre vite.
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Cristiana, Mario e una storia mangiata dal tempo di Mario Donati ll’inizio sorpresa e cortesia. Poi fastidio e risentimento. Fino a un rosario di accuse, colpi ben assestati di una donna sessantenne al suo ex marito che da oltreoceano le scrive nell’intento di recuperare e ravvivare un comune passato. L’agile e intenso romanzo di Romana Petri non è epistolare in senso classico, nel senso che sono leggibili sono le lettere di Cristiana, la protagonista, a Mario. Perché Mario, pur risposato con una bella e giovane donna, si dice disposto a ricominciare con Cristiana? È lei che lo intuisce con brutale lucidità: «Ti stai infilando in un tunnel strettissimo, mi sembri un
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personaggio di uno di quei film in cui, per salvarsi la vita, c’è chi è costretto a camminare carponi in un budello senza aria e senza luce. Non hai l’età per correre questi rischi… e poi, credimi, stai proprio recitando una parte, le lettere che mi scrivi sono il camerino in cui ti trucchi». Il maquillage sentimentale ha il perverso scopo di sentirsi più giovane, credendo che si possa riacciuffare un passato. Soltanto che in quel passato (a quindici anni dal divorzio, con due figli in comune) c’è stata una distrazione «oscena» di lui, e poi tradimenti, e poi ridicole e snobistiche pose di esponente di estrema sinistra che diceva d’essere astemio pur di non bere il vino scadente dei «compagni» proletari.
Cristiana è la donna saggia che regola definitivamente i conti con un improbabile ritorno del passato: «Gran parte della nostra vita viene inghiottita da qualcosa che non la risputerà mai fuori. Gran parte della nostra vita se la mangia il tempo. Anche noi due siamo stati mangiati. Rassegnati e trova pace». L’ex moglie, che si è felicemente risposata, fa notare con garbata crudezza di fare una certa fatica ad accettare la sua stagione matura: «Ma non posso preoccuparmi anche della tua». E poi lo svelamento della personalità di Mario è avvenuto da un pezzo: «Quando sei esasperato diventi crudele, perché quando sei messo alle strette ti vendichi volendo la miseria di
chi ti sta accanto». La donna, che magari può dare l’impressione di essere inizialmente lusingata da un bizzarro quanto gioco di recupero dell’ex marito, il suo percorso intimo l’ha compiuto, «trasformando il tempo dell’attesa in allegria». Poi la stilettata finale: «Perdonami, ma a te lo devo proprio dire che non sei stato tu il mio più grande amore». La figura femminile si stacca dall’infantile confusione del maschio che poco o nulla ha elaborato della propria esistenza e si ostina a riprendere un gioco. Crudele e inutile. Romana Petri, Ti spiego, Cavallo di Ferro editore, 200 pagine, 16,50 euro
Una Victoria per i “desaparecidos”
di Vincenzo Faccioli Pintozzi l dramma dei “desaparecidos”argentini è conosciuto in tutto il mondo. Ma sentire dalla viva voce di uno dei bambini scambiati cosa voglia dire avere avuto una vita falsificata cambia leggermente la prospettiva con cui ci si accosta al testo. Victoria Donda, la più giovane parlamentare di Buenos Aires, scrive un romanzo-memoriale che spiega al lettore passo dopo passo come sia nata una prima volta a bordo di uno dei famigerati “voli della morte” dei generali sudamericani, e una seconda volta - quella vera - quando viene contattata dalle “Nonne di Plaza di Mayo”. Essere la “nipote numero 78” cambia radicalmente, come intuibile, la sua esistenza. Analìa, così era stata chiamata dalla famiglia che l’aveva avuta in affidamento, muore sul colpo
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biografie
per diventare Victoria. Interessante notare come la rivelazione della sua vera ascendenza non le provoca un comprensibile rifiuto della vita: Victoria prende talmente sul serio la sua nuova nascita che decide di dedicare ad essa il resto dell’esistenza. Ed ecco che l’esperienza politica delle “Nonne”, combattenti per la verità di una pagina buia della storia argentina, apre uno spiraglio anche per Victoria. Che però, verso la fine del libro, scrive con molta sincerità: «Dovevo capire cosa implicava il fatto di chiamarmi Victoria Donda, ma al tempo stesso per essere Victoria dovevo ricollocare Analìa e sforzarmi che non sparisse sotto le macerie di una vita edificata sulla menzogna». L’auspicio della giovanissima combattente è la chiave di lettura del libro e, in un certo senso, la chiave di lettura di ogni società che deve fare i conti con un passato scomodo e doloroso. La
lezione di Victoria è che il revisionismo non è una verità assoluta, e che un’esplosione non nasconde tutto sotto le macerie. Anzi, cercando di seppellire Analìa e tutto il suo passato sotto le macerie, Victoria non potrebbe essere mai equilibrata. La lezione espressa dalla giovane autrice, eletta a 27 anni deputata di Buenos Aires (la più giovane nella storia del Paese sudamericano), è una lezione utile non soltanto alle latitudini caraibiche patria delle dittature militari, ma anche in questa vecchissima e sempre giovane Europa. Per cicatrizzarsi, una ferita deve essere esposta all’aria e iniziare a creare i propri anticorpi in maniera spontanea, non indotta. Nel caso argentino, l’esempio della Donda ha aperto la via a una riconciliazione nazionale importante, che potrebbe finalmente dare vita a una storiografia condivisa che faccia luce dagli albori del peronismo a oggi. Una storia condivisa, non combattuta. Victoria Donda, Il mio nome è Victoria, Corbaccio Editore 203 pagine, 17,50 euro
Vivere con l’handicap si può, grazie all’amore di Franco Insardà ichele Pacciano è un giornalista di quelli veri e per il suo lavoro non si fa certamente fermare dalla carrozzella sulla quale è costretto per una tetraparesi spastica fin dalla nascita. A come Amore è la storia della sua vita e del suo handicap, «raccontato a sua madre», ma non solo. Pacciano dimostra che con l’handicap si può anche scherzare e come è riuscito a trasformare la sua carrozzella, da ostacolo, in un’arma che ha usato e usa per farsi valere e riuscire a strappare dichiarazioni a
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grandi personalità: da Arafat a Oscar Luigi Scalfaro. Ma l’handicap in questa biografia si trasforma in un mezzo per osservare gli altri e per osservare quel pezzo di mondo in bilico fra Puglia e Basilicata che è la Provincia di Taranto. Vi fanno capolino pediatri impotenti e stiliste d’antan, disabili gravissimi e fratelli sanissimi, formidabili figure di terapiste, comuniste con i boccoli e una galleria di personaggi familiari su cui svetta positiva la figura dei genitori, i più colpiti dalla disabilità assieme al disabile stesso. E ancora, amici che lo trasportano di peso in gita sull’Aspromonte e colleghi gior-
nalisti, tra i quali il sottoscritto, che lo «cazziano» per una debolezza di troppo. E ancora, il rapporto con le donne, una delle barriere più forti da abbattere per i disabili, vissuto gioiosamente e goliardicamente anche di fronte alle domande più imbarazzanti. Con una ironia che rende Michele Pacciano simpatico a tutti, anzi, spesso, spiazza i suoi interlocutori che si sentono «handicappati» di fronte alla sua schietta naturalezza. A proposito di donne si chiede nel suo libro: «Perché un disabile deve avere solo storie romantiche e grandiose, magari con un fine lieto o tragico? Perché un disabi-
le non può avere un amante?». Insomma Pacciano ci trascina nella sua vita e ci costringe a vedere il mondo dalla carrozzella e da lì cominciamo a capire che qualsiasi tipo di guaio si può affrontare. Magari non con il suo coraggio e con il suo spirito ma con la nostra personale ricetta. Da trovare maledettamente ogni volta che l’esistenza, per un motivo o l’altro, ci spinge giù. Per rialzarsi e gridare ancora una volta «sono vivo». Con le gambe o senza. Michele Pacciano, A come Amore, Armando Editore 75 pagine, 10,00 euro
altre letture La metapolitica
non è una disciplina accademica, però il suo studio rinvia alla filosofia politica. Tuttavia di rado se ne parla in enciclopedie e manuali di storia del pensiero politico, probabilmente perché su di essa pesa tuttora l’accusa di romanticismo con i suoi rischi di deriva irrazionalista. Un’accusa in parte fondata ma che rischia di far trascurare l’altro volto, quello positivo della metapolitica. È quello che nel suo Metapolitica. L’altro sguardo sul potere (Edizioni Il Foglio, 103 pagine, 10,00 euro) fa il sociologo Carlo Gambescia per il quale la metapolitica può rappresentare un’analisi razionale di quello che viene oltre e dopo la politica. Un’analisi imperniata sulle scienze sociali e non sull’astratta ricerca dell’Ottimo Stato o sulla sua abolizione rivoluzionaria.
Qual è la radice dell’odio dell’Islam fondamentalista per l’Occidente? Sono davvero le Crociate la causa remota dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001? Fra gli storici e gli studiosi di politica non pochi addossano alle guerre cristiane la responsabilità di avere inaugurato l’era della colonizzazione europea allo scopo di accaparrarsi le ricchezze della Terra santa e di arruolare nuovi credenti. Questa interpretazione giustifica l’idea di una sorta di peccato originale che condizionerebbe i rapporti dell’Islam con l’Occidente. Non è così per Rodney Stark che in Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle Crociate (Lindau, 362 pagine, 24,50 euro) ricolloca al giusto posto quelle guerre cristiane analizzandone motivazioni politiche e culturali e ridando onore a chi vi partecipò. «Voglio essere un santo. Voglio salvare anime a milioni. Voglio fare del bene ovunque». A pronunciare questa parole non è un uomo comune, è una creatura della notte, il vampiro Lestat. Cristallizzato in un’eterna giovinezza, Lestat è bello come il sole che lo respinge, ma l’oscurità che ha dentro lo tormenta da secoli. La sua brama di redenzione, bontà e amore contrasta con la sua natura di viaggiatore della notte e il suo unico rifugio è la residenza di Blacwood Farm. E proprio qui giunge la bellissima Mona Mayfair, di cui si innamora e per questo amore deve prolungare la sua dannazione…Arriva in Italia Blood (Longanesi, 358 pagine, 18,60 euro), l’inedito romanzo di Anne Rice, autrice del bestseller Intervista col vampiro. a cura di Riccardo Paradisi
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il paginone
NEL CORSO ORDINARIO DELLE COSE IL SUO NOME SAREBBE PASSATO INOSSERVATO, AL PARI DI ALTRI CHE AVEVANO RICOPERTO IL SUO STESSO RUOLO. MA L’INCONTRO CASUALE CON GESÙ GLI HA DATO UN’IMPORTANZA STRAORDINARIA CHE SI È MANTENUTA DURANTE I SECOLI. DAI QUATTRO EVANGELISTI A DÜRRENMATT, PASSANDO PER LA LETTERATURA APOCRIFA, BULGAKOV E ANATOLE FRANCE, ECCO COSA SI RACCONTA DEL QUINTO GOVERNATORE ROMANO DELLA GIUDEA
Il Vangelo secondo Pilato di Sabino Caronia ecchio, amareggiato, Ponzio Pilato incontra un amico conosciuto in Giudea quando era procuratore e a lui racconta le sue disgrazie di amministratore, vittima del proconsole Vitellio. «Chi difenderà la mia memoria?», chiede. L’amico, più frivolo, ricorda una ballerina incontrata in una bettola di Gerusalemme, il cui nome, Maria Maddalena, non viene pronunciato, finita tra i fedeli di un giovane taumaturgo, Gesù il Nazareno. «Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?», chiede l’amico. Ponzio Pilato aggrotta le sopracciglia, si porta la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio, mormora: «Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo». L’episodio, tratto da Il procuratore della Giudea di Anatole France, ben si presta a introdurre il nostro discorso su Ponzio Pilato.
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Ponzio Pilato fu il quinto governatore della provincia romana della Giudea, carica che ricoprì dal 26 al 37
del suo ruolo di giudice di Gesù non finirono col primo secolo né con la letteratura apocrifa o medievale. Anche l’immaginario popolare che mette in primo piano il romano alla ricerca della verità, il giudice che si lava le mani o il governatore indeciso contribuisce alle molte e diverse interpretazioni di Pilato. Considerata l’importanza di Pilato non sorprende incontrare molte e diverse trattazioni della figura storica del governatore. In generale, queste presentazioni sono state influenzate da due fattori. Anzitutto, le fonti a disposizione sono relativamente scarse, e quelle disponibili sembrano offrire ritratti contraddittori di Pilato. Gli scrittori giudei - Filone e Flavio Giuseppe - dipingono Pilato in termini negativi, come un uomo rude e crudele che fu nemico della nazione giudaica. I Vangeli cristiani, invece, secondo l’interpretazione più diffusa, presentano un governatore che, sebbene fosse debole e insicuro, riconobbe l’innocenza di Gesù e tentò di salvarlo dall’esecuzio-
La sua figura è spesso descritta in modo contraddittorio. Per Filone e Flavio Giuseppe, era rude e crudele, nemico della nazione giudaica. Nei Vangeli è invece debole e insicuro, ma capace di riconoscere l’innocenza di Cristo d.C. Uno dei fatti più sicuri del cristianesimo è che Gesù di Nazaret fu crocifisso sotto Ponzio Pilato: esso è infatti documentato non solo dalla tradizione cristiana più antica ma anche dallo storico romano Tacito negli Annali (15, 44). Nel corso ordinario delle cose Pilato sarebbe passato pressoché inosservato, al pari degli altri colleghi governatori romani, e sarebbe rimasto soltanto un nome nelle pagine di Filone e Giuseppe Flavio. L’incontro casuale con Gesù di Nazaret ha fatto sì che il suo nome sopravvivesse nella memoria cristiana acquistando un’importanza straordinaria nei secoli. Il processo di Gesù fu un evento storico che rese necessaria la riflessione cristiana dando così origine alle molte e diverse interpretazioni di Pilato, ma le interpretazioni di Pilato e anno III - numero 12 - pagina VIII
ne. In secondo luogo molte interpretazioni di Pilato paiono riflettere, consapevolmente o no, l’ambiente sociale e politico dei loro autori. Questi Pilati riflettono più la società contemporanea di chi scrive, che la Giudea del primo secolo sotto l’amministrazione di Pilato. Nell’ex Unione Sovietica, Pilato e gli atti a lui attribuiti, ad esempio il lavarsi le mani, furono in primo piano soprattutto nelle opere dell’era staliniana. Il debole Pilato deiVangeli fu considerato una figura particolarmente adatta a incarnare la rinuncia alla responsabilità etica, il compromesso morale e l’inclinazione a pensare a se stessi che molti autori vedevano incoraggiati dall’ideologia staliniana. Esemplare tra queste opere dell’era staliniana fu Il maestro e Margherita di Bulgakov, scritto nel
1938, dove nell’originale interpretazione dell’autore delle scene del processo, Pilato diventa una figura credibile e penosa, la cui rovina è la sua stessa codardia morale. Ma leggiamo: «Al mattino presto del giorno 14 del mese primaverile di Nisan, avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere, nel porticato tra le due ali del palazzo di Erode il Grande, entrò il procuratore della Giudea Ponzio Pilato…». «Un mantello bianco foderato di rosso». Così lo immagina Bulgakov.
Non poteva mancare una fioritura apocrifa attorno a Ponzio Pilato. È soprattutto sulla sua vita successiva che si è scatenata la fantasia apocrifa, compresa quella moderna. A proposito di quest’ultima pensiamo, oltre al Procuratore di Giudea di Anatole France, a Il punto di vista di Ponzio Pilato di Paul Claudel, alla Moglie di Pilato di Gertrud von Le Fort, al Ponzio Pilato di Roger Caillois, al Pilato di Friedrich Dürrenmatt. Soprattutto interessanti sono i racconti sulla morte di Pilato. Per quanto riguarda la sua fine, la cosiddetta Paradosi di Pilato, una ipotetica tradizione storica delle sue vicende, descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l’imperatore. «Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò. Pilato si spinse a vedere.Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l’animale ma essa attraversò l’ingresso della caverna e uccise Pilato». Più impressionante è la narrazione fatta da un altro testo apocrifo, La morte di Pilato, in cui il procuratore muore suicida a Roma con un colpo del suo pugnale, ma non trova pace neanche come cadavere: «Viene legato ad un grosso masso ed immerso nel fiume Tevere. Gli spiriti maligni e immondi, rallegrandosi di quel corpo maligno e immondo, si agitavano tutti nelle acque». Si racconta anche che Pilato finì in esilio in Francia, a Vienne, sul Rodano, nelle cui acque un giorno si gettò. A volte ancora adesso sul fiume si allunga l’ombra inquieta del procuratore della Giudea: indossa la toga che portava quel giorno nel pretorio, e chi ha la sventura di incontrare quell’ombra è destinato a morire entro l’anno. Ritorna anche qui il riferimento alla toga, come nel
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cessi per lei un numero da giocoliere.“Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea”». A preparare questa conclusione è il celebre interrogativo, l’eterna, irresolubile domanda, che ritorna dal Vangelo di Giovanni (Gv. 18, 38): «Che cos’è la verità?». Non a caso anche il Pilato di Bulgakov si trovava a porre la stessa domanda e rifletteva: «O Numi! Gli sto chiedendo delle cose che non c’entrano col processo… Non riesco più a dominare la mente…». È significativo il fatto che nel Vangelo di Giovanni Pilato pronunci la famosa domanda «Che cos’è la verità?» senza aspettare risposta, come si comprende dalla frase immediatamente successiva: «Detto questo uscì di nuovo verso i Giudei». Su questo è opportuno soffermarsi. Ma andiamo con ordine. Nel «Diario di un romanzo», che costituisce l’ultima parte del volume di Schmitt, è sottolineata, a conferma della loro credibilità, la differenza fra i quattro testi evangelici. È appunto così. Per Marco, Pilato è tutt’altro che debole e insicuro, è un politico astuto che manipola la folla per evitare una situazione imbarazzante ed è anche un rappresentante forte degli interessi dell’Impero. Nel Vangelo di Matteo, la rappresentazione del prefetto è secondaria di fronte all’intento primario che è di far vedere che la folla giudaica respinge il suo messia e se ne prende la responsabilità («Pilato, visto che non otteneva nulla e che, anzi, stava sorgendo un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla dicendo:“Sono innocente del sangue di questo giusto: voi ne risponderete”. E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue è su noi e sui nostri figli”»). Nel racconto di Luca, Pilato ha un ruolo importante in quanto rappresentante della legge romana che dichiara Gesù innocente e, tuttavia, egli ha tratti piuttosto ambigui, principalmente la debolezza, dal momento che permette ai rappresentanti della nazione giudaica di costringerlo a condannare un innocente.
Sopra, “Ecce Homo” di Antonio Ciseri. A destra, Rod Steiger interpreta Ponzio Pilato nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Nella pagina a fianco una statua del procuratore romano della Giudea
racconto di Bulgakov. Una tradizione abbastanza antica vorrebbe invece che Pilato e sua moglie Claudia Procula si convertissero al cristianesimo. La tradizione apocrifa cristiana esalta la conversione di Pilato, che muore come martire decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo. Non per nulla la chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano.
La conversione del procuratore sarebbe avvenuta in coincidenza della resurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del Quinto secolo, dove si legge che «entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime. Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: “Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio”. Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: “Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi […]”. Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: “Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti!”. Nell’istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima. Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato». Due romanzi recenti si
ispirano alla figura del procuratore di Giudea. Con il Ponzio Pilato di Giorgio Linguaglossa, la cui vena è drammaticamente nichilista («Oggi finalmente ho capito che tutte le nostre azioni fluiscono naturalmente nell’alveo del nulla. E che del nulla non rimarrà nulla. E, poi, che cos’è il nulla? Che cos’è l’universo? Che importa e a chi può importare se il nulla sia infinito o più piccolo della capocchia di uno spillo? Che differenza fa?»), è stato pubblicato in questi giorni, in una nuova edizione completata dal capitolo «Diario di un romanzo rubato», che ne ha accompagnato la scrittura, il Vangelo secondo Pilato di Eric-Emmanuel Schmitt. Il ro-
In Giovanni, al contrario, Pilato è un manipolatore sarcastico e sicuro della sua autorità che, nel condannare Gesù, è in linea con gli interessi dei Giudei, ma fa pagare loro un prezzo molto alto costringendoli ad accettare Cesare come unico re. Nell’esposizione di Giovanni, Pilato si allea con il mondo ostile che rifiuta Gesù, cosicché, mentre Gesù si prepara alla glorificazione sulla croce, tutti i sovrani della terra, con Pilato come rappresentante di Roma e dei Giudei, sono giudicati e trovati manchevoli per la loro risposta negativa a Gesù. Ma leggiamo.Alla domanda di Pilato: «Dunque sei tu re?», Gesù risponde: «Tu dici che io sono re. Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» e a questo punto Pilato pronuncia la famosa domanda «Che cos’è la verità?», ma poi, detto questo, esce fuori senza aspettare la risposta. Quella di Pilato, che esce senza aspettare risposta, non è un’espressione di irritazione verso un prigioniero che controbatte insistentemente alle domande del governatore con allusioni a un altro mondo e alla verità, sebbene sul piano puramente letterario si potrebbe forse rintracciare qualche elemento in questo senso, ma, al contrario, allo stesso modo degli oppositori giudei, Pilato mostra di
«Avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere». Così è descritto nel “Maestro e Margherita”: un esempio di codardia morale, la stessa che veniva incoraggiata dai metodi dell’era staliniana manzo di Schmitt, con la sua interessante problematica religiosa, è costituito dapprima da un prologo in cui il narratore è lo stesso Yeshua che nel culmine tenebroso del Getsemani ripercorre il suo cammino esistenziale e poi dal vero e proprio Vangelo secondo Pilato, un’inchiesta innescata dalla scoperta che il corpo di Yeshua è scomparso dal sepolcro. Il capitolo dedicato a Pilato, strutturato nella forma epistolare di una ventina di lettere indirizzate dal procuratore al fratello Tito a Roma, si svolge con ritmo serrato fino alla necessaria conclusione: «Nel caso di Yeshua ho cercato di salvare la ragione, di salvarla ad ogni costo contro il mistero. Ho fallito e ho capito che c’era qualcosa di incomprensibile. Mi lamento spesso con Claudia: prima ero un romano che sapeva; ora sono un romano che dubita e mia moglie ride e batte le mani come se fa-
non essere dalla verità e dunque, come i Giudei, fa parte di quel mondo che non crede e che ripudia Gesù. Anche la sua domanda sulla verità è inoltre mal posta. La domanda appropriata non era: Che cosa è la verità, ma: Chi è la verità. Il governatore non capisce che la verità è fatta persona nel prigioniero che è davanti a lui. Rientrando nel pretorio, dopo l’incontro con Caifa, Pilato aveva chiamato Gesù e gli aveva detto: «Tu sei il re dei Giudei?» e Gesù aveva risposto: «Dici questo da te stesso o altri te l’hanno detto di me?», a cui Pilato aveva replicato: «Sono forse io un giudeo?». Per Giovanni la risposta alla replica di Pilato («Sono forse io un giudeo?») è sì. Nel respingere Gesù infatti Pilato, come singolo individuo e come rappresentante dell’Impero, si è unito al mondo dei non credenti, quel mondo che per Giovanni è rappresentato simbolicamente dai Giudei.
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Cuore di mamma
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e gli imperativi del fare
di Pier Mario Fasanotti niziamo con un ragionamento molto semplice, addirittura ovvio se non banale. Sui programmi di intrattenimento della televisione pomeridiana. Chi li può seguire? Gli uomini, e molte donne, non riescono perché lavorano. I ragazzi, su Rai e Mediaset, non trovano appigli: per il vecchiume e la leziosità delle proposte e perché hanno ormai due alternative, se proprio vogliono stare davanti a uno schermo, ossia il computer e i serial, i documentari e i film offerti da Sky. Chi rimane dunque? Le casalinghe. Ma soprattutto quelle che per età sono propense a far passare il tempo sedute sul divano. Insomma, le nonne. Ecco la chiave che ha permesso a certi produttori di aprire la scatola delle possibili sorprese. O il pettegolezzo tipo rotocalco da parrucchiere, con relativo chiacchiericcio da salotto (anzi: tinello), o il sapore d’antico. Soffermiamoci su quest’ultima suggestione e capiamo perché è stato affidato ad Amadeus, un presentatore dalla faccia pulita e onesta, il programma Cuore di mamma (Rai 2). La cornice scenografica e cromatica è ovviamente il cuore. Ospiti sono tre mamme di altrettante ragazze, che stanno sullo sfondo, invisibili o perlomeno non individuabili se non per un’idea, assai vaga, di sagoma. Dinanzi a future suocere sfilano tre pretendenti. I giovanotti. Attraverso un congegno semplice e moderatamente divertente uno dei tre diventerà il principe azzurro. Mater docet et imperat, però. Alla prossima
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puntata l’incontro ravvicinato tra coetanei. Si presentano Gabriele, laureando in medicina, napoletano con gli occhi blu, Andrea, aria furbetta da torinese che vuol piacere a tutti e aspirante capo del personale, e Mimmo, meccanico «orgoglioso e testardo», dolce, timido. Raffica di domande da parte delle mamme. Ci sono intermezzi affidati a un osservatore ospite, Renato Balestra, stilista biondo di mezz’età che gioca sulla battuta sferzante senza preoccuparsi di offendere. Torna la pacata tenzone con le mamme che, alla voce «approfondimento», vanno a ispezionare il grado di pulizia dei concorrenti. Balestra se la ride sotto i baffi che non ha, ben sapendo che «qui si giudica la scorza». Al capitolo «intelligenza» casca un po’ l’asino che sorregge la trasmissione. Viene presentato un filmato e… Manco a farlo apposta c’è una prosperosa ragazza che si sfila, una dopo l’altra, magliette di vari colori. Sullo sfondo un uomo grassoccio e sudato che passeggia con fare curioso, con lieve accenno alla libidine del voyeur. Le domande quiz vertono sul colore delle magliette e sui tic del guardone.Vince il torinese. Ma Gabriele il napoletano rimonta. Una mamma, dando l’impressione di un formidabile intuito, gli riconosce
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una certa profondità di pensiero e di sentimenti malgrado l’aspetto «da ragazzino». Lui si frega con le proprie mani dando l’impressione di frivolezza: quando gli passa davanti la formosa valletta - la stessa che ha simulato lo spogliarello del filmato - tende la mano e si presenta. Non si sa mai. La trasmissione presentata da Amedeus è anche una segnaletica sociologica, per dirla con parole gravi. Il termine più usato è «solare». È l’equivalente di «allucinante» degli anni Settanta e Ottanta. Che vorrà mai dire, non so. Forse che non vanno di moda
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la malinconia, il ripiegamento su se stessi, la riflessione prolungata. Si deve ridere, si deve essere fortemente ottimisti, e magari senza l’odioso sfioramento del dubbio: questo l’imperativo dell’epoca «del fare», dell’«intraprendere», della società intesa come azienda. Quel che è certo è che tutti coloro che compaiono in tv si divertono come matti. Noi un po’meno. Ma il tasso medio di giocosità è ormai questo. Inutile avanzare le solite proteste o lamentele «da intellettuale con la giacca di velluto» (frase superbamente attuale di Antonio Albanese).
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IO, NAPOLEONE
TEORIA E TECNICA DEL GOSSIP
DA BETLEMME A EMMAUS
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e la lettura del Cinque maggio vi insinua profonda malinconia, l’isola d’Elba tanta inquietudine, e la Corsica un’incontenibile entusiasmo, è arrivato il momento di mettere le mani su Napoleon-Total war, secondo capitolo di una serie fortunata, che ha raccolto più bonapartisti oggi che al tempo del Grande Corso. Anche in questa nuova avventura, la sostanza non cam-
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impatto dei social network sulla cultura contemporanea, non è affare da rubricare a noterella di costume. Per conferma, bussare al dipartimento di Informatica dell’Università La Sapienza di Roma, dove insigni studiosi hanno messo a punto una formula matematica in grado di calcolare la velocità di propagazione del gossip all’interno di piattaforme come Facebook
er quanti sognano da tempo di trascorrere il periodo pasquale a Gerusalemme, o hanno avuto la fortuna di farlo in passato e hanno il desiderio di rievocarne il ricordo, Pellegrinaggio in Terra Santa - Una guida alla scoperta dei luoghi della fede, è un ottimo supporto. Appartenente alla collana divulgativa Cinehollywood, il documentario ripercorre settantuno luoghi della fede
Arriva su console il secondo capitolo dedicato alle gesta del Grande Corso: “Total war”
Alla Sapienza di Roma uno studio in grado di calcolare la velocità del pettegolezzo sul web
Cinehollywood presenta “Pellegrinaggio in Terra Santa”, un viaggio nei luoghi della fede
bia. C’è da liberare la propria sindrome napoleonica, mettersi alla testa delle truppe francesi alla conquista del Vecchio Continente, e sperare in un meteo più clemente al momento decisivo. Non provate nemmeno a godere di un dorato buen retiro, perché in men che non si dica sarete deposti: il gioco prevede infatti drastici provvedimenti per quanti temporeggiano. A livello tattico, arriva inoltre una gustosa novità, rispetto a Empire: battaglie navali di un certo interesse innestate su un motore grafico decisamente più reattivo che nel primo episodio. Un consiglio spassionato: evitate trasferte invernali nei dintorni di Mosca.
e Twitter. Il complicato studio, coordinato dal professor Alessandro Panconesi insieme ai dottorandi Flavio Cherichetti e Silvio Lattanzi, si chiama in termini più esatti Teorema della diffusione del gossip e conduttanza del grafo, impervia formula matematica grazie alla quale i ricercatori sono in grado di prevedere i tempi di diffusione di un dato pettegolezzo. Lavoro originale e creativo, che a Lattanzi ha fruttato la chiamata di Google, e a Chierichetti quella di Cornell. E poi non dite che status scorrevoli e chiacchericcio virtuale non servono a nulla.
cristiana lungo gli snodi cronologici fissati dai Vangeli. Si parte dalla Basilica dell’Annunciazione, costruita nel punto in cui Maria fu visitata dall’angelo, e si prosegue poi con Betlemme e la Basilica della Natività, Nazareth, il fiume Giordano, Gerico, il Monte delle Tentazioni e quello degli Ulivi, il Getsemani, e ancora il Golgota, la stanza dell’Ultima Cena, la Cripta della Dormizione ed Emmaus. Narrazione puntuale, informazioni storico-geografiche rapide ma efficaci, buona qualità di riprese e inquadrature, creano un suggestivo intinerario nella storia terrena del Cristo, che corrobora lo spirito dei credenti, e riesce ad affascinare gli scettici.
a cura di Francesco Lo Dico
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cinema Steve, Simon MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
olpo di fulmine (il mago della truffa) è un film che sfugge alle categorie note, tanto da costringerlo a un percorso festivaliero di qualità, come Cannes e Sundance. Jim Carrey e Ewan McGregor sono i protagonisti di una storia troppo bizzarra per non essere vera; è l’avventurosa, estrema e rara storia d’amore omosessuale che non perora la causa con ricatti e piagnistei. Steve Russel (Carrey) è un bambino adottato che sa da sempre di essere gay. Tra la voglia di compiacere propria dei bambini salvati, la famiglia cristiana evangelica e l’ambiente conservatore texano, il ragazzo sceglie di fingersi «normale». Diventa poliziotto, sposa una donna dolce e devota (Leslie Mann), fa un paio di figli e suona l’organo in chiesa; fino a quando un grave incidente quasi mortale gli dà la scossa che lo convince a uscire allo scoperto. Pianta lavoro, famiglia e tradizioni e assume lo stile esibizionista ed euforico di chi si sente «liberato» da una vita di menzogne. Cerca la madre naturale ma lei non solo non ne vuole sapere del figlio respinto, è pure legata ad altri due figli che si è tenuta e goduta. Steve (Carrey) si dà a una vita trasgressiva spinta e s’innamora di un bel ragazzo che copre di regali costosi; per poterlo coccolare meglio, sfrutta le sue esperienze da sbirro per sfidare il codice penale: imbroglia, truffa e ruba per finanziare un grandioso, scintillante stile di vita, sfoderando uno straordinario talento da magliaro. Finisce in galera, e padroneggia subito la vita penitenziaria con la sua strabiliante capacità di manipolare le regole a suo favore. Un giorno arriva Phillip (McGregor), un nuovo detenuto: biondo, dolce, con gli occhi azzurri. Per Steve è il colpo di fulmine del titolo (in originale è I Love You Phillip Morris) e il delicato, pauroso biondino contraccambia subito. È il classico rapporto «co-dipendente», nel linguaggio psicoanalitico: Phillip è in cerca di protezione e Steve gliela offre su un piatto di finto argento. Con la sua trascinante, impressionante abilità nell’arte d’arrangiarsi pure al gabbio, Steve riesce a condividere una cella con il suo amato e a dargli ogni sorta di beneficio normalmente vietato in carcere, salvo per chi sa «gestire» il sistema. Le spavalde operazioni mariuolesche che mette a segno per uscire di prigione (e non una volta), liberare Phillip in anticipo e mantenere un tenore di vita consono con il suo titanismo sarebbero incredibili se non fossero documentate. Gli attori sono bravi ma manca la «chimica» tra due interpreti eterosessuali per rendere convincente la loro passione. Il film ha ritmo ed è molto divertente; non rovineremo il piacere di scoprire le svariate, rocambolesche pazzie di un personaggio alla disperata ricerca d’amore ma privo della capacità di conservarlo. La sola nota insulsa è la scritta finale, in cui s’incolpa George W. Bush, allora governatore del Texas, per la resa dei conti di un simpatico e incorreggibile bidonaro che se la tira addosso con tutte e due le mani, in perenne coazione a ripetere. Da vedere.
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e noi italiani
“Colpo di fulmine” è un’avventurosa storia d’amore gay che ha il pregio, oltre che divertire, di non perorare la causa con ricatti e piagnistei. Una chicca il “road movie” di Wald, mentre la “comédie humaine” tricolore dei Vanzina non si adatta ai dipietristi. Ma c’è altro ancora… Simon Konianski era una delle chicche dell’ora ridimensionata sezione Extra - l’altro cinema di Mario Sesti, al Festival del cinema di Roma. Ridotta da una quarantina d’opere miste a una decina di soli documentari, non vedremo più all’Auditorium piccole gemme narrative come questa, senza star e già passate ad altri festival, che rischiano di non trovare distribuzione in Italia. In questo onthe-road di formazione, il regista belga Micha Wald racconta l’evoluzione di Simon (Jonathan Zaccaï), un bamboccione di 35 anni, laureato in filo-
sofia, disoccupato, svogliato, depresso e cacciato dalla moglie, una focosa ballerina cubana molto goy. Il padre malato Ernest, un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, accoglie in casa il figlio a pezzi che rifiuta l’identità ebraica, al punto di portare una felpa con una scritta filoaraba. I due zii Konianski, Maurice (Abraham Leber) e Mala (Iréne Herz), impiccioni e prodighi di consigli, desiderano solo che trovi una brava moglie ebrea e metta la testa a posto. Ernest (Popek) muore, lasciando al figlio l’obbligo di seppellirlo in Polonia, dove è
nato. Con pochi soldi, il viaggio si fa in auto, con gli zii chiacchieroni, il bimbo, un coniglio, il cadavere di Ernst e il suo fantasma parlante. Ci sono rimandi a metà tra il Woody Allen di Edipo relitto, episodio del film omnibus New York Stories, in cui la mamma appare in cielo e continua a vessare il figlio, e Little Miss Sunshine, un altro divertentissimo road movie famigliare con cadavere del papànonno a bordo. Il film di Wald, però, è più vicino allo spirito scanzonato di Sunshine, che allo sfiduciato nichilismo di Woody. Da vedere.
I fratelli Vanzina tornano con La vita è una cosa meravigliosa, commedia di costume che osserva vizi e vezzi degli italiani. Gigi Proietti è chirurgo in una clinica il cui proprietario finisce sotto inchiesta per i soliti impicci che riguardano la sanità. La moglie svampita del chirurgo (Nancy Brilli) lo convince a rivolgersi a un collega professore universitario, perché dia un aiutino all’esame di anatomia del figlio somaro. Vincenzo Salemme è il presidente di una banca, sotto pressione perché foraggi di fondi neri i soliti politici trafficoni. Enrico Brignano è un poliziotto addetto alle intercettazioni che cerca di incastrare i suddetti, e finisce fregato quando scopre che la fidanzata arrotonda facendo la squillo. Lungi dai due fratelli la voglia di denunciare e indignarsi; sono piuttosto osservatori divertiti e ottimisti della Comédie humaine in versione italica. Ironici e consapevoli, presentano gli italiani così come sono, come siamo tutti più o meno, figli di una cultura allergica al merito e all’olio di gomito, cultori della dea Raccomandazione, un po’ imbroglioni, furbetti, sempre a caccia di una scorciatoia. I Vanzina, schizzati dagli snob e amati dal pubblico, scelgono di lasciarci con un sorriso sulle labbra, anziché con la morte nel cuore. Si astengano i dipietristi. Gamer è un violento, trucido thriller avveniristico, in cui c’è un gioco seguito in tutto il mondo, in cui condannati a morte telecomandati da giocatori a distanza lottano per la sopravvivenza. Gerard Butler è un gladiatore incastrato da uno scienziato miliardario: deve salvare se stesso, la moglie schiava-prostituta (Amber Valletta) e la figlia rapita. Rumoroso, sboccato, ipercinetico. Il piccolo Nicolas e i suoi genitori è l’adattamento di un celebre romanzo francese per bambini di René Goscinny e Jean-Jacques Sempé. Racconta le avventure di un gruppo di compagni di scuola e del loro piano per scongiurare il paventato arrivo di un nuovo fratellino di Nicolas. Campione d’incassi in Francia, adatto a tutti i bambini. Nat e il Segreto di Eleonora è un’animazione europea sulle avventure di Nathaniel, la biblioteca piena di favole che eredita, e la combriccola di personaggi quali Alice, Peter Pan, Capuccetto Rosso e compagnia, che escono dalle pagine per aiutare Nat a imparare a leggere e salvare le favole dall’estinzione. Per bimbi piccoli. Evviva la Pasqua di resurrezione!
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poesia
L’Eternità svelata da Emily Dickinson di Roberto Mussapi na poesia visionaria e trasparente, quella di Emily Dickinson, americana (Amherst 10 dicembre 183015 maggio 1886), una delle voci più alte della lirica moderna. Quella che proponiamo qui si presta a una riflessione legata all’occasione che stiamo vivendo, tra Passione e Resurrezione. Non appare Cristo, in questi versi, l’incrocio delle due realtà, Passione e Resurrezione, si profila immediato al nostro mondo di uomini, come se la vicenda di Cristo fosse già accaduta, metamorfosandosi nell’uomo, o presentita, profetizzata prima della sua venuta nel tempo. Un caso straordinario di facoltà vaticinante della poesia: non predice il futuro, ma svela la verità in ogni tempo, passato, presente e futuro, svela nel senso letterale di togliere il velo, rivelare alla luce ciò che si presentava confuso o nascosto. La poesia, insomma, non riguarda essenzialmente il mondo del visibile, da cui parte e a cui molto attinge, pertiene essenzialmente l’invisibile, la parte invisibile del visibile, come a dire l’anima che crea la forma, e senza la quale la forma quindi non esisterebbe.
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Era molto inoltrato il nostro viaggio: i nostri piedi erano quasi giunti a quella strana svolta sulla strada dell’essere che ha nome Eternità. Il nostro passo di colpo divenne timido, i piedi procedevano riluttanti. Davanti a noi c’erano città, ma nel mezzo la foresta dei morti. Nessuna speranza di tornare, dietro, una via sigillata. Davanti, il bianco vessillo dell’Eternità. E Dio a ogni porta.
Emily Dickinson (Traduzione di Roberto Mussapi)
Prima di entrare nel limpido enigma di questi versi è opportuna una rapida considerazione sul concetto di poesia visionaria: credo che, come diceva Socrate, quello del poeta non sia un vero mestiere ma un mestiere, o arte (il termine greco tekne li include entrambi) sui generis: la poesia accade quando un dio entra nel poeta e lo illumina. È evidente che l’uomo deve essere preparato a questa visita, abituato all’ascolto e alla traduzione della visione in immagini leggibili. La disciplina è insomma fondamentale, affinché non sfugga nella sua pienezza la visione. In questo senso ogni vero poeta è comunque visionario: anche l’irruzione di scene quotidiane di angoscia nel laico Montale (il cavallo stramazzato sul selciato, il muro d’orto che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia), sono vere e proprie visioni: la scena quotidiana si stacca dal tempo quotidiano e assume un valore immediato e universale. In alcuni poeti, diversi da Montale, come il grande Dino Campana, che guarda caso Montale amava molto, la visione è quasi necessaria, quotidiana. I poeti consapevolmente visionari, quelli che cioè accettano questa condizione come in qualche misura naturale o fatale, sviluppano un atteggiamento più teso e attento alla visione stessa, si abituano a conviverci, traducendola con sicurezza in immagini e storie che l’uomo possa comprendere per vie sensibili. È evidente, ad esempio, che senza un rapporto fraterno con la visione Dante non avrebbe mai potuto nemmeno concepire un’opera come la Divina Commedia, un viaggio agli inferi con la lunga risalita fino alla luce e al fuoco di Dio: è evidente che un’impresa simile non nasce dall’idea di un trastullo letterario. Dante, il più grande di tutti, manifesta una visionarietà piena, plastica, carnale e spirituale ai massimi livelli delle due realtà: le sue visioni si realizzano in quadri simili alla pittura di Caravaggio e al teatro di Shakespeare, basati sulla
straripante evidenza della rappresentazione. Molti poeti visionari, alle soglie dell’età moderna, coltivano la visione come possibilità di dilatazione, perdita e arricchimento dell’io: è il caso di Rimbaud. In Emily Dickinson la visione non è moltiplicatoria, ma verticale e trasparente: non brillano colori, immagini in movimento, non c’è la vertigine della visione vorticosa, piena di vento e turbini di acqua e luce di Dylan Thomas: la visone qui pare di stampo platonico, l’accesso alle alte sfere, la contemplazione di un paesaggio siderale pitagorico, astratto. Sentiamo come in questi versi domini un silenzio stellare, quando spesso il visionario, da Giovanni dell’Apocalisse a Dylan Thomas, è poeta del fragore, di un superiore ordine sinfonico. Qui pare di sentire l’ombra dai passi impercettibili che sentì l’uomo di Emmaus, la scena vede l’umanità in viaggio, (i nostri passi), tutta l’umanità, ma come rappresentata da una sola figura, quasi un’ombra. Quell’uomo, che tutti li rappresenta, aveva compiuto la sua strada per giungere non a una piazza, a una meta finale, ma a un’altra strada, detta Eternità. Un’eternità che non è chiusa, ma è un’altra strada, sconosciuta. Inebriante: il viaggio non ha fine, ma crescita infinita, per quanto misteriosa. E poi, nella strada dell’eternità, una città, che immagino la città celeste. E la foresta dei morti: nessun vivente può escludere la presenza della morte dal proprio orizzonte. E non si può tornare indietro, la strada alle spalle è sigillata. Davanti il bianco vessillo dell’eternità e Dio a ogni porta, pienezza assoluta. La foresta dei morti, la presenza incancellabile della Passione. Il bianco vessillo e Dio a ogni porta: il superamento di quella foresta grazie alla Resurrezione.
Il sogno della poetessa americana pare raffigurare il senso di vuoto, di vuoto sgomento che è inscindibile dalla Passione: noi non pensiamo solo al calvario, alle ferite, al sangue, alla corona di spine, agli sputi, alla spugna d’aceto, al grido di dolore. In noi è incancellabile l’immagine del giorno successivo: le donne si trovano davanti a un sepolcro vuoto. Quel vuoto è la chiave del mistero: la scomparsa del corpo, anche del corpo, delle vestigia di Cristo crea angoscia, l’angoscia del vuoto, dell’assenza. Ma subito l’angelo conferma la realtà di quel vuoto: è stato svuotato il sepolcro, è stata svuotata la morte. «Dio a ogni finestra» sembra ricollegarsi a quell’evento: oltrepassata la foresta dei morti è la morte stessa a svuotarsi, nel pieno rinato di una nuova vita. Qui la Dickinson scrive versi magistrali sul valore salvifico del vuoto e del silenzio, che divengono momenti di passaggio a una nuova pienezza. Penso ai versi finali di un famoso sonetto di Shakespeare «e morta la morte non c’è più il morire». O alla versione moderna di Dylan Thomas «and death shall have no dominion», «E la morte non avrà dominio». Che poi, il superamento della morte, vale a dire il significato della Resurrezione, è la spinta che muove ogni preghiera e ogni poesia, e anche solo ogni speranza sillabata in silenzio da labbra umane.
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il club di calliope
UN POPOLO DI POETI
SERA DI PASQUA
Come una falce La luna tagliente Recise fiori di stelle E le regalò alla terra Ma queste caddero E divennero pioggia Svanendo Nella notte di San Lorenzo
Ma se un Cristo discende su pareti di sangue, in croce, tra lumi indiscreti, il mio tempo è un’esanime pietà, la mia bellezza assunta a vanità.
San Lorenzo Alberto La Femina
Oh nei cancelli rosa della sera dove un’ala languente peccaminosa apre le fonti della notte, il barbaglio avviticchiato che crescere non osa!
Un tuffo al cuore. Lo schianto è in diretta sul terzo binario. Al ritmo di un’Ave inchiodi la testa sul finestrino. Arriva l’inverno e tu stai lì a prendertelo tutto in faccia senza tremare dal freddo e sapevi che non avrebbe fatto ritardo.
Il cavallo inaridito e leggero trascina la carrozza silenziosa dove una fronte adombra vaporosa al mondo rinunciato il suo splendore.
Laura Vallieri
Piero Bigongiari «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
IL DIFFICILE COMPITO DI ATTRAVERSARE CONTROCORRENTE in libreria
orrei che questo libro fosse letto come un racconto dell’attenzione e della cura, non come un saggio letterario. Non si discute alcuna teoria. Si indica, piuttosto un compito: il racconto dei libri, degli incontri che li hanno preceduti e accompagnati, come si cercano e si accompagnano le presenze nel corso dei nostri anni». Così scrive Sebastiano Aglieco, poeta che ama soprattutto la poesia degli altri, nella premessa a Radici delle isole (La Vita Felice, 203 pagine, 16,00 euro). Per Aglieco la poesia è compito e offerta. Compito di dare forma e senso; offerta del mettere le parole da qualche parte; lasciarle lì, malgrado noi, perché qualcuno le accolga. Aglieco con questo spirito entra nella poesia autentica redigendo un diario dei libri. Il bisogno di conoscere da vicino l’autore delle parole spinge Aglieco a inventare un modo originale di fare critica letteraria sulla poesia contemporanea. Nel mettere insieme i poeti e le loro storie, fatte di versi e soprattutto di esperienza, Aglieco preserva la scrittura per interessarsi della poesia che egli intende come cura dovuta a chi vuole parlare delle cose, fe-
«V
di Nicola Vacca
rendosi in esse. Nasce da quest’esigenza tutta interiore l’idea dell’autore di mettere insieme i nomi delle persone che ha incontrato nei loro libri. Senza mai smettere di essere nel tempo, Aglieco incanta il lettore con una prosa suggestiva sulla poe-
parole e delle cose, essa deve prima attraversare l’umanità tutta, non c’è scampo. Forse è in questo attraversamento che si logora e nello stesso tempo si rende necessaria. Da questo punto di vista, dunque, non si scrive per narcisismo - è pura illu-
Aglieco redige un diario dei libri, dove rivisita i poeti contemporanei incontrati nelle loro opere. Un modo originale di fare critica ma anche qualcosa di più... sia. Questo diario dei libri è un libro necessario, perché chi lo stila continua a credere con grande entusiasmo che ha ancora senso testimoniare la poesia. I poeti che Sebastiano Aglieco predilige sono quelli che considerano il fare poesia un atto collettivo del percepire e dell’essere percepiti, del chiedere e del dare conto. Insomma i poeti che sanno rendere conto del loro attraversamento, che sanno guardare le cose sporcandosi le mani con la vita. «Se la poesia è, in fondo, - scrive Aglieco - un dialogo col Nulla, con la natura deperibile delle
sione - ma per attraversarsi». Le dichiarazioni di poetica che piacciono a Sebastiano Aglieco sono quelle che remano controcorrente, che cercano nella parola non il compiacimento del canone, ma la ragione per testimoniare il passaggio del nostro essere qui e ora, perché «scrivere poesie è un gesto che ci lascia soli, nudi di fronte alle cose, agli altri, a noi stessi». Oggi che anche la letteratura è in pericolo l’esperienza di scrittura di Aglieco, che nasce dai gesti e dagli incontri che solo in seguito diventano libri, va preservata perché ripor-
ta all’attenzione soprattutto quella naturalezza del poeta che si avvale del linguaggio delle parole per affermare lo sporgersi dell’essere nel mondo senza maschera e soprattutto evitando di parlare al mondo sotto le mentite spoglie dell’affabulazione. Il poeta cui guarda Sebastiano Aglieco è colui che ha cuore la condizione della parola e che scrive perché sa di trovare nella corrispondenza misteriosa tra le parole e il proprio sentire la giusta via per agire mettendosi sempre in cammino verso l’altro, senza il quale non potrà portare a termine l’esperienza dell’ascolto da cui passa inevitabilmente la salvezza che ogni giorno sembra a tutti noi un traguardo irraggiungibile. Recentemente Adonis ha scritto: «La poesia è sempre contro: anzitutto contro il poeta, intendo contro la sua debolezza, sottomissione e arrendevolezza. Contro la macchina dello schiavismo nella società, che è una macchina infernale, contro la bassezza del mondo». Di questo è convinto anche Sebastiano Aglieco, quando in assoluta libertà scrive che se la parola si fa luogo di un «corteggiamento da puttane», meglio un poeta in meno se egli si fa servo del mondo.
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mostre
a vita nomade d’un recensore conosce strane connessioni, se non proprio coincidenze o contraddizioni. Ci è capitato, a poche ore di distanza, nella stessa giornata, di frequentare due episodi parelleli e apparentemente slegati. Eppure curiose connessioni-divergenze ce li hanno fatti accostare.Alla Scala è capitato di vedere, e di uscirne non irritati, ma infastiditi, la proprio stupida e gratuita non-regia spettacolare, anzi musical, del pochissimo, per nulla wagneriano Tannhauser del Fura del Baus. Che è stato un gruppo teatrale di grande genialità radicale, negli anni giusti, e ora è uno scadente epigono di sé, come ha già dimostrato l’infelice e inconsistente Ring «science-fiction» del Maggio Musicale. Ma qui va anche peggio: che senso ha voltare, senza nessun senso, l’ambiente gotico-medieval-Minnesänger in un Bollywood davvero ri-bollito e sciocchino, solo per far piacere all’indiano Zubin Mehta? Il quale supporta questi oltraggiatori d’ogni senso registico, con complice, stolta furbizeria, e accetta incomprensibilmente l’insulsaggine musicale di trapiantare il Venusberg sul Gange, di travestire i pellegrini che vanno a Roma da sgallentanti Hare Krishna e di fare del vecchio Maestro Cantore alto-tedesco Wolfram (l’autore di Parsifal!) un bonzo hindi, che non capisci più niente dell’opera. Attenzione, non è che siamo dei bigotti della regia, o «isottiamo» per abitudine, strepitando per gli aggiornamenti che posson pur esser sensati, come quelli che riesce a tramare, per esempio, un Ronconi, perché lì c’è l’intelligenza dell’opera e non poca fantasia. Ma allora, uno si chiede, perché alla ricca e rappresentativa mostra sul volto di Gesù (che si è aperta alla Venaria Reale di Torino, in concomitanza con l’ostensione della Sindone) se noi vediamo una serie ripetitiva di Cristi belli, biondi, zeffirelleschi, azzimati e occidentalizzati, invece del tipo bassotto e semita quale Cristo doveva esser probabilmente, perché non protestiamo contro il Mantegna o il Giambellino, contro Luca della Robbia o Rubens, contro Memling o Michelangelo? Che sono tra i molti protagonisti di questa regale mostra, curata da un intelligente sacerdote-storico dell’arte qualeTimothyVerdon, e che mai si sono posti il problema filologico di dipingere un Cristo geograficamente verosimile e «palestinese»? Certo, sino alla modernità, influenzata anche dal cinema (e c’è voluto un Pasolini per tentare una bellezza nuova e inedita, di compromesso, come quella assai intrigante del suo Gesù-Enrique Irazoqui, a confronto con quelli più edulcorati di Robert Powell, di Max Von Sydow o Jim Caviezel per Mel Gibson), nessuno si è posto davvero il problema d’esser fedele alla verità storica-geografica dei fatti
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Viaggio nel volto e nel corpo di Cristo di Marco Vallora
arti
raccontati dai pur reticentiVangeli. (Con l’eccezione forse di qualche fiammingo o di Antonello da Messina, anche se curiosamente il fratello di Giambellino, Gentile Bellini, a Costantinopoli ci è stato davvero, per dipingere il ritratto del sultano Maometto II, e i luoghi «veri» in fondo li ha conosciuti). Ma nondimeno nessuno ha sentito il dovere di rendere pittoricamente il Golgota credibile, o l’Egitto della fuga minimamente verosimile (palme sì, ma di oasi tra verde rigoglioso e datteri generosi) e una Galilea, che non fosse venetizzata, d’impianto leonardesco o duereriano. Per Barocci, per esempio, l’incontro-Noli me tangere con la Maddalena non avviene su uno sfondo di duro deserto, o al massimo di disorientate piramidi egizie, ma al cospetto del Palazzo Ducale di Urbino, progettato dal Laurana, nel Quattrocento umanista di Monsignor della Casa e Piero della Francesca! Rimosso questo problema anche un po’ superfluo (ma è interessantissima la tavola votiva a due scomparti di Anonimo Olandese, in cui al profilo affilato e barbato, stranito e medaglistico del Cristo benedicente, si affianca, in caratteri gotici, la trascritta, leggendaria Lettera di Lentulo. In cui si descrive dettagliatamente la fisionomia e la statura del Cristo: «i capelli color nocciola avellana non matura, lisci quasi sino alle orecchie, dalle orecchie crespi di riccioli»), ebbene la mostra di oltre 150 capolavori si propone come un interessantissimo viaggio dentro il corpo di Gesù (piagato, offeso, seppellito, risorto, ricoperto di unguenti, nell’insuperabile cimasa della Pala di Pesaro di Giovanni Bellini). Dentro il suo volto comunicativo e tormentato («sorridente, però non perde mai la sua gravità» suggerisce ancora Lentulo: «non è stato mai visto da alcuno ridere, ma piangere sì») e intorno al suo sacro «trasformismo» di personaggio imprendibile e «scandaloso». Lo vediamo così bambino benedicente o dormiente, tra le braccia pietose della Madonna, che «sa» e che nelle più diverse Annunciazioni accetta, con un «sì», suggeritole divinamente dalla Bibbia (che sta appunto leggendo, mentre plana l’Arcangelo Michele), questo concepimento, impensabile e decisivo, per la storia della fede. Riscattando il suo ruolo peccaminoso e subalterno di Eva. Così, filtrando da bassorilievi antichi ad arazzi rarissimi, da affreschi a codici miniati, da olii, sculture e oreficeria, ci inseguono gli occhi, ispirati e teneri, di colui che rappresenta per l’arte il più versatile «eroe» dall’iconografia mutevole.
Gesù. Il corpo, il volto nell’arte, Reggia di Venaria Reale, Torino, fino al 1 agosto. Catalogo Silvana
autostorie
Comincia dall’anima l’educazione alla guida di Paolo Malagodi dispetto di nome e cognome prettamente teutonici, Siegfried Sthor è tanto italiano da parlare con schietto accento romagnolo. Nato a Rimini nel 1952 da padre tedesco e madre emiliana, la sua carriera agonistica è iniziata a 14 anni con i kart, dove eccelse partecipando anche a diverse edizioni del campionato europeo e di quello mondiale. Per passare nel 1976 alle competizioni automobilistiche su pista e dopo che, nel 1975, il pilota riminese si è laureato con lode in psicologia a Padova. Segue l’esercizio, per cinque anni, della professione nei servizi sanitari mentre continua l’attività sportiva e con il predominio, tra l’altro, nel campionato italiano di Formula 3 nel 1978. Sino ad approdare, nel 1981, ai vertici della Formula 1 come compagno di Riccardo
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Patrese nella scuderia Arrows, con la quale disputerà 14 Gran Premi di quella stagione. Mentre è del 1982 la scelta di abbandonare le corse, ma senza appendere del tutto il casco al chiodo e per dedicarsi, primo in Italia, a tenere corsi per la guida sicura. Con la creazione di una propria azienda, denominata «GuidarePilotare», che in oltre ventisette anni e sull’autodromo di Misano Adriatico ha interessato più di 130 mila allievi, con lezioni mirate a condurre meglio l’auto sia in velocità sia in sicurezza. Secondo un metodo originale, non limitato a insegnare tecniche di guida riguardanti il comportamento del veicolo nei diversi frangenti, quanto piuttosto teso a far emergere le capacità mentali di previsione e autocontrollo più adatte a scongiurare incidenti. Caratteristiche che rendono unici i corsi del pilota riminese, come esperienza di guida
sportiva che porta a conoscere e dominare, nel contempo, le proprie emozioni in situazioni al limite o di emergenza, cui far fronte con reazioni e manovre appropriate. Sulla scorta di una metodologia che Siegfried Sthor ha progressivamente affinato, sommando alle esperienze agonistiche le proprie competenze psicologiche, affiancate dall’approfondimento degli studi di psicoanalisi e psicoterapia. In un curriculum di tutto rispetto, per di più affiancato da una vasta produzione pubblicistica che oggi si arricchisce di un manuale (La guida sicura: tecnica, psicologia e filosofia della guida, Fucina editore, 288 pagine, 19,00 euro), capace di affrontare in maniera completa e chiara le questioni che possono presentarsi quando ci si siede al volante, per suggerire anche il modo di affrontarle con il giusto equilibrio
mentale. «Perché la guida di un veicolo è spesso inquinata da esigenze irrazionali: fretta, competizione, scarso rispetto verso gli altri e infine non il vero piacere della velocità, ma la condanna moderna del nostro tempo alla velocità perenne. Tuttavia i manuali di guida, quei pochi che esistono, sembrano spesso lontani da una simile realtà - osserva Sthor - ed è in questo campo che si inserisce il mio contributo, che cerca di non essere arido e freddamente tecnico ma legato alla vita quotidiana, al nostro vissuto personale, al nostro modo di pensare; perché ho una conoscenza diretta delle cose della guida, aiutato anche dalla mia esperienza di psicologo. Ho imparato sbagliando, correggendo, dubitando e facendo. Ed ora che so quanto c’è da sapere mi stupisco ancora di fronte alla complessità dell’animo umano al volante di un’automobile».
MobyDICK
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architettura
Così si proteggono gli Uffizi dal rischio sismico a qualità e la dimensione del patrimonio architettonico disseminato sull’intero territorio nazionale richiedono un’azione costante di monitoraggio per verificarne lo stato di conservazione e per garantirne, con adeguata prevenzione, la salvaguardia. È un’azione conoscitiva onerosa, che richiede la presenza permanente di periti sul territorio, la conoscenza degli edifici, sia sotto il profilo tecnico costruttivo che storico. Una vigilanza che è necessaria, ma la cui efficacia riposa sulla capacità di interazione attiva tra discipline e ambiti conoscitivi diversi. Il terremoto del 6 aprile 2009 all’Aquila ha mostrato ancora una volta la fragilità delle architetture e delle opere
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La Torre di Piazza San Marco a Venezia. A destra, un corridoio degli Uffizi a Firenze fotografato da Candida Höfer
danza
di Marzia Marandola d’arte, danneggiate quando non distrutte dalla scossa. I danni, se in alcuni casi sono da attribuire a un’insufficiente manutenzione, in genere sono da imputare a interventi impropri, che hanno aggravato la condizione statica del monumento. Si è verificato infatti che, soprattutto nelle cupole, l’inserimento di cordoli di irrigidimento in calcestruzzo in opere murarie o la sostituzione dei tradizionali tetti a orditura lignea, con tetti laterocementizi, più pesanti e rigidi, hanno determinato uno stato di discontinuità materica tale da compromettere la statica, fino al crollo del manufatto. A questo nevralgico tema è rivolta la direttiva ministeriale del 2007 per la valutazione e la riduzione del rischio sismico, della specifica Direzione Generale del Ministero dei beni artistici e culturali (Mibac), allora diretta da Roberto Cecchi, che predispone linee guida di intervento sugli edifici storici. I risultati dello studio sperimentale che, approntato dal Ministero con il coordinamento di Laura Moro, ha visto la collaborazione di specialisti di tre università italiane - Roma Tor Vergata (Claudia Conforti), Iuav Venezia (Paolo Faccio, Anna Saetta), e Genova (Sergio Lagomarsino, Stefano Podestà) - sono stati discussi in un convegno a Venezia il 19 marzo. Sono stati presentati gli esiti di due importantissimi progetti pilota: quello sugli Uffizi di Firenze e quello sugli antichi campanili di Venezia. Le indagini conoscitive iniziate nel 2008 (2013 termine previsto) hanno intrecciato fecondamente professionalità e co-
Un inno alla vita nel nome di Pina Bausch di Diana Del Monte
a dodicesima edizione del festival Prospettiva Danza Teatro si è aperta mercoledì sera sul palcoscenico del Teatro Comunale di Padova Giuseppe Verdi con la Scuola di Ballo del Teatro alla Scala. In scena, un programma in tre parti che accostava Who Cares di George Balanchine, su musiche di Gershwin, all’ironico Synphony in D di Jirí Kylián, su musiche di Haydn. Fra i due mostri sacri della danza novecentesca, l’ensemble formato dagli allievi della scuola ha presentato Selene da Luminare Minus di Emanuela Tagliavia, insegnante di danza contemporanea dell’istituto scaligero dal 1999, su musiche originali di Giampaolo Testoni, suo collaboratore dal 2004. Dopo la serata inaugurale, gli appuntamenti del festival padovano andranno avanti fino al 25 maggio, ospitati, oltre che dal Teatro Verdi, anche dalTeatro alle Maddalene e nel Bastione Alicorno. Durante questo periodo, Prospettiva Danza Teatro si propone di aprire un’ampia vetrina sul mondo della danza, accostando agli spettacoli dal vivo, work-
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shops, letture, proiezioni e invasioni danzate all’interno della scuola secondaria. Così, accanto agli spettacoli della BeijingDance/ LDTX, primo esempio di formazione indipendente del mondo della danza professionale cinese; dell’Aterballetto, che metterà in scena il popolare Certe notti, produzione del 2009 su musiche di Luciano Ligabue; della compagnia Kaos Balletto di Firenze, con Corpi celesti, sono in programma un workshop di Danceability, punto d’incontro tra danzatori abili e diversamente abili, la proiezione di Scarpette Rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger del 1948 e di La danse - Le Ballet de l’Opéra de Paris, documentario di Frederick Wiseman del 2009, una masterclass con i danzatori dell’Arsenale della Danza diretta da Ismael Ivo, direttore della Biennale Danza di Venezia, e un incontro con Simona Bucci, coreografa ed ex danzatrice della compagnia di Alwin Nikolais, che proporrà alcune letture per ricordare il lavoro del suo maestro.Tra gli appuntamenti più interessanti, Hello Pina!, una
parentesi interamente dedicata a Pina Bausch, coreografa scomparsa improvvisamente l’anno scorso per un tumore fulminante. Il cuore del progetto si svolgerà tra l’8 e il 9 maggio con un workshop di improvvisazione coreografica tenuto da Malou Airaudo, storica interprete del Wuppertal Tanztheater, e un incontro curato da Eugenia Casini Ropa, una delle voci italiane più autorevoli nell’ambito della storia della danza. «Come suggerisce il titolo - spiega Eugenia Casini Ropa - con questo progetto ci proponiamo di festeggiare Pina in modo un po’ diverso dal solito, ovvero mostrando di questa grande artista il lato più ironico, il suo amore per la vita». L’incontro, dunque, intitolato Un brindisi con Pina, sarà una serata all’insegna delle testimonianze e dei ricordi inerenti agli aspetti più teneri e positivi di questa artista, che evoca anche immagini angosciose. Per tutto il mese di maggio, poi, sarà possibile visitare la mostra di Francesco Carbone, fotografo ufficiale dell’artista, che esporrà alcune immagini inedite.
noscenze scientifiche diverse, alle quali hanno dato un contributo fondamentale le competenze degli organi di soprintendenza locali e centrali che hanno guidato, nei cantieri e nei sopralluoghi, il contatto diretto con la materia costruttiva degli edifici. L’approfondimento più ampio e articolato ha interessato il grande complesso cinquecentesco degli Uffizi fiorentini opera di Giorgio Vasari. Attraverso gli strumenti della ricerca storica, del restauro e della tecnica, unendo le diverse compe-
tenze e professionalità, sono state ricostruite con inedita precisione le fasi costruttive, dagli sterri di fondazione del 1560 alle opere di restauro seguite alla bomba mafiosa del 1993. Le tracce fisiche e le potenziali conseguenze in caso di catastrofe di queste fasi storico costruttive, accertate attraverso accuratissimi rilievi critici e modelli statici, costituiscono la premessa conoscitiva di una salvaguardia proiettata nel futuro.
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fantascienza
di Gianfranco de Turris i sarebbe da chiedersi, approfondendo il tema dal punto di vista sociologico e psicologico ma anche simbolico, il motivo per cui, a partire soprattutto da Il Signore degli Anelli (2001), sia così straordinariamente cresciuto il numero di film più o meno spettacolari, e non solo hollywoodiani, che potremmo definire non-realistici, e quindi di science fiction, fantasy, horror, ma anche di pura avventura con componenti decisamente fantastiche. Sembrerebbe che il XXI secolo sia partito all’insegna di quella famosa «fuga dalla realtà» che tanto faceva inorridire i critici impegnatissimi dell’epoca infausta dell’«egemonia culturale del Pci» (una definizione che - ormai nessuno se lo ricorda più - venne coniata all’inizio degli anni Novanta dal politologo liberale Nicola Matteucci, tra i fondatori de Il Mulino). «Fuggendo dalla realtà» - era la tesi si diceva addio alle proprie responsabilità ideologico-politiche nel presente per cercare un Altrove disimpegnato. Tesi vecchissima, risalente addirittura agli anni Trenta, se è vero come è vero che di questo venne accusato nientemeno che Tolkien quando pubblicò Lo Hobbit (1937). La sua risposta fu la conferenza, poi saggio, Sulle fiabe (1939) dove invece teorizzò l’«evasione del prigioniero» dalla prigione della Realtà grazie alla fantasia. L’«evasione», spiegò, non è la «fuga del disertore» dal campo di battaglia, ma la legittima ricerca di libertà al di là delle sbarre del carcere.
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Infatti, i mondi sub-creati dallo scrittore sono alternativi e autoconsistenti e in essi vigono valori fondanti diversi da quelli del mondo in cui si vive. Potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che continuano ad apparire pellicole di questo tipo? La ricerca di Realtà Alternative più soddisfacenti rispetto alla quotidianità? Potrebbe essere, se intendiamo questo scopo esplicito o implicito, cercato volontariamente oppure esposto inconsapevolmente, valido anche per i film di tipo catastrofico e apocalittico: un memento per il futuro, una messa in guardia rispetto agli errori dell’oggi. Non solo, ma anche l’esposizione di una «visione del mondo» diversa. Spesso, a dire il vero, questa traccia si muove lungo strade scontate, ovvie e prevedibili, sovente «politicamente corrette», che strizzano l’occhio a movimenti di opinione diventati molto conformisti (ecologismo di maniera e radicale, spiritualismo alla New Age, buonismo stucchevole e scontato, ecc.), però, al di là di questo, ci sono film che meritano un approfondimento per capire quali siano le loro origini intellettuali e che cosa ci vogliono dire. Un caso esemplare è una pellicola recente circa la quale ci si può chiedere: fuga o evasione? E per rispondere occorre andare alle sue radici ispirative. Di solito, anche se non manca qualche eccezione, i film di science fiction, fantasy e horror hanno alle loro spalle delle fonti letterarie in genere esplicite ma assai più spesso implicite, non dichiarate. Ciò avviene non tanto per nasconderle (gli appassionati le scoprono subito) quanto semplicemente perché sono date per scontate: soggettisti e sceneggiatori angloamericani, influenzati inconsciamente da romanzi o racconti letti per anni frullano il tutto e ne traggo-
ai confini della realtà Fuga o evasione? MobyDICK
Il caso di “Codice Genesi” no qualcosa di nuovo. È successo con Avatar e succede con Codice Genesi di Albert e Allen Hughes, uno di quei film che conviene, appunto, approfondire dal punto di vista delle «fonti». Qui l’idea di base non è tanto la descrizione del dopo-catastrofe (qualunque sia stata la sua origine), quanto la trasmissione di cultura e religione attraverso un
Bradbury nell’immortale Fahrenheit 451: in una società del futuro, che odia i libri e che quindi li brucia perché essi non contengono la verità ma soltanto fantasie, fandonie e falsità, un gruppo di persone si ribella a tanta follia. Alla fine il protagonista Montag raggiungerà una isolata comunità di «uomini libro»: ognuno di essi è un libro perché se lo è imparato a
Non è un Altrove disimpegnato quello evocato dalla letteratura fantastica che è all’origine anche del film di Albert e Allen Hughes. Dove si racconta di un uomo-libro, che alla maniera di Ray Bradbury impara la Bibbia a memoria per poterla trasmettere a un’umanità post-apocalittica. Indicando così una via d’uscita mezzo che potrebbe sembrare desueto. Ma fra i resti di una civiltà che non può più disporre del medium cibernetico, telematico, informatico e digitale, resta solo… il libro, lo snobbato «supporto cartaceo». Sic-
ché, Eli, il personaggio principale, non è altro che uno degli «uomini libro» di cui ci ha parlato ormai sessant’anni fa Ray
memoria. Proprio come Eli, il quale, pur essendo stato privato del suo prezioso volume, è la «Bibbia di re Giacomo» (e come tale si presenta nella cittadella dei sopravvissuti), perché l’ha imparata a memoria, e quando l’avrà dettata integralmente potrà morire in pace. E infatti il titolo originale del film, The Book of Eli, non si deve tradurre Il libro di Eli, ma più esattamente La Bibbia di Eli, in quanto in lingua inglese il the Book per eccellenza e con la maiuscola è, appunto, la Bibbia. Egli è una specie di Messia che porta un Verbo dimenticato che, materialmente, ha ritrovato sotto un cumulo di macerie perché una Voce gli ha detto di cercarlo proprio lì. L’altro
punto di riferimento del film è Un cantico per Leibowitz di Walter Miller jr. (1959), un bellissimo romanzo, di recente ristampato nella collana Urania Biblioteca.Anche qui lo scenario è da dopo-bomba: la civiltà è stata distrutta e a mantenere viva la conoscenza ci pensano dei frati dell’Ordine Albertiano di San Leibowitz che nei loro monasteri sparsi negli ex Stati Uniti, proprio come durante il Medio Evo, trascrivono pazientemente i libri che rintracciano provvedendo a stamparli. Compito difficile perché cultura e scienza, considerate responsabili della catastrofe atomica, sono state bandite.
Lo stesso avviene nel mondo di Codice Genesi dove tutte le copie della Bibbia sono state distrutte (eccetto quella trovata da Eli) in quanto considerata fonte «ideologica» della misteriosa catastrofe. E così come nel romanzo, anche nel film le copie sono trascritte e stampate per preservare la conoscenza, grazie agli antichi torchi e alle vecchie linotype. La civiltà avrà così qualche speranza per poter riprendere il proprio cammino. Evasione dalla realtà, dunque, in un mondo postapocalittico dove, più che denunciare le cause di essa, se ne propone una via d’uscita culturale/spirituale indicando un mondo alternativo basato su valori diversi rispetto a quelli che hanno provocato la catastrofe. Sopra e a sinistra, Denzel Washington in “Codice Genesi”. Al centro, il fumetto originale