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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Nelle sale “L’uomo nell’ombra”
IL DOPPIO SALTO MORTALE DI POLANSKI di Anselma Dell’Olio
rima di entrare nel merito di un’opera meritevole solo perché impreziostrizzata d’occhio ironica al pubblico. Inoltre, The Ghost Writer («scrittore Con sita da un maestro della suspense (Rosemary’s Baby, L’inquilino) fantasma», meglio del truce termine italiano «negro») è un romanzo che l’ex giornalista politico Harris ha scritto con la penna intinta nella bicerchiamo di capire l’entusiastica accoglienza per un noir il thriller che, se portasse un’altra firma di prestigio, sarebbe stato le, per vendicarsi - e con lui tutto l’establishment liberal di Holfantapolitico “Ghost trattato con meno deferenza. Roman Polanski, nel nuovo lywood - per l’odiato sostegno che ha dato l’allora primo Writer” il regista polacco thriller fantapolitico L’uomo nell’ombra (The Ghost ministro inglese Tony Blair agli Usa nella guerra al terrore. Così Polanski usa Blair in due modi contrapWriter) fa un doppio salto mortale, furbissimo e rinfresca la memoria della propria posti: rinfresca la memoria della propria viin direzioni opposte.Tratto dal romanzo pulp vicenda personale e foraggia il livore progressista cenda, e foraggia il livore progressista per la d’alto bordo del colto mestierante Robert Harper la guerra preventiva voluta da Bush guerra preventiva. Nel thriller il primo ministro si ris (Fatherland, Imperium, Mondadori) racconta di chiama Adam Lang, ma il riferimento a Blair è talmenun uomo famoso, osannato e odiato, braccato dalla giue sostenuta da Blair. Ma il suo te sfacciato che lo scrittore temeva una querela, «ma conostizia, isolato in una villa delle vacanze in un paese che non tocco è magistrale... scendolo non lo farà, non è nel suo stile». L’amico di Bush non è può lasciare, e assediato dalla stampa. I paralleli con la vita del reun tipo vendicativo, perciò il suo fan deluso Harris ha architettato libegista premio Oscar (Il pianista) ora agli arresti domiciliari, in attesa di ramente un assassinio morale in piena regola. giudizio per abuso sessuale di una tredicenne nel 1977, sono evidenti, una
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Parola chiave Monachesimo di Gennaro Malgieri Imprevedibilmente… Erykah Badu di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Per un pugno di versi Alla riscoperta di Enrico Thovez di Francesco Napoli
Greta Luna. La Garbo 20 anni dopo di Orio Caldiron La Shoah delle Solovki di Pier Mario Fasanotti
Il Barocco variabile della Natura in posa di Marco Vallora
il doppio salto mortale di
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(un pelato, minaccioso Jim Belushi). La casa editrice ha pagato dieci milioni di dollari per le memorie di Adam Lang (Pierce Brosnan, ottimo), discusso ex primo ministro britannico che si è ritirato da poco. Si cerca un nuovo «scrittore ombra»: il primo è annegato cadendo dal traghetto ubriaco (era lui sulla spiaggia) e bisogna sostituirlo al più presto. I dialoghi, brillanti e affilati, riescono bene a Harris (ha collaborato allo script, al regista va il merito della solida struttura); il battibecco tra l’editor inglese snob di Lang, che vorrebbe uno scrittore non commerciale, e lo yankee concreto Maddox, stabilisce subito l’antica rivalità tra raffinati ed esangui ex colonialisti e rozzi, pragmatici ex colonizzati. «I nostri magazzini sono zeppi d’autobiografie politiche in bella prosa» ringhia Maddox, «pronti per il macero». Poi si gira verso Ghost: «Tu gli darai “cuore”, come hai promesso». All’incontro è presente Sidney Kroll, l’avvocato di Lang (Timothy Hutton). Una volta appurato che Ghost è il prescelto, Kroll gli consegna un enorme manoscritto. «Le memorie di Lang?», chiede Ghost. Kroll: «No, è un altro libro; vorrei la sua opinione». Ghost sospira: si vede che per i 250 mila dollari che avrà, più l’elevazione sociale, si esigono da lui «favori» come questo. Sceso dal taxi davanti a casa, è aggredito da un motociclista che lo stende e fila via con il pacco. Ghost dice al suo agente di sentirsi «un’esca di caccia grossa» (ottima traduzione di tethered goat nell’originale) mandato allo sbaraglio dal committente per vedere se qualcuno ha interesse a rubarlo, convinto che sia il libro di Lang. Ghost comincia a pensare che la morte del suo predecessore non sia suicidio né una morte accidentale.
(Blair avrebbe vinto la causa: le leggi antidiffamazione inglesi sono favorevoli all’accusa). Polanski, la cui vita è un alternarsi di buona e bestiale sorte, con questo film si è assicurato un consenso doppio - personale e politico - dall’esercito d’artisti e intellettuali che tifa per lui: da Woody Allen, a Mike Nichols, da Steven Soderbergh a Salman Rushdie, che dopo il suo arresto in Svizzera ha firmato appelli indignati per «il martirio» di un tale insigne cineasta. Abbiamo ammirazione per l’artista (anche quando tratta materiale inferiore al suo talento dà sempre il meglio di sé), compassione per le sue spaventose disgrazie e poca simpatia per il personaggio. Ma tra l’arrogante, incauto polacco e il bilioso, vendicativo inglese, è preferibile il primo. Infatti illumina d’eccellenza l’intreccio fallato di un competente giallo da aeroporto; e poi perché persino chi non crede nella «iella» ha qualche dubbio davanti alle inaudite sofferenze che hanno investito Polanski, di cui solo l’ultima gli può essere in qualche misura addebitata.
Il regista ancora ai domiciliari con braccialetto elettronico alla caviglia, ha avuto un percorso talmente romanzesco che è difficile non recensire lui insieme con le sue opere. Ha montato il film prima in cella, e poi in soggiorno obbligato nel suo chalet a Gstaad. Il risultato è straordinario, visto il materiale di partenza. Ghost Writer (Ewan McGregor) è un demotico scribacchino, la cui produzione letteraria consiste nel rielaborare i ricordi di celebrità-fuffa, per renderli appetibili alle masse. Ghost Writer (non ha altro nome nel film) guadagna bene: ha da poco trasformato le memorie di un mago famoso in un bestseller, ma ha voglia di migliorarsi professionalmente. Il doppiaggio e l’adattamento dei dialoghi in italiano sono perfetti. Ghost, per esempio, ha un accento lievemente cockney. L’Inghilterra è ancora segnata da antiche divisioni di classe; si capisce che Ghost non sia andato a Oxbridge, e questo rafforza la sua condizione di outsider rispetto a Lang e il suo clan. Nella versione italiana, la differenza sociale è suggerita attraverso le intonazioni di Pierferdinando Favino. La direzione del doppiaggio è di MauraVespini, di alta professionalità. Un altro felice esempio è il titolo della dozzinale autobiografia del mago scritta da Ghost. In inglese è I came, I sawed, I conquered (Veni, vidi, segai); nel film diventa Veni, vidi, stregai, una trovata geniale. Il film si apre con un traghetto che incombe sulla scena; emerge dalle brume oceaniche e attracca lentamente al molo dell’isola dove Lang si è ritirato, in un’inclemente notte invernale. Macchine e camion parcheggiati sul ponte hanno i fari accesi, enormi occhi allineati che bucano il buio. Gli addetti allo sbarco, in cerate nere con strisce catarifrangenti, dirigono con torce e gesti gli invisibili guidatori, in un’ordinata discesa dei veicoli dall’imbarcazione. Resta sul ponte una Bmw (product placement) vuota e spenta: agganciata da un carro attrezzi, strilla la sirena antifurto e lampeggiano i fari, mentre viene trascinata via. Cambio scena su una spiaggia notturna; s’intravede un rotolo di cenci (un cadavere?) che dondola tra le rocce sul bagnasciuga, battuto dalle onde. Questo l’antefatto, da brivido, che stabilisce il tono noir con tocco magistrale, coadiuvato da una colonna sonora perfettamente calibrata, mai invadente (le musiche di Alexandre Desplat, Un profeta, The Fantastic Mr. Fox, ricordano quelle del grande Bernard Hermann). Cambio scena: Londra, interno giorno. Ghost e il suo agente Rick Ricardelli (Jon Bernthal) incontrano un importante editore americano, John Maddox anno III - numero 14 - pagina II
polanski
L’UOMO NELL’OMBRA GENERE THRILLER
DURATA 128 MINUTI PRODUZIONE GERMANIA, USA 2009 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION
REGIA ROMAN POLANSKI INTERPRETI EWAN MCGREGOR, PIERCE BROSNAN, TOM WILKINSON, OLIVIA WILLIAMS, KIM CATTRALL, TIMOTHY HUTTON, JAMES BELUSHI, JON BERNTHAL, JAYNES BUTLER, DAPHNE ALEXANDER
Mentre Ghost inizia la collaborazione nell’algida villa moderna sull’isola, con pareti di vetro che inquadrano un paesaggio tetro e umido (il film è quasi monocromatico), l’ex ministro degli Esteri di Lang Richard Rycart (Robert Pugh), da lui licenziato, lo denuncia alla Corte di giustizia internazionale per crimini di guerra. L’ex primo ministro, «succube» di Bush, avrebbe rapito sospetti terroristi con passaporto inglese in Pakistan, per consegnarli in extraordinary rendition alla Cia in un paese terzo dove sarebbero stati torturati. Martha’s Vineyard fuori stagione (sostituita dal mare del Nord) è assalita da reporter e pacifisti furiosi. La moglie di Lang (Olivia Williams) vuole che il marito affronti le conseguenze a Londra a schiena dritta. L’avvocato dice che deve restare negli Usa dov’è protetto, e Ghost comincia a insospettirsi del politico quando trova fotografie nascoste dal morto che scoprono strani altarini. Il film tiene fino alla fine, ma poiché la trama ha più buchi di una groviera, è meglio fermarci per non guastare la sorpresa (alcuni dicono di averla sgamata; noi no). N.B. Gli inglesi che ancora detestano Tony Blair, prima lo accusavano di essere un superficiale senza principi che governava solo secondo i sondaggi. Quando si è alleato con gli americani dopo l’11 settembre 2001, lo hanno bollato subito come «barboncino di Bush», senza mai riconoscere che aveva preso una decisione difficile e impopolare, da leader autentico, contro la maggior parte dell’opinione pubblica inglese. Con questo thriller, per spiegarsi le scelte di Blair, Harris inventa un’arzigogolata spy story che non spiega nulla. Basta il vero pensiero di Blair-Lang, ripreso nel film: «Sono tempi strani davvero quando chi difende la democrazia e la libertà è accusato di crimini contro l’umanità, e i terroristi che le vogliono distruggere sono trattati da vittime». A Harris e agli altri fegatosi, manca il dono della semplicità.
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MONACHESIMO ngeli nascosti. Sono i monaci. Custodi del silenzio. La preghiera e il lavoro esalta il loro spirito e li congiunge a Dio.Vivono per legare la materialità alla trascendenza. Il mondo non li conosce, eppure vivono nel mondo ma separati dai suoi effimeri trionfi. E chiudono gli occhi sul mondo quando la loro missione è compiuta. Nelle antiche abbazie d’Occidente, come nei monasteri d’Oriente lo straziante dolore dell’umanità arriva accolto dal canto dei salmi, dalle regole di vita immutate da oltre un millennio, dall’odore dell’incenso e dal sorriso appena accennato di uomini e donne che hanno scelto di legarsi all’Eterno quando neppure più l’effimero è attraente. I muri antichi grondano mormorii sempre uguali a se stessi e le stagioni che entrano nelle segrete stanze recano profumi che, con devozione, i monaci conservano. Sono i custodi più gioiosi di tradizioni che non mutano. E perciò si propongono come apostoli di una fede non scalfita dalle mode, né dalle esigenze dei costumi. Sono i soli esempi viventi di una spiritualità che ha ancora parla al cuore di chi sa ascoltare.
A
In tempi di religiosità approssimativa e confusa i riferimenti alle uniche figure esemplari dello spiritualismo occidentale più profondo sono quasi d’obbligo per chiarire, se non altro, che cosa significa oggi aprirsi al sacro, individuare il trascendente, vivere in una dimensione metafisica. La modernità, tra le altre cose, ha dissipato il patrimonio che per secoli è stato il fondamento della civiltà europea e occidentale. Al punto che oggi ci si scopre fragili e angosciati di fronte alle grandi domande che l’esistenza pone e ai fini ultimi che l’uomo dovrebbe perseguire. La prevalenza del determinismo e della materialità sull’essenza metafisica della dimensione umana è la ragione del lungo lamento che, come lugubre colonna sonora, accompagna i nostri giorni tormentando le irriconoscibili anime le quali, come impaurite, cercano talvolta in false esperienze spirituali (la new age, per esempio) effimeri appagamenti alla fatica di esistere. E, non ultima, l’aggressiva penetrazione di altre metafisiche nel cuore del nostro mondo di occidentali disposti ad accogliere ogni cosa, ma pronti a respingere la loro stessa tradizione, ha reso irriconoscibile il rapporto delle nostre società con l’Essere; società che non mettono più al centro delle loro azioni la persona, ma il suo simulacro, vale a dire l’homo consumans. Eppure le figure esemplari evocate non mancano. Basta saperle riscoprire, magari vicine a noi, come lo sono i sempre più sparuti abitanti dei monasteri, sotto la patina della distrazione e dell’indifferenza che da tempo immemorabile le ricopre. Quando Joseph Ratzinger, affacciandosi da Pontefice romano, alla Loggia centrale della Basilica di San Pietro si fece riconoscere con il nome di Benedetto, il pensiero di tutti corse a San Benedetto da Norcia, il fondatore del monachesimo occidentale. E in tanti, forse tutti, si chiesero chi fosse quel mistico
Essere con Dio nel mondo. Ecco la diversa «apertura» al sacro operata dal Santo di Norcia protettore d’Europa, che ha indicato al cristianesimo una via nuova, fondata sull’individualismo sociale. Una lezione da riscoprire
La rivoluzione di Benedetto di Gennaro Malgieri cammino religioso nella laicità. È questo che fa della scelta cenobitica di Benedetto un atto «rivoluzionario» rispetto al monachesimo del suo tempo che traeva dal romitaggio di tipo orientale l’imitazione ascetica. Si può essere con Dio nel mondo, sembra ricordarci San Benedetto e si deve essere nel mondo per Dio e per le creature che Egli ha generato: un’inversione, come si può notare, o, quanto meno, una diversa «apertura» al sacro rispetto al posteriore francescanesimo che della «nullificazione» della persona in quanto totalmente votata alla contemplazione fino alla scarnificazione di se stessa, aveva fatto l’abito morale e comportamentale.
operoso che in tempi oscuri almeno quanto i nostri, fondò un grande monastero, diede vita a un’ordine, contribuì al rinnovamento della Chiesa di Roma che viveva una delle stagioni più controverse della sua storia. Non molto, a dire la verità, si è scritto nel secolo passato su San Benedetto la cui opera è paradossalmente conosciuta maggiormente fuori dai confini italiani, in particolare in Germania e in Austria, ma anche in Francia e in Gran Bretagna, dove la spiritualità benedettina è stata assunta a fondamento di una religiosità particolarmente sentita al punto che il Santo, come si sa, venne proclamato «protettore d’Europa». E con ragione, al di là dell’aspetto strettamente religioso. Santo europeo, infatti, Benedetto lo è per aver informato il suo comportamento spirituale a uno stile di vita proprio della tradizione continentale con la quale ha coniugato la sua Regola che ancora oggi è praticata in centinaia di monasteri in tutti il mondo, ma è vissuta come testo prescrittivo di un
Luigi Salvatorelli nel 1929 pubblicò San Benedetto e l’Italia del suo tempo. Con quel saggio storico, che risentiva ancora di molte incertezze legate alla ricerca e al difficile accesso alle fonti, Salvatorelli trasse il Santo di Norcia dall’oblio nel quale secoli di dimenticanza lo avevano relegato e rifacendosi, in particolare, alle pagine a lui dedicate dal suo più grande apologeta, Papa Gregorio Magno, per il quale non era soltanto un esempio di virtù e un difensore della fede contro le molte storture alberganti nella Chiesa del suo tempo, ma soprattutto l’innovatore della religiosità cristiana sul punto di essere «paganizzata» a puri fini politici. L’Italia e ciò che rimaneva dell’Impero d’Occidente e d’Oriente, quando Benedetto nacque, probabilmente intorno al 500, erano i paradigmi della barbarie, mentre Roma moriva giorno dopo giorno sotto i colpi dei barbari che se ne erano appropriati. Il «giovane» cristianesimo non poteva non risentirne, ma trovò negli anacoreti, negli eremiti, nei cenobiti i suoi difensori più intransigenti che lo salvarono dagli abissi, facendosi testimoni di un pia-
no divino, nei quali rischiava di sprofondare. Come sottrarci a un suggestivo paragone con ciò che accade oggi? Il «cenobitismo radicale» di Benedetto si fondava su un «individualismo sociale» e in questo stava la sua differenza con l’eremitismo e con quasi tutto il monachesimo precedente. La cura di San Benedetto era «cura di anime inferme, non tirannide su quelle sane». E il potere dell’abate, osserva Salvatorelli, «non aveva altro scopo che il bene materiale e spirituale, la salvezza eterna dei suoi monaci, uno per uno». E, a conferma che la persona consacrata a Dio e al prossimo viveva la sua vita solamente in comunione con gli altri, la vita benedettina, pur essendo integralmente cenobitica, si svolgeva nel monastero che «non costituiva nessun fine a sé, nessun ente trascendentale: il fine erano i monaci, tutti e singoli, e il monastero non era che il mezzo, il luogo della loro vita, l’officina in cui essi trovavano gli strumenti della propria santificazione individuale. Se fosse stato differentemente, quello di Benedetto sarebbe stato paganesimo e non cristianesimo».
È così che il cenobio forma una famiglia, vale a dire qualcosa di stabile, di duraturo, cementata da un profondo sentimento di intimità spirituale e religiosa, nella quale la rinuncia ai beni materiali, se non quelli di sostentamento primario, è il corollario di una vita dedicata a Dio e soggetta alla Regola e all’autorità dell’abate. Lontano dalla decadenza delle città e delle corti, Benedetto da Montecassino irradiava spiritualità e cultura. Questo secondo aspetto non va trascurato. Il Santo richiedendo nel monastero una biblioteca e la familiarità con questa di tutti i monaci, anche di coloro versati in attività non propriamente letterarie, pose le condizioni dello sviluppo intellettuale del monachesimo a cui si deve il recupero della cultura classica e perfino di quella pagana nelle cui pieghe Benedetto leggeva il pensiero dell’unico Dio. Egli fuggì le devastazioni dello spirito, rinunciò alle dignità clericali, creò un tipo di comunità nuova che esercitò una forte attrazione sugli spiriti migliori e che fece crescere «libera e sola».Taumaturgo, legislatore, organizzatore, San Benedetto seppellì il vecchio mondo per indicare la strada verso l’edificazione di quello nuovo. Dopo di lui, il cristianesimo fu più forte, la Chiesa si radicò nella società italiana ed europea, il cenobitismo divenne rifugio spirituale e centro di apostolato, gli studi prodotti dai benedettini aprirono varchi alla conoscenza di grande importanza. Soprattutto dai monasteri di San Benedetto uscirono papi e santi quasi a far da corona all’uomo di Dio che testimoniò la sua umiltà rinunciando all’ordine sacerdotale: semplice asceta, ma dotato del carisma di un capo; il capo di quell’Occidente che sarebbe stato definito cristiano. Oggi resta il silenzio intorno ai discepoli di San Benedetto, come nei romitaggi di Pec o del Monte Athos. Le grida non sconvolgono i mistici del Terzo millennio. E i lunghi corridoi dei monasteri si riempiono ancora di canti, incenso e preghiere. Non è un miracolo?
Pop
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scoltarla. Apparentemente, la Badu di New Amerykah Part Two: Return Of The Ankh è fin troppo morbida: come la sua voce, tastiere e stop di 20 Feet Tall. In realtà, la sua è una dolcezza acidula che si rincorre nel soul felpato e avvolgente di Window Seat (occhio al videoclip, in cui cammina lungo il viale di Dallas dove il 22 novembre del ‘63 venne assassinato John Fitzgerald Kennedy, poi si spoglia e si accascia sull’asfalto colpita da un cecchino); nei rapidi mordi e fuggi jazzati di Agitation e You Loving Me; nel funky (con la benedizione di Marvin Gaye) di Turn Me Away e nel ritmo a un passo dal reggae
di Stefano Bianchi i ostinano a etichettarla come nusoul o rhythm & blues (riaggiornato e corretto). Eppure, quando occorre, la black music sa scrollarsi di dosso le ovvietà per imboccare imprevedibili traiettorie. Chiedetelo a Erica Abi Wright, in arte Erykah Badu, se è vero oppure no. La trentanovenne cantautrice nata a Dallas, bravissima ed egocentrica, con l’imprevedibilità ci marcia. Tant’è che l’album Baduizm, con cui debuttò nel 1997, conteneva già nel titolo l’arroganza d’una musica nera a sé, fuori dalle consuetudini. Figlia di un’attrice teatrale, padre pressoché sconosciuto, un fratello e una sorella, Erykah (il suffisso kah, in arabo, significa «non può fare del male») Badu («verità e luce») ha solo quattro anni quando canta e balla con la madre sul palcoscenico del Dallas Theatre Center. A quattordici, ascolta Stevie Wonder e Chaka Khan ma s’innamora dell’hiphop al punto da fare freestyle (cioè «rappare» su pezzi strumentali improvvisando rime) per una radio locale. Dentro, però, le sta crescendo una voce stratosferica che ricorda Billie Holiday e Nina Simone. Sarebbe un delitto non sfruttarla. E allora incide un demo, duetta in Your Precious Love col soulman D’Angelo e poi arriva Baduizm, controcorrente, che vende più di tre milioni di copie e le fa vincere due Grammy Awards. Mama’s Gun, nel 2000, la fa invece oscillare fra hip-hop e rhythm & blues mentre Worldwide Underground (2003) è un’unica sequenza di musica, quasi hippie, dall’inizio alla fine. New Amerykah Part One: 4th World War del 2008, esce nel momento in cui l’America cerca
musica
S
Imprevedibilmente…
Erykah Badu
una nuova identità confidando in Barack Obama. Erykah, stavolta, punta soprattutto sull’elettronica, passa dall’intellettualismo al misticismo, approfondisce quello stile che i critici hanno definito conscious hip-hop. Mi sento di paragonarla a Prince, la Badu. Imprevedibile come lui. Imprevedibile come certa black music che ti rende felice, quando hai il privilegio d’a-
Jazz
che scandisce Gone Baby, Don’t Be Long. Seppur tra arpeggi ed evanescenze computerizzate, è indubbiamente hip-hop l’Erykah Badu che traspare da Fall In Love e Incense. Dentro Umm Hmm, invece, lascia che sia il rhythm & blues a reggere il filo del discorso, con quei fiati e quelle orchestrazioni dal sapore «vintage». Sicché, dopo un paio di dischi velleitari (Worldwide Underground e New Amerykah Part One) si torna finalmente a respirare quella schietta creatività che sembrava appartenere solo a Baduizm. In più, le interferenze elettroniche e il riavvolgimento rapido nel funk di Love, nonché i dieci minuti e passa finali di Out Of My Mind, Just In Time che transitano con disinvoltura dalla ballata pianistica al trip-hop, dalla psichedelìa ai ritmi in controtempo, ci raccontano un’artista tonica e ispirata. Imprevedibile. Come solo una certa black music sa essere. Erykah Badu, New Amerykah Part Two: Return Of The Ankh, Universal/Motown Records, 19,50 euro
zapping
ELOGIO DELLE CUFFIONE (meglio se Akg 141 studio) di Bruno Giurato
a ragazza che sta salendo sul 64 ha orecchie meravigliose, forse. Ora non si vedono perché coperte da un paio di cuffione, precisamente un paio di Akg 141 studio (scusate se citiamo marca e modello, siamo vittime d’invidia per il product placement, e mai nessuno che ci dia una lira o un paio di cuffie nuove). Ma non c’è dubbio e non c’è inganno, la ragazza ha orecchie meravigliose. Ci fa sentire sfigati con i nostri auricolari bianchi, arnesi da otorinolaringoiatra poco isolati (ogni accelerata del bus arriva al cervello), con pochi bassi (il funk metropolitano senza bassi è come il cucchiaio senza tazza) e acuti che provocano labirintite. Invece lei ha capito tutto, ha orecchie meravigliose ed è anche una sensuale. Con un paio di cuffie così può ascoltare in pace anche Sketches of Spain di Gil Evans e Miles Davis, e vedere il centro di Roma pieno di cromatismi gitani, o sentire l’Alleluia di Handel mentre scende a San Pietro. Qualcuno avrà da dire che le cuffione impediscono la comunicazione. Rispondiamo che: 1) chi ascolta musica in autobus lo fa precisamente perché in quel momento il prossimo gli sta sulle scatole, altrimenti discorrerebbe con la vecchietta: la misantropia è meglio ostentarla che mimetizzarla; 2) c’è momento e momento, tempo e tempo. C’è un tempo per la socialità e uno per mandare tutti alle zappe. La ragazza con la cuffiona oltre che sensuale è saggia, conosce i segreti del tempo, e soprattutto i piaceri dei lavori pratici. A casa avrà scelto la musica per bene, avrà messo le ingombranti cuffie nello zaino come il violinista cambia le corde, o il lettore sceglie il segnalibro, o il cuoco abbassa il fuoco sotto la cipolla di Tropea. L’arte ama gli impicci, più o meno come l’anima vuole l’oblio.
L
Tessarollo e la pura spontaneità della chitarra
ono necessarie grandi capacità per affrontare due celebri canzoni come Star Dust e Georgia on My Mind, senza alcun accompagnamento strumentale. Lo ha fatto Rachel Gould in un cd di recente pubblicazione tutto dedicato alle composizioni di Hoagy Carmichael, da Two Sleepy People a Skylark, da Rockin’Chair a The Nearness of You, melodie immortali da sempre interpretate dai più importanti cantanti del mondo. Rachel Gould, che ha recentemente compiuto una breve tournée in Italia, è nota, oltre che per le sue qualità di interprete e di insegnante, anche per le molte e importanti collaborazioni con Woody Herman, Chet Baker, Horace Parlan ed Enrico Pieranunzi. Nel recente tour italiano si è esibita con il quartetto del chitarrista Luigi Tessarollo, ed è proprio di questo solista che vorrei parlare oggi per segnalarlo ai pochi che non hanno ancora avuto occasione
S
di Adriano Mazzoletti di ascoltarlo dal vivo o su disco. Sono almeno una ventina i dischi che questo brillante musicista ha inciso nel corso della sua ormai quasi trentennale carriera, da quando faceva parte del complesso Arti e Mestieri - nome che ricorda una stazione della metropolitana di Parigi - fino a uno degli ultimi pubblicati, Jogo De Cordas. Nella sua biografia si incontrano nomi importanti, Lee Konitz, Slide Hampton, George Garzone, Barry Harris e gli italiani Stefano Bollani, Franco Cerri, Paolo Fresu, Enrico Rava, Flavio Boltro con i quali ha spesso collaborato. È nel disco realizza-
to in duo con Roberto Taufic, Jogo de Cordas che Tessarollo dimostra qualità inaspettate. Versatile nell’interpretazione di motivi bop, Donna Lee, del grande repertorio della canzone americana, Summertime, o di quello brasiliano, Upa Neguinho, è anche in grado di affrontare, con sensibilità, motivi poco o punto eseguiti da musicisti jazz, Guantanamera. Il duo di chitarre ha nel jazz e nella musica improvvisata origini lontane. I primi furono l’italo-americano Eddie Lang (Salvatore Massaro) e il chitarrista di blues Lonnie Johnson a cui seguirono un’infinità di altri, fra i quali
Carl Kress e Tony Mottola, Bucky e John Pizzarelli, Barney Kessell e Carlo Pes. L’incontro fra Tessarollo e il chitarrista Roberto Tauffic, nato in Honduras da madre araba, ma con lunghi soggiorni in Brasile, nella zona di Rio Grande do Norte, si è rivelata, in questa prima occasione, felicissima. Oltre a quelli citati, i due solisti eseguono temi di loro composizione, Reflexdo, Jogo de Cordas, Ballad per Adriano (non il sottoscritto) di Tauffic e La piccola Alice e Choro per Walter di Tessarollo. Oggi che nel jazz sta emergendo la tendenza a ridare importanza all’aspetto melodico più che alle variazioni armoniche, in queste registrazioni si ascolta qualcosa di molto simile alla pura spontaneità. Rachel Gould-Luigi Tessarollo quartet, Tribute to Hoagy Carmichael, Geko records; Luigi Tessarollo - Roberto Taufic duo, Jogo De Cordas, Velut Luna
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arti
Mostre
ome ha scritto Nietzsche, e l’aforisma è riportato sul verso del sontuoso catalogo Electa Napoli, dedicato alle molte mostre napoletane su Ritorno al Barocco, da Caravaggio a Vanvitelli: «Lo stile barocco nasce dallo sfiorire di ogni grande arte, ogni volta che le esigenze nell’arte dell’espressione classica sono diventate troppo grandi e occorre dar spazio all’eloquenza delle forti passioni». «Troppo grandi», si sa: l’eccesso barocco, il dilagare scomposto e muscolare, secondo soprattutto chi il Barocco non lo tollera, da Nietzsche a Ruskin a Croce. Ecco: «troppo» forse anche a Napoli, per questa grandiosa e quasi incontenibile kermesse, dedicata al secolo che più ha visto trionfare il gusto tenebroso e insieme luminoso del genio partenopeo. E che segna non soltanto l’anniversario della grande prima mostra sulla Civiltà del Seicento a Napoli, post-terremoto, e il ricordo d’uno straordinario studioso come Raffaello Causa, ma anche la miglior celebrazione d’addio e di riconoscenza per il congedo «forzato» di Nicola Spinosa, dal suo ruolo di Sovrindente-Principe di Capodimonte. Una mostra ramificata nei più diversi e lontani e coerenti «palazzi di città», di cui è difficile dare un resoconto striminzito e dabbene. Meglio ritagliarsi una minima, ma meravigliosa fetta, comunque, in quell’enorme universo, che alterna a pale d’altare raffinate oreficerie, a vedute e marine, ceramiche e ritratti e, appunto, Nature Morte. O meglio, Nature in posa, come preferisce chiamarle Spinosa, che da anni si danna e bea la vita non soltanto a scoprire chi si nasconde dietro il suo prediletto Maestro dell’Annunciazione ai pastori, ma non di meno a dirimere il problema dell’attribuzione a diversi maestri di tutto quel profluvio di pesci croccanti e
C
Design
Il Barocco variabile della Natura in posa di Marco Vallora viscidi, che convivono insieme a funghi e formaggi campestri, a preistoriche tartarughe, che avanzano millimetriche, tatuate d’eleganti scurori, mentre indolenti aragoste attraversano l’orizzonte della scena con profumi salmatri e notturni. E hai davvero l’impressione d’avvertire, sulla pelle umida della pittura, quegli scivolosi passi, che rianimano tutte quelle ricche «cose» che pungono i nostri sensi. Simboli, allegorie del quotidiano, epifanie del nostro vivere qualunque, come ha sostenuto il semiologo Todorov, per la coeva pittura olandese. E qui s’apre appunto la problematica della bottega e dei maestri maggiori o minori, per capire per esempio se è lo
stesso artista a dedicarsi alla delizia di fiori e verdure e invece è un altro a occuparsi delle figure di cucinieri o pescatori, che animano quel crollare d’ogni bendidio naturale, tra antri scuri, gatti voraci e paioli di rame, dai riflessi fiamminghi. Nel caso di questa trionfale ribalta di colori e di fantasia variantistica, ecco il meraviglioso «caso clinico» di quel trucido pescatore dall’anima torbida e dai gesti brutali, che negl’anni è passato dall’ipotesi di Salvator Rosa a quella di Micco Spadaro, oggi proposta da Denise Maria Pagano, che guida con amore questo glorioso museo. Infatti bisogna stabilire se il Maestro di Palazzo San Gervaso può diventare
davvero Luca Forte, se è più credibile attribuire un pezzo a Giacomo Recco, con quei suoi succosi fichi, imperlati di umori più che femminili, oppure a Giovan Battista Recco (certo il più geniale, con le sue ruminanti granseole ghiacciate) oppure un altro Recco, ancora, e non eran nemmeno parenti, ma poi ci sono Porpora, e il magnifico Belvedere e i meno frequentati Cusati, Casissa, Nani e Realfonso, che detti così, alla veloce, paion quasi una formazione calcistica di serie C. Ma non è vero: perché ognuno nasconde uno stile, una variante, un segreto, e questo gioco virtuosistico di fioriture libere e di ad libitum barocchi e di assoli tenorili (di funghetti protagonisti o di saraghi melodrammatici) han la forza davvero di arie di affetti del melodramma coevo (non dimentichiamo che alla Pietà dei Turchini erano attivi in quegli anni i Porpora, i Pergolesi, gli Jommelli, di cui solo il «napoletano» Muti pare valentemente ricordarsi). In una fresca memoria delle Wunderkammer, tramate di coralli e pesci-palla e coniugate all’ossessiva tassonomia del borgesiano mondo «duplicato» barocco.
Dimmi che bagaglio hai e ti dirò chi sei
iamo su una strada sbagliata, ragazzi. Non dobbiamo pensare alle cose che ci farebbero comodo, ma soltanto a quelle di cui non possiamo fare a meno». Sagge parole, quelle di George, rivolte ai suoi compagni, in procinto di affrontare la risalita del Tamigi, nel celebre libro Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. Il bagaglio, croce e delizia di ogni viaggio, compagno indissolubile di chi si allontana, per lunghi o brevi periodi, dalla propria casa, racchiude in sé un’infinità di elementi, legati alla storia, alla cultura e alla società. L’uomo con la valigia è una curiosa e interessante mostra allestita nel Borgo Medievale di Torino.Tema: il bagaglio, la sua storia, le tipologie, i valori simbolici, la psicologia del viaggiatore. Il percorso espositivo si sviluppa attraverso tre spazi e relative sezioni: Bagagli d’altri mondi, Oggetti del viaggiatore, Il bagaglio del Medioevo. Chiude il percorso un’ulteriore sezione dedicata al rapporto che lega l’uomo, il bagaglio e la sua funzione nel corso della storia. Nel Medioevo, la classe sociale aristocratica, sempre in movimento tra guerre, matrimoni lontani, giostre e tornei, conduceva un’esistenza quasi nomade. Il bagaglio
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di Marina Pinzuti Ansolini era costituto da una serie di «mobili», funzionali a ricreare l’ambiente domestico dove necessario: tavoli e sedie pieghevoli e smontabili, bauli e cassoni, che, all’occorrenza, svolgevano la funzione di letto, persino di bara. Il soldato, costretto dalle circostanze, riduceva il suo bagaglio al minimo trasportabile durante le marce: una ciotola, un cucchiaio, un coltello, pochissimi indumenti. Analogo il contenuto della sacca del pellegrino, mistico ed essenziale, all’insegna della rinuncia al superfluo, fatta eccezione per qualche oggetto di culto. La filosofia dello stretto necessario si ritrova nel bagaglio del globetrotter; anticonvenzionale e amante dell’avventura, dagli anni Sessanta gira il mondo, magari in autostop. Nel suo zaino, sorprendentemente, troverà posto anche il sacco a pelo e, nelle tante tasche, qualche indumento, attrezzi per cucinare, libri e guide. Nella valigia del turista, solitamente di notevoli dimensioni e munita di rotelle e lucchetti, viaggeranno per lo più vestiti, medicine, prodotti per l’igiene, gadget
tecnologici e, al ritorno, molti souvenir; la voglia di vacanza è sempre accompagnata dal desiderio di essere comodi e di avere tutto, come a casa. Il viaggiatore guarda con snobismo il turista, organizza in modo autonomo il proprio viaggio e il suo bagaglio sarà all’insegna della razionalità e della praticità: pur essendo di dimensioni ridotte, anche lui difficilmente rinuncerà alle medicine e alla macchina fotografica, magari professionale, mentre gli indumenti saranno pochi e comodi. Il bagaglio dell’emigrante varia in relazione al periodo storico e alla classe sociale. Fagotti, valigie di cartone tipicamente chiuse con lo spago, casse e bauli hanno come denominatore comune il tentativo di recare oggetti e ricordi del paese di origine verso il quale si avrà perenne nostalgia. Chiude la rassegna la ventiquattrore del businessman. Piccola e discreta, contiene il necessario per sopravvivere elegantemente un giorno e una notte: un cambio di biancheria, una camicia stirata, il computer, il cavo per ricaricare il telefonino, raramente un libro per il tempo del volo. L’uomo con la valigia. Piccola storia del bagaglio è inoltre un piccolo ironico volume di 48 pagine dello stesso curatore della mostra, Paolo Novaresio, giornalista, scrittore e viaggiatore a tempo pieno.
L’uomo con la valigia, Torino, Borgo Medievale, fino al 10 maggio
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il paginone
VENT’ANNI FA, IL 15 APRILE 1990, MORIVA A NEW YORK UNO DEI GRANDI, INDISTRUTTIBILI MITI DEL CINEMA. IL SUO VOLTO SEVERO ED ESSENZIALE, ARCHETIPICO E VIBRANTE EVOCA, SECONDO ROLAND BARTHES, LA SUGGESTIONE DELL’IDEA. MENTRE IL SEGRETO DEL SUO FASCINO RESTA ANCORA INDECIFRABILE…
Greta Luna di Orio Caldiron e si rivede oggi Ninotchka (1939), non si può non restare abbagliati dalla felicità inventiva di una delle più belle commedie di Lubitsch. Gli agenti sovietici in missione a Parigi, gli irresistibili Bulianoff, Iranoff, Kopalski, cedono subito alle lusinghe del capitalismo, mentre la compagna Greta Garbo, l’inflessibile commissario Nina Yakusciova, ci mette di più a lasciarsi catturare dal fascino della ville lumière. Alla fine anche lei perde la testa, ma non l’improbabile cappellino che ha adocchiato fin dall’inizio nella hall dell’albergo. S’innamora, ride, si ubriaca, cade fucilata dal botto di un tappo di champagne dopo la celebre battuta: «Compagni! La rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà in pezzi. Ma per favore non adesso». Lanciato con lo slogan Garbo laughs!, il film sembra aprire
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parte dei suoi film sono firmati da artigiani fedeli ai diktat dello studio per cui volta volta lavorano, incarnando la politica della committenza più che l’estro necessario a fronteggiare l’imprevedibilità dell’attrice. Se i nomi prestigiosi di Victor Sjostrom, Rouben Mamoulian, Jacques Feyder, non sono sufficienti a garantire la quadratura del cerchio del successo, forse solo Clarence Brown per il muto e George Cukor per il sonoro si rivelano all’altezza della loro fama di woman’s director di spregiudicata sensibilità, prima
Enigmatica, inafferrabile, lontana come l’astro d’argento. Così la definiva Dino Risi, paragonandola al ciclone Magnani. Ma la sfinge svedese è stata la regista di se stessa. Anche nel preservare il fantasma a cui aveva dato vita una nuova, inattesa stagione nella carriera dell’attrice, mai apparsa prima in una commedia. Ma il clamoroso insuccesso di Non tradirmi con me (1941) la induce a lasciare per sempre il cinema ad appena trentasei anni.
Nessun’altra aveva saputo raccontare come lei la passione amorosa in una ventina di film diseguali, da Il torrente (1926) a La tentatrice (1927), da La carne e il diavolo (1927) a La donna divina (1928), da La donna misteriosa (1928) a Destino (1929), da Orchidea selvaggia (1929) a Donna che ama (1929), da Il bacio (1929) ad Anna Christie (1930), da Romanzo (1930) a La modella (1931), da Cortigiana (1931) a Mata Hari (1932), da Grand Hotel (1932) a Come tu mi vuoi (1932), da La Regina Cristina (1933) a Il velo dipinto (1933), da Anna Karenina (1935) a Margherita Gauthier (1937) a Maria Walewska (1937). Non mancano le eccezioni, ma la maggior
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della normalizzazione espressiva degli anni Trenta imposta dal Codice Hays. Nonostante i suoi film siano spesso modesti, affidati alle logore convenzioni del melodramma e ai ricatti sentimentali della cattiva letteratura, quasi sempre il carisma dell’interprete s’impone fino a brillare di luce propria. La bellezza misteriosa della sfinge svedese, per sedurre le platee, non ricorre al sex-appeal - c’è chi in lei non lo vede affatto, lo considera completamente assente o almeno latitante nell’ostentazione degli atteggiamenti androgeni o addirittura mascolini ma alle segrete alchimie della sua strepitosa fotogenia. Il volto intenso, la camminata altera, il magnetismo della immedesimazione totale, a cui non sono estranee la tenerezza e l’ironia, fanno di Greta una delle più alte incarnazioni del cinema come arte, confrontata a più riprese con il grande Charlot di Chaplin. Il trionfo della Garbo, di cui il pubblico femminile invidia i costosi vestiti che in-
dossa sullo schermo, viene spesso attribuito ad Adrian, il costumista della Metro Goldwyn Mayer che la studia come un chirurgo scruta il paziente con i raggi X. Alla sua immagine essenziale, inimitabile, archetipa, avrebbero contribuito i grandi cameramen hollywoodiani, a cominciare da Bill Daniels. Nessuno sembra voler ammettere che Greta ha fatto tutto da sola - Cecil Beaton l’ha paragonata a un sismografo capace di registrare la gamma più delicata e impercettibile di vibrazioni - dimostrando la singolare creatività di un’interprete che è stata regista di se stessa, una straordinaria, irripetibile attrice-autrice. Il paradosso della grande svedese è che, senza la logica brutalmente mercantile degli studios, non si sarebbe dovuta inventare da sé, ma per preservare il fantasma a cui aveva dato vita, il fascino senza tempo della sua miracolosa apparizione, si condanna a star lontana dal set.
Nel suo lunghissimo esilio si moltiplicano i progetti che resteranno irrealizzati, dalla vita di Sara Bernhardt a quella della principessa Anastasia, da Marie Curie a George Sand. Sono moltissimi i testi teatrali che per pochi giorni o per qualche mese sembrano vicini a concretizzarsi, come Olympia di Ferenc Molnár, Santa Giovanna di George Bernard Shaw, Il lutto si addice a Elettra di Eugene O’Neill, L’aquila a due teste di Jean Cocteau, Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, Un tram che si chia-
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ma desiderio di Tennessee Williams. Se le chiedono di portare sullo schermo Lady Chatterly o Emma Bovary, contropropone Dorian Gray e San Francesco, sicura delle scandalizzate reazioni negative. Qualche possibilità in più sembra averla La duchessa di Langeais di Balzac. Dovrebbe essere girato tra Roma e Parigi da Max Ophuls, che pensa di metterle accanto James Mason in un audace scambio delle parti. La duchessa ricca di potere, bellezza e sadismo è destinata a diventare la vittima di un uomo che sa cogliere il suo punto debole.
«Balzac e Garbo, che combinazione!», esclama il regista tedesco nel bellissimo racconto che Manuel Puig dedica al loro ultimo incontro. Il film è ormai saltato, forse anche per la stravaganza dell’attrice che, dopo aver fatto aspettare i finanziatori qualche settimana, finalmente li riceve in una suite al buio con le veneziane abbassate. Il commenda Angelo Rizzoli ci rimane male e si ritira dalla coproduzione. Nella sua stanza d’ospedale il vecchio regista se ne sta andando. «Quando lei è entrata qui con quei fiori, aveva le braccia cariche di compassione per me», le dice. «No, Max, tra le mie braccia porto sempre mio padre, cerco di dargli forze!», gli risponde Greta. «Si è ammalato di tubercolosi lavorando nelle vie gelide di Stoccolma, faceva qualsiasi mestiere, persino lo spazzino. Io l’ho visto spegnersi a poco a poco, è morto quando avevo quattordici anni. Da allora occupa sempre le mie braccia. Ma è tutto inutile, non posso far niente per rendergli la vita». Al momento del congedo, Max Ophuls le dichiara la sua infinita ammirazione: «I suoi film sono tutti dei classici, Greta. Peccato non avere un proiettore in questa stanza per vederli di nuovo. Se vado in paradiso spero di trovarmi una macchinetta che mi permetta di proiettarli avanti e indietro quante volte voglio». Straordinario l’incontro con Ingmar Bergman ne-
Molti i progetti irrealizzati nel suo lungo esilio. Anche quello di interpretare la Regina di Napoli nella “Recherche” che ancora Visconti sperava di portare sullo schermo. Ma ebbe però troppa fretta di rendere nota la sua partecipazione... gli studi della Svensk Filmindustri di Stoccolma, dove nel ’24 Greta era stata diretta da Mauritz Stiller in La saga di Gösta Berling, il suo primo film. In una fredda giornata d’inverno la limousine nera dell’attrice si ferma davanti alla città del cinema svedese. Ingmar riceve la diva nel suo ufficio: «La stanza era piccola, una scrivania e un divano sfondato. Io ero seduto alla scrivania, Greta Garbo sul divano. La lampada da tavolo era accesa. Questa era la stanza di Stiller, disse subito guardandosi intorno, ne sono certa. All’improvviso si tolse i grandi occhiali da sole dicendo: dunque questa è la mia faccia, signor Bergman. Il sorriso fu rapido e abbagliante, malizioso. È difficile dire se i grandi miti continuano a esercitare la loro magia perché sono miti o se la loro magia è un’illusione creata da noi fruitori. In quell’istante non c’erano dubbi. Nella penombra della piccola stanza la sua bellezza era eterna. C’era come una vitalità intorno ai grandi, puri li-
neamenti del suo volto, intorno alla fronte, al taglio degli occhi, al mento dalla nobile forma, al naso sensibile. Cominciò a parlare del lavoro per La saga di Gösta Berling. Andammo nel piccolo teatro di posa e cercammo nell’angolo sinistro. C’era ancora un’ammaccatura nel pavimento, conseguenza dell’incendio del castello di Ekebù. Lei citò il nome dei tecnici e degli elettricisti che ancora ricordava». Fanno poi un rapido giro per la città del cinema. «Era vestita elegantemente, in giacca e pantaloni, si muoveva con energia, il suo corpo era vitale, attraente. Siccome sulla strada ripida c’erano dei tratti sdrucciolevoli si appoggiò al mio braccio. Quando tornammo alla mia stanza era allegra e distesa. Si piegò verso la scrivania e la lampada le illuminò la parte inferiore del volto. Allora vidi qualcosa che non avevo visto prima! La sua bocca era brutta: un pallido taglio circondato da rughe. Tanta bel-
lezza e in mezzo a quella bellezza un accordo dissonante. Non c’era chirurgia plastica né truccatore che potesse far sparire quella bocca e quel che raccontava. Lesse immediatamente il mio pensiero e tacque, infastidita. Qualche minuto dopo ci separammo. L’ho osservata attentamente nel suo ultimo film. Il volto è bello ma teso, la bocca priva di dolcezza, lo sguardo per lo più distratto, triste nonostante la situazione da commedia. Il suo pubblico intuì forse qualcosa che lo specchio da trucco le aveva già detto». Si dice che nell’incontro il regista avrebbe cercato di coinvolgerla nel film che stava preparando in quel momento, Il silenzio, offrendole la parte di Ester, poi interpretata da Ingrid Thulin. Uno dei personaggi più significativi dell’universo bergmaniano, una donna lucida ma in crisi, contraddittoria ma forte, incapace di dimenticare la morte del padre e delusa dalla vita. L’ultima occasione mancata è quella di impersonare la Regina di Napoli che irrompe nel salotto di Madame Verdurin per difendere Charlus. Glielo propone la produttrice Nicole Stéphane quando spera ancora di portare sullo schermo la Recherche di Proust con Luchino Visconti: «Avevo pensato a Greta Garbo per il ruolo. Ne ho parlato con Luchino: “Se facciamo le cose intelligentemente, basterebbe un giorno di riprese con Charlus”.Valeva la pena di tentare. Conoscevo una persona che era molto amica di Greta Garbo. Gliene ho parlato. Un giorno lei mi ha telefonato e mi ha detto:“Tra due settimane Greta verrà da me a prendere il tè, vuoi venire?”. Quando ho incontrato la grande attrice, due cose mi hanno particolarmente colpito di lei: il suo sguardo (i suoi occhi) e la sua voce. Era perfetta per il film, era la Regina di Napoli! Le ho spiegato il progetto per una mezz’ora, ho cercato di convincerla, lei mi ha promesso di rifletterci. Era una risposta piuttosto incoraggiante, non era un no, non era negativa. Ho telefonato a Visconti e gli ho detto: “Vi prego, soprattutto non ne parlate con nessuno, forse abbiamo una chance”. Qualche giorno più tardi ricevo una telefonata dal Dail mail. Visconti aveva fatto la conferenza stampa, dove aveva annunciato che prendeva la Garbo per la Regina di Napoli. Greta era furibonda e ha rifiutato il ruolo!».
Nel corso degli ultimi anni viaggia sempre di meno, fino a fare di NewYork, anzi di Manhattan, la sua patria di elezione. In pantaloni, maglione e occhiali scuri la percorre a grandi passi nelle sue lunghe passeggiate quotidiane. Sono molti quelli che sostengono di averla vista tra la Quarantaduesima e la Settantesima, o da Bloomingdale, il mitico department store tra la Lexington e la Third Avenue. Qualcuno giura persino di aver incrociato il suo sguardo, mentre le palpebre si alzano e si abbassano nell’antico gioco fascinatorio, in un impercettibile sussurro: «C’eri dunque anche tu». Ma il tempo del cinema è per lei irrimediabilmente finito, mentre si ribadisce la scelta della solitudine. Se vuole restare se stessa deve essere quella che è sempre stata. Enigmatica, inafferrabile, lontana. Lontana come la luna, diceva Dino Risi, arrischiando il paragone impossibile con Anna Magnani: «La Garbo è la luna e la Magnani il ciclone. La luna troppo lontana può influire sui nostri sentimenti ma non si può toccare, mentre il ciclone è qualcosa di pericoloso, ti entra in casa, ti sfonda i vetri delle finestre, ti sfascia le porte».
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Narrativa
n libro torrenziale che non si fa fatica a immaginare scritto di getto come dichiara il suo autore. Un libro scritto in sei mesi da un esordiente ma che ha la mano allenata alla scrittura di sceneggiature cinematografiche. Per molti critici Hanno tutti ragione, in lizza allo Strega e firmato da un regista italiano giovane e già affermato come Paolo Sorrentino, è divenuto il caso narrativo dell’anno. Una prosa ricca e fastosa, una lingua contorta e comica, storpiata sulla base di un napoletano tipicamente borghese, incrocio tra il dialetto popolare e l’italiano riscritto dalla società del Vomero, parlata e monologata da un personaggio grottesco e perfetto, ridicolo e saggio. Anche senza gridare al capolavoro questo romanzo ha tratti di novità, di reale forza stilistica, ed è capace di tratteggiare un personaggio protagonista e i suoi comprimari con toni ironici e accesi. La forza visionaria dell’io-narrante fusa a espressione realistica fino a rappresentazioni dai toni pop, rende il libro di Sorrentino una lettura trascinante. L’epopea eroicomica di Tony Pagoda, cantante col pallino del sentimento e di lunghe sniffate di cocaina, è punteggiata di avventure maldestre, pericolose, erotiche. In ognuna di queste avventure, infilate una dietro l’altra,Tony sembra caracollare senza una vera pulsione. Se non che Tony Pagoda è un uomo che aspira alla vita reale e detesta la quotidianità normale fatta di famiglie infilate in pantofole e tuta. Teme la notte come tranquillo riposo dell’uomo normale e anela a vivere l’abnorme oscurità in nome della scoperta e della verità. La notte però è rischiosa e buia anche per i personaggi come Pagoda che più volte si trova invischiato in contorte situazioni. Come quando, alla ricerca di cocaina, si ritrova sul molo napoletano nel pieno di una resa dei conti tra bande rivali che si contendono il traffico di droga. Il suo amico muore falciato dai colpi dei mitra, mentre lui viene salvato da un potente boss che lo trascina su di un motoscafo in giro
libri
Paolo Sorrentino HANNO TUTTI RAGIONE Feltrinelli, 319 pagine, 18,00 euro
per il golfo di Napoli. Non meno divertente la scena dedicata alla prima volta, al primo rapporto sessuale di Tony, nel buio di un palazzo nobiliare con una nobile sessantenne che ha abolito l’elettricità per risparmiare. Un romanzo che si articola in quadri legati assieme dalla parabola di questo stravagante uomo, sempre alla ricerca del nuovo e che però di fronte ai cambiamenti viene preso dal furore (come quando picchia la moglie odiata che lo vuole lasciare), che al culmine del successo mollerà tutto per andare a vivere in solitudine vent’anni in Brasile, dove non canterà più nemmeno per gioco. Tornato in Italia, a settantasei anni, Tony Pagoda scopre il senso del ridicolo, un mood che aleggia in tutto il libro, forse sarà la vecchiaia o la decadenza eterna di Roma, la città dove si stabilisce, la città di tramonti inesausti. Per capire davvero cosa è stata la sua vita, e a cosa si è ridotta in vecchiaia, Tony torna da una anti-
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L’epopea quasi picaresca di Tony
Pagoda
È già un caso letterario il romanzo d’esordio del regista Paolo Sorrentino, in lizza per lo Strega. Una rappresentazione pop dai toni trascinanti
Riletture
di Maria Pia Ammirati
ca amante, Antonella. Di fronte alla disfatta della bellezza e della ragione Tony si arrende. E torna all’unico pensiero consolatorio che sa di avere, alla vita prima della vita. A lui bambino tenuto per mano dai genitori a passeggio il sabato pomeriggio. Torna alla vita normale, al suo sogno di una vita normale, dove la donna amata e perduta ha per caso il nome di Beatrice.
Ennio Flaiano oltre la “velatura” dell’ironia
l centenario di Flaiano (vedi liberal del 5 marzo scorso) è certo un invito a riprendere in mano la sua opera. Ma Flaiano è uno scrittore che ci è sempre venuto incontro con la sua drammaticità, che considero prevalente, e la sua ironia, indipendentemente dalle varie ricorrenze. Ennio Flaiano (1910-1972), nato a Pescara e studente a Roma, debuttò nel ’47 con il romanzo profondamente tragico Tempo di uccidere più volte ristampato. Ho sempre pensato che sia uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano. Ambientato in Etiopia durante la guerra, non è un romanzo di guerra ma un romanzo di avventure personali esistenziali e sentimentali che portano di fronte al baratro del male che circonda l’uomo, che spesso si impadronisce di lui e che può determinare una situazione di vita quasi insostenibile. Può parere strano che il Flaiano passato alla storia della letteratura del Novecento sopratutto per la sua ironia, per le sue battute, per un certo modo parodistico di descrivere e prevedere l’andamento della società, abbia firmato una sua opera prima con un romanzo
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di Leone Piccioni così tragico e talvolta così crudele come Tempo di uccidere. In Diario notturno del ’56 e cioè quasi dieci anni dopo il romanzo, ci si imbatte in questo pensiero: «Quando si parla di guerra - scrive Flaiano - io penso a questo episodio che ne contiene il succo. Una volta mi toccò di assistere mentre bruciavano i cadaveri degli abitanti di un villaggio. Si preparò un rogo unico, i cadaveri (uomini, donne, bambini) furono ammassati. Stavano per dar fuoco ma arrivarono due soldati portando qualcosa in un lenzuolo che sostenevano per i quattro capi: “Un momento” - gridavano. Mi accostai. Nel lenzuolo, immobile e rattrappita dalla violenza, vidi un’orribile vecchia.“Ma questa è viva!” dissi quasi divertito.“No - rispose uno dei soldati con innocenza:“È quasi morta”.“E poi - aggiunse l’altro - c’è rimasta solo lei qui. Che facciamo?”». Vorrei citare anche, della vena malinconica e talvolta struggente di Flaiano in Una e una notte del ’59, il racconto intitolato «Adriano», chiaramente autobiografico,
Con “Tempo d’uccidere” ha squarciato le cortine del male e del dolore più profondo
che con grande semplicità e forza poetica narra di un autunno e di un inizio d’inverno passati a Fregene al «villaggio dei pescatori». Si consideri anche che nella sua vita privata ebbe il grande dolore di avere una sola figlia, spastica. Ora io penso che l’aver subito squarciato le cortine del male e del dolore più profondo, del peccato e del delitto immotivato, abbiano persuaso Flaiano a chiudere la sua attenzione verso questa tematica per rifugiarsi in una visione della vita filtrata, appunto, attraverso l’ironia, stendendo, come Foscolo suggeriva, una sorta di «velatura» tra sé e i fatti della vita nella propria esperienza: una «velatura» che consentisse di riprendere il respiro e di vivere questi anni che ci toccano in un modo possibile. Nella tematica di Flaiano ha grande spazio Roma. Malgrado non vi sia nato, la sente come la sua città anche se per tanti lati vorrebbe, senza riuscirci, odiarla: «Sono anche stanco di questa Roma terribile che è sempre da riconquistare una volta che ci si ritorna. Sembra di averla amica e invece ti accorgi che non potrai mai afferrarla interamente: ci sono dei lati che ti sfuggono e ti senti eternamente barbaro condannato ad amarla senza sperare nulla… Roma è immensamente bella».
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Storia
ilioni di morti nei gulag. Buttati in quei «tritacarne», in quelle pattumiere fondate sull’umiliazione dell’uomo, sulla sua scomparsa e quando diciamo scomparsa usiamo questa parola in senso assoluto: di loro non rimane una frase, un nome, figurarsi una tomba. Ma che importa poi il numero delle vittime? La domanda non intende sfiorare il sarcasmo contabile, è solo l’occasione per citare una delle frasi più feroci, ed eticamente abominevoli, attribuita a Stalin: «Quando si taglia il bosco le schegge saltano». Fuori dell’allegoria montanara e contadina, il minimo residuo della carneficina non deve entrare nella Storia, non ne ha il diritto. Vite falciate dalla tagliola grande del socialismo reale. E questo è coerente con la fantasia politicamente lugubre che disegnava giorno dopo giorno una società totalmente carceraria.
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Ha un nome buffo l’ultimo lembo di terra prima del Mar Bianco: Popov Ostrov. È a 160 chilometri sotto il circolo polare artico, 700 da Leningrado, 1200 da Mosca. Siderale la distanza che lo separa dalla terra chiamata civiltà. O, più semplicemente, dal concetto di umanità. Popov Ostrov era il centro di smistamento per le anime, già mute e consunte, che il potere bolscevico aveva deciso di scaraventare nelle isole Solovki perché lavorassero e morissero. Dal 1923 al 1939 ben 850 mila esistenze sono finite nella tortura, nel fango, nel gelo. Ingoiate dal silenzio. Anno 1926, un finlandese di nome Boris rimane nel gulag poche settimane. E riferirà: «L’orrore delle Solovki consiste nel fatto che nessun detenuto è mai sicuro di quello che farà un istante dopo». L’ingegnere e umanista Pavel Florenskij, definito «il Pascal russo», in un lettera alla figlia Olga parlerà di «epoca tremenda». E L’Epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki è il titolo di un libro che deve essere collocato sullo scaffale della memoria, accanto a molti altri della levatura testimoniale come quelli di Primo Levi. L’autore è Maurizio Ciampa, scrittore e studioso. L’editore è Morcelliana (227 pagine, 16,00 euro). Ciampa non si limita a citare fonti e a decifrare documenti. Narra con mano pietosa, dolce e scandalizzata la non-vita di quelle schegge umane. Fin dal viaggio sui treni. O ancora da prima, quando il nome di un uomo o di una donna si posava come una macchiolina d’inchiostro su un foglio protocollare e questo veniva infilato in una busta, immancabilmente gialla, il colore di tutte le burocrazie. Era sufficiente un sospetto, o semplicemente l’appartenenza a un’etnia o a un gruppo sociale (si pensi ai kulaki, i contadini). L’accusa vera aveva il peso del superfluo. Coerente con il marchingegno del terrore è la sadica vita di Alexandr Petrovic Nogtev, primo direttore del campo di concentramento nel 1923. Un pazzo furioso che amava urlare ordini di sterminio. Sovente ripeteva: «Noi abbiamo la nostra legge! Tutte le altre leggi ve le potete scordare». Zelante con la
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ALTRE LETTURE
IL TEMPO PARALLELO DI IOAN COULIANU di Riccardo Paradisi
i sono verità nascoste, o semplicemente dimenticate, che attraversano il tempo rimanendo celate alla coscienza della maggioranza degli uomini, ma vengono comunque tramandate per vie occulte. Una di queste riguarda l’origine del linguaggio umano e il linguaggio stesso della creazione. Attraverso una serie di racconti collegati tra loro, in cui ritornano un misterioso smeraldo e l’ombra di una figura femminile salvifica, Ioan Petru Culianu - il geniale storico delle religioni rumeno, discepolo di Mircea Eliade, assassinato nel 1991 all’Università di Chicago per motivi ancora ignoti disegna nel Rotolo diafano (Elliot edizioni, 238 pagine, 17,50 euro) un ritratto enigmatico e affascinante di alcuni passaggi segreti della storia dell’umanità fino a oggi.
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Pavel Florenskij e la Shoah delle Solovki Nell’«Epoca tremenda» Maurizio Ciampa narra, con grande levatura testimoniale, la non-vita delle «schegge umane» scaraventate dal potere bolscevico nei gulag dell’arcipelago del Mar Baltico. Tra tutte, spicca la figura dell’umanista russo la cui morte fu resa nota dal Kgb 53 anni dopo di Pier Mario Fasanotti propria psicopatologia, Nogtev firma ordini di esecuzione e spesso è lui, solo lui, che li esegue. È giudice e boia. Prototipo nero dell’homo sovieticus. Ma le vicende politiche sono bizzarre: nel 1938 sarà accusato di terrorismo e di attività controrivoluzionaria. È condannato a sette anni di internamento. Muore scrivendo nella sua casa di Mosca, a 55 anni. Finalmente in silenzio. Alle isole Solovki nasce nel 1926 una sorta di ordinamento che ha come finalità «la rieducazione del prigioniero attraverso il lavoro coatto». Nel monastero delle Solovki c’erano preti. Via i preti. E via anche gli affreschi: un po’ di calce e, sopra, in grande si scrive la sintesi del delirio comunista: «Indicheremo una nuova via alla Terra. Signore del mondo sarà il lavoro». Mentre il nostro Pavel, scendendo dal treno, commenta «Tutto è frantumato», la propaganda sovietica scolpisce sulla carta l’essenza dell’utopia carceraria. C’è, annota Ciampa, un’occulta regia, in questa frase di regime: «…l’attualità, la speranza nel futuro sono i lager». Malattie, sfinimento e persino episodi di cannibalismo. La
sensibilità del prigioniero è anestetizzata. Scrive Florenskij: «Vivo in uno stato di continuo torpore spirituale». Novembre 1935, sono passati 18 mesi dal suo arresto. «La realtà mi sembra un sogno».
C’è un’isola che si chiama Anzer. È un sotto-inferno. Qui gli uomini sono chiamati «sciacalli», vivono nudi, «stipati in fosse sotterranee ricoperte di assi di legno, uno accanto all’altro, per darsi reciprocamente calore. Chi esce dalla catasta finisce congelato». Ciampa osserva che tra i vivi e i morti s’è azzerata la distanza. C’è «confidenza» tra i sopravvissuti e i cadaveri, anche perché chiunque «si sente un cadavere in potenza». Uomini che lavorano e trottano come cavalli, e come cavalli, osserverà qualcuno, sbuffano aria dalle narici. Obiettivo raggiunto: l’uomo è animale. Sognare, per tutti i sovietici, è diventata un’attività clandestina. Scende sulla terra gelata della Russia una logica assurda: «Alle Solovki bisogna morire se si vuole restare vivi». Ciampa descrive la deriva emozionale e sensoriale del detenuto. L’accanimento dei guardiani della Rivoluzione d’Ottobre colpisce anche i familiari dei «sovversivi». Formulare domande sui propri cari internati è un’ingenuità che oscilla fra tragedia e umorismo. Anna, la moglie di Pavel Florenskij, morirà nel 1973 a 84 anni senza aver mai saputo nulla. Accade qualcosa di grottesco quando un giorno la donna avanza la richiesta di grazia per il marito. Nessuno le rivela che è morto da anni. Solo nel 1990 il Kgb informerà la famiglia che Pavel è stato fucilato in una notte del 1937. Sono passati 53 anni.
UMBRIA ROSSA, RADICI DI UNA CRISI *****
e non fosse stato per l’insipienza del centrodestra in Umbria stavolta l’opposizione avrebbe potuto almeno impensierire il sessantennale potere rosso che governa la regione. Un potere talmente pervasivo e privo di alternanza, una specie di regime. Un sistema quello umbro però che con la crisi del Pd - scandali politico finanziari, risse interne, calo del consenso - ha mostrato le prime crepe. Umbria rossa. Ascesa e crisi (19452010) è il titolo del numero speciale della rivista umbra Diomede dove si mette a tema l’analisi della degenerazione di un potere che, come scrive nel suo saggio introduttivo Gabriella Mecucci, è a un bivio pericoloso. Il volume contiene oltre a saggi sulla storia della regione anche interviste a protagonisti e attori della politica e della cultura umbra: da Potenza a Radi, da Stramaccioni a Zaganelli.
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AVEVO UN CAMERATA... L’ULTIMO ATTO DI ACCAME *****
a Pericle a Ezra Pound, dalla Divina Commedia a Martinetti, da Gentile a Céline, insomma una storia delle idee del XX secolo politicamente scorretta. La morte dei fascisti (Mursia, 339 pagine, 19,00 euro) è il libro-testamento di Giano Accame dove lo scrittore recentemente scomparso passa in rassegna il rapporto culturale e simbolico del fascismo con la morte. Un rapporto che la moderna società liberale ha rimosso tentando di esorcizzare la morte con la tecnica e la scienza. Attraverso la letteratura, la filosofia e gli eventi storici questo saggio a cui Accame ha lavorato fino all’ultimo giorno della sua vita, analizza il valore della morte, per riscoprirne la concezione naturale e antindividualistica che sempre ha avuto: «Si muore sempre a qualcuno» diceva Gentile, poco prima d’essere assassinato.
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pagina 20 • 10 aprile 2010
he sarà mai questo David Letterman Show, trasmesso in prima serata da Sky e più volte replicato durante la giornata? Me lo ha segnalato mio figlio quindicenne, ed è stata la prima cosa che mi ha incuriosito. Anche perché ha aggiunto che molti suoi coetanei lo ritengono interessante e spiritoso. Ho cominciato a vederlo (è in inglese, con sottotitoli in italiano) apprezzando immediatamente l’effetto disintossicazione. In questo senso: abituato ai talk show italiani, da Costanzo a Chiambretti (prodotti logoratissimi entrambi), ho avuto l’immediata sensazione del rilassamento, dell’umorismo rapido, poco malizioso, forse un po’ da ragazzoni americani ma, come dire?, una cosa fresca e spontanea. E soprattutto mi ha catturato l’assenza dell’ammiccamento sboccato, noiosamente e ossessivamente genitale. Certe battute, direttamente collegate a vicende televisive o politiche tipicamente americane, mi hanno solo sfiorato. In ogni caso il lettore medio di giornali italiano afferra il senso per l’ottanta per cento.
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Letterman è un sessantenne in giacca e cravatta che sa fare (sobriamente) anche il comico senza l’ansia di esserlo o volerlo apparire a tutti i costi. Passato alle cronache, l’ottobre scorso, per aver reagito a un ricatto confessando pubblicamente nel suo show di avere avuto relazioni sessuali con collaboratrici del suo staff (e gli americani, si sa, prediligono la sincerità), ha tuttavia l’aria di una specie di zio simpatico e arguto che prende la vita come viene e ci scherza su, tra surrealismo e sarcasmo. Una mimica facciale appena accennata e la padronanza del palcoscenico fanno il resto. Il programma inizia con un suo breve monologo. Il ritmo e la marca umoristica ricordano un po’ Woody Allen. Più di una volta ricorda la riforma sanitaria voluta dal presidente Obama e dice che gli americani fino a oggi si sono intestarditi nel voler pagare astronomiche parcelle ai medici. Entra in scena un tizio e gli chiede di autografare la radiografia del suo colon. Poi dà notizia che la prosperosissima Pamela Anderson partecipa a Ballando sotto le stelle: impresa non da poco visto che non riesce a vedere i propri piedi. Risate del pubblico, anche se la battutella è datata, a tal punto che veniva usata anche parlando di Marilyn Monroe. È arrivata la primavera, annuncia Letterman, e tutti se ne possono accorgere perché i ladri d’auto entrano dal tettuccio apribile. Il golfista sessuomane Tiger Woods ha deciso di partecipare alle competizioni: un modo per star fuori di casa almeno per un pomeriggio, e lontano dal rancore della moglie. Con un ospite, un attore non noto agli italiani, parla di figli. Rilassatissimi entrambi, scambio di sferzate su come crescere i maschi e le femmine. Sullo schermo grande compare l’ultima nata dell’attore assieme alla mamma, e lui: vede, mister Letteramn, volevo fare il carino con mia moglie e poi è finita così. È la volta infine del cantante Michael Bublé, dalla voce che somiglia a quella di Frank Sinatra. Chissà quante volte avrebbero insistito su questo punto gli showmen ita-
MobyDICK
Televisione
video DVD
Disintossicarsi con David
Letterman
Piace anche ai quindicenni lo show della Cbs trasmesso da Sky. Umorismo rapido, poco malizioso, spontaneo. Molto diverso dagli ormai logorati talk show di casa nostra. E il bravo conduttore, nonostante le ammissioni di “colpe” sessuali, mantiene l’aria da vecchio zio simpatico
IL FASCINO DISCRETO DI UGO PIRRO n anticipo ma non troppo, perché altrimenti non vi capiscono». Ugo Pirro ammoniva così gli allievi sceneggiatori che desideravano stupire tutti grazie a copioni innovativi. Romanziere, articolista, autore di script che hanno punteggiato la storia del cinema italiano (da Il giorno della civetta di Damiano Damiani a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri), il poligrafo salernitano rivive in Soltanto un nome nei titoli di testa, bel documentario di Daniele Di Biasio. Attività filmica e biografia si intrecciano in un gioco d’incastri che conferma Pirro come acuto interprete dei mutamenti insorti nel secondo Novecento italiano. Un autore che ha scolpito in silenzio parte del nostro immaginario.
«I
GAMES
CAPITANO NEMO VA ALLA GUERRA hi non ha dimenticato il Nautilus di Capitano Nemo, avrà di che gioire per la prossima uscita (prevista l’11 giugno) di Naval Assaults, arcade di azione che ripercorre le battaglie sottomarine tra gli Stati Uniti e le forze dell’Asse durante la seconda guerra mondiale. Nelle turbinose acque del Pacifico del Nord, alla guida di un sommergibile americano, il giocatore è impegnato in trenta missioni che richiedono di volta in volta l’assalto o la prudenza, l’impiego del sonar o l’elaborazione di una strategia dalla tempistica perfetta. E poi abilità nell’uso delle armi, la giusta destrezza nello schivare le mine e un accorto impiego delle intercettazioni in campo nemico. Grafica di pregio e buona accuratezza storica.
C
liani, magari fino a lambire una non esistente vocalità psicoanalitica. Bublé ha l’aria del giovanotto perbene che si mostra divertito di essere su quel palcoscenico. È in mezzo a una tournée che lo porta in ben 42 paesi per un totale di 300 concerti. La prossima tappa?, gli chiede l’ospite. Risposta: non ne sono sicuro, credo Cincinnati. Poi ci ripensa: no, devo andare a Denver, in Colorado. Buona notizia, pessima per Cincinnati, replica sorridente Letterman. Un tour de force canoro, non c’è che dire. La nuova voice americana spiega che dietro le quinte si comporta come un atleta: «Una volta ero abituato a bere un whisky e a fumare una sigaretta dopo ogni concerto, ma con questo ritmo ne devo fare a meno, quindi è una noia mortale. Letterman: più che un cantante lei mi sembra un uomo sequestrato. E ancora: ma chi glielo fa fare? Come mai tanta fatica? Risposta: so che è pazzesco, ma mi servono i soldi.
In uno dei monologhi, Letterman riprende il tema a lui più caro: New York, un mondo a parte. Racconta di aver attraversato Central Park e di aver visto, su una panchina, una vecchietta intenta a dare da mangiare ai piccioni. Dopo una brevissima pausa: e poi dava da mangiare i piccioni al suo pittbull. Notizia di cronaca: gli States sono impegnati a fare il censimento, ognuno deve dichiarare il numero dei componenti della famiglia. Un bel lavoro per Angelina Jolie che ora passa il suo tempo con un cercapersone. Tempo di tasse. Il mio commercialista, dice Letterman, nei tempi morti gioca a Guitar Hero nel suo studio. È una categoria professionale «stagionale», quella. E quando mi telefona, la prima cosa che mi chiede è questa: lei è seduto in questo momento? Ingenuità, risate forse da teatrino di vecchia provincia italiana. Certo. Ma è (p.m.f.) un modo per disintossicarsi.
WEB
STROMBOLI E POZZUOLI, MERAVIGLIE IN UN CLIC ssaporare in diretta la vista dei maggiori spettacoli naturali del Pianeta, monitorare le aree a rischio, o semplicemente scrutare le condizioni meteorologiche in vista di una gita fuoriporta. È questo il concept alla base di swisseduc.ch, piattaforma web che integra numerosi progetti internazionali, tra cui quello italiano di Stromboli on line. Utile per sismografi, geologi e studiosi di scienze naturali, quanto per studenti e turisti, il progetto si avvale di un fitto numero di webcam dislocate intorno alle aree più suggestive della Terra. Per quanto riguarda la Penisola, merita senz’altro un clic lo scorcio del Golfo di Pozzuoli. Fortemente consigliato un collegamento al tramonto.
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di Francesco Lo Dico
MobyDICK
poesia
10 aprile 2010 • pagina 21
Thovez: per un pugno di versi di Francesco Napoli è un particolare momento della nostra storia letteraria fatta di mutazioni estreme, clamorose o segrete, che è il primo decennio del Novecento, quando ormai sopraggiunge il tramonto del XIX e inizia l’alba del XX secolo. Letture per lo più pigre hanno spesso confinato nella gabbia degli imputati autori che meglio sarebbero stati sul banco dei testimoni oculari del delicatissimo passaggio riconducibile a una sorta di protonovecento. Tra questi credo che Enrico Thovez (Torino, 1869-1925) meriti una più accorta revisione prospettica. Figlio di un ingegnere di origine savoiarda, Cesare, e di Maria Angela Berlinguer, «sarda, di famiglia oriunda spagnola, venuta dalla Catalogna nella fine del Seicento e da questa parte mi viene l’amore della poesia», fu iscritto alle scuole tecniche e poi alla facoltà di scienze nel 1886, una scelta che presto si rivelò decisamente erronea. Infatti, prese a studiare latino e greco e, conseguita la licenza liceale, frequentò la facoltà di lettere dove si laureò in storia dell’arte greca.
C’
dieci volte più larga della loro e che io mi sento a mio agio nella pittura e nella scultura e nella musica tanto quanto nella poesia, dove si degnerebbero di concedermi dell’autorevolezza, che io ho dieci volte più conoscenza della natura umana e più buon senso delle questioni di loro, che io sono più serio, più preciso e che ho una forza d’idealità, un culto della bellezza che si rivela anche nella vita comune, nelle mie parole, nella mia condotta, nei miei amori». Dal 1896 Enrico Thovez si dedica alla risistemazione del suo lavoro poetico in vista di un’eventuale pubblicazione. Poi, una volta decisa la partizione dei testi, a marzo del 1900 non sa ancora chi glieli pubblicherà, almeno per quanto si sa dalle preziose pagine del suo corposo diario pubblicato postumo nel 1939 e mai più rivisto in libreria, dove è assente anche la sua poesia. Sarà lo stesso editore di Guido Gozzano, il torinese Streglio, ad accogliere nel 1901 Il poema dell’adolescenza che venne ristampato più volte e con interventi nell’ultima edizione in vita l’autore del 1924. Apparsa la raccolta, Thovez se ne rallegra avendo temuto «per tanti anni di morire prima di vederlo stampato», commento in linea con certe estenuazioni di quel crepuscolarismo che pure non gli appartiene affatto, chiosando ancora e sullo stesso tono: «Ho dedicato tutta la mia vita alla poesia. Le ho sacrificato tutto: la salute, la prosperità, l’amore, la gioia, il piacere. Di tutta la mia vita mi resta questo pugno di versi».
Il suo avvento sulla scena letteraria italiana è clamoroso. Inizia a collaborare con diverse testate e nel 1895 pubblica sulla torinese Gazzetta Letteraria un articolo dove denuncia i plagi di D’Annunzio tratti dai poeti francesi del tardosimbolismo allora poco conosciuti in Italia. L’intervento molto critico s’innesta su una più ampia polemica che la pubblicistica dell’epoca stava montando sul Vate. La sua vis ebbe più tardi conferma nel saggio, anche questo suscitò un certo scalpore, Il pastore, il gregge e la zampogna del 1910. Il poeta vi analizza il linguaggio della poesia italiana, per la quale salva solo Dante e Leopardi, e prende posizione contro gli imitatori tanto del Carducci quanto del ben poRevisione co stimato D’Annunzio. Il libro, accolto prospettica di un con scandalo, fu ai tempi giudicato coautore celebre me lo sfogo di un poeta deluso dall’insuccesso della propria poesia, e poi prepiù per la sua sto emarginato, mentre in realtà è alopposizione quanto godibile per la prosa viva, chiara e ironica che meriterebbe oggi miglior a D’Annunzio fortuna come l’avrebbe meritata ancor che per la sua più allora, al tempo dell’imperante cropoetica attinta cianesimo. Dalla lettura del suo Diario però emerge un’enorme autostima a paalla limpidezza ragone con i colleghi critici e artisti: dei greci «Non posso nascondermi che ho la testa
il club di calliope
Il saggio polemico ricordato poc’anzi mette in chiaro la poetica di Enrico Thovez che, in nome di un robusto classicismo di stampo romantico alla Heine, si fonda su una poesia permeata di «verità» e che deve perseguire «la storia di un’anima nuova nelle sue relazioni con la vita e con la natura», in anticipo su alcune posizioni dei vociani che condividono a loro volta lo stesso antidannunzianesimo. Inoltre, insieme ad atteggiamenti di tipo moralistico, «permangono nel Thovez quegli stati di tensione psicologica, di pena nervosa e ossessiva, di incubi e vertigini voluttuose, retaggio della lettura di Heine» (Petrocchi). Il poema dell’adolescenza si apre con un testo del 1894, coevo a certe soluzioni poetiche di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, altra figura del fervido protonovecento italiano, Grido di liberazione in un mattino di primavera, poemetto in
GRIDO DI LIBERAZIONE IN UN MATTINO DI PRIMAVERA
I Oh, un canto, un inno più vasto! Più vasto e libero e forte! Un ampio canto che accolga Questo divino tumulto! Le vostre strofe mi soffocano; l’anima mia si divincola fuor dei legami nel sole! Splendimi, o sole, nel cuore! Oh, non mi uccida la gioia: oggi, percosso di luce, io getto un grido nel tempo: fondo in più libere forme le cose eterne e il mio palpito che le rinnova negli anni! (…) Enrico Thovez da Il poema dell’adolescenza
quattro parti, del quale riportiamo il primo, in esametri barbari distanti dalle soluzioni carducciane, che esplicita sin dal titolo il proposito di un «inno di libertà»: «Voglio esser semplice e grande/ come la stessa natura», dice, ma poi la raccolta prosegue e si chiude con la presenza massiccia di un evanescente «fantasma» e si organizza in quattro capitoli la cui denominazione denota forti e sintomatici accenti neospiritualisti: «Ombre di morte», «Ombre di sogni», «Vertigini», «Aneliti». Quel «grido» del titolo del componimento d’apertura ritorna ben nove volte nel corso del Poema, quasi a voler indicare i passaggi più intensi del dettato poetico di Thovez e va anche rammentato che al «grido» rivolse particolare attenzione la poetica dell’Espressionismo. La presa di posizione del poeta torinese si colloca dunque in una stagione di crisi e di fermenti nella quale tenta a modo suo un rinnovamento attraverso la grande tradizione della «poesia perenne», attinta alla limpidezza dei greci e di Leopardi e proiettata con slancio attraverso il futuro prossimo venturo del pieno Novecento.
AMELIA ROSSELLI E BIGONGIARI RITROVATI in libreria
DAMMI IL FUOCO DELL’ALTRA VERITÀ Dammi, dammi un amore che obblighi al silenzio, che abbia ossigeno e ventate secondo l’uso del corpo e della mente, che possa entrare dalla cuna celeste al ritmo veloce del fuoco. Dammi il fuoco dell’altra verità - aggiungi aggiungi e più riceverai! Venga tutta la verità benedetta degli astri essenziali, degli atomi radianti risana cellule e radici in questa legge mortale. Giovanna Sicari
di Loretto Rafanelli ell’Almanacco dello Specchio 2009 (Mondadori, 280 pagine, 16,00 euro), a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, ci sono, come al solito, importanti contributi: i versi di grandi poeti di questi anni, tra cui Giovanni Orelli, Milo de Angelis e Umberto Piersanti; un’antologia al femminile con 12 voci, in particolare Maria Attanasio, Anna Buoninsegni e Gabriela Fantato; le poesie dell’ungherese Miklós Radnóti, dell’irlandese Patrick Kavanagh, dell’argentino Arturo Carrera, del canadese Serge Patrice Thibodeau e dell’iracheno Kadhim Jihad Hassan; un’intervista a Franco Branciaroli su poesia e teatro. Infine due presenze che fanno di questo Almanacco un’occasione da non perdere: cinque poesie disperse di Amelia Rosselli e 21 poesie di Piero Bigongiari, casualmente ritrovate in una cassa presso un libraio milanese, assieme a carte autografe risalenti agli anni Trenta-Cinquanta. Il poeta ermetico fiorentino, tra i più grandi del Novecento, ci emoziona ancora una volta con i suoi versi raffinati, dolenti e profondi.
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MobyDICK
pagina 22 • 10 aprile 2010
ai confini della realtà
L’etrusco?
Assomiglia all’ungherese di Emilio Spedicato bbiamo osservato in una precedente rubrica che oggi esistono, secondo le ultime stime, circa 7000 lingue parlate. Ogni tanto se ne trovano di nuove, come recentemente avvenuto nelle remote regioni della Cina presso il Tibet, ma molte scompaiono senza essere state completamente documentate. E fra le lingue che scompaiono ce ne sono certamente alcune di complessità e ricchezza di parole non inferiore alle lingue più note. Quante lingue fossero parlate ai tempi, diciamo di Augusto, circa duemila anni fa, o di Abramo, circa quattromila anni fa, nessuno ovviamente lo sa. Forse più di oggi, dato che il numero di lingue è indipendente dal numero totale di abitanti della terra, ma dipende dalla loro distribuzione e dal loro isolamento. Eppure non è impossibile che all’origine della presente varietà di lingue ci sia stata addirittura una sola lingua.
A
Senza scomodare la tesi biblica della moltiplicazione delle lingue dopo il crollo della Torre di Babele (un evento che se storico sarebbe da collocare nel Terzo millennio avanti Cristo), sono ormai decenni che studiosi sia sovietici che americani (della scuola di Joseph Greenberg, professore alla Stanford University, scomparso da pochi anni) sono riusciti a classificare le lingue entro famiglie (slave, latine…), superfamiglie (indoeuropeo, na-dene…) e macrofamiglie (afroasiatico…), ipotizzando una unica lingua all’origine. E addirittura sono riusciti a proporre la struttura grammatico-sintattica di base di questa lingua e le radici di varie parole. Una tesi non accettata da tutti i linguisti, ma che ha forti paralleli con quella del grande genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, professore di Pavia emigrato a Stanford, sull’origine dell’homo sapiens essenzialmente da una singola coppia, in Africa, circa 200 mila anni fa… Del tempo di Augusto conosciamo varie lingue ora morte ma ben documentate in scritti, come latino, greco classico,
Grazie al glottologo Mario Alinei che l’ha decifrato, si sa che appartiene al gruppo ungro-finnico. Ma sono ormai numerose le lingue morte conosciute in seguito a scoperte che hanno reso possibili nuovi studi. Ebla è un caso emblematico, ma anche i nuovi scavi nella regione del Bam promettono molto sanscrito… Il misterioso etrusco, dopo secoli di sforzi, sembra ormai decifrato grazie al lungo lavoro compiuto da Mario Alinei, uno dei massimi linguisti e filologi del Novecento, specialista dell’indoeuropeo e presidente
della società europea di dialettologia, e ancora attivo pur avendo superato gli ottant’anni da parecchio.
Alinei, che ho avuto l’onore di conoscere nella sua casa trecentesca vicino a Firenze, dove continua a lavorare dopo essere stato professore in Olanda, ha individuato l’etrusco come una forma arcaica di ungherese, quindi di una lingua del gruppo ugro-finnico. Ho scoperto il suo lavoro, ancora ampiamente e vergognosamente ignorato in Italia, tramite una matematica ungherese che, avendone letta la traduzione in ungherese fatta da Melinda Tamas-Tarr, chiese la mia opinione. Ho trovato, per quanto posso giudicare, il libro di Alinei non solo opera di uno studioso di altissimo livello, ma altamente convincente. E i suoi risultati sono stati fondamentali nel fare avanzare certe mie ricerche riguardanti temi biblici, e
non solo. Passando a tempi più antichi di quelli di Augusto, sono anche qui sono note numerose lingue, come egizio antico, sumero, accadico, pahlavi, pali, lineare B (aperta è la questione del lineare A, dove sono state fatte decine di proposte) e numerose lingue semitiche, divise in vari gruppi, dal sud semitico dello Yemen al nord semitico di Mari, città sull’Eufrate. Le lingue note parlate al tempo di Abramo in Mesopotamia e in Arabia sono almeno una ventina, e l’Italia vanta nello studioso D’Agostino uno dei maggiori esperti mondiali. Qui dobbiamo citare la missione archeologica italiana guidata da Paolo Matthiae, che, una quarantina di anni fa, scoprì in Siria la città di Ebla, citata nella Bibbia, ma sulla cui esistenza molti dubitavano, senza avere neppure idea di dove potesse essere. Gli scavi rivelarono una biblioteca di migliaia di tavolette cuneiformi, la più grande mai trovata. Fu chiamato per leggere tali tavolette, che erano scritte con caratteri noti ma in lingua sconosciuta, il sumerologo Giovanni Pettinato, fresco di studi a Heidelberg, luogo di massimi esperti in questo campo. Pettinato, dopo non meno di sei mesi di lavoro complesso e difficile, riuscì a decifrare lo scritto, come una nuova lingua del gruppo nord semitico. E si è quindi schiusa una grande porta sulla civiltà di allora, dove Ebla era grande centro culturale e commerciale. Notando che nella regione mesopotamica esistono migliaia di tell - cumuli prodotti dalle rovine di una città antica - non ancora scavati, e che solo una piccolissima parte del materiale scavato è stato letto e studiato, è chiaro che molto ancora potremo apprendere circa quella civiltà. E qui tacciamo sulle centinaia di tell mai esplorati esistenti nella regione araba dell’Asir, la terra di Canaan secondo quanto sostenuto in tre monografie dello storico libanese-cristiano Kamal Salibi. Ma intanto, crollata l’Unione Sovietica, si è aperta all’archeologia la vasta regione detta Bam, Bactriana-Margiana, a nord di Iran e Afghanistan. Qui c’è evidenza di tante e anche enormi città anche del Terzo millennio a.C., e di almeno una nuova scrittura da decifrare…