mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
NEL NOME I DI THEO
Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
nterview è il riuscito remake di un film di Theo Van Gogh, premiato durante la sua carriera con quattro Oscar olandesi e brutalmente assassinato ad Amsterdam il 2 novembre 2004 da un estremista islamico. Nemico di tutti i conformismi, compreso l’odio snobistico degli autori europei verso Hollywood, Van Gogh desiderava rifare tre dei suoi film più belli con attori americani per il mercato internazionale. Dopo la sua morte, i suoi amici produttori si sono impegnati a realizzare questo sogno, usando la troupe originale di Van Gogh e il suo metodo di lavorazione: tre camere digitali in contemporanea, dieci giorni di prova e nove di lavorazione. Interview è il primo dei tre ad arrivare sugli schermi, 86 minuti senza una nota sbagliata, un calo di ritmo o una scena di troppo e cattura l’attenzione dal primo fotogramma all’ultimo. È brillante, divertente e molto ben diretto e recitato dallo stimato regista e attore Steve Buscemi e da Sienna Miller, finalmente in un ruolo che fa onore al suo indiscusso talento. Il titolo del film si riferisce all’intervista che il giornalista di guerra Pierre Peders (Buscemi), scettico e imbronciato, comincia controvoglia a Katya (Miller), la diva demotica di film horror e di Citygirls, una serie di successo: un incrocio tra
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Nelle sale “Interview”, il primo dei tre remake hollywoodiani dei film più belli realizzati da Van Gogh, il regista olandese brutalmente assassinato nel 2004 da un estremista islamico
Parola chiave Fede di Sergio Valzania
9 771827 881301
80412
ISSN 1827-8817
Anselma Dell’Olio
Le notti di Moby a Manhattan di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Palazzeschi il sovversivo di Francesco Napoli
Rileggendo Marco Aurelio di Giancristiano Desiderio Václav Havel un eroe al Castello di Nicola Procaccini
Il mondo scomposto da Jiri Kolar di Marco Vallora
nel nome di
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segue dalla prima Sex and the City e Desperate Housewives. Interview comincia con un buffo prologo deadpan, in cui Pierre, davanti a una partita di domino, racconta al suo silenzioso, malato e triste fratello Robert (Michael Buscemi) l’ingrato compito affibbiatogli dal giornale: prestare la sua preziosa penna politica al ritratto di una bomba bionda, più nota per «la fluttuante dimensione delle tette» e per la serie di disinvolte avventure sessuali che per la sua bravura d’artista. La scena termina con le uniche parole pronunciate da Robert: «Non è giusto». Poi si passa alla parte centrale del film, l’incontro-scontro tra un intellettuale disincantato e pieno di sé e una partygirl spregiudicata e cocainomane. L’ottima sceneggiatura (di David Schechter con Buscemi, tratto dall’originale scritto da Van Gogh e da Theodor Holman) ha la genialità di indurre lo spettatore in continui rovesci di simpatia, ora per una, ora per l’altro protagonista di un classico duello: una burrascosa battaglia dei sessi. Riesce antipatico il giornalista «impegnato», che spiega il ritardo dell’attricetta al maître con un sarcastico: «Si vede che non sa ancora leggere l’ora». Ma si passa quasi subito a parteggiare per lui, dopo che lei si fa aspettare a lungo al ristorante dove gli ha dato appuntamento e appena arriva risponde al cellulare, che come suoneria ha l’abbaiare di un cagnolino isterico. Katya prima si scusa per «il piccolo ritardo» di un’ora e poi con noncuranza respinge la scusa offertale con galanteria da Pierre: «Problemi di traffico? - No, abito a due passi da qui!». Il nostro disprezzo è completo quando lei fa spostare una coppia dal suo tavolo preferito (sbagliando il nome del maître) e i due volentieri accettano di essere scomodati, squittendo complimenti e piaggerie abiette da fan.
Pierre passa al contrattacco, vantandosi di non aver fatto alcuna ricerca su Katya né visto un suo lavoro, ma di conoscerla solo «per la sua reputazione». Lei, secca: «Cioè per gli uomini con cui scopo?». (A quel punto s’inserisce un fan, che le chiede di firmare «A Theo» il suo I-pod, piccolo omaggio al regista assassinato. «Non hai idea delle cose che mi chiedono di firmare», aggiunge lei.) Stufa dell’atteggiamento di Pierre, Katya chiede il conto e gli dice che se ne va. Lui cerca di strapparglielo dicendo: «Ho il conto spesa»; lei ribatte: «E io ho il conto in banca, stronzo!». «Troia» urla lui, e si lasciano sotto una tempesta di flash dei fotografi appostati per lei in strada. Lui salta su un taxi, che prontamente va a sbattere perché il tassista mandrillo è ipnotizzato dallo sculettare della stellina sexy che s’avvia verso casa. Stordito, Pierre scende dal taxi dopo aver sbattuto la testa nell’incidente. Lei, impietosita alla vista del sangue, insiste finché lo convince a seguirla nel suo loft per farsi medicare. Entrano in un magnifico e vasto spazio, tipica ex fabbrichetta di Soho adattata a residenza miliardaria. «Quando te ne vai ci faranno un aeroporto», commenta Pierre, mentre Katya gli piazza un pacco di verdure
theo
Interview Genere Drammatico Durata 81 minuti Produzione Usa 2007 Distribuzione Fandango Regia Steve Buscemi Interpreti Steve Buscemi, Sienna Miller Michael Buscemi, Jackson Loo Tara Elders
congelate sul bernoccolo. (Sul bancone c’è un vaso con un mazzo di tulipani gialli, altro saluto all’olandese trucidato). Nell’articolato ambiente aperto passeranno una lunga nottata di bevute, sniffate, scaramucce, riappacificazioni, nuove litigate, pomiciamenti, insulti reciproci, lotte per il telecomando (lui vuol vedere le Cnn, lei il suo programma), sbirciate di lui nel computer di Katya (mentre lei risponde spesso all’abbaiare del cellulare, ciacolando con le amiche e il fidanzato, chiudendo con: «Scusami, ti richiamo più tardi; mi sono venute le mie cose». Presto lei comincia a riprenderlo con la videocamera; poi giornalista e attrice la usano per riprendersi a turno.
Si alternano confessioni, accuse, analisi dei difetti reciproci, bugie, confidenze e ritrattazioni: in una sola notte si concentrano le emozioni, i contrasti, i tradimenti, gli alti e i bassi, come in un lungo matrimonio. Finisce con un gioco della verità sensazionale, speculare, filmata. Uno dei due finirà fregato, sotto ricatto, messo nel sacco, quando finalmente, nell’ultima scena, si
Il film racconta di un incontro-scontro tra un giornalista di guerra, intellettuale disincantato e pieno di sé, e una celebre diva sexy che lui deve intervistare. Una burrascosa battaglia dei sessi che finisce per essere un sensazionale gioco della verità scoprirà chi ha avuto l’ultima parola. Theo Van Gogh, per aver fatto Submission, un corto di dieci minuti sui maltrattamenti subiti dalle donne islamiche in Europa, all’interno di famiglie tradizionaliste, è morto con otto colpi di pistola, la testa tagliata e due pugnali infilzati nella pancia. L’assassino era Mohammad Bouyeri, un olandese di origine marocchina, istruito e apparentemente ben integrato. Uno dei pugnali serviva per fissargli sulla pancia, come fosse una bacheca, una promessa epistolare di morte agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, l’ex deputata somala-olandese, sceneggiatrice di Submission, che da allora vive sotto scorta. In nessun festival, in nessuna sede ufficiale del cinema, è mai stato riconosciuto dai colleghi di Theo, sempre lesti a contestare scorrettezze politiche, che un cineasta è stato ucciso per un suo film. Un’affaruccio che
forse riguarda anche loro. Il progetto dei produttori di Van Gogh si chiama «La Trilogia di Theo», di cui Interview è la prima della serie; e meno male, poiché è tutto quello che s’è fatto come omaggio, ricordo, commemorazione in quattro anni.
Non è poco e per fortuna avremo altri due film di un regista che non ne potrà più girare, rifatti da Stanley Tucci e da Bob Balaban. È vero, come dice Buscemi, che «le opere sono il modo migliore per ricordare un artista». Oltre ad affrettarsi a dire, però, come ha fatto in conferenza stampa, che Theo era «un provocatore tremendo e polemista feroce», forse Buscemi poteva anche dire due parole sul significato della morte di un artista come devastazione della libertà d’espressione. Sarebbe stato l’unico a farlo pubblicamente, in tutto il mondo del cinema.
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e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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parola chiave
elle prime pagine del suo testo più noto, Introduzione al cristianesimo pubblicato nel 1968, l’allora non ancora papa Benedetto XVI pone in modo difficilmente superabile la questione fondamentale della fede. Ratzinger sostiene che se esistono uomini che si proclamano credenti mentre altri negano di esserlo, questo non significa però che fra di loro ci sia una differenza radicale come quella che sembrano porre e scrive che «in entrambi i gruppi - credenti e non credenti - sono presenti le stesse forze, sia pure con modalità differenti a seconda del campo». Prosegue poi: «Nessuno può sfuggire al dubbio, ma nemmeno alla fede: per l’uno la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio». In altre parole non ci sono uomini con la fede e uomini senza, esiste piuttosto un differente atteggiamento di fronte al problema del credere e del dubitare. Mi è capitato di mettere a confronto queste considerazioni così incisive con una riflessione fatta insieme a qualche amico mentre eravamo in marcia lungo il Cammino di Santiago. Gli incontri, le situazioni, i luoghi, la fatica e le conversazioni di quei giorni ci avevano stimolato una metafora: se noi rappresentassimo tutta l’umanità distribuita lungo un metro di legno, con i veri credenti da una parte e gli atei convinti dall’altra, ci accorgeremmo che la quasi totalità degli uomini si trova ammucchiata nel centimetro centrale del metro, riunita dal dubbio come dalla fede.
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Poche sono le differenze nella percezione del mondo e anche nella religiosità che ci pare di riconoscere in esso non appena ci misuriamo con esperienze più intense dell’ordinario e rifiutiamo o cerchiamo di mettere in secondo piano il confronto dialettico. Credere non è questione di parole. Quando ci poniamo di fronte ai grandi fatti della vita, che ci possono essere riproposti anche da occasioni semplici, come il camminare in silenzio per alcune ore al giorno, il concetto di fede, virtù teologale insieme a speranza e carità, diviene difficile da definire con termini esatti, ma il suo alone ci avvolge. Tutti percepiscono l’esistenza di qualcosa che vibra oltre la materia, si rendono conto o temono di avvertire la consapevolezza del fatto che i nostri sensi non sono in grado di cogliere l’intero di quello che ci circonda, e anzi spesso ne trascurano la parte più importante e più ricca. L’amore, il bello, gli affetti, la giustizia, l’arte, la morale esistono al di là del tangibile e del misurabile e se di per sé non dimostrano l’esistenza di Dio pongono domande decisive sulla natura del mondo. Ma il credere in un Dio personale e presente nella nostra esperienza umana, che ci chiama a un incontro con lui, è con sicurezza un passaggio ulteriore. Per diversi aspetti, qualificanti, esso è una particolarità del cristianesimo, che si fonda appunto nella fede in Cristo, fattosi uomo, morto in croce e risorto. Quanto sia importante e
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FEDE È un dono di Dio, ma non una grazia esclusiva riservata a pochi. Al contrario essa è distribuita a piene mani a tutti gli uomini, senza distinzione, insieme a un dono simmetrico, la libertà di dubitare
L’incontro di Sergio Valzania
Credere non è questione di parole. Tutti percepiscono l’esistenza di qualcosa che vibra oltre la materia che non è tangibile né misurabile. Un alone che ci avvolge e che di per sé non dimostra l’esistenza di Dio, ma pone domande decisive sulla natura del mondo significativa la fede all’interno della nostra religione ci viene ricordato sempre nell’Introduzione al cristianesimo, quando Benedetto XVI sottolinea che il nucleo del cristianesimo stesso consiste proprio nell’essere una fede, a differenza ad esempio dell’ebraismo, la cui natura profonda si colloca piuttosto nell’accettazione comune di una legge. Credere diviene quindi la prima e fondamentale qualità del cristiano, pur nella difficoltà immensa che questo comporta. Ubbidire a una legge, a una regola, riconoscere dei principi è diverso che credere, affidarsi a una persona, il Cristo.
Comportarsi in un dato modo, compiere un gesto o un’azione rispettando una regola è un fatto di metodo, di abitudine, di accettazione consapevole, ma il Cristo richiede ai suoi fedeli qualcosa di più: la partecipazione convinta a un progetto di amore. Questo è il passo ulteriore del suo progetto di incontro con gli uomini, «amatevi gli uni con gli altri come io ho amato voi». A questo punto il percorso è tracciato. La fede rimane un dono di Dio, come ci viene insegnato dalla Chiesa, ma non si tratta affatto di una grazia esclusiva, riservata a pochi che la godono con interezza a discapito di
una massa di discriminati. Al contrario essa è distribuita a piene mani, a tutti gli uomini senza distinzione, insieme al suo dono simmetrico, ossia alla capacità, alla libertà di dubitare. Qui si pone il libero arbitrio, la scelta. Perché a ciascuno è concesso di porsi nell’atteggiamento che preferisce quando crea con laboriosa fatica la propria visione del mondo, attività parallela a quella della creazione divina, alla quale l’uomo per questa via collabora, miracolosamente, quasi da pari a pari. I fondamenti esistenziali del mondo in cui viviamo non sono affatto scontati. Ciascuno trascorre la propria esistenza immerso nella cultura nella quale è nato e si è formato, ma nessuno si trova davanti un’evidenza materialista o spirituale, per usare una semplificazione troppo brutale. A tutti è rivolta piuttosto una proposta, un’offerta di incontro, insieme agli strumenti per edificare il sistema di credenze, personale e del tutto unico, necessario per attraversare la vita. A volte dubitiamo dell’affetto delle persone più care, che conosciamo e frequentiamo da quando siamo nati, come non dubitare neanche una volta dell’esistenza di un Dio presente nel mondo, personale e consolatore?
Hanno avuto momenti di grave crisi spirituale Teresa di Lisieux e Madre Teresa di Calcutta, anche noi abbiamo e avremo le nostre. Rileggiamo con sgomento le ultime parole del Cristo crocifisso del Vangelo di Matteo «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» e non ci è di consolazione sufficiente sapere che si tratta dell’incipit del salmo 22, che poi recita anche «Poiché il regno è del Signore/ egli domina su tutte le nazioni». Tutto ciò ci conferma semmai nella consapevolezza che una delle ragioni principali per le quali si prega è di essere confortati nella fede. Nella preghiera chiediamo a Dio di aiutarci a credere in Lui, sempre sapendo che agli uomini non è dato vedere il Suo volto perché altrimenti morirebbero, smetterebbero di essere uomini. A Mosè, il prediletto fra i profeti, fu concesso di vederLo di spalle, una frase della Bibbia il cui significato ci sfugge quasi interamente. Proprio in questo spazio di incertezza della fede, che non è mai risolta in senso compiuto e definitivo, si situa uno dei significati espliciti dell’incarnazione, dell’incontro con Dio su di un piano quasi paritario, destinato a realizzarsi attraverso il Cristo che proprio per questo scopo si è fatto uomo. Nelle chiese ortodosse una delle icone poste in posizione dominante nell’iconostasi che domina l’ambiente è quella di San Giovanni Battista, collocata con una dignità simile a quella del santo dedicatario dell’edificio e appena inferiore alle immagini del Cristo e della Madonna.Viene indicato con il titolo di Prodromo, Precursore. Fu lui che attraverso i suoi discepoli pose al Cristo la domanda che ancora oggi tutti noi che ci industriamo di credere abbiamo sulle labbra quando riflettiamo sulla nostra fede: «Sei veramente tu?».
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ROCK
musica
Moby
Le notti di a Manhattan di Stefano Bianchi on è una bufala creata ad arte per esorcizzare la timidezza con uno scoop biografico. Una decina d’anni fa, quando lo intervistai, l’omino di Harlem con la faccia da secchione (di quelli altruisti, però: che ogni tanto ti concedono una sbirciatina al compito in classe) mi svelò di essere un lontano discendente di Herman Melville, l’autore di Moby Dick. Da qui, il nome d’arte Moby. Marchio di garanzia di Richard Melville Hall, deejay + cantante + chitarrista. La star meno star di tutte. Il re del cut & paste, che nel 1991 compose un pezzo elettronico, tagliò a pezzetti la colonna sonora di Twin Peaks e ce la incollò sopra debuttando con Go. Dopodiché Moby ha esplorato tutto lo scibile discotecaro: jungle, acid house, techno, ambient. Infilandoci raffinatezze al pianoforte e frustate d’heavy metal; botte stordenti da rave party e il singolo più veloce d’ogni tempo: I Feel It, 1015 battiti al minuto certificati dal libro dei Guinness. Ma il suo fiore all’occhiello rimane Play del ’99. Dieci milioni di copie vendute. Un disco che fra cent’anni suonerà impeccabile, con quella genialata di far coesistere ultramoderno e antico; elettronica e voci campionate di blues e soul. Ciò che è arrivato dopo (l’album numericamente intitolato 18 e Hotel), pur mettendo in mo-
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stra techno-melodie come We Are All Made Of Stars e Spiders, non ha potuto reggere il confronto. Il nuovo Last Night, invece, non si pone il problema di dover competere con Play. Tant’è che non osa neppure scimmiottarlo. Ma va per conto suo, concepito da Moby come una missiva d’amore indirizzata alle notti di Manhattan dei primi anni Ottanta, che lo videro tra gli aficionados. Ore piccole vissute nella New York del vippume griffato Andy Warhol e dei graffiti di Keith Haring e JeanMichel Basquiat. Una notte insonne, l’ultima, condensata nell’ora e passa del cd ripensando a mitici locali come Peppermint Lounge, Mudd Club, Danceteria, Ritz. L’Harry Potter della consolle, incrociando la dance di allora con la techno di domani, va giù duro col ritmo oltranzista di I’m In Love e la muscolarità di The Stars; le luci stroboscopiche di Ooh Yeah (con quel canto femminile che ricalca Love To Love You Baby di Donna Summer) e il metronomo di 257.zero campionato con l’orchestra. Suoni ossessivi, adrenalinici, che arpionano il rap (I Love To Move In Here) e il ragamuffin (Alice). Poi, la notte diluisce atmosfere che si fanno via
in libreria
via più melodiche (splendida Live For Tomorrow, con la voce di Chrissi Poland a ricordarci la torbida sensualità di Grace Jones) fino ad arrivare a cogliere l’ipnotica Hyenas, i sospiri elettronici e i rumori ovattati del trittico Sweet Apocalypse, Mothers Of The Night, Last Night. L’ultima notte, appunto. Ma aspettate a togliere il cd. C’è una traccia in più, a sorpresa, che acciuffa l’alba fuori dalla discoteca. La notte è finita, rincorrendo il jazz di un sassofono e di un pianoforte. Il prossimo Moby, chissà, potrebbe ripartire da qui. Moby, Last Night, Mute/Emi, 20,60 euro
mondo
riviste
A SCUOLA DA BERNSTEIN
FILO DIRETTO CON GLI STONES
LE STELLE POLARI DI LUIGI TENCO
«P
rova di come la cultura possa essere presentata in un linguaggio che può essere capito e apprezzato dai nostri figli, dall’età prescolare in poi», al di là di qualunque svantaggio economico e sociale, Giocare con la musica di Leonard Bernstein (Edizioni Excelsior 1881, 389 pagine, 24,00 euro) raccoglie le lezioni concerto, trasmesse in quaranta paesi del mondo, che l’indimenticato compositore di West side story
A
onta di chi ne diffama le venerande grinze, i Rolling Stones continuano a dettare parole e musica anche nell’era digitale. Definitivamente consegnata al mito da Shine a light di Martin Scorsese, da ieri nelle sale italiane, la band di Mick Jagger non ha alcuna intenzione di restare immortalata nei fotoalbum della nostalgia. Adesso che Sticky Fingers’ e Exile on Main Street hanno venduto negli Usa 300
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In “Giocare con la musica” raccolte le celebri lezioni-concerto del grande maestro
Dopo l’intervista a Jagger, YouTube offre la possibilità di incontrare le leggende viventi
Chet Baker, Miles Davis e Lee Konitz: ricostruito il percorso jazzistico del compositore
dedicò alla musica, senza pregiudiziali né accanimenti settari. Animato da uno spirito didattico mai domo, lucidità di analisi e chiarezza, e con un’oratoria accattivante, Bernstein si diffonde sugli snodi principali della storia della musica, la funzione degli intervalli e le caratteristiche sonore che rendono riconoscibili stili e generi. Accessibile e illuminante, l’arte sonora secondo Bernstein è un florilegio di esempi, suggestioni e disanime acute. Pietra miliare dell’educazione musicale, Giocare con la musica restituisce, contro il sussiego accademico e la paludata insipienza filologica, il piacere di imparare, causa prima di ogni conoscenza.
mila copie (nel 2007), che è stato annunciata l’uscita di un nuovo album, e che il contratto con la Emi in scadenza, sarà conteso a cifre astronomiche da colossi come Universal e Sony, il gruppo britannico aprirà un filo diretto con i fan su Youtube, nell’ambito di Living Legends, nuovo servizio video basato sull’incontro con grandi personalità dello spettacolo. A breve, come annunciato da Jagger, saranno disponibili tra l’altro, in esclusiva sul noto portale video, le immagini inedite e il backstage di Shine a light. Sarà solo rock’n roll, ma di rotolare verso la rovina, le pietre non vogliono ancora saperne.
generiche considerazioni. Dal sax contralto Selmer Aristocratic, acquistato ai tempi dell’ingresso di Tenco nel Trio Garibaldi di Marcello Minerbi ai concerti al Teatro Duse, passando per la florida passione sviluppata in quegli anni per Miles Davis, Lee Konitz e Chet Baker, che divenne il suo punto di riferimento più caro, Luigi Tenco elaborò uno stile compositivo riconoscibile e raffinato, che importò di sana pianta nel suo mondo cantautoriale e nel panorama artistico degli anni Sessanta. Un mood crepuscolare alternato a loop divertiti, che hanno fatto di Tenco un autore capace di coniugare gli strappi dello swing agli squarci silenziosi dell’anima.
ià a partire dal 1953, anno in cui prese a suonare il clarinetto nella Jerry Roll Morton Boys Band, il quindicenne Luigi Tenco si innamorò della libertà espressiva dello swing, proprio come i suoi compagni d’avventura Bruno Lauzi e Gino Paoli. In un articolo accurato, presentato su www.jazzitalia.net, Roberto Arcuri ricostruisce il percorso jazzistico del compositore ligure, mai indagato in modo sistematico, ma sempre confinato in
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CLASSICA
zapping
La mutazione del rock: ORA S’IMPONE LA QUALITÀ di Bruno Giurato o visto le foto dell’ultimo concerto dei Rem, Michael Stipe sembrava lo zio di Mario Capanna. Ho ascoltato l’ultimo di Vasco, attempato e non più spericolato. Ho scrutato il trailer di Shine a light, il film di Scorsese sui Rolling Stones, Mick Jagger è una splendida marionetta antica, da come si agita pare vivo. Ho saputo che gli Who stanno registrando un disco di rithm ’n blues d’annata. Il loro chitarrista Pete Townshend, noto perché spaccava i suoi strumenti e metteva gli amplificatori a 110 decibel, è costretto a suonare pianino pianino, e porta l’apparecchio acustico. E alfine eccoci. I dati della mutazione antropologica sono sotto ai nostri occhi. A questo punto una domanda s’impone: ma che accidenti c’entra il rock con la cultura giovanile? E se la domanda s’impone la risposta viene in automatico: niente. Il rock si è trasformato in filologia. E anche i fruitori, gli appassionati di rock, non sono più adolescenti in bomba ormonale, ma signori dai trentacinque in su che comprano una raccolta dei Led Zeppelin (per esempio quel capolavoro di How the west was won) come se fosse una bottiglia di Barolo di Monfalletto. In queste considerazioni non c’è niente di originale. Che il rock sia ormai roba da connaisseurs l’hanno capito quasi tutti. Tranne le case discografiche, che piangono miseria e poi puntano tutto sul mercato on line, quello dei ragazzini, che sarà assorbito e distrutto in pochi anni dallo scambio gratuito di file. E se invece pensassero ad allestire ottime edizioni con ricche note di copertina, a organizzare concerti in luoghi consoni invece che in stadi polverosi? In una parola: a investire sulla qualità? Troppo poco rock?
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Non dimenticare Boccherini di Pietro Gallina
occherini è un nome che dice molto in musica, ma se si pensa al brano cui collegarlo, oltre ai celebri Minuetto, Fandango, la Musica notturna di Madrid e La ritirata, non viene altro in mente. Viene maggiormente ricordato per la sua amicizia con Goya o per essere stato appeso fuori da una finestra della reggia dal principe ereditario di Spagna, futuro Carlo IV.Vagamente si rammenta la quantità enorme di quintetti, quartetti, sinfonie, concerti, sonate da lui composti: del resto il camerismo in Italia è stato quasi sempre un genere pressoché estraneo. Nessun musicista italiano suo contemporaneo, ha mai citato il suo nome come quello di un grande: a Parigi, Glück lo esaltò e a Vienna Haydn, che intrattenne con lui una corrispondenza, ne aveva un rispetto assoluto, ricambiato al punto che molte sinfonie di Boccherini sono quasi identiche a quelle di Haydn. E non si dimentichi che aveva servito gli Asburgo a Vienna, Carlo III di Spagna, Federico II di Prussia, Luciano Bonaparte in Francia… In verità sono pochi quelli che hanno chiara la vita e l’opera di Luigi Boccherini nato a Lucca nel 1743 e morto in miseria a Madrid nel 1805. E ciò non solo per sbadataggine, negligenza o ignoranza, ma per mancanza di materiali su cui informarsi, quindi per mancanza di circolazione commerciale di prodotti culturali quali articoli, libri, cd, partiture e presenza costante delle sue musiche nelle stagioni concertistiche.Varie rinascite boccheriniane si sono succedute: alla prima del 1860, per opera della «Società del Quartetto» di Firenze, seguì il silenzio; ancora un ritorno al tempo del rifacimento del suo catalogo di oltre 500 lavori redatto da Yves Gérard nel 1969. Dopo quella fiammata, oggi quello di Boccherini è di nuovo un nome che rimane stabile, ma in secondo piano; come se le sue melodie fossero evanescenti.
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Vissuto all’epoca del rococò che stava per essere superato dallo stile classico, nel trionfo del galante, di parrucche, belletti e borotalco, la sua storia rimane misteriosa. Sia per aver vissuto gran parte della sua vita attiva in Spagna, troppo alla periferia dei centri europei della cultura, sia perché su molti aspetti della sua biografia e delle sue opere non si è riusciti a dare ancora risposte esaurienti. Nella sua storia ci sono vuoti di documentazione incredibili, come quelli del periodo 1788-1797: nove anni di buio! Un’occasione per avvicinarsi a Boccherini è data adesso dalla riedizione di quattro dei suoi 12 Concerti per violoncello e orchestra a cura della Das Alte Werk, eseguiti dalla specialista Anner Bylsma (Cello), con l’Ensemble Concerto Amsterdam, diretti da Jaap Schröder. Un cd ricopiato da una registrazione del 1993 di notevole interesse interpretativo. Boccherini si dovrebbe dunque considerare come il più grande astro della musica da camera italiana, il nostro Haydn! Insieme a Viotti la via italiana alla Wiener Klassik. Illuminista, perfetto nelle forme, con capacità seduttiva sonora massima, specialmente nei suoi minuetti; le sue migliori qualità sono la grazia e la gentilezza genialmente applicate a una melodia quasi infinita, che non invade la memoria ma è costruita per essere goduta e vissuta in quel momento e poi scompare con un senso di nostalgia. Evanescente si è detto, oltre le note, e questi Concerti per violoncello lo dimostrano. (Non si dimentichi che Boccherini era ai suoi tempi un virtuoso del violoncello, ma poi si era venuto affermando come compositore. Molti violoncellisti hanno cambiato mestiere per diventare altrimenti famosi:Toscanini, Offenbach, Herbert, Schmidt ad esempio). Boccherini, Cello Concertos, Anner Bylsma, Concerto Amsterdam, Jaap Schröder, Das Alte Werk
JAZZ
Guida multimediale ai segreti del jazz di Adriano Mazzoletti cco finalmente un libro di autore italiano che raccomandiamo caldamente a tutti coloro che desiderano approfondire la loro conoscenza su una musica, il jazz, che secondo l’autore Stefano Zenni, nasconde ancora molti misteri. In effetti è tuttora sconosciuta l’esatta etimologia della parola stessa. Di origine africana secondo alcuni etnomusicologi, ma già in auge nello slang sportivo della costa occidentale degli Stati Uniti. Il 6 marzo 1913, infatti, il San Francisco Bulletin utilizzava il termine jazz in relazione alla «rapida maturazione» di un giocatore di baseball. Ma ancora contrazione di alcuni americanismi in uso nell’Ottocento, gism o jasm con significato di spirito, talento, coraggio, energia, audacia, entusiasmo, abilità. Probabilmente proprio da questi termini dello slang americano
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inizio Ottocento, deriva il termine jazz oppure jass, jaz , ma anche jasz, come inizialmente veniva indicata la nuova musica americana. Il volume di Zenni, uno dei rari musicologi italiani di jazz, è un’opera di enorme valore didattico che finalmente, dopo la sbornia del postmoderno, in molti casi ancora non completamente passata a qualche critico, a diverse riviste specializzate e pubbliche istituzioni, ritorna a praticare i valori selettivi della storia. Il lavoro, che va dalle origini a oggi, è in parte basato su oltre quattrocento brani registrati, limitati per ovvie ragioni di diritti fonomeccanici al periodo1906-1956, accessibili in due forme diverse. Oltre cento sono inseriti in un cd rom allegato ai Segreti del jazz, i rimanenti trecento sono disponibili on line, sul sito relativo al libro. Opera assolutamente innovativa, che consente attraverso libro, cd rom e computer, con-
sultati contemporaneamente, non solo di capire molto del jazz, ma anche di scoprire «segreti» relativi alla scrittura, alla sonorità, all’intonazione, alla variazione estemporanea e all’improvvisazione estemporanea, simulata o registrata. Trascrizioni musicali, descrizioni e incisioni di fondamentale importanza sono dedicati all’armonia, alla polifonia, alla poliritmia, alla composizione, all’arrangiamento e ad altre forme importanti per la comprensione e la conoscenza di questo genere musicale. Libro che non può essere letto come un normale volume di storia o di estetica, ma deve essere considerato contributo insostituibile alle registrazioni musicali contenute nei supporti: capolavori dei più grandi musicisti, da Louis Armstrong a Miles Davis. In 320 pagine tutto ciò che si deve sapere sul jazz, anche
se qualcosa è sfuggito all’attentissimo Stefano Zenni: non si fa cenno a Big Sid Catlett e Chick Webb padri indiscussi della moderna batteria o al sassofonista Lucky Thompson, uno dei primi se non il primo ad aver utilizzato il sassofono soprano nel jazz post classico. Ma vista la straordinaria qualità dell’opera perdoniamo volentieri l’amico Zenni. Stefano Zenni, I segreti del jazz. Una guida all’ascolto, Stampa AlternativaNuovi Equilibri, 320 pagine con un cd rom, 25,00 euro
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NARRATIVA
libri
Storia di Adele (né bella né brutta) e di un bucato malriuscito di Maria Pia Ammirati enza andare troppo a ritroso alla ricerca di un onesto referente di genere, il libro di Maristella Lippolis, Adele né bella né brutta, potrebbe confluire in quella categoria di libri femminili che agli inizi degli anni Novanta fu inaugurata dalla Covito con La bruttina stagionata, un titolo che campeggiò nelle classifiche e che portava prepotente sulla scena una singolare figura femminile, la cui qualità risiedeva, per l’appunto, nella sua medietà. Il libro della Covito si distinse tra i tanti per una precisa qualità letteraria ed espressiva, oltre che per la svagata e ilare lettura sul mondo delle donne e sulla loro tortuosa competitivitaà con gli uomini. Ora la Lippolis, che ha all’attivo altri due libri, trova terreno ben concimato di stereotipi, luoghi comuni dove poter far crescere e costruire la storia di una donna qualunque, fissata a metà della sua vita, in una provincia italiana: «un paese uguale a migliaia di altri nel bel mezzo della penisola». Nulla della vita e della storia della protagonista, almeno all’apparenza, fa pensare a qualcosa di speciale, tranne per il fatto che in apertura di libro la voce narrante (il libro è narrato in terza persona e questo limita pesantemente la forza espressiva e l’impeto della scrittura), metta in piedi una tipica esca narrativa: «La vita di Adele cambiò radicalmente in un arco di tempo piuttosto breve… anche i carabinieri della locale caserma… dovettero aprire delle indagini sul caso». Partendo da questa enigmatica descrizione ci metteremo alla caccia di un brandello di giallo e di noir a cui il nostro palato di lettori è oggi abbondantemente abituato. E infatti il libro prosegue creando aspettative e indirizzando piccoli dubbi e sospetti e centrando questi piccoli sistemi di relazione tra lettore e scrittore, su minute e fruste realtà. Adele comincia la sua storia, e il momento della frattu-
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ra col mondo coincide con quello in cui tira fuori dalla lavabiancheria i panni non del tutto lavati per un guasto: «Poi aprì l’oblò e tirò fuori la biancheria umidiccia stipata nel vano d’acciaio. Da lì cominciò, da quello che vide». Cosa vede la nostra protagonista fra i panni umidicci che scatena la sua reazione? Prima di saperlo naturalmente saremo informati minuziosamente sulla vita matrimoniale di Adele, sulle sue giornate noiose, ritmate dai lavori di casa tra cui spiccano due attività più importanti delle altre. Il lavaggio dei piatti, che permette al personaggio di pensare molto «e quasi sempre sono pensieri utili»; e il cucinare che la fa sentire diversa dall’inutile casalinga che va dal parrucchiere una volta al mese per tenere sotto controllo la ricrescita. Divertenti e ben costruite le scene di intimità matrimoniali, finissime le letture sullo strabismo di vedute tra marito e moglie. Fino alla scena clou, alla scoperta che determina un’azione che innesca quel meccanismo di cambiamento nella grigia vita di Adele. Mentre tira fuori i panni Adele scopre sulle mutande del marito una grande macchia di rossetto, a forma di bocca, color lampone. Il raffronto è subito fra quel colore squillante e volgare con il beige che lei usa. Poi la rabbia di scoprire per caso il tradimento. Da qui il romanzo ha una sorta di flessione, per eccesso di storie e di rimandi simmetrici (la volgarità di una voce televisiva che irrompe improvvisa, il viaggio in macchina con la cognata russa alla Thelma e Louise, la scabrosa violenza sessuale subita da adolescente), e perché la vendetta di Adele rimane a metà, frustrando ogni aspettativa del lettore, e risultando come lei è nella realtà: né bella né brutta. Maristella Lippolis, Adele né bella né brutta, Piemme, 235 pagine, 14,50 euro
riletture
Marco Aurelio, la libertà imparata da uno schiavo di Giancristiano Desiderio Pensieri di Marco Aurelio hanno più di duemila anni di vita, eppure conservano quasi intatto il loro valore. Il lettore moderno leggendo i pensieri stoici dell’imperatore che si fece filosofo ha ancora qualcosa non solo da apprendere, ma da imparare. Per la vita. Sì, perché questo è il segreto di Marco Aurelio: la filosofia è soprattutto un modo di vivere. La Bompiani sta per mandare in libreria, nella bella collana «Il Pensiero Occidentale», i Pensieri del successore di Antonino il Pio. Il filosofo e imperatore non scriveva per gli altri, ma per se stesso, non scriveva per farsi leggere, ma per esercitarsi. I Pensieri, infatti, sono dei consigli, degli appunti, delle regole che il filosofo ripeteva a se
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stesso. «Smetti di vagare! Non leggere né i tuoi appunti - scrive Marco Aurelio dialogando con se stesso - né le imprese degli antichi Greci e degli antichi Romani, né gli estratti delle opere che avevi messo da parte per la vecchiaia». Esercizi, ecco cosa sono i Pensieri: esercizi spirituali stoici sui tre temi classici: il rapporto tra l’individuo e il proprio pensiero; il rapporto tra l’individuo e il corso della natura; il rapporto tra l’individuo e gli altri uomini. Per leggere bene i Pensieri di Marco Aurelio e per accedere alla sua cittadella stoica bisogna rileggere un altro straordinario libro che è il miglior commento alla vita filosofica dell’imperatore: La cittadella interiore di Pierre Hadot pubblicata da Vita e Pensiero. Il filosofo francese è riuscito co-
me altri mai ad accedere nell’universo filosofico di Marco Aurelio seguendo quella che è la via maestra della sua storiografia filosofica: la filosofia antica è un modo di vivere. Non senza una sensibile nota polemica, Pierre Hadot scrive che «il filosofo antico non ha niente a che vedere con i filosofi contemporanei, i quali ritengono che la filosofia consista nella necessità per ogni filosofo di inventare un “nuovo discorso”, un nuovo linguaggio, tanto più originale, quanto più incomprensibile e artificiale». Il filosofo antico, invece, si pone «all’interno di una tradizione e si rifà a una scuola». Esempio: Epitteto è stoico e il suo insegnamento consisterà nella spiegazione dei testi dei fondatori della scuola, Zenone e Crisippo, e soprattutto «nel praticare
in prima persona e nel far praticare ai suoi discepoli lo stile di vita proprio della scuola storica». Marco Aurelio appartiene alla scuola di Epitteto: l’imperatore andò a scuola da uno schiavo per essere libero. «Quale può essere, dunque, la tua scorta per proteggerti in questa vita? Una sola e unica cosa: la filosofia. Ed essa consiste nel mantenere il tuo demone interiore puro da violenza o da danno» ricorda a se stesso Marco Aurelio e attraverso la scrittura si esercita a ripete i dogmi dell’antica Stoà. «Bada a non cesarizzarti - scrive l’imperatore - mantieniti semplice, buono, puro, serio, senza orpelli, amico del giusto, pio, benevolo, affettuoso, tenace nel compiere il tuo dovere. Lotta per rimanere tale quale la filosofia ha voluto renderti».
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FUMETTI
altre letture
Gli anni di piombo del Commissario Spada di Pier Mario Fasanotti ella nuova graphic novel (vedi Mobydick del 29 marzo, ndr) c’è anche un commissario di polizia. È una specie di Salvo Montalbano, ma di trent’anni fa. Mantiene la sua freschezza, non è per nulla archeologia grafica, anzi. Si chiama Eugenio Spada, dai 30 ai 40 anni, serio, determinato, arguto. Le sue avventure sono incastonate negli anni più difficili della nostra Repubblica, anni di contestazione violenta, di terrorismo, di sbandamento giovanile, di ingenue chimere hippy. Il librone a fumetti su questo duro in giacca e cravatta viene ora pubblicato dalla Mondadori. La prima puntata del Commissario Spada apparve sul numero 16 del Giornalino (settimanale cattolico per ragazzi) nel 1970. Spada è funzionario della Questura di Milano, ha un figlio adolescente (Mario) ed è vedovo: forse in ossequio alla tradizione disneyana dei genitori o zii senza consorte. Gli autori sono Gianluigi Gonano e Gianni De Luca: il primo giornalista e poi esordiente nelle sceneggiature, il secondo disegnatore proviente dalle pagine del Vittorioso (il più diffuso settimanale per ragazzi di quel periodo), autore tra i più in vista assieme a Benito Jacovitti.
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La loro è stata un’impresa rischiosa. Negli anni Settanta non ci sono stati altri esempi di protagonisti-commissari, e gli eroi «neri» di quel periodo erano in caduta libera a eccezione di Diabolik, Kriminal e Satanik. Son tempi, quelli, di Banditi a Milano di Carlo Lizzani (1968), del Giorno della civetta di Damiano Damiani (1968), del Commissario pepe di Ettore Scola (1969), di Un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri (con uno strepitoso Volontè, in seguito sobrio interprete di Una storia semplice tratto dal racconto di Leonardo Sciascia), dei romanzi di Giorgio Scerbanenco, il romano-ucraino trasferitosi a Milano e narratore-cronista di questa città in Venere privata (1966) e altre storie a sfondo giallo. Annotava Scerbanenko: «Una città con due milioni di abitanti… dove arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, e alcolizzati, e drogati o semplicemente disperati in cerca di soldi che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando “Stendetevi tutti per terra”, come hanno sentito che si deve fare». Spada s’immerge nel mondo confuso e crudele dell’eversione con
Terroristi. Gianluigi Godano racconta: «Ho cominciato a scrivere la sceneggiatura di Terroristi il 22 febbraio 1975. Cinque giorni prima un commando di brigatisti rossi aveva fatto evadere il loro leader, Renato Curcio, dal carcere di Casale Monferrato. È stato quel fatto che mi ha spinto a scrivere una storia basata sulle vicende del terrorismo? E in questa avventura del commissario Spada ci sono altri elementi presi dalla cronaca?
Rispondo: sì e no. Era semplicemente inevitabile che Spada, poliziotto italiano di quegli anni, si trovasse alle prese col terrorismo». Molti anni dopo la figura di Spada rimane moderna, per nulla impolverata sia nel tratto grafico sia nel dipanarsi veloce delle vicende che deve affrontare. Gianluigi Gonano e Gianni De Luca, Il commissario Spada, Mondadori, 416 pagine, 13,00 euro
FILOSOFIA
Anche in Nietzsche c’è un impulso cristiano di Renato Cristin essant’anni fa, nel maggio del 1938, Karl Jaspers tenne una conferenza presso l’Associazione scientifica del predicatore a Hannover, che fu la sua ultima uscita pubblica fino al 1945, isolato dal divieto di insegnare e di pubblicare impostogli dal regime. Con una scelta che poteva suscitare disappunto, decise di parlare di Nietzsche e del suo rapporto con la religione cristiana. L’obiettivo che il principale esponente dell’esistenzialismo cristiano si prefiggeva dal confronto con uno dei più duri critici del cristianesimo era duplice: da un lato recuperare, anche attraverso la violenta critica nietzschiana, il potenziale etico del cristianesimo in un’epoca di soprusi immorali e di titubanze morali, e dall’altro lato evidenziare il vero nucleo del pensiero di Nietzsche in una fase in cui questi era stato indebitamente assunto come antesignano dell’ideologia del terzo Reich. Jaspers riesce a indagare a fondo il pensiero nietzschiano e a indicarne alcuni aspetti nascosti. Egli mostra come l’opposizione di Nietzsche al cristianesimo «derivi da impulsi cristiani»; come questi impulsi si colleghino in
lui «con la perdita dei contenuti cristiani» diventando «mera energia dinamica»; come il nichilismo sia un esito provvisorio del suo pensiero e un momento transitorio della storia universale, destinati a essere superati dalla «reazione al nichilismo». Secondo questa lettura, l’irriducibile negatore di ogni verità e di ogni morale, il distruttore di tutte le certezze e della propria certezza esistenziale vuole, in realtà, andare «in direzione contraria al nichilismo: nel vuoto vuole afferrare il positivo», costruendo una visione del mondo che sia «erede del cristianesimo» ma che lo trascenda «mediante un livello superiore di umanità». Nella sua critica, Nietzsche coinvolge anche il metodo scientifico: la sentenza sulla morte di Dio viene semplicemente pronunciata da Zarathustra, ma è stata elaborata dalla scienza moderna (sostenuta anche dal cristianesimo stesso) e dalla sua volontà di potenza. Al di là della contraddittorietà della posizione nietzschiana, l’interpretazione di Jaspers è rilevante perché ci aiuta a capire l’essenza della nostra epoca.
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Karl Jaspers
Karl Jaspers, Nietzsche e il cristianesimo, Christian Marinotti Edizioni, 141 pagine, 14,00 euro
Sono dieci milioni i tifosi della Juventus in Italia. Dieci milioni di persone che in questi anni hanno sofferto molto per le sorti della loro squadra. La storia che Giampero Mughini racconta in Juve, il sogno che continua (Mondadori, 170 pagine, 17,00 euro) è quella delle tappe di passione del dolente popolo juventino. Che ha assistito alla degradazione sul campo della loro squadra: cui sono stati tolti gli scudetti più recenti, costretta a svendere i suoi campionissimi, scaraventata in b con i suoi dirigenti accusati di associazione a delinquere. Un’umiliazione gigantesca cui, accusa Mughini, non è stato opposto dalla società nemmeno uno scatto d’orgoglio. Nemmeno una parola per difendere quel Luciano Moggi che Mughini definisce un dirigente straordinario e che anche a non essere d’accordo sul giudizio, è l’uomo che con più zelo ed efficacia ha servito negli ultimi lustri la società juventina. L’esperienza del sacro si svolge e si definisce attraverso alcuni elementi costanti che la caratterizzano in tutti i tempi e a tutte le latitudini. Il primo di questi elementi è il simbolo, componente essenziale del pensiero o e della vita dell’uomo oltre che fonte originaria della cultura, del suo sviluppo e della sua permanenza. Julien Ries in Simboli (Jaka Book, 295 pagine, 45,00 euro) ricostruisce in dettaglio l’emergere del pensiero simbolico nella preistoria e presenta le forme che il simbolo ha assunto nelle religioni antiche, in quelle orientali, nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’Islam. Alla panoramica storica si accompagna la trattazione tematica, con l’analisi di alcuni motivi simbolici: il cielo, la figura umana, la montagna sacra, la luce, la croce. Northin, Illinois: una cittadina come tante della provincia americana. La casa dei Wilson è uguale a tutte le altre, facciata imbiancata, tende pastello, una stradina che porta al garage. Qui non succede mai niente, tutti fanno i pendolari a Chicago e la gente non ha storie particolari da raccontare. Ma qualcosa cambia: dal carcere evade Charles Robertson uno spietato assassino di vecchiette ipocondriache che si rifugia proprio nella casa dei coniugi Wilson e li prende in ostaggio. L’America intera, avida di emozioni forti, segue la vicenda col fiato sospeso. Non sospettando che… (Il gioco della tarantola, Kowalski editore, 280 pagine, 13,00 euro).
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VÁCLAV HAVEL IN UN LIBRO-INTERVISTA USCITO NEL QUARANTENNALE DELLA PRIMAVERA DI PRAGA, L’UOMO DI CULTURA, EX PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CECA SI RACCONTA. CON IRONIA, SINCERITÀ E UNA MODESTIA CHE HA MOLTO DA INSEGNARE…
Un eroe piccolo piccolo di Nicola Procaccini on riesco a capire il mio destino, mi sembra di essere un piccolo errore della storia. Com’è potuto succedere che io - e proprio io - mi sia trovato al centro di avvenimenti che hanno segnato la storia di molti popoli e milioni di persone?». È la domanda che tormenta ma nello stesso tempo diverte Václav Havel, vero e proprio gigante della storia europea del secolo scorso. In un bellissimo libro pubblicato recentemente dalla casa editrice trevigiana Santi Quaranta nell’imminenza del quarantesimo anniversario della Primavera di Praga, il dissidente anticomunista, il protagonista della Rivoluzione di Velluto, il presidente filosofo della Repubblica Ceca si abbandona a una riflessione a tutto campo. Un racconto politico, ma non un trattato. Un manifesto di idee e valori, ma non un programma elettorale. Un diario personale, ma non una banale raccolta di memorie. Il libro titolato Un uomo al Castello è strutturato in maniera intelligente lungo tre binari che corrono paralleli, incrociandosi solo saltuariamente. C’è una parte principale e più fruibile da parte dei lettori italiani con le risposte di Havel al decano dei giornalisti cechi Karel Hvízd’ala.
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È qui che «l’uomo al Castello» espone le sue idee sull’etica e la politica, senza mai allontanarsi dalla realtà, sempre partendo o arrivando ai fatti contingenti dell’Europa e del mondo. C’è una parte che invece tratta maggiormente della politica nazionale ceca, ma pur non essendo concittadini di Havel o esperti di geopolitica vi sono contenuti tanti appunti curiosi e interessanti che sarebbe quasi un delitto trala-
intelligenza e sincerità le pagine del libro. Già, il Castello. «Il Castello di Praga è una delle sedi di Stato più antiche del mondo: tranne per brevi intervalli, lo è già da tredici secoli. Contemporaneamente è una delle dimore presidenziali più grandi, è letteralmente una città nella città. […] Non c’è niente da fare, democrazia o non democrazia, il Castello è veramente una corte, con tutto quel che ne consegue: complotti di palazzo, calunnie e duelli», racconta Havel. Si trattasse di uno sceneggiato verrebbe voglia di dire che la location già merita la visione dell’opera. Anche la vita di Havel, ricorda una favola postmoderna. «A dire la verità, non solo gli americani e gli altri stranieri mi considerano come il principe o il protagonista di una fiaba, ma anch’io mi rendo conto di qualcosa di assolutamente incredibile nella mia vita. Una favola, ora bella, ora emozionante e qualche altra volta terribile».Václav Havel nasce a Praga nel 1936, la sua famiglia non era ricca, ma certamente benestante. Nel 1948 un colpo di Stato sostenuto dall’Unione Sovietica porta al potere nel paese il sistema comunista. La sua famiglia, notoriamente borghese, subisce discriminazioni di ogni genere e viene accusata di simpatie filo naziste. Anche per questo al futuro drammaturgo, inventore del Teatro dell’assurdo, verrà impedito di proseguire gli studi scolastici. Dopo il servizio militare, Havel cominciò a lavorare come macchinista in alcuni teatri di Praga, e a partire da qui prese forma il suo talento. Iniziò a studiare drammaturgia per corrispondenza e portò in scena le sue prime opere come La festa in giardino nel 1963 o Largo Desolato l’anno successivo.
“Non riesco a capire il mio destino - ammette questo gigante della storia europea - mi sembra di essere un errore della storia. Com’è potuto succedere che io mi sia trovato al centro di avvenimenti che hanno segnato milioni di persone?” sciare. Infine, c’è il suo diario da Washington con una serie di annotazioni acutissime sulla propria vecchiaia e sulla giovinezza dell’America con i suoi tic, la sua democrazia evoluta e le sue incongruenze sociali. Si può leggere il libro seguendo un solo filone alla volta oppure, meglio, pagina dopo pagina abbandonandosi al collage di parole e pensieri che compongono alla fine il ritratto di un uomo, ma anche di un’epoca, irripetibile, nel bene come nel male. L’uomo al Castello è a tratti impudico, spesso profondo, sempre attraversato da una sottile ironia che non trascende mai nel disincanto nichilista, ma, piuttosto, illumina di
Nonostante il suo teatro fosse fortemente impegnato sotto il profilo politico, la censura comunista si accorse troppo tardi del suo talento, ben più tardi dell’Occidente dove Havel divenne subito un nome molto conosciuto e apprezzato nell’ambiente teatrale. Quando nel 1968 scoppiò la Primavera di Praga, la sua attività dissidente si intensificò ulteriormente, pur senza mai avere un ruolo di primissimo piano nell’insurrezione. Fu comunque sufficiente alla polizia cecoslovacca per gettarlo in galera, dove trascorse cinque difficilissimi anni. Durante il periodo della detenzione, in condizioni terribili, fu quasi ucciso da una polmonite ful-
ritratti
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minante che alla fine gli risparmiò la vita, ma compromise per sempre la salute dei suoi polmoni. Uscito di galera Havel si dedicò ancor di più all’attività politica dissidente. Aveva scoperto che il suo talento poteva essere messo al servizio della causa e si proponeva di provocare l’intelligenza dello spettatore, appellandosi alla sua fantasia, costringendolo a riflettere e ad agire. A un certo punto fu bandito dal teatro, ma continuò il suo impegno, culminato con la pubblicazione del manifesto Charta 77, intorno al quale uscirono allo scoperto altri, nuovi dissidenti. Poi, nel novembre 1989, lo scoppio della Rivoluzione di Velluto, originata dall’uccisione dello studente Jan Opletal durante una manifestazione pacifica soppressa violentemente dalla polizia. Ricorda Havel: «Quando seppi quel che era accaduto, capii immediatamente che stavolta il regime non ne sarebbe uscito indenne.Tornai frettolosamente a Praga, mi incontrai con alcuni amici e fondammo, nel giro di un paio di giorni, il Forum Civico. Associazione libera, informale e antitotalitaria che ben presto si diffuse in tutta la nazione». Inizia così l’avventura del presidente filosofo. La sua celebrità in patria e fuori lo impose alla guida dello Stato mentre ancora i comunisti occupavano il Parlamento. Si ebbe in quel momento una situazione irreale che sembrava figlia del suo teatro dell’assurdo. Gli domanda l’intervistatore nel libro: «Che cosa ha provato quando il Parlamento comunista l’ha eletta presidente? È stato più umiliante per lei o per loro?». Questa la risposta di Havel: «Non direi che
febbraio di quell’anno gli è succeduto Václav Klaus, uno dei suoi più decisi oppositori, dopo essere stato suo ministro per diversi anni. Anche nel tratteggiare il rapporto con il suo successore Havel si dimostra di una straordinaria, «inpolitica», sincerità: «Era un gran lavoratore, a volte molto gentile, ma a volte del tutto insopportabile». Stessa schiettezza Havel la dimostra commentando i vizi e le virtù della grande democrazia americana. Tra i vari aneddoti presenti nel libro, ne racconto solo uno che rende bene il senso. Scrive Havel: «Ieri ho seguito alla televisione i funerali di Giovanni Paolo II. Uno spettacolo grandioso e toccante. Ho conosciuto il Papa e mi permetto di dire che eravamo amici, forse proprio per questo non sono riuscito a piangerne la morte. Ho percepito proprio fisicamente come lui, con una grande pace nell’anima, se ne andava là dove - come sapeva - era da sempre diretto: nelle contrade celesti. L’America però è un paese curioso. Pur se molto religioso, ammette che la telecronaca del funerale del Pontefice venga interrotta dalla pubblicità, spesso vera materializzazione di ciò che egli ha criticato per tutta la vita. Mi riusciva molto difficile da capire, ho cominciato a soffrirne al punto che ho preferito spegnere il televisore».
Se la dissoluzione della Cecoslovacchia ha rappresentato il fallimento più doloroso della sua presidenza, Havel considera invece lo scioglimento incruento del Patto di Varsavia come il suo più importante successo politico: «Forse oggi
Inventore del Teatro dell’Assurdo, ricorda la sua elezione con un senso di irrealtà: coloro che nelle tribune elettorali televisive lo sostenevano erano gli stessi che poco prima avevano approvato la sua persecuzione e la sua condanna sia stato umiliante per qualcuno. Sicuramente è stato molto curioso. Ad esempio sono stato veramente sopraffatto dal senso dell’assurdo mentre seguivo in televisione le tribune elettorali e vedevo quei parlamentari sostenere la mia elezione. Erano gli stessi che alcuni giorni prima o settimane prima avevano approvato la mia persecuzione e la mia condanna!». Naturalmente, i primi momenti al Castello di Praga furono ebbri di euforia e confusione: «Eravamo un gruppo d’amici di varie discipline artistiche - racconta Havel - che improvvisamente si è trovato in un mondo conosciuto solo da lontano e oggetto fino a quel momento di critiche e derisioni, e che però ha dovuto decidere rapidamente cosa fare di quel mondo».
Ciò che ne seguì furono anni difficilissimi, anche se indimenticabili. La storia ci ha insegnato che purtroppo il momento peggiore del comunismo giunge sempre appena dopo la sua caduta. Riparare l’economia di uno Stato, riedificare le fondamenta istituzionali della democrazia e, soprattutto, ricostruire la coscienza civile di un popolo non fu per nulla semplice né indolore. Ma fu la missione di Václav Havel. «Cosa ho guadagnato di importante? - si domanda Havel retoricamente. Solo una cosa in realtà: di partecipare di persona ai grandi cambiamenti della nostra nazione e di poter anche incidere direttamente su questi avvenimenti. Lo ritengo un enorme dono del destino».Vinse le prime elezioni libere del 1990 e divenne capo dello Stato nella Repubblica federale dei cechi e degli slovacchi. Nemmeno due anni dopo si consumò la più importante tragedia politica della sua carriera istituzionale: la dissoluzione della Cecoslovacchia. Havel era stato uno strenuo sostenitore dell’unione nazionale tra i due popoli, ma alla fine si arrese. Dovette cedere non tanto alle condizioni geopolitiche che si erano determinate nel frattempo, quanto, piuttosto, alle proprie convinzioni sulla libera autodeterminazione dei popoli. «I popoli hanno il diritto di seguire il cammino che porta - se la maggioranza lo desidera - a uno Stato nazionale proprio. Sarebbe stato contro tutti i miei principi se avessi imposto al popolo slovacco in che modo avrebbe dovuto esprimere la propria identità». Dopo la creazione della Repubblica Ceca, Havel si candidò alla presidenza nelle elezioni del 26 gennaio 1993, risultandone eletto. Ha ricoperto la carica fino al 2003. Il 28
molte persone, soprattutto i più giovani, non sanno cosa fosse il Patto di Varsavia. Per loro rappresenta uno dei tanti fenomeni storici e in molti tendono a credere che questo Patto si sia estinto automaticamente da solo, sull’onda degli eventi politici. Non è così. Fu necessario liquidarlo e non fu affatto facile. Nei nostri paesi erano stanziate le truppe sovietiche». Poi venne l’adesione alla Nato, un altro passaggio epocale che attraversò per intero la presidenza di Havel. «Essendo io tradizionalmente un critico di molti aspetti della globalizzazione, compresa la dipendenza sempre più forte della politica dalle multinazionali o dalle corporazioni, naturalmente capisco l’obiezione. Tuttavia da tempo ho compreso che, invece di rifiutare l’Alleanza senza offrire un’alternativa migliore, è molto più sensato ribadire sempre i principi su cui si fonda e fare di tutto affinché li osservi. Ciò significa continuare a mettere l’accento sulla difesa della libertà e della democrazia in quanto questi grandi principi stanno a fondamento dell’Alleanza. E in caso di necessità occorre difenderli anche con la forza. Ho ripetuto fino alla nausea che la Nato è un’organizzazione al servizio dei cittadini e non solo dei generali». Ma il presidente filosofo Václav Havel verrà ricordato soprattutto per essere uno dei padri nobili della nuova Europa. È grazie a lui e ai paesi dell’Est subentrati nell’Unione che sopravvive un’immagine romantica dell’Europa come sfida epocale e non come mero apparato burocratico. Scrive Havel: «L’identità dell’Europa non può confondersi con la rincorsa affannosa dei successi economici globali. Io credo sia capace di cose migliori. Può essere il modello non solo di un ordine politico pacifico e giusto all’interno del continente, ma anche l’esempio dell’utilizzo ingegnoso e rispettoso delle proprie tradizioni, della cultura, del paesaggio e delle proprie risorse». In conclusione, c’è ancora spazio per una frase che ben rappresenta il credo politico di Havel e informa di sé questo libro. Un libro importante che, se letto in questi giorni, risolleva la politica dal terreno arido di una campagna elettorale troppo povera di entusiasmo per essere vera. «La politica non può essere solo l’arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell’intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici, ma che piuttosto sia l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliore se stessi e il mondo. Un elettricista con il cuore al posto giusto può cambiare la storia di un’intera nazione».Václav Havel.
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PERSONAGGI
libri
Giocando a scacchi col Soggetto di Stefano Coletta l libro di Garry Kasparov, Gli scacchi, la vita, non è soltanto un libro sul gioco dei re. Per l’ex campione del mondo, gli scacchi sono solo il pretesto per illustrare i motivi che lo spingono a impegnarsi nella politica del suo paese. Kasparov parla di se stesso attraverso le caratteristiche che rendono un giocatore di scacchi un campione, non ultima la sfida non solo per migliorare ma anche per mutare il proprio orizzonte: dagli scacchi, in questo caso, alla politica. E così, in quanto leader dell’«Altra Russia», una coalizione che aspira a unificare tutte le forze di opposizione a Putin, Kasparov ha accettato di mettere in discussione il proprio successo, che «significa porsi quella che deve essere la nostra domanda preferita: “Perché?”». Per argomentare le proprie scelte, utilizza numerosi esempi tratti dalla gestione amministrativa delle aziende, dalla politica di marketing, dal mondo della finanza, come se, parlando di economia, desiderasse mostrarsi più affidabile e competente di un semplice giocatore di scacchi. Un pedaggio, forse, da pagare a quella visione del mondo che oggi tutto sottomette e il cui credo è: il profitto a ogni costo. In questo modo la Politica torna a essere calcolo, raffinato e apprezzabile, ma distante e senza fascino. E il discorso stride, diventa freddo e impersonale, perfino disumano. Comunque sia, in Kasparov la fiducia nel fare politica è ancora vitale, forse perché in Russia l’opposizione è impegnata a
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battersi per diritti civili e politici che da noi sono dati per scontati. Ora facciamo un passo indietro. E raccontiamo una storia che nasce e muore in Occidente. La recente morte di Robert Fischer. Nel ’75 Fischer, allora campione del mondo, deve difendere il titolo contro il giovane russo Karpov. Come al solito, comincia con le richieste impossibili: alcune vengono accolte, altre no. Alla fine, Fischer è privato del titolo mondiale. Karpov afferma: «La rinuncia a battersi era l’unica strada verso la perfezione (…) Forse Fischer si era imposto un compito sovrumano». Fischer fece una scelta che modificò la sua vita. Proprio come quella di Kasparov, ma con un opposto significato. Divenne un mito. Un mito, per così dire, legato alla modernità più che alla classicità. Perché, nonostante quel rifiuto, egli è rimasto nella storia, imponendo al mondo scacchistico una frattura. Quella frattura era il suo punto di vista e aveva un valore assoluto, rendeva Fischer autore della propria vita, seppure all’interno di una logica dalla quale voleva evadere. Ma per evadere del tutto avrebbe avuto a disposizione solo un mezzo: essere dimenticato, far perdere le proprie tracce (e infatti, oltre a scomparire per più di vent’anni, per un periodo rinunciò persino al proprio nome). Il soggetto Fischer diventa anonimo, diventa un non-soggetto. La sua parabola descrive la crisi del soggetto all’interno della più ampia crisi della modernità. Alla storia Fischer reagisce alle soglie di
una crisi che spazza via gli eroi che non accettano compromessi. Non a caso Boris Spasskij, l’uomo cui Fischer tolse la corona mondiale, disse di lui: «Mi ha sempre fatto una grande impressione per la sua natura integra. Negli scacchi e nella vita. Nessun compromesso». Nel mondo che verrà non ci sarà posto per uomini del genere, per punti di vista conflittuali con l’esistente. Meglio allora l’oblio, la continua ricerca di un perduto se stesso ottusa, testarda, vana e senza pace in un mondo che fa della pace una macchietta della peggiore commedia all’italiana. Kasparov, uomo dell’Est, è lontano anni luce dal mito di Fischer. Con lui l’uomo, da figura impazzita alla ricerca di un epilogo, si trasforma in un più prosaico ma produttivo tentativo di avere fiducia nei propri mezzi. Ma c’è sempre un prezzo da pagare per le scelte coraggiose che si compiono: per Fischer il rischio coincideva con la perdita di se stesso fino all’epilogo assoluto, la morte, e le grida che lanciava in vita sembravano già un assurdo inno alla propria estinzione; per Kasparov, il rischio è quello di non esistere se non si alza la voce per combattere per ciò in cui si crede. Magari si tratta di due for-
me di ingenuità o forse di eroismo, perché la nostra vita ha bisogno di esempi ma anche di miti. E la tragicità dell’americano è complementare al pragmatismo del russo. Nell’una il soggetto si perde perché indebolito da una politica onnivora che non si riesce a capire; nell’altro, quella domanda cui tutto si riferisce, il «perché?» che assilla e non appaga, è fondamentale per vivere, ma rischia di restare senza risposta, in preda a uno scacco più feroce di quelli inferti su una qualsiasi scacchiera di legno. Garry Kasparov, Gli scacchi, la vita, Mondadori, 336 pagine, 18,00 euro
POLITICA
L’Occidente alla ricerca di una diversa modernità di Riccardo Paradisi n fisica, come in politica, governano alla fine le stesse leggi: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, un principio spinto al suo limite si rovescia nel suo contrario. Un’attenzione lucida ai sismografi della cultura politica e uno sguardo non superficiale su ciò che si muove nel senso comune rivela che il pluralismo dei valori - nobile bandiera del liberalismo - sta conducendo le civiltà e i popoli verso il relativismo. E se di pluralismo le civiltà vivono, di relativismo le civiltà possono morire. Detto altrimenti: quanto varrà la libertà di mercato senza più un nesso di fiducia tra gli individui che garantisca il rispetto degli accordi, dei contratti e delle regole? E che tenuta potrà mai avere una democrazia composta da individui che perseguono solo il loro utile particolare, il loro piacere e la loro convenienza? Insomma, senza il cemento di valori comuni e condivisi non solo non c’è comunità, non c’è nemmeno la società. È questa consapevolezza a far affiorare oggi in Occidente una rinnovata attenzione al pensiero conservatore, comunitario e antilluminista. Zev Sternhell, uno dei maggiori storici del pensiero
I
Isaiah Berlin, tra gli autori analizzati da Sternhell nel suo libro
politico moderno, ha colto perfettamente il nuovo paradigma sorgente nella cultura e nella sensibilità europea e in Contro l’illuminismo mette a tema genesi e sviluppo di quell’ideologia non razionalista che dai romantici conduce fino a oggi. Di questa corrente Sternhell enuclea le idee, i concetti, porta in primo piano il profilo e il pensiero dei suoi principali autori: Herder, Taine, Sorel, Spengler, Croce, Maurras, Berlin. Un potente fiume carsico di pensiero conservatore e non razionalista che oggi sta emergendo con forza alla superficie della storia uscendo dal varco aperto in Occidente dalla crisi della modernità. Un fenomeno che spiega e fonda il risorgere di una religiosità militante, di una nuova critica alla democrazia di massa, del ritorno alle patrie e alle identità culturali. Fenomeni questi, avverte Sternhell che non sono le spie di un movimento antimoderno ma di una modernità diversa rispetto a quella che finora abbiamo conosciuto. Zev Sternhell, Contro l’illuminismo, Baldini e Castoldi Dalai, 655 pagine, 20,00 euro
video Il senso della vita MobyDICK
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TV
di Pier Mario Fasanotti iceva Victor Hugo che «l’avvenire è nelle mani del maestro di scuola». Avesse avuto davanti a sé la televisione, avrebbe corretto il giudizio. Sia pure a ora tarda, la tv fa entrare nelle nostre camere personaggi che qualcosa hanno da dire. E noi apprendiamo. Il senso della vita di Bonolis (Canale 5, sabato alle 22,30) si basa sul racconto che fanno gli ospiti. Lui intervista. Oppure con l’aiuto di diapositive, lascia solo parlare. Senza dubbio è meglio la seconda opzione: non perché Bonolis sia inesperto di interviste, ma perché è imbrigliato dalle domande scritte sul taccuino. Un esempio. Ha invitato un ex agente dell’Fbi, Joe Pistoni, che nel 1976 s’infiltrò con nome di Donnie Brasco (di qui l’omonimo film con Al Pacino e Johnny Depp) nel clan mafioso dei Bonanno. Da trentadue anni vive sotto scorta, dopo aver fatto condannare più di 120 tra capi e picciotti di Cosa Nostra. Mister Pistoni è apparso un uomo candido, mai una goccia di sudore («il sudore è paura»). Ha detto di non aver mai ucciso nessuno (i dubbi però sono leciti, visto che la Mafia gli ha appioppato una taglia di mezzo miliardo di dollari), di aver seguito il proprio dovere, di essersi considerato una sola persona e non, schizofrenicamente, due. Bonolis gli ha chiesto che cosa sia la Mafia, lui si è limitato a frasi generiche. Si doveva insistere, oltre gli stereotipi. Bisognava incalzare questo eccezionale testimone e attore di prima fila. Invece niente, a parte l’emozione di guardare un eroe in grigio che ne ha viste di cotte e di crude. Il conduttore aveva quelle domande, e solo quelle, e non se ne è inventate altre. Peccato, era in grado di camminare con le sue gambe, lo ha già dimostrato sia nel repertorio comico che in quello più serio. Quando ha lasciato parlare il secondo ospite, Enrico Montesano, il clima è diventato più caldo. Merito dell’attore. Il quale, in varie occasioni e sempre garbatamente, ha lasciato capire che nessun regista lo chiama più in scena. Quando Montesano si è cimentato nella regia ha ottenuto il David di Donatello. Poi basta. Diplomato geometra e impiegato in uno studio di ingegneria, l’allora ragazzo Enrico venne notato dalla madre di Dino De Laurentis durante uno spettacolino domenicale. Con le imitazioni ci sapeva fare. Nel giro di poche settimane si è trovato a lavorare a fianco del grande Alighiero Noschese, suo maestro. E poi tanti film di successo. Ha detto col sorriso sulle labbra una cosa verissima e penosa: «Oggi si diventa famosi per cose di cui un tempo noi ci vergognavamo». Bella sciabolata, bravo Enrico. Mi auguro che la tua carriera non finisca nella carrellata dei ricordi.
D
dalle omissioni di Donnie Brasco alle sciabolate di Montesano
web
INTERNET, UNA FINE ANNUNCIATA
games
dvd
LA NEXT GENERATION DI SUPER MARIO
IL RISCATTO DI BOBÒ
«G
igaOm», tra i blog tecnologici più autorevoli sulla piazza, è convinto che il mondo del web da qui a qualche anno «imploderà» e ha stilato un elenco di possibili motivi. Ad esempio il sovvertimento del mondo dei nomi di dominio: un attacco al sistema Dns e gli indirizzi web potrebbero non essere più attendibili.Altra eventualità, che Internet possa essere messo in ginocchio da una rete di milioni di «computer zombie»,
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on c’è niente da fare: bisogna aspettare quel baffuto idraulico italo-americano (di origine giapponese) che risponde al nome di Mario per trovare un gioco che si rispetti per Nintendo Wii. La nuova console della «Big N» è stata osannata da critica e mercato (con milioni di macchine vendute), soprattutto per il suo innovativo sistema di controllo, ma i videogiocatori con una certa esperienza faticano a trovare titoli all’altezza delle
uesto film nasce dalla necessità di raccontare un’esperienza che mi ha trapassato la vita… Una lavorazione di due anni per estrarre l’essenza di una storia molto più lunga. Non volevo e non potevo scrivere una sceneggiatura, né inventare personaggi. La storia era presente lì, come le persone vive. E insieme a questo c’è il mio desiderio di cercare nel linguaggio del cinema la libertà del volo, dell’irreale, del sogno, della
«GigaOm», tra i blog tecnologici più autorevoli, analizza le cause della probabile implosione
Per Nintendo il nuovo capitolo delle avventure del baffuto idraulico italo-americano: “Mario Kart Wii”
Il “Grido”, storia di un incontro con un giovane nel manicomio di Aversa. Tra cinema e teatro
ovvero Pc connessi e sfruttati da «hacker e software maligni per minare la sicurezza del web». Il mondo della rete potrebbe rischiare, inoltre, se i cavi telefonici sul fondo del mare che portano la connessione nel mondo venissero sabotati, oppure se fossero sferratti attacchi ai router da parte di virus capaci di sabotare il traffico in rete. Morte certa del web anche in caso di crollo del sistema a causa di un massiccio riavvio dei Pc degli utenti di tutto il mondo. Infine, internet cambierebbe faccia se, a un tratto, si frammentasse in una molteplicità di isole autonome, comunità indipendenti e autoreferenziali che non comunicassero tra loro.
aspettative. «Wii Sports» è davvero divertente, ma dopo un po’ risente del suo status di specchietto per le allodole (i cosiddetti casual gamers) e chi vuole giocare a qualcosa di «serio» deve necessariamente rivolgersi altrove. Dopo Super Mario Galaxy, per fortuna, a salvare gli appassionati Nintendo arriva «Mario Kart Wii», versione next generation della classica, stralunata gara di corse automobilistiche che ha già venduto moltissimo. Oltre a divertirsi da matti con i controller wireless, poi, in Mario Kart Wii è disponibile una modalità di gioco online efficace e ben strutturata, che aumenta a dismisura la longevità di un titolo già ottimo. Consigliato a tutti.
poesia. Senza perdere la coscienza della verità». Pippo Delbono spiega così l’origine di Grido, documentario atipico che incrocia le malie della pièce alla bruta potenza di un reale immaginifico. Storia di amicizia e di riscatto, di cupa ossessione guarita e sublimata, l’opera di Delbono narra di Bobò, rinchiuso in un manicomio di Aversa. Il regista teatrale lo conosce alla fine degli anni Novanta, e attraverso di lui riesce a ritrovare se stesso. Rinasce anche Bobò, che trova sul palco, protagonista sordomuto di sei spettacoli di Delbono, applausi e passione di vivere. Un grido che nell’«abbraccio adulto in un silenzio scenico visibile», diventa fragoroso.
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CHI SONO? Chi sono? Sono forse un poeta? No certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia: follia. Son dunque un pittore? Neanche. Non à che un colore la tavolozza dell’anima mia: malinconia. Un musico allora? Nemmeno. Non c’è che una nota Nella tastiera dell’anima mia: nostalgia. Son dunque… che cosa? Io metto una lente Dinanzi al mio core, per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia. ALDO PALAZZESCHI da Poemi
poesia
Aldo Palazzeschi e la dem di Francesco Napoli è un periodo della nostra storia letteraria e poetica, i primi venti anni del Novecento, nei quali si assiste a uno straordinario movimento, in parte vissuto sull’onda di influenze provenienti da fuori, soprattutto dalla Francia, e in parte del tutto endogeno e autonomo. Ruolo non secondario in questa fase lo ha avuto Aldo Palazzeschi, all’anagrafe Aldo Giurlani, classe 1885 da Firenze. Il crogiuolo nel quale si muove con le sue prime prove poetiche è quanto mai variegato: D’Annunzio e Pascoli da un lato, i crepuscolari e l’attività demolitrice del Futurismo di Marinetti da un’altra; e poi la poesia, per allora solitaria ma dai grandissimi esiti e seguiti, di Ungaretti, senza considerare poi la contemporaneità dell’azione di uno Sbarbaro o di un Saba. Son tutti lì, in quel fazzoletto di anni, a cercare la via meno angusta per passare dall’Ottocento al Novecento dei nostri giorni. Dei futuristi, forse la corrente alla quale si sente comunque più vicino, apprezza la lotta contro le convenzioni, contro il passato, anche recente, che pervade di vuota retorica la poesia italiana coeva. Certo, non gli sfuggono neppure quegli atteggiamenti di palese provocazione del gruppo, e che non riesce ad amare fino in fondo, le forme espressive che prevedono la demolizione della sintassi, dei tempi e dei verbi (per non parlare della punteggiatura) e propongono le famose parole in libertà. «Senza cono-
C’
RACCONTO A DUE VOCI TRA ROMA E BISANZIO in libreria
di Loretto Rafanelli a poesia è creazione essenzialmente individuale, forse la più individuale delle manifestazioni artistiche. Ovviamente, verrebbe da aggiungere. Sappiamo poi quanto sia teso fino alla esasperazione il senso di isolamento e di ricerca personale del fare poesia, da parte dei poeti. Per questo mi ha sorpreso un libretto scritto a due mani da Valeria Magnani e Domenico Segna (Libro, Pendragon, 88 pagine, 10,00 euro). Peraltro si tratta di una raccolta di sicuro valore, di grande maestria linguistica e di intensa liricità, dove miracolosamente e misteriosamente si uniscono le voci poetiche dell’uno e dell’altro. Un libro molto originale, dove si narrano le vicende antiche della regina dei Goti, Amalasunta, madre
L
Valeria Magnani e Domenico Segna sono gli autori di “Libro”, narrazione poetica ispirata alle vicende di Amalasunta, regina dei Goti amorevole di Atalarico, relegata in un’isola del lago di Bolsena e fatta uccidere. Non si pensi però a una vicenda storica tout court, anzi le vicende fanno da sfondo a un discorrere poetico che si confronta con la vita, con l’amore, con la morte, col presente. Come su un grande palcoscenico teatrale si intrecciano le vicende dei personaggi, tanti e variegati, che vivono come un soffio le loro esistenze. Una sorta di viaggio tra Roma e l’antica Bisanzio, dove compaiono forti e intense illuminazioni e dove il racconto poetico è sorretto da un incalzante ritmo. E il libro cerca nelle sue vene quel Libro che è forse semplicemente la dimensione della giustizia, dell’affetto, della comprensione fra persone che stentano a riconoscere l’essenza di un io pietoso e la speranza di Dio. E come una esigenza vitale si avverte (come dice nella postfazione il grande poeta Roberto Roversi) «quel fiato dei sentimenti che scende sulla pagina per quasi cibarsene e cancellarla al fine di dare nuova esaltazione e nuova luce…». Alla vita.
scerci, senza sapere l’uno dell’altro, tutti quelli che da alcuni anni in Italia praticavano il verso libero, nel 1909 si trovarono raccolti intorno a quella bandiera; per modo che è col tanto deprecato, vilipeso e osteggiato verso libero, che agli albori del secolo si inizia la lirica del Novecento», così descrive lo stesso Palazzeschi la molla che lo condusse per un po’ a far parte comune con Marinetti e il suo gruppo. Nonostante questo apparentarsi, nella mandria di cavalli di razza della letteratura italiana inizi Novecento Aldo Palazzeschi, all’esordio nel 1905 e con una prima produzione poetica che si consuma nel breve volgere di pochi anni fino alla seconda edizione dell’Incendiario del 1913, ha una sua andatura alquanto particolare che gli permette di sfuggire a tante strattonate alle sue briglie che ha subito ma che non l’hanno smosso più di tanto. Tirate di briglie che, lui in vita, negli anni Settanta la Neoavanguardia ha rinnovato. Non certo per quel suo tardivo frutto poetico datato 1972 che è stato Via delle cento stelle quanto perché veniva giustamente considerato il poeta dell’avanguardia per eccellenza. Palazzeschi, allora alle soglie dei novant’anni, ha visto tutto e in parte, contento di essere ancora preso in considerazione come guida, ha approvato. Una bella soddisfazione, anche se la fiammata della poesia - eccezion fatta per quel Via delle cento stelle testé ricordata - si
UN POPOLO D Le gocce scorrono sul corpo mentre il sole le cattura una ad una, come in un gioco. Corrono veloci, ma quando i raggi cocenti e profondi le sfiorano scompaiono lasciando solo il seme del mare. Il seme del mare di Valentina Giovannini
al pulviscolo scabroso delle strade sputate di rum più silenziosa della solitudine di domenica più coerente delle fila dei filosofi aggrappati alla mia finestra perspicace di un sonno incoerente accesa dal balzo di un Orione da tavolo Mezzanotte sulle pareti e un pentagramma vuoto
Mezzanotte di un giorno qualunque niente che ti assomigli all’indecenza del sabato all’innocente lotta tra i sessi
Attendere domani. di Jessica Imolesi
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata a troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: lib
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molizione dell’io poetico era da tempo sopita, vinta da quella narrativa, prima con romanzi sperimentali come: Riflessi (1908) e Il Codice di Perelà (1911) e poi con opere quali Sorelle Materassi (1934) e I fratelli Cuccoli (1948), lavori che l’hanno reso certo più noto e l’hanno portato anche sul piccolo schermo (è del 1972 una miniserie televisiva con Rina Morelli e Giuseppe Pambieri tratta da Sorelle Materassi). Posta in apertura di Poemi (1909), il componimento qui riportato mette in luce quella che è stata forse la maggior rivoluzione di Aldo Palazzeschi, la demolizione dell’io poetico. La raccolta lo avrebbe portato per la prima volta al giudizio di un pubblico più ampio. Di questa eterogenea silloge si ricordano poesie come Habel Nasshab o Rio Bo, i ritratti di Corinna Spiga o delle diverse regine (Regina Paolina, Regina Carmela, Regina Carlotta) o la stessa Chi Sono?. Rispetto quanto si poteva osservare nelle prime raccolte il tono è stavolta più solare. Alcune poesie sono legate tra di loro da una serie di rimandi interni, trama che conferisce ai poemi un dinamismo quasi teatrale. I versi, ternario e senario, sono ancora privilegiati, ma il rigido schema metrico viene per la prima volta spezzato dal ricorso a misure di più ampia lunghezza. Ma il gioco ritmico del trisillabo viene portato alle estreme conseguenze nell’antologizzata Fontana malata («Clof, clop, cloch/ cloffete,/ cloppete,/ chchch…/ è giù nel/ cortile/ la povera/ fontana/ malata») ironica presa per i
fondelli dell’allora celebrata Pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio. Anche se durante la prima produzione letteraria Palazzeschi gradiva il fatto di restare più o meno nell’anonimato, stavolta la raccolta non passerà inosservata. E non passerà inosservata neppure la dichiarazione di poetica del Chi sono? dove Palazzeschi apre al Novecento stracciando l’io poetico. «Sono forse un poeta?/ No certo», scrive. Certo, reminiscenze dell’«io non sono un poeta» di Corazzini sono lampanti, anche alla luce della grande sintonia tra i due, ma il nostro va oltre. Al pedale malinconico di Corazzini sostituisce quello suo più sapido per un autoritratto flagrante, come ce ne furono altri, dal risaputo Lasciatemi divertire che tanto attrasse Sanguineti & company, costruito anche con «la spazzatura/ delle altre poesie», a quello posto in apertura dell’Incendiario. Attenzione va posta però alla catena di parole in rima (follia, malinconia, nostalgia) che si legano a quell’anima mia del saltimbanco, capovolgendo i luoghi più comuni della poesia che proprio quelle tre parole incarnano. Rottura nella rottura, poi, è la sublime intuizione palazzeschiana che per raggiungere il miglior effetto parodico bisognava attingere a un repertorio retorico per eccellenza, quello dell’opera lirica italiana, dove nel primo atto della Bohème squilla un «Chi sono? Sono un poeta», raggiungendo così il massimo compimento sovversivo.
il club di calliope
DI POETI È un inferno di pace quello che ci circonda, linfe di vita infiammate, petardi scrocchianti sotto i piedi e continua a gorgogliare la lotta tra pietra e ciocche di luce fluente ma è l’ immobile che ci preoccupa, il respiro prima del balzo. Il suo marmo terrorizza. L’essenziale esplode e corrode la mente… perché?! quale mano disegna la retta tra occhio e coda? Quale sorregge la zampa elegante? Non c’è perché… la follia del gioco e della fame non bussa mai… entra veloce Gioco di Riccardo Rigoni
agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, beral Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
ferma questa notte di Chagall città di poche nuvole rosate delicata intuizione le rughe poche ore prima di essere nate e io non ancora in queste mani uno sparo sulla mia pelle sotterra questo buio suono e la terribile attesa ci sopporti per ciò che di noi rimarrà nella calma desolata del dopo amore Anna Buoninsegni da Ad occhi aperti (Crocetti Editore)
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PITTURA
arti
Il mondo scomposto daJiri Kolar di Marco Vallora ì, ci sono degli artisti a tempo, se non vogliamo dire a scadenza, perché poi non è vero, per fortuna, che siano sepolti, perché tornano fuori, a sorpresa, come da un sommerso orologio a cucù (stoltizia della critica, che insegue altri nomi alla moda, quelli sì, davvero perenti, e che sarebbe meglio liquidare). Qualche rarissima apparizione alle fiere più sofisticate, e internazionali, ma chi sembra ricordarsi mai di un «padre» nobile delle avanguardie (morto assai vecchio nel 2002, nella sua Praga) come Jiri Kolar (e ci vorrebbero sopra, a posarsi come cicogne sui comignoli dell’alfabeto, molti strani crepitanti segni diacritici, di quelli che nemmeno le tipografie hanno più)? Onore a una rinata galleria di tenace conduzione familiare, come la Repetto di Acqui Terme, che in una zona ardimentosa e a rischio, trova il coraggio (quello che non hanno le città capitali e le istituzioni-collaborazioniste del peggio su piazza) di offrire un lauto omaggio e doveroso a questo lirico maestro dello sgualcito e della scomposizione del mondo, davvero uno dei pionieri, sia pure un poco rimossi e in ombra, del falò postmoderno. Un critico come Guadagnini ha tentato un giusto confronto letterario-figurale con Kurt Vonnegut e col Perec di Istruzioni per l’uso, un titolo che già Kolar aveva immaginato, per aiutarci a penetrare in un universo alchemico e dissennato. In cui i sognificati (è venuta bene, istintivamente, così, al computer, al posto del previsto «significati» - e forse lasciamola tal quale, questa parola-lapsus. Kolar stesso scriveva: «il sangue dei sogni è verde») ebbene, i sensi tradizionali sono completamente smarriti e inutili. La bellezza scomposta (e ricomoposta) della quieta, rassicurante dissennatezza. L’arte del passato frullata in una modernità allarmante e senza speranza. Non ha avuto vita facile, Kolar, nato proletario in una cittadina boema, che pare
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uscita da un romanzo di Hrabal. Fornaio, operaio di fognature, raccattapalle da tennis e scrittore di storie di cow boy, passa la guerra a combattere e tradurre poesia straniera, poi viene a vivere nella Praga pre-turistica, che è ancora quella di Rodolfo II, di Arcimboldi (suo prossimo antenato), del Golem, di Kafka e del buon soldato Svejk, insomma la Praga magica di Ripellino, che infatti gli dedica un magnifico testo per un volumetto Einaudi, del ‘76, fortemente voluto da Fossati e Calvino. Luigi Carluccio lo ama tanto, che riesce a strappare un inserto per la Gazzetta del Popolo (bei tempi!). «Delirio ottico, cava di sortilegi, demonìa di incastri e rammendi»: inconfondibile prosa di Ripellino, che insegue tutti i ritrovati sperimentali di Kolar, rolages, confrontages, mattogrammi, raportaz. Kolar, che con le sue parole alla coccoina, che ricoprono il mondo come una slavina e il mondo della pittura tagliato a fettine e ricomposto, alla meglio (cioè in modo magnificamente pittorico) in quelle «vedute distorte d’un mondo sbagliato», continua ad alternare poesia visiva e pittura tipografica (non dimentichiamo nemmeno la vicinanza di Karel Teige e del cinema d’animazione). Gli trovano il diario e lo condannano per scritti sovversivi, firma la Charta’77 e continua a nutrirsi di poesia e di collages, vincendo premi prestigiosi, guadagnandosi una mostra al Guggenheim, invadendo il mondo di fantasmi e riconoscibili iconografie, sgualcite, masticate, rivomitate. Come un interno di Vermeer abitato da parcellizati ritratti di Van Gogh, o le lettere a Théo frantumate e rincollate insieme alle odalische di Ingres, come per un restauro sbadato, monitorio. Così, del resto, va il mondo.
Jiri Kolar. Opere scelte 1959-89, Acqui Terme, Galleria Repetto, fino al 27 aprile
autostorie
Viaggio in autostop alla ricerca dei ciliegi in fiore di Paolo Malagodi gni primavera, a cavallo di aprile, un’ondata di fiori risale l’arcipelago giapponese, partendo dal limite Sud di Capo Sata per spostarsi verso Nord e fino a Capo Soya, punta estrema dell’isola di Hokkaido. Un passaggio che sancisce la fine dell’inverno, quando i nodosi ciliegi esplodono in una bellezza fugace, ma tanto considerata da venire monitorata come un fatto di rilievo nazionale. Al punto che i telegiornali forniscono, ogni giorno, notiziari sullo Sakura Zensen - il «Fronte dei Fiori di Ciliegio» - con dettagliate mappe sul suo procedere e sulla percentuale di fiori sbocciati nelle varie zone. Interessate da feste popolari a base di saké e da raduni, convocati da avvisi
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negli albi aziendali, per la contemplazione dei ciliegi in fiore. Un fenomeno che, per coprire l’intera distanza da Sud a Nord, impiega circa un mese e che spinge un giovane canadese, già autore di libri di viaggio, a seguirne l’avanzata nella singolare determinazione di effettuare il lungo itinerario affidandosi esclusivamente all’autostop. Con zaino in spalla e pollice ben alzato, Will Ferguson si accinge così a scroccare passaggi, anche se ben conscio della tradizionale diffidenza degli automobilisti giapponesi; che il protagonista cerca di blandire con un look rassicurante: «Mi ero fatta la barba prima di partire e tagliati i capelli, indossavo persino una cravatta e avevo certamente un aspetto curato». Il viaggio si avvia dopo un’attesa di quattordici minuti e la prima a fermarsi è una Honda Ci-
vic bianca, guidata da una giovane insegnante di inglese che approfitta del passaggio offerto per fare conversazione in lingua straniera. Un secondo tratto viene percorso a bordo di «un macchinone nero fiammante e pieno di bambini», il cui conducente prende talmente parte all’intento di raggiungere l’estremo Nord del Giappone, seguendo la fioritura dei ciliegi, da ospitare prima l’autostoppista a casa sua e da accompagnarlo, il mattino dopo, per svariati chilometri nella giusta direzione. Ed è proprio la naturale curiosità dei giapponesi verso il viandante, subito etichettato come «americano», a indurre una successione di automobilisti a dare un passaggio allo sconosciuto, per fare magari pratica di inglese. Permettendo, nello stesso tempo, al casuale compagno di appunta-
re sul taccuino note sugli stili di vita delle persone incontrate, oltre che sul tipo di vettura utilizzata e sulle caratteristiche delle strade percorse. Accuratamente scelte fuori degli itinerari principali e dalle autostrade, con «lunghissime deviazioni nella campagna, ricoperta da un manto di fiori di ciliegio» e sino alla conclusione, dopo quasi tremila chilometri, nell’estremo Nord del paese asiatico. Di un procedere che, in parallelo con quello dei sakura, è narrato in un avvincente resoconto (Autostop con Buddha, viaggio attraverso il Giappone, Feltrinelli Traveller, 456 pagine, 19,00 euro); che descrive i paesaggi e gli stili di vita di una società ricca sia di aspetti affascinanti sia di inquietudini e squilibri, nella ripresa di una serie di incontri on the road con i gentili automobilisti giapponesi.
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ARCHITETTURA vviare uno studio professionale di architettura è sempre stata un’impresa difficile, oggi forse ancora di più: basti pensare che, come risulta dall’ultimo censimento del Cresme, gli architetti che esercitano la professione in Italia sono quasi 130 mila. Quando si pensa alle opere di architettura, spesso si fa riferimento esclusivamente a edifici residenziali, o comunque a complessi architettonici, ma i lavori affrontati da uno studio di architettura possono riguardare settori diversissimi tra di essi, dal design di oggetti alla progettazione di insediamenti abitativi, dagli impianti tecnologici sempre più sofisticati alla riqualificazione di parti di città. In definitiva allo studio di architettura compete un ambito che eccede l’antica definizione di progettazione architettonica che copriva dal cucchiaio alla città. Questa realtà professionale è brillantemente testimoniata, insieme alle vicende architettoniche più recenti di Roma, dal volume Transit in Roma che raccoglie oltre 35 anni di professione dello studio romano di architettura Transit, fondato nel 1972 da Gianni Ascarelli, Maurizio Macciocchi, Evaristo Nicolao e Danilo Parisio. Transit è uno dei pochi studi romani di grandi dimensioni, che nel tempo ha
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Transit in Roma, la forza è nel gruppo di Marzia Marandola
mantenuto, seppur con fisiologici avvicendamenti tra i progettisti e collaboratori, un coerente profilo professionale, senza concessioni alle mode passeggere né abbandoni a facili formalismi ripetitivi. Il volume ripercorre la storia dello studio, dagli anni dell’Università, dove i quattro giovani si incontrano e cominciano a lavorare insieme ancor prima di laurearsi, fino al recente progetto di concorso per il complesso Angelini su via Panfilo Castaldi. Un breve scritto di Ascarelli, dall’elo-
quente titolo Architettura in Backstage, sottolinea, con legittimo orgoglio, la durata e la solidità dello studio attraverso tanti anni: uno studio nel quale si lavora in gruppo «senza mai accendere i riflettori su l’uno o sull’altro e senza mai evidenziare inutili personalismi». Sfogliando le pagine del volume l’insieme dei progetti e delle opere testimoniano come lo studio sia cresciuto a piccoli passi, ampliandosi nel tempo ma restando fedele a un ideale modello di profes-
sione limpida e coerente, attraverso le difficoltà e le dure competizioni. L’inizio è difficile e i primi incarichi consistono in piccoli lavori di interni, richiesti da amici e famigliari. Le opere di esordio, che riscuotono un immediato interesse, sono le ville a Casalpalocco (1975-76) e a Formia (1979-83), che evidenziano un originale repertorio compositivo basato su geometrie semplici e pochi materiali costruttivi, dove nitide ed eleganti volumetrie nivee sono interrotte dalla deflagrazione cromatica di un elemento coloratissimo: è la caratteristica colonna/cilindro color rosso fuoco. Dopo questi primi incarichi, la notorietà arriva negli anni Ottanta con le stazioni della linea metropolitana B di Roma, seguite dalle nuove uscite del prolungamento della linea A negli anni Novanta. Dal pionieristico centro commerciale di Cinecittà Due fino al costruendo Euroma 2, con lo studio Purini-Thermes, nella centralità urbana Eur-Castellaccio, sono tantissimi i progetti realizzati a Roma dallo studio Transit, i cui edifici sono contrassegnati da un costante rigore formale coniugato con un’ elevata qualità costruttiva. AA.VV.,Transit in Roma, Alinea, 176 pagine, 35,00 euro
ARCHEOLOGIA
Susa: anche in Iran un caso Bamiyan di Rossella Fabiani on si placa la furia iconoclastica islamica. Dopo le steli di frontiera erette a Tel el Amarna in Egitto, dal faraone Akhenaton IV che promosse una religione monoteista fondata sul culto di Aton (il disco solare) e i celebri Buddha di Bamiyan, ora anche le imponenti rovine di Susa, città della Susiana, capitale del regno elamita, e una delle quattro capitali dell’impero achemenide, sembrerebbero essere state prese di mira da atti vandalici. La località si estende su una superficie di 25 ettari e si trova nella provincia iraniana del Kuzistan, non lontano dalla frontiera irachena. Le origini del sito risalgono alla metà del IV secolo a.C. L’allarme, lanciato dalle pagine del Theran Times, riguarda una serie di atti vandalici: le basi di alcune colonne dell’Apadana, il celebre palazzo del re degli Achemenidi (l’ultimo fu Dario III vinto da Alessandro Magno), sono state trovate a pezzi e parte delle antiche iscrizioni incise sono state cancellate. A Susa la colonia greca macedone era molto popolosa, le colonne spesso erano a figura umana e la lingua greca aveva una parte importante nella vita politica ed economica del Paese. Ma getta acqua sul fuoco Mojtaba Gahestuni, portavoce della Società per i beni culturali del Kuzistan, che - ignorando eventuali messaggi contro l’antica presenza straniera - imputa le distruzioni all’assenza di un’adeguata recinzione del sito. E rilancia. Denunciando che l’integrità dell’Apadana di Susa è minacciata anche dalla costruzione di una scuola elementare e di una fermata di autobus proprio nei pressi delle antiche rovine. Un appello per la salvaguardia del sito è stato inviato al presidente iraniano Ahmadinejad. Ma dal Paese di Zoroastro arrivano anche notizie positive. È stato presentato alcuni giorni fa all’I-
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siao (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) a Roma il ritrovamento in Iran, a Shahr-i Sokta, al confine con l’Afghanistan, dei resti di una sciamana con un occhio d’oro. Lorenzo Costantini, direttore della Missione italiana, ha mostrato l’eccezionale ritrovamento che risale al terzo millennio a. C. Nella necropoli del leggendario sito archeologico del Sistan iranico, la città di Shahr-i Sokhta, è stato rinvenuto uno scheletro femminile munito di un misterioso occhio artificiale e antico di 5 mila anni. La donna era alta un metro e 82 centimetri e aveva caratteristiche africanoidi, la mascella pronunciata, forse la pelle scura. «A scoprirla sono stati gli archeologi iraniani scavando nell’enorme necropoli - racconta Lorenzo Costantini, esperto di bioarcheologia -; la città si trovava a ridosso del confine con la Battriana ed era un luogo molto vivace, crocevia delle carovane che da Oriente venivano in Occidente. La sepoltura risale a 5 mila anni fa». Al momento del ritrovamento, l’occhio d’oro era incastonato nell’orbita sinistra. «Quando la donna morì - dice Costantini - fu sepolta con il suo occhio finto, una borsetta di pelle per custodirlo, uno specchio, una collana di turchese e lapislazzuli, vasi e coppe di terracotta. Dunque non un corredo ricco, infatti agli sciamani era proibito ostentare beni preziosi, e questo, oltre alla riflessione sul fatto che pochi potevano permettersi un occhio laminato d’oro, ha portato all’ipotesi che possa trattarsi di una sciamana». Per gli studiosi, l’occhio non doveva avere il compito di sostituire quello perduto, ma probabilmente doveva far parte di un rituale, forse legato al diffondersi di nuove religioni nella zona, patria, successivamente, dello zoroastrismo.
Lo scheletro femminile con una protesi oculare rinvenuto nel Sistan iranico
MobyDICK
pagina 16 • 12 aprile 2008
CRISTALLI SOGNANTI
el mio precedente articolo ho brevemente considerato il fatto alquanto curioso che non esista la pubblicazione dell’Opera Omnia di Newton, i cui lavori, per la maggior parte ancora in forma di manoscritto, sono praticamente inaccessibili, buona parte di loro essendo secretati a Gerusalemme. È vero che molti sono gli autori, generalmente poco noti ma non necessariamente di poca importanza, la cui opera non è ancora pubblicata e sopravvive in forma di manoscritto, o è stata pubblicata da pochi anni essendo dunque per lo più ignorata. Possiamo qui citare Michele Alberto Carrara, bergamasco amico di Leonardo da Vinci, i cui manoscritti, giacenti presso la Biblioteca Angelo May di Bergamo, una delle principali al mondo per la ricchezza di testi antichi, sono stati editi e tradotti in italiano dal latino solo nel dopoguerra: immane fatica costata una ventina di anni a Giovanni Giraldi, già allievo di Banfi (che non essendo comunista non ebbe accesso alla carriera universitaria nel dipartimento di Banfi) e contenuta in quattro volumi, disponibili presso la biblioteca di Brera ma non in alcuna biblioteca della bergamasca!
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Secondo il traduttore, Carrara dovrebbe essere considerato il maggiore esponente dell’umanesimo italiano del Quattrocento e la sua influenza su Leonardo da Vinci è chiarissima (spiegando forse un certo enigmatico passaggio in una poesia di Galileo relativo a Leonardo). Giraldi ha tradotto tutto tranne 37 pagine dal titolo De maximo et minimo, in cui l’autore parla di massimi e minimi di funzioni, anticipando di circa tre secoli un tema matematico che oggi è fra i più importanti, essendo il cuore della Ricerca Operativa. Fino a oggi non sono riuscito a trovare quel minimo finanziamento necessario per la traduzione, che deve avvalersi necessariamente di un paleografo con specializzazione nelle abbreviazioni matematiche in uso a quei tempi: lavoro di molte ore per il
ai confini della realtà
Eulero Maximus di Emilio Spedicato quale una retribuzione è certamente doverosa. Altro caso clamoroso di manoscritti di cui solo ora è iniziata la decifrazione da parte di paleografi musicali (Bianchini e Trombetta) e la pubblicazione (su internet) riguarda il fondo luchesiano esistente presso la biblioteca estense di Modena. Si tratta di lavori di Andrea Luchesi, Kapellmeister a Bonn per oltre vent’anni e maestro di Beethoven per oltre dieci. Luchesi, considerato il migliore compositore italiano dell’epoca (aveva importanti rapporti con i i fratelli Riccati, matematici e gesuiti, fu chia-
ni anni prima. Un Maigret o uno Sherlock Holmes potrebbero trarne delle conclusioni… o un Giorgio Taboga (vedi liberal bimestrale, n. 40, ndr).
Passiamo ora a Eulero, uno dei massimi scienziati di ogni tempo, la cui Opera Omnia è in fase di produzione da circa un secolo, ma richiederà ancora molto tempo per essere completata. Questo a causa della sterminata produzione di Eulero, che, divenuto cieco dopo avere osservato imprudentemente il sole al telescopio, non fu fermato nella sua pro-
Tra i più grandi di ogni tempo, si calcola che da solo abbia prodotto più della metà degli articoli scientifici del Settecento. Con la sua teoria dei massimi e minimi di funzioni, ha anticipato di tre secoli un tema matematico che oggi rappresenta il cuore della Ricerca Operativa mato a Bonn con una ben retribuita posizione da cui non era licenziabile, ma con il vincolo di non pubblicare alcunché sotto il suo nome: la sua produzione poteva essere venduta e secondo le leggi in vigore all’epoca chi la comperava poteva dichiararla produzione personale! Ebbene fra i lavori finora emersi nel fondo si trova una sinfonia del tutto identica alla Jupiter di Mozart, ma scritta alcu-
duttività dalla cecità, che in certi casi, vedasi Omero se le fonti antiche sono veritiere, può anzi stimolare, grazie alla maggiore concentrazione, proprietà intellettuali o artistiche, specie in chi abbia la fortuna di una straordinaria memoria. Si stima che Eulero da solo abbia prodotto circa la metà degli articoli scientifici del Settecento! E si dice che un giorno scrisse (per dettatura) un lavo-
ro la mattina, uno il pomeriggio, uno la sera, e uno fra le due portate di un banchetto che si facevano troppo attendere. Si pensò inizialmente che una settantina di volumi sarebbero bastati per pubblicare la sua opera, poi si scoprirono molti altri lavori nelle cantine dell’Accademia delle Scienze di Pietroburgo, dove lavorava da anni su invito dell’imperatrice Caterina. Il completamento dell’Opera Omnia richiederà dunque un maggior numero di volumi e una maggiore quantità di tempo. Si noti, per chi sia ansioso di acquistare i testi già esistenti, che Eulero scriveva in latino, lingua che ormai non si insegna seriamente nemmeno nei seminari e che io sospetto anche molti teologi facciano fatica a comprendere. I suoi lavori hanno riguardato la fisica (sua è una delle formulazioni fondamentali della fluidodinamica), l’astronomia e la matematica, dove ha prodotto quello che molti, fra cui io, considerano il più bel teorema mai scoperto: quello che stabilisce una fascinosa relazione fra l’unità immaginaria, pi greco e la base dei logaritmi neperiani, che può recitarsi senza formula come: i elevato ad i è uguale a e elevato a meno pi greco mezzi. Eulero ebbe una delle morti più invidiabili che si possano pensare (a parte l’assunzione in cielo della Madonna o la dematerializzazione sperimentata in Tibet da Marpa e da sua moglie, che scomparvero lasciando sulla terra i soli vestiti): gli furono portati dati relativi al nuovo pianeta osservato, Urano. Ne calcolò l’orbita, sorbì un tè, accarezzò la nipotina e il suo cuore si fermò…