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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Dalla scena al dipinto

STREGHE, AMLETI & BALLERINE di Nicola Fano

e ballerine vanno sempre fortissimo. Ma forse è più interessante vederivoluzionario; ma se la vanità di Napoleone vide sempre di buon occhio gli re le facce (vere o presunte) degli attori che affollano la mostra omaggi di David o del suo attore preferito François-Joseph Talma, quella Le opere di Stalin non resistette di fronte alla straordinaria libertà creativa del Dalla scena al dipinto, («La magia del teatro nella pittura delcostruttivismo teatrale, di Appia, di Mejerhol’d, di Majakovskji. l’Ottocento. Da David a Delacroix, da Füssli a Degas») che svelano Ma questa è un’altra storia. che Guy Cogeval e Beatrice Avanzi hanno curato al Mart la magia del palcoscenico Cominciamo col dire che «dalla scena al dipinto» si di Rovereto fino al 23 maggio prossimo. Ma che è punella pittura dell’Ottocento (da perdono un sacco di cose. I movimenti. Le parole. re testimoniata da un catalogo portentoso edito La musica.Talvolta la scena, ma non sempre. da Skira. Comunque, sono più interessanti le David a Degas), in mostra al Mart di Rovereto, Al di là dei pittori scenografi (qui appunto Apespressioni degli attori, un po’ perché ci racdimostrano che il teatro è più ambiguo pia ma anche Gordon Craig), in questi quadri a volcontano come si facesse il teatro in epoca neoclasdella pittura. E che il confine tra te colpiscono certi particolari che sganciano i dipinti sica (a cavallo tra Settecento e Ottocento), un po’ perché rivelano lo studio plastico dei grandi pittori del tempo. Partidalla fissità della tela per approdare agli artifici teatrali: vero e falso è davvero colare curioso: la mostra si apre con David e si chiude con prendete un grande David (I littori riportano a Bruto i corpi dei sottilissimo Adolphe Appia, dalla rivoluzione francese a quella russa che adottò la suoi figli, 1789, Musée du Louvre): qui un lenzuoletto steso tra una fila biomeccanica dell’artista svizzero; come se il teatro avesse in sé un germe di colonne fa tanto scenografia un po’ rimediata.

L

Parola chiave Lussuria di Franco Ricordi David Byrne canta Imelda di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Tasso, la voce della vita che svanisce di Filippo La Porta

Le lettere dal carcere di Havel a Olga di Gabriella Mecucci Da Solondz e Moverman a lezione di pietas di Anselma Dell’Olio

Fervore sperimentale su quadrato bianco di Marco Vallora


streghe, amleti &

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Sia pure all’interno di un allestimento evidentemente sontuoso, come quello raccontato con luce e pennelli dal più sontuoso dei neoclassici francesi. O prendete quella Ofelia morta che vaga sul fiume di Füssli (un classicissimo, al punto che quest’immagine è stata citata da tutto il cinema shakespeariano, persino nel film tv che Gassman trasse da Amleto nel 1955); anche qui c’è una evidente maestria nel fare tanto con poco. Basta un tulle ben tirato sul boccascena per far tremolare un corpo in un fiume. Ma è tutto Shakespeare a colpire in questa mostra: intanto perché lo vediamo signorilmente interpretato da David Garrick (elegante e compassato, molto british anche quando s’alza dal letto di terrore di Riccardo III), ma poi perché ce lo mostra come un autore teatrale ricco e popolare al tempo stesso; che è poi la moderna contraddizione di Shakespeare, essere semplice e complicato al tempo stesso. Anzi, a proposito di questo ossimoro vale la pena segnalare qui la quantità di streghe macbethiane ritratte. Perché quella delle tre streghe che incontrano Macbeth e gli predicono l’orrendo, confuso futuro, chiosando che «il brutto è bello, il bello è brutto!» è una delle scene meno note oggi ma più importanti nella storia di Shakespeare: la quintessenza dell’ambiguità e dell’impossibilità di discernere - per esempio - il bello dal brutto, ma anche il bene dal male (come nel caso di Macbeth e signora). Salvo che oggi si tende a dimenticarlo, proprio perché questa nostra malsicura epoca di certezze troppo ostentate per essere vere e salde, vede di pessimo occhio il dubbio. Ed è già un bel successo che il povero dubbioso Shakespeare non paia quel sovversivo che è. Comunque, qui nella mostra di Rovereto siamo pieni di streghe: streghe eleganti, vocianti, per niente beffarde, così esagerante che se ti si avvicinano non credi loro neanche se tu sei un arrivista e loro ti spiegano che presto sarai re. Il teatro è più ambiguo della pittura; tutto il teatro, non solo Shakespeare.

Ecco, se una annotazione si impone dopo la visione di questa splendida serie di opere, è che il teatro raccontato dai pittori è più sontuoso di quello che in genere si vede sul palcoscenico. Sempre, mica oggi. Le scene plastiche, l’intreccio di personaggi, lo dovizia di arazzi e colonne fa pensare a una spettacolarità prima di tutto ricca. Proprio nel senso economico del termine: scene costose e intrasportabili (avete mai pensato, vedendo uno spettacolo qualunque, che magari all’indomani in quella stessa cornice scenografica doveva essere rappresentato in un’altra città?, magari lontana centinaia di chilometri?); costumi pesanti che impediscono i movimenti; movimenti larghi, esagerati… Cose vere e false allo stesso tempo. Vero che gli attori facciano movimenti eccessivamente vistosi, perché devono essere visti e riconosciuti fino all’ultima fila del loggione. Ma falso che le scenografie abbiano una preponderanza così massiccia sull’azione scenica, pensate a quei comici che recitavano sul rovescio di un carro con due veli, o a Shakespeare (sempre lui, ne sapeva una più del diavolo!) che per far apparire il fantasma di Amleto padre o di Giulio Cesare s’accontentava di una piccola botola di legno. Cose vere e false allo stesso momento, dunque, come è giusto che sia: perché il teatro si può solo ricordarlo. E ognuno lo racconta a modo suo. Lo spettatore che ha mangiato troppo s’addormenta e ricorda poco o nulla, ma magari lavora di fantasia e vede scene monumentali e invadenti... Lo spettatore che aspira a finire la serata con l’amante che ha seduta accanto, ricorda lo spettacolo noioso e troppo lungo, con quell’attore che faceva sempre gesti eccessivi e sproporzionati… Lo spettatore solitario e sconfitto dalla vita, vede lo spettacolo sempre più bello di quel che è, un’opportunità assoluta che egli non riesce mai a cogliere… È il anno III - numero 15 - pagina II

A sinistra, “Ellen Terry nel ruolo di Lady Macbeth” di Sargent (1889). A destra, “Ofelia” di Millais (1851-52). Sotto, “Le tre streghe” di Füssli (1783), “David Garrick nel ruolo di Riccardo III” di Hogarth (1745), “Lugné-Poe e Berthe Bady” di ToulouseLautrec (1894) e “Lady Macbeth sonnambula” di Delacroix (1849-50). In copertina, “L’orchestra dell’Opéra” di Degas (1870)

ballerine

teatro: qualcosa che vive nel momento e nella memoria; e ciascuno dei partecipanti al rito ha un momento e una memoria diversi da quelli di ogni altro. Diciamo allora che questi artisti importanti e appassionati sono - in questo specifico caso - il nostro tramite con la storia del teatro. Che è una storia fatta di particolari, di tasselli da mettere uno accanto all’altro come un puzzle più che come un collage, in modo da ricostruire il tutto. Che il teatro dell’impero napoleonico fosse eccessivamente pieno di velluti rossi lo sappiamo appunto da David. Ma da David sappiamo anche che quel teatro immaginava se stesso come una carovana di divinità greche che mettevano in scena i conflitti della modernità: una roba insostenibile; finzione nella finzione. Meglio il romanticismo inglese, con un Edmund Kean ubriaco che urla parole dentro un costume mezzo stracciato. Meglio il vuoto biomeccanico che aspetta di essere popolato di marionette ciascuna uguale a se stessa e all’altra: popolo massa, come il Novecento stava appena cominciando a capire. Non c’è in questa bella mostra ma ne sarebbe stata un perfetto epilogo - una serie di marionette che Picasso dipinse per la compagnia di balletti di Sergej Diaghjilev, uno dei maestri della biomeccanica: pupazzi meccanici costruiti dal genio spagnolo con gli avanzi di scatolette e bottiglie, pentole e imbuti, un modo per riportare alla banalità della vita quotidiana le esagerazioni dell’arte.

Ecco, la mostra del Mart ha un solo grande limite, suo malgrado: i pittori sono spettatori che ricordano le cose meglio di quanto non fossero nella realtà. Non a caso certi bozzetti (compresi quelli di David e Füssli) con scene e movimenti solo accennati, sono meglio delle opere finite. Solo due esempi mirabili dalla mostra di Rovereto. C’è uno studio per Lady Macbeth sonnambula del 1781 di Füssli che lascia tutto in sospeso sulla scena tranne il trucco che cerchia gli occhi dell’attrice: trucco eccessivo, da pazza, ma che così non doveva certo apparire agli spettatori seduti a molti metri di distanza da quei colpi di matita nera intorno alle ciglia. C’è un ometto di Toulouse-Lautrec in un disegno del 1894 che fa il bullo in una strada in bianco e nero e che sembra in tutto e per tutto la prossima maschera di Ettore Petrolini, un debole che sceglie la cattiveria per sopravvivere. Tutte contrapposizioni molto teatrali. Poi ci sono le ballerine, s’è detto: sono tante, di tutte le fogge, di tutti i colori, allusive o educande, belle o brutte, truccate troppo o poco o male, in abiti lascivi o in tutù. Lo sanno anche i muri che gli impressionisti andavano pazzi per le ballerine. Le dipingevano, le scolpivano e le ammiravano. A domanda, rispondevano che di quelle donne apprezzavano la dedizione al movimento, l’unicità dei loro gesti plastici. Spiegazione logica per un pittore che voglia fermare la luce, le forme e il movimento. Ma voi davvero ci credete che fosse solo una faccenda artistica? Una roba di teatro?


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parola chiave

i sono varie interpretazioni e atteggiamenti nei confronti di questa parola, anche a seconda delle diverse epoche storiche, religiose e culturali. Basti pensare alla glorificazione vedica indiana, che sfocia nella celebre dottrina del Kama Sutra. Tuttavia, facendo parte per noi occidentali dei sette peccati capitali, la lussuria è certamente fra i più contestati fra di essi, quasi a dire che pur essendo un peccato sia giusto riconoscere in essa una grandezza, se non addirittura un senso di nobiltà. Ce lo fa capire il nostro sommo poeta che, come tutti ricordano, ci coinvolge in uno dei momenti più belli e tragici della Commedia proprio nel V Canto dell’Inferno; quando fra tutti i lussuriosi, insieme a Didone, Isotta e Cleopatra, il racconto di Paolo e Francesca ci commuove a tal punto che vorremmo stare dalla loro parte. E lo stesso Dante ce lo suggerisce chiaramente, non soltanto rendendo più che mai passionale e romantico il peccato dei due cognati, ma entrando lui stesso nella «bufera infernal che mai non resta» e, alla fine, cadendo «come corpo morto cade». La celebre ripetizione della parola «amor» nelle tre terzine del racconto di Francesca, sembrerebbe quasi identificare l’amore con la lussuria, peccato per il quale le due anime dannate si stringeranno nella tempesta per l’eternità. Ma anche nel Purgatorio Dante sembra ribadirci la sua particolare simpatia per i lussuriosi, quando nel Canto XXVI colloca fra loro Guido Guinizelli e, soprattutto, Arnaut Daniel, poeta provenzale cui Dante attribuisce alcuni fra i più bei versi di tutto il suo poema: «Ara vos prec per aquella valor/ que vos guida al som de l’escalina/ sovenha vos a temps de ma dolor!/ Poi s’ascose nel foco che li affina».

V

Le anime lussuriose del Purgatorio sono in questo modo «affinate» da Dante, in relazione al peccato commesso. Così la lussuria sembra in qualche maniera condannata, ma allo stesso tempo perdonata, se non addirittura esaltata e comunque poeticizzata. Tuttavia in epoca moderna comincia a insinuarsi un altro aspetto, e ci colpisce come filosoficamente ci pervenga addirittura da Thomas Hobbes, il grande filosofo della politica nel Leviatano, l’ultima opera in cui avremmo cercato il significato di tale parola: la lussuria, per Hobbes, è «l’amore per la stessa cosa, acquisito attraverso il ripensare, cioè l’immaginare di un piacere passato». La lussuria sarebbe dunque un vizio che implica il ricordare, un «ruminare», come lo chiama Hobbes, il piacere conseguito nel passato. Quasi a dire che nel presente sia impossibile attingere una simile sensazione. Qui comincia il significato e l’attributo che vorremmo definire decadente e anche morboso del termine. Ma per quanto anche il l’arte del XX secolo, il cinema, abbia esaltato in ogni modo la lussuria - tre sono i film che si ricordano con questo titolo, fra cui il più recente di Ang Lee - siamo convinti che tutto ciò abbia contribuito all’oblio di un senso più importante in cui tale parola è stata in qualche maniera sublimata. Il concetto di lussuria da noi esperito è infatti ormai ridotto, inevitabilmente, a qualcosa di pornografico. Non che in passato non ci fosse anche questa

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LUSSURIA È un termine aperto a varie interpretazioni. Per noi occidentali è un peccato capitale, ma tra i più contestati. Perché il suo vero significato non ha nulla a che vedere con le attuali derive pornografiche...

La divinità dell’amore di Franco Ricordi

Dante ne riconosce la grandezza. Per Hobbes è un “ruminare” su un piacere conseguito in passato. Anche Kleist e Leopardi si possono annoverare tra i suoi sostenitori. Per non parlare di Shakespeare e della sua Cleopatra, che “affama quanto più soddisfa”: la personificazione stessa della lussuria componente, basti pensare soltanto a un quadro come Il trionfo di Venere del Bronzino, che prende anche il nome di Allegoria della Lussuria; ma è evidente come oggi l’aspetto lascivo e anche necessariamente perverso abbia preso il sopravvento su quello decantato dai grandi poeti, che si libra invece a una

altezza più unica che rara. E che insieme a Dante può annoverare fra i suoi sostenitori anche Kleist, Leopardi e, naturalmente, Shakespeare. In ogni caso la questione risulta la seguente: e se la lussuria fosse «l’esasperazione dell’amore», piuttosto che un vizio ridotto ormai a semplice e morbosa deri-

va pornografica? Se insomma attraverso tali poeti e pensatori potessimo interpretare questa parola come un sentimento davvero «divino», come pretende giustamente il Giove kleistiano che, vedendo l’amore che si sprigiona tra Alcmena e Anfitrione, si sostituisce a quest’ultimo esigendo per sé e solo per sé la divinità di quel sentimento? E tale lussuria non dovrà essere intesa come la vera quintessenza dell’amore, dell’amore impossibile ancorché tragico? E non sarà proprio questa di Giove, l’onnipotente che si vede peraltro rifiutare l’amore di Alcmena, l’autentica lussuria? E quando Leopardi nel Pensiero dominante si abbandona al «Dolcissimo, possente, dominator di mia profonda mente. Terribile ma caro dono del ciel, consorte ai lugubri miei giorni, pensier che innanzi a me sì spesso torni», non sta forse parlando di una voluta e consapevole esasperazione dell’amore, che comunque vale la pena di provare e vivere anche se, molto probabilmente, condurrà a un estremo inganno? E tuttavia cosa sono al suo confronto gli altri negozi e rapporti umani?

La lussuria è in questo senso la «divinità dell’amore», il sentimento del divino che soltanto nell’amore, anche e necessariamente fisico, i mortali possono esperire. E la stessa teoria del piacere in Leopardi perviene, nella sua estrema ratio, a questo sentimento forse anche patologico ma unico nella sua grandezza. Shakespeare, infine, ci aiuta ancora di più a comprendere le altezze in cui si libra il sentimento della lussuria. Ce lo insegna con il più lussurioso dei suoi personaggi, naturalmente Cleopatra; e la descrizione che ne dà il soldato romano Enobarbo ci sembra più che mai eloquente: «altre donne saziano gli appetiti che destano, ma lei affama quanto più soddisfa. Le cose più vili, in lei, diventano bellezza, e gli stessi sacri sacerdoti la benedicono quando pecca di lussuria». Cleopatra è la personificazione, in qualche maniera divina, della lussuria. Ma non si tratta di una lasciva e inconcludente esasperazione del personaggio, bensì di un suo ruolo specifico nell’ambito della tragedia: Antonio e Cleopatra, analogamente a Paolo e Francesca, sfidano il mondo attraverso il loro amore impossibile; e quando nella battaglia decisiva Cleopatra (apparentemente non si capisce davvero il perché) ritira le proprie navi, e Antonio che insieme a lei stava per vincere lo scontro navale la segue perdendo tutto, ecco che comprendiamo come un amore di tale grandezza non abbia posto in questo piccolo mondo; e che il rifiuto della storia intesa come politica, da parte di Cleopatra, fa di lei il corrispettivo femminile di Amleto, l’uomo che si rifiuterà di agire per non accettare la violenza politica della storia occidentale. Ecco dunque la tensione più autentica, il vero significato e «senso» della parola lussuria: l’esasperazione del divino nell’amore, che rifiuta di ridursi alle ragioni della quotidianità e della stessa storia. E tutto ciò non ha nulla a che vedere con le attuali derive perverse e pornografiche dalle quali siamo sempre più assaliti; con la lussuria ridotta ai minimi termini, globalizzata e falsamente accettata, nella quale sempre più viviamo e vivremo.


Pop

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che dà inizio alla scalata al potere sottoforma di A Perfect Hand, polposo folk rock intonato da Steve Earle. Potere totale, che si identifica nell’apocalittica Order 1081 (la legge marziale introdotta nel ‘72 dal dittatore) interpretata da Natalie Merchant. Mentre il popolo veniva ridotto alla fame, Imelda l’icona kitsch accumulava ricchezze, collezionava montagne di scarpe e ballava sul suo e sugli altrui destini al ritmo di mambo e calypso (Every Drop Of Rain, con Candie Payne & St. Vincent) gustando il sabor latino (Nellie McKay: How Are You) ma soprattutto calpestando il dancefloor. Ed è qui che David Byrne e Fatboy Slim funzionano a meraviglia: nell’energetica Don’t You Agree, con Roisin Murphy che fa il verso ad Annie Lennox; nella martellante & fischiettante discomusic di Men Will Do Anything (Alice Russell); in Ladies In Blue (Theresa Andersson) che più Abba non si può; in Please Don’t (Santigold), che sembra di sentire Grace Jones.

di Stefano Bianchi robabilmente (sicuramente) è il più bravo di tutti a buttarsi là dove non tira mai il vento. Dopo aver psycho-funkeggiato da leader dei Talking Heads (dal 1977 all’88) e scandito il curriculum solista a colpi di taglia-e-cuci sonori, etnomusiche e blitz nella sperimentazione, David Byrne (col contributo ritmico dell’ex Housemartins Norman Cook, in arte Fatboy Slim) ha scelto la filippina Imelda Marcos (moglie del dittatore Ferdinand) e la sua nutrice Estrella Cumpas per dar vita al doppio cd Here Lies Love: «opera-disco» di ventidue brani affidati a venti voci femminili più due maschili (la sua e quella di Steve Earle). Quando l’affaire Imelda Marcos ha iniziato a concretizzarsi, Byrne non pensava a lei ma a chi, in generale, detiene il potere: «Volevo capire cosa spinge determinate persone a giustificare certi comportamenti e ogni volta a reinventarsi. Poi, però, ho scoperto che Imelda frequentava lo Studio 54, che nella sua residenza di New York aveva fatto appendere al soffitto una scintillante palla da discoteca e che l’avevano filmata mentre ballava con Henry Kissinger e Kashoggi. Perfetto. Al di là della storia, avevo trovato una donna di potere appassionata di musica. E da lì ho cominciato a materializzare i suoi ricordi, le sue danze e il suo glamour ben conscio che tutto ciò fosse realtà». Here Lies Love. Qui giace l’amore. L’epitaffio che la Marcos vorrebbe vedere inciso sulla propria lapide, è il titolo del pezzo che fa da prologo al disco. Cantato da Florence Welch, è un cortocircuito di pop, exotica e discomusic. L’epilogo,

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classica

musica

David Byrne canta Imelda

Why Don’t You Love Me, intonato da Tori Amos e Cyndi Lauper, vede invece Estrella e Imelda chiedersi perché nessuno le abbia mai amate. Fra questi momenti chiave, c’è spazio per narrare altre vite. Quella di Remedios, ad esempio: la folle madre dell’ex first lady causticamente impersonata in You’ll Be Taken Care Of dalla voce di Tori Amos; quella del giovane, ambizioso senatore Ferdinand Marcos

Eppoi c’è tutto Byrne (e tonnellate di Talking Heads) nel funky di Walk Like A Woman (Charmaine Clamor), nel funk di Dancing Together (Sharon Jones) e The Whole Man (Kate Pierson dei B-52’s), nella fascinosa blaxploitation di Solano Avenue (Nicole Atkins). E se volete scoprire ciò che i filippini pensano dell’americano medio ascoltatelo, Byrne, mentre lo descrive Internet-basket-rap dipendente; guidatore cafone di auto gigantesche; lavoratore sì, ma che pensa solo al weekend. American Troglodyte, lo chiama. Imelda Marcos, spesso e volentieri, si travestiva così. David Byrne & Fatboy Slim, Here Lies Love, Nonesuch/Wea, 19,90 euro

zapping

HANDICAP E DIFFERENZA il caso degli Staff Benda Bilili di Bruno Giurato

costo di sembrare stronzi bisognerebbe ripristinare un certo senso delle differenze culturali al Sud e al Nord, all’Est e all’Ovest. Prima che l’orrida cappa dell’intercultura ci ammazzi tutti a colpi di conferenze stampa, prosecchini sgassati e salatini salati, fesserie di politici locali, stanchi trafiletti su rivistine di serie B (a volte pure di serie A), è il caso di dirlo. Le culture non sono equivalenti. C’è una gerarchia di valori. Punto. Prendi Joe Zawinul, uno dei più grandi musicisti del Novecento, sommo jazzista, sommo tastierista, mente dei Weather Report, che è riuscito a portare le musiche di tutto il mondo al jazz. Pure Zawinul lo diceva chiaro: «Non scelgo i miei musicisti per il luogo da cui provengono, li scelgo perché sono i migliori». E infatti i WR non erano l’Orchestra di Piazza Vittorio. C’è una gerarchia di valori. Punto. Ed è proprio per questo, perché qualcuno vale, che quando ascolta gli Staff Benda Bilili a un musicista medio viene graziosamente da ammazzarsi. Perché questo gruppo di disabili congolesi il cui nucleo principale è costituito da cinque cantanti e chitarristi, ex poliomelitici, in sedia a rotelle, sbatte in faccia la differenza. La gerarchia di valori. Viene da pensare con commiserazione al bassista di Milano che ha studiato lo slap, al batterista di Roma che ha studiato i paradiddles, al chitarrista toscano che ha appena comprato il Fender Twin, la chitarra Gibson e altre inutilità. Il leader degli Staff, Roger Landu, è un ragazzo di 18 anni che suona uno strumento elettrificato a una sola corda, da lui progettato e costruito a partire da un barattolo di latta. Suona bene, benissimo, da maestro. Joe Zawinul l’avrebbe invitato subito. E il gruppo suona e canta alla grande: rumba, funk, afro e tutto (dare un’occhiata su youTube per conferma). In breve, al diavolo l’interculturalità: c’è chi può e chi non può. Loro può.

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Salonen finalmente “scoperto” anche a Milano

ilano ha scoperto Esa-Pekka Salonen, direttore d’orchestra e compositore finlandese di fama mondiale, cinquant’anni suonati, trenta abbondanti di carriera, svolta per lo più all’estero: in Italia si rammentano un Pelléas et Mélisande al Maggio fiorentino e un concerto con l’Orchestra della Toscana, una ventina d’anni fa o poco meno; in seguito, nient’altro che ospitate con orchestre straniere, anzi, se non erro, colla sola Philharmonia di Londra, di cui è direttore stabile. Ma per i cari milanesi - critica inclusa - non sei nessuno finché non ti presenti alla Scala sul podio delle milizie casalinghe. In un mese poco più di domicilio all’ombra della Madunina, un concerto nella stagione sinfonica del teatro, uno in quella della Filarmonica, un’opera: per Salonen apoteosi ripetute e continuate, e l’offerta di assumere il comando dell’orchestra; offerta gentilmente declinata, mostrando

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di Jacopo Pellegrini più acume di chi gliel’ha fatta, giacché col melodramma nostrano egli non vanta confidenza alcuna. Entusiasmo, tuttavia, più che giustificato: quando mai l’orchestra ha suonato con tanto impegno, dedizione e pienezza di risultati? Ho assistito alla Nona Sinfonia di Mahler con la Filarmonica e a due recite di Da una casa di morti di Janácek. In Mahler colpivano la corposità e il legato degli archi, il fluire unitario dei tempi, la morbidezza e trasparenza del suono, caratteristiche tutte che garantiscono la massima evidenza alle sovrapposizioni di temi e ritmi.A tratti era solo un’ottima esecuzione non troppo coinvolgente (Ländler,

Rondò-Burlesca), ma il senso di fatica impresso al disegno portante del movimento iniziale, col suo ansioso ascendere e ricadere, la tensione verso il silenzio (un silenzio pacificato, non sgomento) dell’Adagio, non si dimenticano facilmente.Ancor meno comune, anzi del tutto eccezionale l’esito di Da una casa di morti (a parte il direttore di scena incapace di spegnere le luci all’ingresso del maestro): impressionante la bravura di Salonen nel porre in rilievo ciascun intervento strumentale, facendolo spiccare dall’intricato fondo orchestrale: grazie a questa nettezza di contorni timbrici, dalla frantumazione e reiterazione dei motivi caratteri-

stica dello stile musicale di Janácek il direttore riusciva a estrarre una vena di canto lancinante; un canto nient’affatto aspro o espressionista, ma come guidato da un «principio speranza», da una fiammella residua di umana bontà. La regia di Patrice Chéreau (scene Peduzzi, costumi de Vivaise, luci - fenomenali - Couderc), con stupendo effetto-contrasto, ci consegnava una visione all’insegna del più cupo pessimismo: la colonia penale siberiana di Dostoevskij (fonte letteraria del libretto preparato dallo stesso Janácek) è mutata in un universo concentrazionario senza tempo e senza luce, dominato da una violenza cieca. Spettacolo essenziale eppur sconvolgente, grazie a una recitazione di enorme carica fisica nei mimi, nei coristi, nei cantanti. Indimenticabili, Siskov (Peter Mattei) e - poli opposti che s’incontrano nel dolore - il giovane (Eric Stoklossa) e il vecchio (il veterano Heinz Zednik).


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arti Mostre

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di Marco Vallora

asta entrare nella preziosissima mostra su Torino sperimentale (di cui si era già accennato, in un precedente articolo, promettendo di tornare a parlarne), che si tiene in una delle tanti sedi emblematiche della torinesità, la Sala Bolaffi, per capire di che pasta risulti la mostra curata da Giorgina Bertolino e Francesca Pola. Buonissima. Basti appunto quel colpo iniziale (complimenti all’impaginato di Luciana Rossetti) in cui il non troppo noto autoritratto di Casorati il «vecchio», nello iato fatale tra 1959 e ’60, con quel volto intenso e super-cigliato (per via del colore, non del carattere) e che pare sguasciar fuori, mineralmente, da quegli specchi neri in cui Leonardo e Caravaggio consigliavano di verificar il ribaltato risultato pittorico, tra quello sfogliarsi tipico e vegetale e un poco costruttivista di copertine di libri, squadre, tavolozze e fogli periclitanti, ebbene vien messo simmetricamente a contrasto con un altro autoritratto metaforico e trasposto, che è l’epocale Senza Titolo di Paolini, 1962-63. «Semplicemente» (detto per paradosso) una tela bianca, riquadrata (preparata come si dice in gergo) pronta per ogni possibile peripezia e in contiguità «baciata», quasi fosse una rima ottica (o un omaggio-anticipo a Ryman, per via di quel bianco non uniforme, pennellato, che respira) appunto, un quadrato bianco, rigorosamente senza soluzione di continguità, messo in riga con il suo retro strutturale, il suo ligneo deretano fantastico. L’elementare cornice, che inquadra «da dietro» tutto quel lago bianco, contornato ma intrattenibile. Quasi un riflesso orizzontale, in serie, sulla parete. Trasognato oltre che cartesiano. Perché in fondo è proprio lì il segreto

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Architettura

ra, ma anche una serie di gallerie invidiabili e di mostre che ci fecero conoscere Bacon e la Nevelson, De Staël e Kleine. E poi c’era anche il farmacistaalchimista di Alba, Pinot Gallizio, con le sue pitture provocatoriamente a metratura, e il contatto modernissimo con il gruppo Cobra. La grande avventura di Italia ’61, con il Palazzo di Nervi e quello a Vela, la monorotaia «giapponese» e la nascita della Gam e ancora la grande mostrapioniera su Moda Stile Costume. Che miscelava, molto prima delle rivendicate epopee celantiane, abiti e film, un aereo vero, dal design futuribile, al cospetto del magnifico Cavaliere di Marino (come bene messo in luce nel catalogo Bolaffi), le rivoluzionarie Lastre di Fontana, retour dal dirompente viaggio a New Yok, sfrangiate e unghiate come da un lupo mannaro, con le prime prove del gruppo giapponese Gutaj, e le tele «dipinte con i piedi» da Shiraga, appeso a una fune. Due foto dicono tutto: quelle in cui il vecchio, sornione, perplesso Carluccio si presta a una perfomance «gutaj» di Plinio Martelli, con Borsalino e divertito scetticismo palpabile. E un’altra con il conte Paulucci e Casorati a Lascia o Raddoppia di Mike Bongiorno. Alba dello strapotere televisivo, o vecchia debolezza del narcisismo che va alla conquista dei mezzi di massa?

Fervore sperimentale su quadrato bianco di quel mondo, fantasiosamente strutturale, che a distanza lega, molto più di quanto forse al tempo non si ritenesse, i Paolini e i Casorati (proprio mentre a Torino l’Einaudi stava traducendo i Barthes, i Propp, i LeviStrauss ed il Nouveau Roman), ma vogliamo dire anche i Pagano e i Mollino, Persico e Tapié, apparentemente così lontani? C’è in mostra una tela di Scanavino, Nascosto 2, che bene collega e illustra quella doppiezza: una gabbia molto rigida, molto fredda, modern style, e dentro un riquadro il tipico ammasso di scuri fili raggomitolati, che forse rappresentano la vita, che sfugge a quella smania di catalogazione diaccia. E non dimentichiamo che tra Casorati e Paolini si infilza in mostra un magnifico nastro dentato di Carol Rama, che Sanguineti avrebbe ribattezzato Bricolage. Due anime, sì,

probabilmente, ma che in Torino si amalgamavano, oltre il solito match, uggioso ma anche vero, inevitabile, tra Casorati l’algido geometrico-caldo e Spazzapan, il tumultuoso espressionista-freddo. Ma c’era ben di più, in quella fervida e meravigliosa Torino, che non si potrebbe rimpiangere maggiormente, in questa neo-MiTorino vetero-assessoriale e disorientata, che ferisce anima e occhi (proviamo a paragonare Italia ’61 a quello che ci attende ora di anniversario e di Expo!). La mostra la recupera e ricostruisce, quella Torino Sperimentale, con bellissime opere parlanti, ma con ancor più con loquaci documenti, a stento trattenuti, come ranocchi salterini, nelle austere e promettenti strutture a caverna delle cassettiere. Stipate di curiosità e di sorprese, perché Torino non era soltanto Casorati & Arte Pove-

Torino sperimentale 1959-1969, Torino, Sala Bolaffi, fino al 9 maggio

Templi, archi, strade... l’eterno marchio di Roma

na formidabile spregiudicatezza intellettuale e la piena fiducia nell’individuo hanno impresso al mondo romano lo straordinario slancio creativo che si è tradotto in un’organizzazione sociale e in una cultura architettonica rimaste per secoli insuperate. Il genuino cosmopolitismo della civiltà romana consentiva anche a cittadini non romani di nascita di diventare imperatori oltre che di assumere ogni altra carica politica e amministrativa: perfino i liberti, cioè gli schiavi affrancati, potevano assumere cariche pubbliche. Da tale atteggiamento liberale ed ecumenico, ma governato da leggi ferree, scaturì un’eccezionale rete di scambi di culture, di conoscenze, di uomini, di opere e di merci che informò

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di Marzia Marandola tutto il Mediterraneo e gran parte dell’Europa continentale e insulare. L’architettura romana seppe fondere creativamente la civiltà costruttiva etrusca, che contemplava l’uso dell’arco, con quella superbamente trilitica del mondo greco. Ibridando Oriente e Occidente l’architettura divenne lo strumento sociale e politico per eccellenza, capace di infondere comune appartenenza a popoli lontani, che si riconobbero nella matrice civile di Roma. Ovunque, a Roma come nelle più remote provincie dell’Impero, sorsero grandi complessi termali, solenni basiliche colonnate, mercati coperti, portici e criptoportici, templi, stadi, cinte urbiche, fogne e acquedotti, che legarono in un connettivo comune e riconoscibile i popoli e i territori del vasto Impero. La molteplicità delle genti e delle culture ha dato origine

a forme architettoniche e spaziali, a tipologie edilizie nuove e originali, tanto incisive che ancora oggi le loro rovine sono simboli riconoscibili del mondo romano. L’impianto viario ortogonale generato dall’intersezione del cardo e del decumano, l’enfatizzazione degli ingressi alla città con archi trionfali marmorei, le arcate degli acquedotti che solcano le campagne, le possenti volte delle terme, le cupole in calcestruzzo, i teatri e gli anfiteatri che orlano i Mediterraneo, parlano la lingua di Roma e del suo dominio. Questi edifici, suddivisi in capitoli tipologicamente individuati, intessono l’avvincente itinerario tracciato da Paolo Morachiello e Vincenzo Fontana attraverso l’architettura del mondo romano nel manuale edito da Laterza (L’architettura del mondo romano, 450 pagine, 45,00 euro). Attraverso capitoli tematici il volume guida, con piana consapevolezza, alla scoperta degli usi e delle funzioni, delle tecniche costruttive e delle trasformazioni delle architetture che Roma ha disseminato lungo le strade del suo vasto impero: dai sacri complessi santuariali di Preneste, di Gabii o di Tivoli, ai templi e ai teatri disseminati in Grecia, nelle colonie d’Oriente e in Africa, alle sontuose domus, alle insulae destinate al popolo. Un linguaggio fluente e famigliare caratterizza quest’opera antiaccademica, che privilegia la curiosità degli appassionati e la divulgazione tra gli studenti, senza tralasciare solidi apparati bibliografici e di immagini.


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COERENZA, RESPONSABILITÀ, STRAORDINARIA VOGLIA DI VIVERE, ALLEGRIA CHE SPUNTA DIETRO OGNI CRUCCIO, OGNI DOLORE. È QUANTO EMERGE DALLE LETTERE DI VÁCLAV HAVEL SCRITTE ALLA MOGLIE DAL CARCERE DURO E DAI LAVORI FORZATI A CUI UN TRIBUNALE COMUNISTA LO AVEVA CONDANNATO. 144 MISSIVE, INVIATE TRA IL 1979 E IL 1982, ORA RACCOLTE IN VOLUME, CHE INSEGNANO IL SENSO DELLA LIBERTÀ di Gabriella Mecucci ettere a Olga è un libro di cui nessun giovane dovrebbe essere privato. Sarebbe giusto leggerlo a scuola perché insegna la libertà e la responsabilità. E lo fa senza drammatizzazioni, senza spocchia, con pacatezza e persino con un pizzico di gioiosità. Eppure Václav Havel, grande drammaturgo, protagonista della «rivoluzione di velluto» di Praga, ex presidente della Repubblica Ceca, scrive questo corpus di 144 lettere alla moglie, fra il giugno del ’79 e il settembre dell’ ’82, da un carcere durissimo e poi dai lavori forzati, dopo la condanna inflittagli nel 1979 da un tribunale comunista. Oggi quegli scritti escono in Italia grazie a Santi Quaranta Editore (480 pagine, 15,00 euro). Havel è uno degli intellettuali più attivi nel dissenso dell’Est, fondatore del gruppo Charta 77. Quando viene arrestato e condannato ha solo 42 anni. Mentre sconta la pena, racconta alla moglie la sua detenzione, conservando sem-

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il paginone

Cara Olga, grazie alle s

Václav Havel con la moglie Olga al lavoro sull’areo presidenziale. In basso a sinistra, tre momenti della Primavera di Praga. A destra, la copertina del libro che raccoglie le lettere dell’intellettuale ceco alla sua compagna e un numero della rivista “Charta 77”, gruppo fondato da Havel ai tempi della dissidenza

Nel carteggio, il leader della “rivoluzione di velluto” rivela la sua religiosità. Per lui l’uomo somiglia a Cristo. È seguendo la sua lezione che il grande intellettuale del dissenso è riuscito a combattere “l’ordine della morte” senza violenza pre un filo di delizioso humour. Le lettere si dividono in due parti: le prime 122 riguardano la vita, i sentimenti, i bisogni, le letture, ma anche i piccoli e grandi malesseri, le ipocondrie, i dolori di un carcerato coraggioso. Poi, a partire dalla lettera 122 sino alla 144, Havel spiega la propria «filosofia politica ed esistenziale», la propria «religiosità».

Profondo e leggero, il drammaturgo, mentre dialoga con Olga, riesce a dimenticarsi di vivere una condizione terribile e «conversa» come se fosse in un circolo ricreativo. Rimprovera Olga per la sua pigrizia, scherza con lei chiamandola «brontolona». Scene di vita quotidiana quasi serene: «Oggi è stata una bella giornata: ho fatto un bel bagno, una meravigliosa seduta yoga, ho mangiato soltanto cose genuine grazie a te (la botta di vitamine ha fatto sicuramente il suo effetto). Sembra che il periodo di sconforto sia definitivamente terminato». E poi i consigli alla moglie. «Sii tranquilla, serena, allegra, operosa, socievole, carina con tutti, ottimista, prenditi cuanno III - numero 15 - pagina VIII

ra di te, vestiti bene... Pensami con affetto, sii dispiaciuta per me, ma non troppo da essere infelice, non perdere la speranza e continua a volermi bene». Havel non trascura di fornire i dettagli gradevoli della sua grama esistenza: il gusto di un buon sigaro, l’attrazione che ha provato per Olga l’ultima volta che è venuta a trovarlo, i cori con i compagni di prigionia per la festicciola di Capodanno, i regali. E poi la citazione di Dumas: «Una parola gentile in prigione ha un valore maggiore del regalo più prezioso in libertà». Alcune lettere servono per dare istruzioni alla moglie - e proprio per questo vengono sequestrate dalle occhiute guardie carcerarie - altre per lamentarsi del fatto che Olga gli scrive poco perché non ama la scrittura, o per raccontare i libri che ha letto. E poi c’è il soffermarsi sulle malattie: l’influenza, il male alle ossa, le emorroidi con relativo intervento chirurgico. Anche nei momenti più bui della depressione, mai Havel rimpiange di essersi opposto al regime, mai pensa di ritrattare, di piegarsi ai suoi carcerieri. Anzi, si lamenta ricordando che nella sua prima detenzione (quella in corso è la terza, ndr) aveva firmato una domanda di grazia. Dopo giorni e giorni di silenzio «come fulmine a ciel sereno mi fu prospettata - scrive Havel - la possibilità di essere rimesso in libertà». Lo scrittore capisce subito che cosa rischia di accadere, «la

macchia che ciò avrebbe lasciato su di me e su tutto quello in cui mi ero impegnato, mi avrebbe perseguitato per anni». Seguì un breve periodo in cui cercò di evitare di essere rilasciato, ma ormai non c’era più niente da fare. «Tutte le mie peggiori aspettative si realizzarono pienamente, uscii di prigione diffamato e mi trovai faccia a faccia con un mondo che mi sembrò come un unico, enorme, giustificato rimprovero». Allora Havel soffrì molto, ma sempre mantenendo un fondo di equilibrio: coerenza, responsabilità, desiderio di libertà, e insieme una straordinaria voglia di vivere, un’allegria insopprimibile che spunta dietro ogni cruccio, ogni dolore, ogni pentimento. La folgorante bellezza di un romanzo come Lo straniero di Camus lo mette di buon umore: «Lo avrei scritto così, anzi l’ho scritto io». L’apprezzamento inatteso per Kaputt di Malaparte: «È una sorta di anatomia della crisi morale europea». E l’amore per la «misteriosa profondità» di Kafka. Più avanti si trovano anche pagine indimenticabili sul teatro. E poi la gioia di leggere i testi di un certo cardinal Joseph Ratzinger.

Da questa dimensione di racconto della propria vita, del presente, delle letture, manca completamente ogni e qualsiasi riferimento diretto al comunismo, alla politica, al regime. Scriverne era impossibile, il prezzo da pagare sarebbe stato come minimo quello di non poter inviare più nemmeno una lettera. Havel allora sceglie la via di affrontare nel dialogo con la moglie argomenti teorici che qua e là sfiorano anche i tempi della contingenza storico-politico. Ne emergono alcuni punti fermi, molto vicini ai temi cari al filosofo franco-lituano, Emanuel Levinas. Il nostro prigioniero scrive: noi siamo stati staccati in maniera traumatica con la nascita dall’Essere e siamo stati subito scaraventati nell’incertezza del mondo. L’uomo ha nostalgia della casa e del paradiso perduti, egli è stato «gettato» nell’aiuola feroce dell’esistenza e, attraverso questa esperienza tende ardentemente all’integrità dell’Essere, al suo significato, ricercandolo e «costruendolo» con la sua vita: deve far fruttare i suoi talenti opponendosi senza violenza «all’ordine della morte». Per Havel l’uomo è un miracolo dell’Essere nel visibile, così come lo è il mondo. Dentro di noi è stata scritta una legge che esige alta moralità e dignità, ma anche solidarietà, bontà, amore. Da tutto ciò originano la libertà e il senso di responsabilità che non deve essere «predicato ma testimoniato». Queste convinzioni, che lo scrittore illustra alla moglie nelle sue ultime lettere dal carcere, sono in evidente rotta di collisione non solo col


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, vinco sconfitte

vo, niente che non sia stato espresso «da qualcun altro meglio di quanto io sia in grado da fare». Ma sono anche una «vittoria», perché, grazie a esse, «sono riuscito a sentirmi meglio di quando ho iniziato». «È strano - scrive dal carcere duro - ma ora sono persino più felice di quanto lo sia stato negli ultimi tempi. In breve, mi sento bene e ti voglio bene». Un lungo percorso quello di Havel nello scrivere le sue 144 lettere alla moglie. È una sorta di via del dolore che parte dalla condanna (la terza) al carcere, attraversa la solitudine, il dolore, la fatica dei lavori forzati. Passa per i ricordi di un tempo, per il racconto della propria vita, per i rimproveri a Olga che avverte come pigra e distante, per approdare poi a una visione filosofica e religiosa che lo fa «stare bene».

Un lungo cammino spirituale che sarà accompagnato da un lungo cammino nella carriera politica. Un percorso che dalla lotta per la libertà lo porterà in galera, ma da lì, dopo indicibili traversie, lo condurrà al Castello di Praga come presidente della Repubblica. Dopo che, come lui stesso aveva teorizzato - sta scritto anche in queste lettere - aveva vinto la sua lotta contro «l’ordine della morte» senza usare la violenza. Il suo rapporto con Olga non si fermò a quello splendido e toccante carteggio. Della coppia ormai più che cinquantenne racconterà Carlo Ripa di Meana che la incontrerà nel 1989 a Praga. In L’ordine di Mosca, Liberal edizioni, si legge: «È il pomeriggio del 28 maggio del 1989. Per andare da Havel, la Tatra nera del cerimoniale costeggia la Moldava. Abita in una di quelle case del lungo fiume - sono i luoghi della grande stagione della borghesia ceca». L’allora commissario europeo all’Ambiente si reca dall’eroe del dissenso su richiesta di Bettino Craxi, scende dall’auto davanti a un palazzotto di antica bellezza ma piuttosto malridotto. Sale le scale a piedi, «al terzo piano, su una porta c’è un foglietto appiccicato con lo schotch con su scritto Havel». «Apre una donna sulla cinquantina, sciupata, ma con un viso intenso:“Sono Olga, la moglie di Havel”, dice in francese. La guardo: è

L’ex presidente della Repubblica Ceca non trascura di fornire i dettagli gradevoli della sua esistenza di detenuto: la bellezza folgorante dello “Straniero” di Camus, l’apprezzamento per “Kaputt” di Malaparte, la “misteriosa profondità” di Kafka... regime, ma più in generale, con l’ideologia comunista. E infatti Havel, pur tra parecchi dubbi e qualche distinguo, si sente più vicino al «pensiero giudaico cristiano», molto di più che «alla filosofia classica» della quale tuttavia apprezza «alcuni contributi». Le ultime due pagine della lettera 144 sono assolutamente straordinarie. E contengono per la prima volta una critica esplicita al regime e insieme una definizione della propria religiosità: «Il fatto che gli effimeri tentativi di tutti i fanatismi ideologici di organizzare il paradiso in terra alla fine sfocino in un inferno in terra, è reso più che chiaramente dall’evocazione che il regno di Dio non è di questa terra». In realtà - prosegue Havel - «una vita su questo mondo che sia relativamente sopportabile può essere garantita solo da una umanità che sia orientata aldilà di questo mondo, a un’umanità che - in ogni suo hic e con ogni suo nunc - si relazioni con l’infinito, con l’assoluto, con l’eternità». Se non c’è nell’uomo questa tensione, il qui e adesso si trasforma in una dimensione «senza speranza», «in abbandono e disperazione». E infine «si tinge di sangue». La condanna delle teorie materialiste e comuniste non può essere più netta né più dura. E, non a caso, viene scritta nell’ultima lettera a Olga quando sta per uscire dal carcere e la censura non potrà più colpire le sue missive.

Havel avverte - sempre nella lettera 144 che l’uomo somiglia a Cristo proprio perché come lui è di fatto vittorioso grazie alle sue sconfitte. E, alla fine del lungo epistolario è lo stesso scrittore a dichiararsi vincitore grazie alle sue sconfitte. Queste mie riflessioni - spiega a Olga - sono una «sconfitta» perché non ho scoperto nulla di nuo-

bella, magra, con i capelli raccolti dietro la nuca in una crocchia. Alle sue spalle, in piedi, c’è Havel». Si sviluppa una conversazione in cui il grande drammaturgo esprime apprezzamento per quanto Craxi fa a favore del dissenso e poi parla della fine prossima ventura del comunismo. «L’Unione Sovietica e le sue colonie europee non terranno a lungo. La televisione e il Papa mettono in circolo messaggi per loro rovinosi». Ripa di Meana nota che Havel non usa nessuna cautela, eppure ha già passato complessivamente ben cinque anni in carcere. «La moglie Olga si alza, va nella stanza vicina - prosegue - e ritorna con quattro fogli dattiloscritti di carta velina, battuti fitti fitti... Nella penombra dello studio la sua silhouette ha qualcosa di vigilante e insieme di protettivo». Confidente terminale dei suoi sfoghi, momento di confronto per le sue teorie, Olga ha un ruolo straordinariamente importante nella vita di Václav . Sarà lei, pochi mesi dopo, ad accompagnarlo al Castello, quando nel dicembre del 1989 il marito - all’apice della rivoluzione di velluto - diventerà presidente della Cecoslovacchia. Accanto a lui c’era ancora quella figura slanciata e protettiva. Quando Ripa di Meana rivide Havel nel 1990: «Semplice e cordiale come nel primo incontro a casa sua». Il grande dissidente, diventato il leader del suo paese, era rimasto quello di prima: rifletteva ancora sul valore del «potere dei senza potere»; progettava un’Europa che doveva puntare sulla sua cultura e raffinatezza, rinunciando ad ambiziosi sogni strategici. La sua strada fu ancora lunga, Olga lo accompagnerà sino al 1996, quando, a 63 anni, la sua fragile silhouette si piegò su se stessa e lo lasciò per sempre.

Una compagna preziosa lga Havel era nata nel 1933 da una famiglia molto numerosa in un quartiere popolare di Praga. Ebbe un’infanzia non semplice e, dopo aver frequentato le scuole superiori, conseguì il diploma da ragioniere. Lavorò come magazziniere e come commessa. Poi, a soli vent’anni, conobbe Václav Havel. Si sposarono undici anni dopo. Olga lavorò nello stesso teatro dove Václav metteva in scena le sue pièce con ruoli amministrativi. Quando il marito finì in prigione, fu per lui preziosa: collaborò alla creazione e al funzionamento della casa editrice Expedice, che faceva circolare sotto forma di samizdat la voce del dissenso. Per questa attività Havel fu accusato di tradire la Repubblica. Nel 1968, insieme a Václav, lasciò il teatro di Praga. Nel 1990 partecipò alla fondazione del «Comitato di tutela per le persone processate ingiustamente» e due anni dopo ne diventò presidente. Dopo la caduta del comunismo fu per ben due volte insignita da un’importante Fondazione norvegese del premio «Donna dell’anno». Nel 1996, all’età di 63 anni, morì.

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Narrativa

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uesto è un romanzo di investigazione che nulla ha a che vedere con il genere giallo. L’autore, il cileno Roberto Ampuero, è noto e tradotto in tutto il mondo. La sua scrittura è scattante e profonda e lascia il segno laddove tratteggia la psicologia dei personaggi. Non era facile compiere questa operazione con il co-protagonista, il grande Pablo Neruda, premio Nobel, e con la sua vita privata affollata da contraddizioni, slanci, egoismi e autoreferenzialità. Troviamo il poeta cileno nella sua casa di Valparaìso, «il gioiello del Pacifico», negli affannati mesi che precedono l’assalto dei militari golpisti guidati da Augusto Pinochet al Palazzo della Moneda, dove il presidente Salvador Allende, alla fine difeso solo da un pugno di uomini, immola la sua vita considerandola il simbolo della democrazia e del socialismo, certamente un po’ malconcio e sgangherato ma dal volto mai feroce. Invece di raggiungere un aeroporto qualsiasi con le tasche piene di dollari - cosa non frequente tra i «latinos» - sta orgogliosamente nella nave («il Titanic del Pacifico») che affonda, ripetutamente presa a cannonate da una regia politica con non poche interferenze nordamericane. Neruda, che fino a pochi giorni dalla caduta è formale ambasciatore del Cile a Parigi, coltiva l’amicizia con Allende. L’artista, nella trama fitta e a doppio registro del romanzo di Ampuero, ha da tempo fatto propria l’ideologia marxista, alla quale (ma anche a una donna cui si legherà) attribuisce gran parte del valore dei suoi versi, o perlomeno la capacità di guardare senza ermetismi e stramberie intellettualistiche la realtà dei sentimenti e più in genere dell’uomo e della società in cui vive. Ampuero - che ha raggiunto una vasta fama con il romanzo Chi ha ucciso Cristian Kustermann? (Premio de Novela El Mercurio) - parla di Neruda come di un uomo avanti negli anni, malato («sento l’odore della morte»), ma ancora straordinariamente vitale, tuttavia rivolto verso il proprio passato perché avverte come urgenza la necessità di «chiedere perdono alle vittime della mia felicità». Passano in rassegna le sue mogli o compagne, compresa quella che ha partorito una figlia deforme. E lui, incapace di sacrificare l’impegno artistico sull’altare del dovere paterno, l’ha abbandonata nell’Olanda invasa dai nazisti.Tra le femmine ardenti (o utili) c’è an-

che una bella latino-americana, «un uragano di gelosia» dalla quale il buonsenso o il semplice istinto di sopravvivenza gli ha consigliato di distanziarsi una volta per tutte. Ma c’è una domanda che lo arrovella più di ogni altra: è sua la figlia di Beatriz, una donna di origine tedesca che amò di nascosto dal marito di lei e poi, alla rivelazione della gravidanza, lasciò, oppresso dal fantasma della sfortunata creatura avuta anni prima? Seguendo l’istinto, Neruda avvicina un cubano che abita in Cile e gli affida l’incarico di appurare la verità. Tutto deve avvenire con il massimo riserbo. E così Cayetano Brulé, poco più che ventenne, viaggia, anche molto lontano, all’inseguimento della tedesca, moglie di un cubano che distribuiva erbe come cura

Un detective al servizio di Neruda Un romanzo di investigazione incentrato sulla figura (e le contraddizioni) del poeta cileno

Riletture

di Pier Mario Fasanotti

libri

Roberto Ampuero IL CASO NERUDA Garzanti, 332 pagine, 18,60 euro anti-cancro. Medico o che altro? Morto o ancora in vita? Neruda convince Cayetano a diventare detective e gli consiglia di imparare il mestiere leggendo i romanzi di Simenon, quelli dove c’è il commissario Maigret. Brulé s’accorge subito che quello che erroneamente viene da alcuni considerato romanzo di evasione è ben altro: è studio di caratteri, di ambienti, esercizio psicologico. Solo che la piscina dove nuota Maigret è ben diversa dalla vasca sudamericana, lontana secoli e secoli dalla logica sia nordamericana sia europea. A Parigi ci sono punti fermi, a Santiago o a Città del Messico le cose possono essere il contrario di quel che appaiono. Cayetano si reca anche nella Germania dell’Est e oltre «il muro che protegge dal capitalismo» incontra una donna affascinante ma anche ambigua. È un viaggio, il suo, nei meandri della dittatura socialista dove per sopravvivere, anche ai ridicoli capricci di un regime strangolante, o per far carriera, occorre imprimere sulla pelle il marchio indecifrabile del doppio gioco. Lo stesso all’Avana, splendida quanto decadente caricatura di un regime che ormai fa finta di essere felice e far felici gli altri. Ectoplasma rabbioso dell’utopia con il vessillo rosso. Le grandi bandiere, da quelle di Castro a quelle di Che Guevara, si sono tramutate in stracci avvelenanti. Cayetano Brulé ha modo di verificare quanto sia giusto l’avvertimento di don Pablo: «La vita è una sfilata di maschere… è la perversa successione di travestimenti e di addii». Troverà alla fine Beatriz, ma atroce è il dubbio sulla sua vera identità, umana e ideologica. Lei stessa confesserà di essere sempre diversa, di non apparire mai per quello che è. Le zone d’ombra sul suo passato trascorso in Bolivia (dove fu teso l’agguato mortale al Che) rafforzano l’idea della complessità umana, della non limpidezza di certe esistenze.

Le Eolie e la memoria nei racconti di Turi Vasile

ipensando a Turi Vasile a pochi mesi dalla morte e ripercorrendo la sua multiforme attività di commediografo, sceneggiatore, regista e produttore cinematografico, mi piace richiamare la sua meno nota ma non meno significativa attività di narratore, soffermandomi in particolare sui suoi racconti, che ne rappresentano la parte più interessante. Ricordiamo l’inizio di Paura del vento, il racconto che non a caso intitola la sua raccolta forse più celebre: «All’età di sei anni mi capitò di abitare, insieme con la mia famiglia, un semaforo solitario posto sulla cima di Capo d’Orlando, in faccia alle Eolie». Dunque ecco le isole Eolie, metafora che ritorna non a caso costantemente nella sua opera. Quella raccolta significativamente si conclude con un racconto intitolato Il corpo: «Così ho preso a considerare il corpo come il tempio della memoria, che consente a ciascuno di noi di essere presente a se stesso nel passato e persino nel futuro». Sono parole che sembrano quasi una risposta a quella «paura del vento» («Forse per questo m’è rimasta la paura del vento, come di una forza che può, volendo, spalancare il mondo») e in proposito non si può fare a meno di pensare a un passaggio particolarmente significativo del romanzo Giòn: «“In Sicilia, anche gli uomini di fede sono sofi-

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di Sabino Caronia sti, figli di Gorgia”. […] Ripensai alle parole del vescovo. Persino mia moglie considerava noi siciliani allievi di Gorgia, di cui si sa poco e per sentito dire. I pensieri, del resto, rimangono anche senza gli scritti. Tra le proposizioni frammentarie, la sua conclusione “solo l’inesistente esiste” può darsi che sia una bella frase, ma è la più terribile professione di fede che abbia mai sentito». Ma torniamo a parlare delle isole Eolie, metafora del prima e dell’oltre. Se una verticale, come direbbe Giacomo Debenedetti, ci è consentito fare dell’opera di Vasile, essa non può porsi che all’altezza di Un villano a Cinecittà. E lì il riferimento alle isole Eolie ritorna significativamente dall’inizio alla fine. Si pensi al primo racconto, Stella che corre, che così si conclude: «Immaginai che, memore della meraviglia dei Ciclopi, andasse a portare la sua musica in quelle isole vaganti dove io non ero riuscito ad approdare neppure in sogno». E si pensi soprattutto all’ultimo racconto, Bentornato alle sabbie nere, posto strategicamente a conclusione del volume, in cui Turi Vasile narra come solo di recente abbia per la prima volta messo piede in quelle isole che da bambino guardava nel loro vagare irrequieto sul filo dell’orizzonte e per

Le isole a lungo osservate sul filo dell’orizzonte, metafora ricorrente nella sua opera

far intendere il senso di quel viaggio nel prima e nell’oltre della sua terrena vita così conclude: «Mi diressi lentamente verso l’albergo e all’improvviso sentii che la terra bagnata di pioggia esalava l’odore del finocchio selvatico, dell’origano, della nepitella, della mentuccia e del cappero - l’odore della mia infanzia - che aveva fatto il giro del mondo con me. Ero tornato dove non ero stato mai». Gli odori della memoria è intitolato appunto un racconto proverbiale che ora è stato raccolto nel volume L’ultima sigaretta e altri racconti (Sellerio Editore, 152 pagine, 9,30 euro): «A volte basta un odore a scatenare l’onda dei ricordi […] Così nel codice della memoria Messina suscita in me un odore che non so definire ma che è rimasto, nella esperienza, unico e inimitabile. È l’odore di una fermentazione che esalava dai barili allineati sul molo in attesa di essere stivati. Se ispiro dilatando le narici, l’aria se ne impregna ancora e mi procura un leggero stordimento. E subito il porto si rianima: scendono dai traghetti gli studenti, gli avvocati, i giudici, gli imputati, i trafficanti, gli impiegati; scendono donne vestite di nero con i panieri sulla testa incercinata che danno al loro incedere la grazia delle dee: vengono a portare verdure e primizie di Calabria e ripartono nascondendo nelle ampie sottane il sale di contrabbando […] E subito mi circondano i compagni di scuola […] Ci sono tutti, anche quelli che sono morti…».


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poesia

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La voce della vita che svanisce di Filippo La Porta orquato Tasso è il poeta della vita che dilegua. In queste ottave di sontuosa coreografia Goffredo di Buglione, che si accinge a riconquistare Gerusalemme, dà ordine al suo esercito di disboscare la foresta allo scopo di procurarsi legname per le macchine militari. I pungenti ferri tagliano e percuotono gli alberi, oltraggiano la selva e al loro avvicinarsi fiere e uccelli lasciano tane e nidi. In questa apocalittica fuga di massa degli animali, spaventati dal suono delle armi e dalle grida dei soldati, si rispecchia il ritrarsi precipitoso della natura di fronte a una oscura minaccia.Tasso canta - malinconicamente - tutto ciò che dilegua (che «langue», verbo ricorrente nell’opera): giovinezza, estate, amori, illusione, la bellezza di un volto femminile («…un balenar di riso/ scopre in breve confin di fragil viso»), la fioritura effimera di una rosa. Pur anticipando in ciò il barocco, il poeta se ne discosta poiché non esorcizza il vuoto con lo sfarzo descrittivo e nomenclatorio, con i lussuosi elenchi di cose. La natura lussureggiante del giardino incantato dove è prigioniero Rinaldo, non dipende dal numero delle piante nominate, come osserva Giovanni Getto, né dagli inventari minuziosi alla Giambattista Marino, ma dall’aspetto delle piante stesse, dalla loro perpetua fecondità. E così l’aggettivo ricercato non è mai ornamento ma precisione del linguaggio poetico, incremento conoscitivo, anche se spesso ha prevalso una lettura unicamente degustativa del Tasso.

T

Sulle differenze tra Orlando furioso e Gerusalemme liberata si sono esercitati con zelo scolastico centinaia di migliaia di studenti. Cominciò forse Galileo, che a Tasso, influentissimo su successivi barocchi, arcadi, e poi su Foscolo, Leopardi, etc., volle formulare critiche ruvide e ingenerose, ma non prive di acume, definendo il suo stile «languido, forzato e male espressivo». Certo è che ritornando alla Gerusalemme mi commuove proprio quello che a diciott’anni mi faceva preferire il gioco sublime e arioso di Ariosto: e cioè l’elemento di sforzo e concettosità, di lambiccato e perfino di pedanteria (intarsiatore più che pittore a olio…), e ancora l’inquietudine e insicurezza (il personaggio di TancrediTasso, sempre un po’dissociato), la disarmonia incapace di risolversi interamente nel canto (pure plasmato su modello petrarchesco), e aggiungo la maggiore enigmaticità rispetto al Furioso. A riprova metrica di ciò, un lieve squilibrio nell’ottava, tra settimo e ottavo verso, a rima baciata ma quasi sempre con enjambement. A Tasso ha dedicato innumerevoli pagine critiche Franco Fortini, mostrando a volte una identificazione quasi imbaraz-

il club di calliope

zante (Pampaloni lo definì epigrammaticamente un Tasso che riuscì a non impazzire!). A lui lo unisce la macerazione interiore, il primato dell’etica sulla mistica, certa diffidenza - piena di sensi di colpa - verso la felicità, intesa come peccato (e cioè dissipazione e amoralità, abbandono smemorato alla varietà di forme e colori del mondo), poi l’adesione a una chiesa (in un caso cattolica controriformata nell’altro marxista e super-ortodossa anche quando apparentemente eretica), e infine lo sforzo continuo, e sempre fallimentare, di dare un ordine razionale al disordine incoercibile dell’esistenza.

L’un l’altro essorta che le piante atterri, e faccia al bosco inusitati oltraggi. Caggion recise da i pungenti ferri le sacre palme e i frassini selvaggi, i funebri cipressi e i pini e i cerri, l’elci frondose e gli alti abeti e i faggi, gli olmi mariti, a cui talor s’appoggia la vite, e con piè torto al ciel se ‘n poggia. Altri i tassi, e le quercie altri percote, che mille volte rinovàr le chiome, e mille volte ad ogni incontro immote l’ire de’ venti han rintuzzate e dome; ed altri impone a le stridenti rote d’orni e di cedri l’odorate some. Lascian al suon de l’arme, al vario grido, e le fère e gli augei la tana e ’l nido.

Eppure Fortini una volta rilevò che assai più vicino a Tasso doveva essere considerato Pasolini, anche lui privo di ogni dialettica, e quasi concidente con le proprie sanguinanti contraddizioni: diviso tra attrazione per il decoro della corte (o della società letteraria) e senso di soffocamento nel sentirsene parte, tra confronto con la Storia (la rievocazione della prima crociata mentre l’Europa combatteva i turchi) e dolente intimismo, tra scenografia (dalla ed elegia, tra lo splatter realistico degli scontri cruenti (ricomposto in geometrie luminose alla Paolo Uccello e tratteggiato con vera competenza bellica) e una musicalità stregante, tra femminilità trepida (De Sanctis) e sonante epica della battaglia. Fortini ha anche parlato di un «ritorno del represso» nella Gerusalemme, dimostrato dall’evidente simpatia dell’autore per i nemici, per la loro civiltà fondata sul piacere e sulla multiformità. Non solo il pathos verso l’«incantevole caos dei sensi»: Vafrino, scudiero di Rinaldo, si spinge nel canto XIX fino a spiare il campo nemico e così lo descrive, con eccitazione visionaria: «Vide tende infinite, e ventilanti/ stendardi in cima azzurri e persi e gialli;/ e tante udì lingue discordi, e tanti/ timoani e corni e barbari metalli,/ e voci di cameli e d’elefanti,/(…)». L’intera narrazione, che si può leggere come anticipazione del genere del romanzo (mentre l’Orlando è opera aperta e circolare), si svolge in paesaggi spettrali e grandiosi, infernali e scintillanti: oceani, deserti, cieli stellati, tempeste e siccità («ogni cosa del ciel soggetta a l’ira,/ e le sterili nubi in aria sparse», XIII, ottava 55). In tali paesaggi l’individuo, sia egli cristiano o pagano, è sempre solo. E questa solitudine si

Torquato Tasso Gerusalemme liberata, Canto III, ottave 75,76)

riconnette al tema cui accennavo all’inizio: l’ineluttabile svanire e fluttuare di tutte le cose. Si tratta infatti della solitudine davanti alla morte, momento estremo di verità per ciascuno. Così nella battaglia finale di Gerusalemme (canto XX) il feroce Solimano, l’«uom smisurato», quando viene trafitto da Rinaldo è preso da stupore, «di spavento e d’orror misto», lui che probabilmente si credeva invulnerabile: «Nel cor si turba e impallidisce in faccia/ e, chiaramente il suo morir previsto,/ non si risolve, e non sa quel che faccia;/ cosa insolita a lui: ma che non regge/ de gli affari qua giù l’etterna legge?» (ottava 104).

In quel momento l’«invitto rege» scopre l’assoluto arbitrio della volontà divina, della Fortuna che «varia e instabil erra». Qualche momento prima era salito sulla torre più alta e aveva contemplato «stupefatto» il campo di battaglia: «mirò, quasi in teatro od in agone,/ l’aspra tragedia de lo stato umano,/ i suoi assalti, e il fero orror di morte,/ e i gran giochi del caso e de la sorte». Non è qui solo il senso vivissimo del teatro: davanti a Solimano si distende lo spettacolo insensato e pieno di strepito della vita umana. Ma, in ciò superiore all’incipiente secolo barocco,Tasso sa che qualsiasi recita dovrà comunque confrontarsi con l’«etterna legge».

TRIESTE, ATLANTIDE PERDUTA in libreria

LA VIBRAZIONE DELLE COSE

di Loretto Rafanelli

E l’uomo disse: sono venuto a dire il dolore della rosa, lo strazio della roccia, la leggera felicità della nuvola e la gravità della tempesta sono venuto a dare la mia voce a ciò che è privo di parola, l’espressione del mio volto a chi non ha volto, a trarre l’infinità dal suo silenzio, a dare un’anima al cosmo perché possa infine esprimere la tenerezza e la solitudine di ciascuna dei suoi miliardi di stelle destinate a scomparire.

tlantidi, il lavoro poetico di Marina Moretti, intervallato da sette rarefatti dipinti del pittore ucraino Sergej Glinkov, esce nelle pregiate edizioni Ellerani, un editore che si misura con coraggio con la poesia contemporanea. La Moretti è una poetessa triestina e di quella terra vive l’agonia e la vivacità, la mutazione e la celebre storia di città-confine. Trieste è per la Moretti l’Atlantide perduta, «stesa tra mare e aria», un tempo grande e sfarzosa, quando «le nostre navi bruciavano il cielo/ il blu dell’aria colorava i vetri/ dei nostri palazzi». Ella da lì getta il suo sguardo. Come faceva Saba, che disse «il mondo l’ho guardato da qui». Lei si affaccia «da una finestra liberty, dal balcone coi decori sfatti/ dal salso e dalla bora…», e vede non solo il breve varco d’acqua, ma il Mediterraneo che raggiunge la città giuliana «raccolto e lanciato/ come un divino ginnasta» ed è «il nostro destino più antico». La Moretti, anche archeologa, scava nella memoria e nei luoghi, e ci restituisce il raro senso delle cose.

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Donatella Bisutti


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di Pier Mario Fasanotti e uno si mette in testa di essere sempre molto severo quando è davanti alla tv, allora si perdono occasioni di umorismo. Chiariamo: ci sono trasmissioni italiane che, per dirla alla siciliana, sono «presuntuose», ossia credono in primo luogo di scovare e descrivere la verità e quindi d’essere tappe miliari della storia televisiva italiana. In realtà, sono sciocchezze, vasche dove si annega, o ci si intossica, per sovrabbondanza di luoghi comuni. Poi ci sono alcuni prodotti americani che non si schiodano dalla loro matrice di «serie B». Uno di questi è Il clown, ogni lunedì su Axn. La piccola idea di partenza ha una sua quasi-originalità, pure intrisa di tradizione fumettistica: Max Zander fu creduto morto e invece se la cavò, decidendo poi di lottare contro il crimine nascondendo il volto dietro una maschera clownesca. Chi ricorda bene le avventure di Batman può pretendere un guizzo di inventiva in più. Ma non c’è. Il giustiziere ha l’espressione dell’americano di provincia, scolpito con l’accetta anche nell’anima. In primo piano i muscoli, che sono sempre l’asse portante di quel concetto di giustizia non perseguito nelle aule di tribunale. Un cazzotto risolve sempre. E poi i cattivi, muscolosi anch’essi a cominciare dal capo che pare passi il suo tempo a sollevare pesi, in stanze ipermoderne cariche di sudore, rabbia e machismo verbale. Gli «scagnozzi», va da sé, sono i birilli contro i quali il «capo» lancia palle di grossolano sarcasmo. Non riescono mai a portare a termine una missione, quindi sprofonderanno nell’umiliazione. Nel gruppetto cattivo non può mancare il maniaco. In questo caso c’è uno stupido che crede di risolvere tutto con le bombe a mano, sua vera passione. In uno degli episodi avviene che qualcuno abbia sabotato l’elicottero con due persone a bordo: l’istruttore e un uomo politico che ha alle spalle una lunga battaglia contro la vendita illegale di armi. Ci pensa Max, sia a confortare l’amico pilota (in ospedale, col rischio di perdere l’uso delle gambe), sia ad acciuffare il vero colpevole, che è poi quello che pensa e trama con l’asciugamano sul collo e le dita strette attorno ai pesi. Il telespettatore ha la

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Teatro

Televisione

MobyDICK

spettacoli DVD

Il clown e il ritmo

delle vecchie comiche

L’APOCALISSE TRA SCIENZA E LEGGENDA l tema, quanto mai affascinante ma non privo di brividi escatologici, è emerso con prepotenza sui media nei mesi scorsi. E Roland Emmerich ha tratto dalla vicenda un film discusso. 2012 - Scienza o superstizione riporta al centro del proscenio il famigerato 21 dicembre che, tra poco più di due anni, segnerà la fine del mondo secondo quanto tramandato dai calcoli maya. Imperniato sulla teoria apocalittica, e su quella della rinascita, il documentario edito da Corbaccio analizza la preoccupante escalation di cataclismi verificatasi negli ultimi anni, tratteggiando con forza le sotterranee inquietudini del Terzo millennio.

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CONCERTI

WHITNEY STA BENE, IN ITALIA A MAGGIO fan italiani possono tirare un sospiro di sollievo: Whitney Houston canterà il 3 maggio al Forum di Milano e il 4 al Palalottomatica di Roma. I problemi respiratori che avevano costretto la star del pop al ricovero in un ospedale parigino, sembravano aver allontanato definitivamente la possibilità di vederla in scena nel corso della tournée annunciata nel Vecchio Continente. Ma la vecchia leonessa sembra aver superato di slancio la crisi.«Mi sento bene, molto allegra e in perfetta forma», ha assicurato alla rivista People. Dopo la due giorni italiana Whitney toccherà Svizzera, Germania, Austria e Belgio.

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sua buona dose di rassicurazione. Non mancano le frasi da happy end imminente: «Lascia fare a me»; «Sono cose che succedono»; «Qual è la prossima mossa?». Max il clown vendicatore è affiancato da una trentenne bionda che gli chiede invano d’essere più romantico. Non è una Mata Hari, non è asfissiante nelle sue domande di tenerezza, anzi si dimostra sorridente, una vera camerata anche quando prende delle botte in testa o sfiora un’esplosione (ovviamente della bomba a mano). Le avventure di Max and company procedono al ritmo delle vecchie comiche: se uno se ne accorge, allora ride. Se invece vogliamo sempre trovare il pelo nell’uovo, si deve cambiare canale. Max è un altro Chuck

Norris. Se il cattivone sbraita ai suoi «riempiteli di piombo!», lui non perde la calma, e nemmeno la sua assistente Claudia. Il pilota che aveva come destino la carrozzella comincia miracolosamente a muovere i piedi. In un batter d’occhio è in piedi. Max e Claudia, felici e acciaccati, si ritrovano in una situazione che potrebbe essere galeotta: una cena a casa. Il Clown sa cucinare alla francese, lei è sornionamente stupita e vorrebbe mostrargli tutta la sua gratitudine. Avvicina le labbra. Niente da fare, un imprevisto fa rinviare quel che non c’è nel copione, l’amore. Giusto così, mai distrarre o rammollire un giustiziere dell’America prova a cavarsela senza polizia, magistratura e altre sottigliezze istituzionali.

di Francesco Lo Dico

Nel buio della periferia del mondo di Enrica Rosso

utto avviene in una notte ruvida e selvaggia. La notte poco prima della foresta del francese Bernard-Marie Koltès nella traduzione di Luca Scarlini. La più buia delle notti possibili. Una notte senza vergogna e senza pietà. Una notte indecente, imbrattata da un fluire incontenibile di rabbia e tristezza che sotto una pioggia invadente e volgare, da diluvio universale, più che lavare via, annega il senso di disperata sopraffazione in cui versa il protagonista. Un uomo «solo come non si riesce a dire» alla ricerca di un altro essere umano qualsiasi - «ho cercato qualcuno che fosse come un angelo in questo macello e non sei tu» - che gli permetta di ricostituire la sua identità in una continua rincorsa di possibili interlocutori - «quando ti ho visto giravi l’angolo della strada, piove e questo non ti mette a tuo agio». Un diseredato «io privo di tutto da sempre costretto alla privazione», che ha smarri-

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to la diritta via - «bisognerebbe essere altrove» - e invano cerca una zattera per riprendere fiato - «cerco una stanza per una parte della notte perché ho smarrito la mia». Un torrente di parole a contrastare un silenzio feroce, per farsi compagnia, nella speranza che arrivi presto l’alba e con la luce il sole a dissolvere i fantasmi e riscaldare il cuore. A vent’anni da una morte precoce Face à Face, la rassegna che esporta parole di Francia per Scene d’Italia, non poteva non rendere omaggio a uno dei suoi figli più sfortunati e apprezzati con la proposta, tra le altre, del testo che lo ha reso universalmente noto. Bernard-Marie Koltès (che ne fu il primo interprete al Festival Off di Avignone nel 1977), autore culto della seconda metà del Novecento, piega qui la scrittura a una narrazione in prima persona percorsa dall’urgenza dell’emozione, facendo saettare pensieri in una stratificazione di immagini congestionate e incalzanti per restituire l’esistenza disossata di un derelitto col fuoco

in corpo. Nell’installazione che funge da scenografia, realizzata da Carmine Guarino su opera dell’artista Loredana Longo, si dibatte lo Straniero. Arginata da una sconnessa griglia di ferro, la matericità della scena impastata di fango e calce il cui biancore polveroso assorbe la poca luce, spiovente e aggressiva, vive un ulteriore senso di precarietà dato dai lunghi tubi pericolanti sospesi per aria. La regia firmata dal colombiano Juan Diego Puerta Lopez, estremamente appagante dal punto di vista visivo, sbilancia però un poco il testo in una direzione estetizzante e distraente rispetto a una fruizione meno ornata e ancor più d’impatto, come non si fidasse fino in fondo della potenza intrinseca del testo e volesse ingentilire il messaggio alleviandolo. Claudio Santamaria porta in scena una fisicità eloquente per questo figlio della periferia del mondo e si dà completamente al personaggio. Accartocciato su se stesso, sviluppa una vita sulla difensiva, una percezione dell’intorno in oriz-

zontale. Autoriduce il suo spazio vitale per ripararsi dai colpi bassi della vita, da un buio opaco, dallo scrosciare di una pioggia proterva, dalle possibili sorprese di una notte cattiva sempre in agguato; salvo stagliarsi sul finale, in preda a una rabbia che reclama giustizia a randellare il mondo. Le musiche destabilizzanti e lucide di Louis Siciliano sono estremamente sintoniche con il disegno generale.

La notte poco prima della foresta, Teatro Elfo Puccini, Milano, fino al 25 aprile, info 02.00660606-02.716791


MobyDICK

Cinema

di Anselma Dell’Olio ai un film è stato più tempista. Quotidiani e telegiornali rovesciano da settimane ogni sorta d’onta e di condanna sulle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, in particolare su Papa Ratzinger; odio accumulato, forse, per le sue posizioni morali poco progressiste in materia di aborto, celibato dei preti e sacerdozio femminile. L’attacco è diretto al magistero stesso della chiesa di Roma, brandendo l’arma dei sacerdoti pedofili. Non è rischioso affermare che Todd Solondz è tra gli autori di cinema più liberi e originali all’opera. Nei suoi film, immagini e dialoghi mettono la nostra capacità di condannare/perdonare sotto pressione estrema; per sondare la nostra larghezza d’animo, offrono persone in preda alle più viete pulsioni umane - nevrosi, peccato, perversione, fate voi - quelle aborrite ancor più dell’assassinio. In Happiness, il suo capolavoro del 1998, e nel nuovo Perdona e dimentica, tratta gli stessi personaggi, vittime e carnefici d’orrori perduranti; cambiano solo gli attori. Pedofili, guardoni maniaci sessuali dediti alle telefonate oscene, e le persone che li subiscono o li amano, ci sono mostrati con spavalda pietas. I comportamenti più odiati sono accostati a quelli più comuni a tutti: le tante, meschine cattiverie e stoccate che si fanno tra sorelle, tra madre e figli, tra figli e padri, tra compagni di scuola, tra amanti, fidanzati, mariti e mogli. L’esilarante, malizioso elfo ebreo Solondz ci costringe a guardare tutte le brutture della sua fantasiosa «famiglia» di reietti dannati, tristi e sconsolati. Ci sfida a guardare con lucidità la loro indiscutibile umanità, inesorabilmente bacata, e di continuare a sentirci superiori. I dialoghi sono di una comicità deadpan irresistibile, quella vera, che tratta le questioni più autentiche e inconfessabili. Non dà risposte Solondz, ma rovista come un furetto saprofago nella «fetida bottega di stracci e ossa del cuore» yeatsiana (The Circus). È la storia della mesta Joy (il nome, prego) e le sue sorelle, la patologicamente ottimista Trish (Alison Janney, la mamma di Juno) e la diva narcisomane Helen (Ally Sheedy), tutti con robusti scheletri in armadi dalle porte spalancate. Prima scena. La delicata, remissiva Joy (Shirley Henderson, meravigliosa) è in un ristorante con il marito Allen che chiede: «Stai bene?». Lei, «Oh, niente di grave, solo un po’ di dejà vu». È il loro anniversario, e lei ha deciso di «perdonare e dimenticare» dopo una separazione. Allen (Michael Kenneth Williams) giura di essere cambiato ed elenca le cose che non fa più: fare il perditempo, scansare il lavoro, insultare i suoi capi sfottendo i loro difetti fisici, sniffare cocaina, fumare crack, fumare crack-cocaina, aiutare bande di balordi a fare rapine a mano armata e a stuprare. Poi inciampa sull’unica cosa che proprio non gli riesce di… ma arriva la cameriera per prendere la comanda. La donna gli chiede di ripetere più volte l’ordine, poi, sicura della voce, gli sputa in faccia e lo manda a fare una cosaccia dove non batte il sole. Joy lo difende: «No, è cambiato! Ha perfino buttato l’elenco telefonico!». È stato recidivo, invece: la moglie lo guarda delusa. Allen frigna «Beh, solo la domenica…». Gli estimatori di Happiness ricorderanno il personaggio che ha lanciato Phillip Seymour Hoffman in Happiness: il molestatore telefonico. Hoffman era sconosciuto allora e sembrava che quel diavolo di Solondz

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A lezione di pietas da Solondz e Moverman avesse trovato un vero maniaco per il ruolo. Perdona e dimentica ha vinto a Venezia il premio per la sceneggiatura; meritava il Leone d’oro. Da vedere subito prima che sparisca. (In dvd si trovano anche Palindromes e Fuga dalla scuola media).

Wes Andersen (I Tenenbaum) ritorna con il film animato The Fantastic Mr. Fox, adattato dal racconto per l’infanzia di Roald Dahl, Furbo, il signor volpe. Dahl, più noto per La fabbrica di cioccolato, è uno scrittore assai dark, anche macabro, antiautoritario, anticonformista e molto affascinante. Andersen ha realizzato l’animazione in stop-motion, laborioso sistema in cui si spostano manichini di frazioni di centimetri alla volta, e completare due o tre secondi di film in un giorno è considerata una buona media. Il production design è splendido, a conferma della nota eleganza visiva del regista, spesso chiamato «visionario». Quelli meno entusiasti si lamentano che spesso lo stile domina sul contenuto, come in Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Darjeeling Express. A volte è vero, ma i suoi film valgono sempre il viaggio. La colonna sonora di Alexandre Desplat è molto curata e raffinatissima, come sempre in Andersen, i dialoghi divertenti, illuminanti, anticonvenzionali, adorabili e molto, molto hip e cool (scafati). È stato detto che non è per tutti, ma meno mael; non sarebbe così bello se lo fosse. Mr. Fox (George Clooney in originale) come Royal Tenebaum, è un marito e padre divertente e furfante, un rubagalline avventuroso e spericolato. Dopo un’incursione andata male, la moglie incinta (Meryl Streep v.o.) lo convince a cambiare vita; si riforma e fa il giornalista. Ma alla mezza età i vecchi istinti tornano a galla, e dopo aver spostato la famiglia da una sicura tana profonda in una casa più acconcia

In “Perdona e dimentica” il regista di “Happiness” fa riflettere con maestria sulle pulsioni peggiori di cui le persone possono essere preda. Raffinato e imperdibile il Mr. Fox di Roald Dahl, realizzato da Wes Andersen (“I Tenenbaum”), e anche “The Messenger” è un buon film sulla verità incontrovertibile della guerra

sotto un albero («È da sfigati vivere sepolti») torna alle vecchie abitudini, sottraendo volatili e altre leccornie a tre fattori incavolati e vendicativi, soci in un grosso agribusiness. Seguono pericoli d’ogni genere e conti da pagare, ma quel che più interessa ad Andersen è il gioco tra parenti stretti: padre simpatico e prepotente, madre dolce e saggia che cerca di farlo ragionare, figlio depresso con carenze affettive e geloso del cugino atletico, brillante, bello e malinconico, un classico eroe anderseniano. È da vedere per la raffinatezza dello script, del segno visivo, della colonna sonora e per la struggente, affettuosa radiografia dei rapporti famigliari.

Oltre le regole - The Messenger è un film contro la guerra o semplicemente realista? Al centro dell’azione è la missione affidata a due soldati, reduci dal fronte in tempi diversi, di «comunicazione del lutto». Hanno lo sconvolgente compito di suonare alla porta d’estranei, per portare

di persona ai loro parenti più prossimi la notizia della morte di militari in guerra. La coppia di notificatori è composta dal sergente Will Montgomery (Ben Foster), ferito in Iraq e rientrato con una medaglia per eroismo, e il capitano Tony Stone (Woody Harrelson, candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista, vinto da Christoph Walz per Bastardi senza gloria) è l’ufficiale esperto che conosce il protocollo e istuisce Will sul comportamento da tenere davanti alle varie reazioni che incontreranno. Ma è impossibile «prepararsi» alla realtà: scoppi d’ira, aggressioni fisiche, disperazione, urla di dolore, e la più inquietante, la semplice, composta espressione di gratitudine, il riconoscimento per l’ingrato incarico. È un buon film che traduce aride statistiche in volti umani - la verità incontrovertibile della guerra. Non sorprende che il regista Oren Moverman sia israeliano; maneggia con finezza una materia che conosce direttamente.


Fantascienza

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noto che la fantascienza non si è sbizzarrita a immaginare solo un futuro tecnologico, ma anche un futuro dal punto di vista sociale e politico. In questo caso si contamina con l’utopia (se il futuro è positivo), oppure con l’antiutopia o distopia (se il futuro è negativo). E se di utopie il Novecento («il secolo delle ideologie») ne ha prodotte di scarsissime, sono invece numerose e importanti le antiutopie. Le dittature del futuro sono ovviamente peggiori di quelle del presente, sperimentate direttamente, perché esse possono godere di uno sviluppo tecnologico che porta all’ennesima potenza i mezzi di controllo neppure immaginati dal comunismo e dal nazismo. Inutile ricordare Zamjatin, Huxley, Orwell, la triade degli autori che hanno condannato la dittatura del socialismo/stalinismo e della scienza. Accanto a loro ve ne sono molti altri che non sempre hanno utilizzato il tono del dramma per denunciare una società oppressiva. C’è anche chi ha preferito il tono ironico, sarcastico e surreale, non meno efficace. Tra questi adesso possiamo aggiungere uno scrittore italiano con un sorprendente romanzo.

MobyDICK

ai confini della realtà

È

Intanto, forse qualcuno non più giovanissimo si ricorderà di un ministro democristiano degli anni Sessanta che voleva tassare l’ombra, cioè lo spazio ombreggiato dalle tende di bar, ristoranti e negozi. Alla fantasia dei tassatori non c’è limite. E qualcun altro forse ricorderà un’avventura disegnata dal grande Carl Barks in cui Paperino si proclama Imperatore del Mondo con l’intenzione di applicare al collo di ciascun suddito lo spirotassometro: a ogni respiro, tot da pagare. Ebbene, l’invenzione di Paolo Pasi, giornalista della Rai di Milano, non è da meno per fantasia e assurdità: non i respiri si tassano, bensì i sogni. Incontrollabili e fondamentali entrambi per vivere. Il suo romanzo, dal bel titolo ma dalla orribile copertina, dice tutto: Memorie di un sognatore abusivo (Edizioni Spartaco, 214 pagine, 14,00 euro). Un’opera che si aggiunge ormai alle tante che in questi ultimi due o tre anni si sono immaginate un’Italia del futuro da quasi incubo, ma nel suo caso, più unico che raro, fra l’ironico, il grottesco e il tragico. Un referendum, votato da oltre il 60 per cento degli italiani, stabilisce che tutte le tasse vengano abolite e sostituite da quella unica sui sogni. Una cosa in apparenza semplice, ma nella realtà il sogno diventa un’ossessione fiscale: nel 2035 la macchina X-19 collegata con ventose alla testa stabilisce quantità a qualità dei sogni, al risveglio contabilizza il tutto, lo inoltra alla Centrale Onirica che stabilisce l’imponibile da

Il prezzo dei sogni di Gianfranco de Turris pagare a scadenze fisse. Gli italiani sono un popolo di sognatori e ben pochi sono quelli che hanno un sonno che ne è privo. Quindi i conti sono salatissimi. Particolarmente colpito è il protagonista del romanzo che tiene uno psicodiaro: s’indebita talmente che la moglie, pur amandolo, è costretta a divorziare e a risposarsi: ne diventerà l’amante con incontri tanto clandestini quanto esal-

qui scatta la rivolta. La Comunità collassa in pochissimo tempo e viene sostituita dalla Repubblica Onirica, con i vecchi responsabili politici e tecnici convertiti sulla via di Damasco e subito re-immessi nel circuito burocratico-politico.

Finito il romanzo? No, perché Pasi ha la geniale idea di proseguire la storia dimostrando che non è tutto

Un apologo sconsolato e ironico sulla libertà individuale e collettiva, spesso tradita da chi si dice pronto a difenderla contro chi vuole invece sopprimerla. È questa la sottotrama di “Memorie di un sognatore abusivo” di Paolo Pasi, il migliore romanzo futuribile italiano degli ultimi anni tanti che il rapporto è quasi quasi più soddisfacente del tran tran coniugale. Un microchip sottocutaneo segnala inoltre chi non si collega alla macchina. Da qui multe e arresti. Non si scappa. Sicché l’insoddisfazione popolare cresce e nasce un Fronte di Liberazione Onirico che costruisce una macchina proibita che annulla l’effetto della X-19, contabilizzando zero al risveglio. Misteriosamente la macchina arriva a casa dei cittadini (alla fine si scoprirà come): alla fine il Fronte riesce a saturare la Centrale Onirica che trasmette alla popolazione conti iperbolici e impossibili da saldare: da

oro quel che luce nella realtà politica giunta al governo, grazie a un doppio colpo di scena: il primo si può rivelare, il secondo proprio no. Il nuovo corso non è poi tanto nuovo: viene creato un Centro Produzione Sogni, sicché mentre in precedenza si poteva sognare quel che si voleva pagando, adesso è lo Stato che produce «sogni in scatola», estrapolandoli da quelli di forti sognatori come il protagonista, vendendoli «certificati» alla popolazione che così può sognare quel che è nei suoi desideri (avventura, eros ecc.). Insomma, prima tutti i sogni erano ammessi, adesso soltanto quelli ammessi dalla Accademia dei Nobili Onirici che li seleziona: prima tutti i sogni erano veri, adesso tutti sono artificiali (altrui, in sostanza). Un passo avanti ancora, ed ecco che si creano i «sogni personali»: si scannerizza la memoria di un soggetto e si traggono sogni vividi e

precisi di un certo momento del passato che si vuole rivivere. Vanno a ruba: peccato che contengano spot subliminali degli sponsor che hanno finanziato il progetto inducendo il povero sognatore a comprare questo e quello… Insomma, il regime onirico della nuova «democrazia» è peggiore di quello della vecchia «autocrazia»! Al protagonista, alla moglie-amante e al cugino esponente del Fronte a cui sono stati aperti gli occhi, non resta che cercare una «vita vera», «sogni veri»: qui l’ultima rivelazione che lascia l’amaro in bocca e un senso di disillusione sulla libertà in epoca democratica. Da Orwell a Dick. Pasi ha una fantasia effervescente, che non traccia un futuro solo di nome (come altri autori italiani di oggi che non capiscono bene cosa debbano essere fantascienza e antiutopia), ma anche di fatto descrivendo nuovi modi di vivere, nuovi costumi, nuove moralità, nuovi marchingegni che sono il prolungamento di quelli che oggi usiamo quasi a getto continuo. Il suo stile, brillante e diretto, sensibile e non sbracato, tiene viva l’attenzione sino alla fine aiutato anche dai capitoli brevi e pieni di cose da raccontare, intrecciando la vita del «sognatore abusivo» con la complicata realtà italica del 2035. Inoltre, la trama non è un qualcosa di superfluo che serve a descrivere solo i filosofemi dell’autore, ma è ben congegnata, oltre a essere un apologo sconsolato, ancorché ironico, sulla libertà individuale e collettiva, spesso e volentieri presa in giro da chi si dice pronto a difenderla e a promuoverla contro chi sembra invece conculcarla. Sicuramente, queste Memorie sono uno dei migliori romanzi futuribili italiani degli ultimi anni.


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