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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Pier Mario Fasanotti ono due donne francesi che da tempo non si scollano dalla vetta della classifica dei libri più venduti. In Italia, ma non solo. La prima è Irène Némirovsky: francese per lingua, cultura e abitudini, ma nata a Kiev e fuggita nel 1918 (aveva 16 anni) dall’impero russo dei Romanov dopo la vittoria dei bolscevichi. La seconda è Muriel Barbery, nata a Bayeux nel 1969, docente di filosofia, autrice di un libro originale e bellissimo (L’eleganza del riccio, Edizioni e/o) che si è imposto in Italia grazie al vecchio ed efficacissimo passaparola e non per operazioni di marketing che ormai da noi sono spesso il sostituto volgare della critica. I romanzi della Némirovsky, a cominciare dal best seller mondiale Suite francese, sono tutti pubblicati da Adelphi che in questi giorni ha mandato in libreria l’ultima opera della franco-ucraina, intitolato I cani e i lupi (234 pagine, 18,50 euro). Parliamo subito di quest’ultimo, che per ragioni di ambiente e di personaggi rispecchia il percorso biografico della scrittrice. La vicenda s’inizia in una non nominata città ucraina, «culla della famiglia Sinner». Una città divisa e tribolata, soprattutto per gli ebrei che sotto il regno di Nicola II erano soltanto tollerati, spesso fatti bersaglio di odio, disprezzo e persecuzione.
IRÈNE IRENE & MURIEL
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Casi editoriali: Nèmirovsky e Barbery. Vita e opere delle due scrittrici francesi che dominano la classifica dei libri più venduti. La prima morta ad Auschwitz, la seconda docente di filosofia
Parola chiave Effimero di Rino Fisichella
9 771827 881301
80419
ISSN 1827-8817
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Stones, il nocciolo del rock e del blues di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Saba alla ricerca della musica nelle cose di Filippo La Porta
Pietro Zveteremich, ˇ il Signor Zivago di Francesco Cannatà Umorismo vintage e freeway californiane di Anselma Dell’Olio
Veronesi a cent’anni dalla nascita di Marco Vallora
irène &
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Muriel
segue dalla prima C’è una città alta piena di silenzio e di tigli, abitata da alti borghesi, e una bassa, popolata da sfortunati. Gli ebrei ricchi si mimetizzano sulle colline, ignorando (non raramente disprezzando) i correligionari che arrancavano nel Ghetto e nei quartieri dei piccoli affari (i gesheft). La sorte vuole che nella stessa città ci sia un Sinner commerciante quasi povero e un Sinnner ricchissimo, banchiere che fuggirà in Francia. Erano cugini, ma si ignoravano. Irène Némirovsky era figlia, appunto di un banchiere (Leon), uno degli uomini più ricchi della Russia di allora, un bon vivant che trovò tranquillità e gioia di vivere a Parigi. Ada Sinner, figlia del più povero della famiglia, affronta mille peripezie per poi rincontrare il cugino Harry Sinner a Parigi. Di lui si era innamorata fin da piccola, quando lo vide per la prima volta, lei stracciona e fuggiasca e lui capriccioso e viziato.
Come già nel primo romanzo (David Golder) pubblicato nel 1929 dall’editore Grasset, la Némirovsky sfodera una lucidità impressionante, a volte crudele, verso «la maramaglia giudea» cui non risparmia niente, sia pure con toni di lieve compassione. Il banchiere Golder è ritratto come un avvoltoio, un avido, un’anima arida. Gli ebrei dell’Ucraina di I cani e i lupi non sono da meno, sovente critici, ferocemente critici, verso gli esseri della stessa etnia. A proposito di Harry Sinner, la Némirovsky scrive: «Quella tenace determinazione, quel bisogno quasi selvaggio di realizzare i propri desideri, quel cieco disprezzo dell’opinione altrui erano tutte manifestazioni classificabili, nella sua mente, sotto una stessa etichetta: “insolenza giudea”». Degli israeliti l’autrice disegna i tratti senza ricondurli a pregiudizi di razza, semmai indica nella storia di un popolo sbandato e bastonato ciò che s’annida nelle sue vene: il misto di arroganza e umiltà, la consapevolezza di avere un passato più lungo degli altri, l’ossessione per il denaro, il timore di vivere sempre al margine del mondo, il cinismo come arma di difesa e strumento di affermazione. Nella vicenda sentimentale di Harry e Ada alla fine vincerà, per colpa anche di un giovane israelita vendicativo e arraffone, la convenzione social-economica. Ada si ritroverà nell’Europa dell’Est, ancora una volta, vittima di un destino che ha avuto la meglio su scelte e volontà individuali. Irène Némi-
Irène Némirovsky (a sinistra) e Muriel Barbery rovsky è il caso letterario degli inizi anni Duemila, indubbiamente. La sua Suite francese è stato considerato dai francesi l’evento letterario più dopo importante quello del Diario di Anna Frank. Non a caso ha vinto il premio Renaudot, per la prima volta ed eccezionalmente assegnato a un’opera postuma. Sì, perché Suite francese è stato pubblicato molti anni dopo la morte dell’autrice, spedita nel campo di concentramento di Auschwitz malgrado fosse in possesso del certificato di battesimo (del ’39, per complicità compassionevole di un prete russo): l’implacabile burocrazia nazista la raggiunse, e così pure il marito, il banchiere Mikhail Epstein, il quale si rivolse al maresciallo Petain per prendere il posto della moglie. Risultato: morì in una camera a gas due giorni dopo l’arrivo nella fabbrica della morte. Suite francese è stato paragonato da alcuni a Guerra e pace di Tolstoj. È un testo che pone impietosamente - ma giustamente - in risalto l’indifferenza cattiva della Francia sotto l’occupazione tedesca, una certa collusione «sentimentale» tra francesi e nazisti. Il manoscritto ha avuto un percorso tortuoso, a volte miracoloso. Quando Epstein avvisò la figlia tredicenne Denise (l’altra figlia, Elisabeth, aveva solo cinque anni) del pericolo che correva, la indusse a fuggire portando con sé una valigia. In quella valigia c’era il capolavoro (incompiuto) scritto da Irène. Racconta Denise: «L’ho trascinata in vari nascondigli, compreso un pensionato di suore. Mia madre ha scritto su
quel quadernone fino all’ultimo, quando tutti erano rifugiati in campagna, nel Morvan… scriveva tutto il tempo, anche la notte, perché era insonne e asmatica; stava sul divano o in una grande poltrona molto amata, oppure supina nell’erba, raramente l’ho vista al tavolo… ho ricopiato il manoscritto sul computer… ho letto un capolavoro? No, questo l’ho capito solo dopo la decisione di Olivier Rubinstein delle edizioni Denoel, che si è reso conto di avere tra le mani un Guerra e pace dell’Occupazione».
Singolare anche il modo in cui comparve il primo romanzo della Némirovsky, David Golder. Era scritto in un francese straordinario, che suggeriva una notevole maturità dell’autrice. L’editore Grasset ne era entusiasta, però non riusciva a trovare Irène. Lei non rispondeva alle lettere. Grasset arrivò anche a mettere inserzioni sui giornali. Un giorno si presentò nel suo studio parigino lei, Irène, una bella ragazza di 26 anni. Era incinta e disse che proprio per quel suo stato non era riuscita a rispondere. Donna affascinante, brillante in società, frequentatrice di feste danzanti, studiosa di Cechov (del quale scrisse poi una biografia), parlava, oltre al francese, il russo, il polacco, l’inglese, il basco, il finlandese e un po’ di yddiish. David Golder ebbe una vasta affermazione. Ne fu tratto pure un film. Irène diventò la stella del cielo letterario di Francia. Fino al 13 luglio 1942, quando i nazisti, tra la bieca indifferenza dei francesi, la buttarono sul treno diretto ad Auschwitz.
E veniamo ora al secondo successo francese. Muriel Barbery con L’eleganza del riccio (319 pagine, 18,00 euro) è al suo secondo romanzo (il primo, Una golosità, è stato pubblicato da Garzanti) e si è imposta per la felice commistione di humour e filosofia. Protagonista è una portinaia di mezza età, Renée, vedova, autodidatta ed estremamente colta e astutamente intenzionata a nascondere la sua condizione di intellettuale anonima. Parallelamente ci sono i quaderni autobiografici di Paloma, una ragazzina che abita nello stesso palazzo, che sbeffeggia la sua famiglia, convenzionale e talvolta ridicola. Dice Renée: «Quando sono angosciata, mi ritiro nel mio rifugio. Non c’è nessun bisogno di viaggiare, mi basta raggiungere le sfere della mia memoria letteraria e il gioco è fatto. Quale distrazione più nobile, quale compagnia più amena, quale trance più deliziosa di quella letteraria?». E Palma: «A scuola cerco di ridurre le mie prestazioni, ma anche facendo così sono sempre la prima della classe». La dodicenne pare un po’saccente, ma è sempre molto arguta. Anche quando va dallo psicoanalista per insistenza della vanesia madre e ridicolizza l’esperto in anime descrivendo nel suo diario i luoghi comuni di una professione che schematizza tutto dando prova di superficialità. E a proposito di quella materia così discussa, la portinaia la pensa così: «Sapete cos’è l’insaputo? Per gli psicoanalisti è frutto delle insidiose manovre di un inconscio nascosto. Che teoria aleatoria, in verità! L’insaputo è il segno più dirompente della nostra volontà cosciente, la quale, quando la nostra emozione vi si oppone, usa tutte le astuzie per raggiungere i
propri scopi». Renée ha gli strumenti per azzardare considerazioni così acute, tanto è vero che si misura anche con la fenomenologia di Husserl. Il romanzo della Barbery, con ampie dissertazioni sulla vita e sul pensiero, non è mai noioso. C’è una trama che attraversa le vite parallele, quella della portinaia e quella della ragazzina, una trama che si avvia al punto di congiunzione con la comparsa di un nuovo inquilino, un giapponese che scopre il segreto culturale di Renée e stabilisce un patto d’intesa con Palma. La portinaia di Rue de Grenelle (zona Torre Eiffel) compatisce Palma perché sa che sua madre Solange «è socialista ma non crede all’uomo», è una caricatura di donna che vorrebbe primeggiare socialmente e intellettualmente. Di sé dice: «Vi rammento che per i condomini io sono una portinaia ottusa che se ne sta ai margini sfocati della loro visione eterea». E accetterà di ospitare nel suo bugigattolo con il sapore di minestra la ragazzina affinché «si riposi un po’ dalla vita» e dalla famiglia: «Dobbiamo concedere agli altri quello che permettiamo a noi stessi». Il libro continua a svettare in classifica. L’editore di e/o, Sandro Ferri, non sperava in un un successo di tale portata quando acquistò i diritti del testo alla Fiera di Francoforte nel 2006. E ha detto: «Penso che una delle chiavi sia proprio questa: le protagoniste sono due perdenti nella gerarchia sociale del palazzo, ma nella loro vita interiore trionfano».
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e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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EFFIMERO Vive di facile consenso e si nutre di narcismo. Rifugge l’impegno e ricerca i riflettori, predilige l’individualismo opprimente e non nutre nessun senso di responsabilità per l’altro. Ma soprattutto disprezza la Verità…
Sfida alla speranza di Rino Fisichella come effimero. Un pebattiti televisivi e programSarà possibile sopravvivere a questa epoca del vuoto dominata mi strappalacrime inondariodo come il nostro dal “carpe diem”, credendo ancora in un futuro verso caratterizzato da prono ormai ogni spazio della fondi e rapidi cambiagiornata; gli stessi ideatori cui indirizzare i nostri sforzi? Ciò che impressiona è il silenzio menti, tali da segnare non sembrano provare un narcistridente da parte di chi ha la responsabilità poco sconcerto in chi è solisistico compiacimento per to analizzare lo sviluppo di indirizzare le giovani generazioni verso un progetto comune quanto stanno realizzando delle culture e dei comportasenza preoccuparsi che in menti, merita una breve conquesto modo sollecitano siderazione. È sufficiente guardarsi intorno per veforme di emulazione in molti che sono sempre più rificare come alcuni atteggiamenti esprimono una deboli e sprovvisti di genuina libertà e responsabilità per i propri atti. La ricerca pruriginosa dello generale alterazione dei costumi. Non è senza amascandalo o dell’effetto più subdolo sembrano direzza che si constata lo scadimento della serietà in ventati lo sport preferito di molti che dovrebbero favore dell’esibizionismo sfrenato e del primato avere maggior professionalità nel fornire le notizie concesso al facile effimero sulla fatica del paziente senza lasciarsi condurre dal gusto populista del lavoro quotidiano. Le notizie che in alcuni momenmomento. Il culto della celebrità ha messo radici ti particolari inondano le nostre giornate mostrano che sarà difficile estirpare e opinioni modestissipersonaggi che si compiacciono di essere stati in me di vedettes sostituiscono riflessioni di filosofi galera perché la fama acquisita permetterà loro di maturate nel corso degli anni. Gli intellettuali non guadagnare di più; anzi, al colmo del parossismo si si riconoscono più per le opere che scrivono ma ritengono perfino idonei a fondare un partito poliper l’autodesignazione che ognuno fa di sé; in una tico. Come se non bastasse, condannati per omiciparola, si spengono i riflettori sul pensiero per dio vengono assoldati come testimonial pubblicitari e sospettati di crimini atroci diventano per alcuriaccendersi su espressioni di personalismo ostenni giorni star televisive. La rincorsa di una telecatato. La professionalità, d’altronde, richiede la formera non conosce tregua a tal punto da formare fiza dell’autorevolezza acquisita con fatica e non vile chilometriche di adolescenti, accompagnate purve certo della debolezza che si fa trascinare dalla troppo dalle madri, per un provino televisivo che corrente convulsa della maggioranza. lascia esultanti per qualche ora senza considerare, L’effimero vive di facile consenso e si nutre di però, l’infima qualità del programma. narcisismo, mentre rifiuta di confrontarsi con la vePer me cresciuto all’ombra dell’espressione rità. Sa che in questo confronto perirebbe e fugge «l’uomo vale di più per ciò che “è”e non per ciò che da ogni tentativo di impegno che si prolunghi nel “ha”», fa un certo effetto vedere che per molti «aptempo. L’effimero odia il tempo come il diavolo l’acparire» vale più di «essere». In un contesto di esiqua santa. Sa perfettamente che dove c’è il sudore bizionismo di basso livello, dove l’edonismo mordella fatica lì si pone fine alla sua esistenza. Per boso riemerge ogni istante, non può meravigliare questo vive di facili entusiasmi e rifugge l’impegno che atti di bullismo siano all’ordine del giorno neldella riflessione. Questa richiede tempo, silenzio e le scuole. Prevaricazione sessuale sui più deboli e fatica, mentre l’effimero preferisce il chiasso dei dericerca del piacere per se stesso portano non solo cibel e l’eccitazione di un po’ di polvere o di una faa filmare le scene più idiote che vengono compiucile pasticca… Per alcuni versi, sembra si debba te, ma a immetterle nel circuito di internet così da condividere l’analisi di Lipovetsky che definisce dare visibilità maggiore alle proprie imprese barquesto momento storico come l’ére du vide. Epoca del vuoto, epoca in cui il vuoto sembra regnare inbariche. Il lassismo con cui si lasciano andare alla disturbato in un individualismo opprimente e asfisderiva intere generazioni che trovano in luridi luosiante, perché non lascia trapelare nessun moto di ghi periferici il loro spazio vitale per un rave party non si arresta neppure dinanzi alla morte di centiresponsabilità per l’altro. In una parola: effimero. naia di giovani che perdono inutilmente la vita al Come dice la stessa semantica, dura un giorno solo. termine di un breve week end. Certo, ci si potrà accontentare dell’oggi e l’illusione Ciò che meraviglia di più in questo desolante padel carpe diem può accecare ancora. Se si vive solo norama è l’assenza di un progetto comune e concosì, tuttavia, è decisivo chiedersi: ci sarà ancora un diviso da parte di chi ha la responsabilità per la futuro in cui credere e verso cui indirizzare i nostri formazione delle giovani generazioni. Il loro silensforzi e le nostre fatiche? Se si spezza il legame tra zio stride ancora di più se si pensa al grande clapresente e passato, mantenuto vivo da un profondo more fatto dai mezzi di comunicazione per i semsenso della storia e della tradizione, quale futuro potrà esistere che non sia caduco e privo di senso? pre più innumerevoli casi di cronaca nera che La sfida reale è se un uomo immerso nell’effimero oscurano, purtroppo, la bella testimonianza di è ancora capace di sperare. bontà e serietà offerta da migliaia di coetanei. Di-
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CD
musica
Shine a Light il nocciolo duro del rock e del blues di Stefano Bianchi aranno pure rughe rotolanti, con quei 258 anni divisi in quattro. Ronnie Wood, 61, è il più «giovane»; Charlie Watts, 67, il più vecchio. In mezzo caracollano, sessantacinquenni, i funambolici nervi scoperti di Mick Jagger e la faccia di Keith Richards, che da una vita pare scolpita nel legno. Sarà che ogni volta sembra l’ultima, per le pietre doloranti e poco rotolanti. Ma chiudetele in un teatro e fatele suonare. Rughe o non rughe, sapranno afferrare il pubblico per le palle. Come nel 1977, quando i Rolling Stones non erano ancora quarantenni ma c’era chi li dava già per morti e sepolti, giacché il neonato punk non avrebbe mai potuto sopportare nostalgie canaglia. Eppure loro, nello spazio strizzato di El Mocambo, a Toronto, innescarono cortocircuiti rock e blues che le pareti tremano ancora. Il risultato fu il doppio Love You Live, pietra miliare fra i dischi dal vivo. Ventinove anni dopo, il 29 ottobre e il 1° novembre 2006 (schegge dell’A Bigger Bang Tour), gli Stones mostrano rughe, maschere iconiche e sudore alle diciassette telecamere orchestrate da Martin Scorsese. Questa volta, introdotti da un «Ladies and gen-
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tlemen, The Rolling Stones!» gridato al microfono da Bill Clinton, sfidano l’anagrafe al Beacon Theater di New York, creato nel 1928 dall’impresario Samuel «Roxy» Rothafel come tempio del vaudeville e palazzo del cinema. Il risultato è Shine A Light, film-concerto che macina questa doppia colonna sonora tosta proprio come Love You Live. Il repertorio, sgrezzato dal-
le quisquilie dei dischi più recenti e da quei blitz nel funky che lanciarono in hit parade pezzi come Undercover Of The Night ed Emotional Rescue, punta vigorosamente al «come eravamo»: senza patetismi, al nocciolo del rock e del blues. Accompagnato da musicisti coi controfiocchi (il bassista Darryl Jones e il tastierista Chuck Lea-
vell in prima linea), il quartetto sfodera i riff senza tempo di Jumpin’Jack Flash, Brown Sugar e Start Me Up. Indietreggia agli anni Sessanta con l’ineffabile melodia di As Tears Go By, l’immediatezza di (I Can’t Get No) Satisfaction, l’appeal luciferino di Sympathy For The Devil. Pesca il meglio da uno dei dischi più belli in curriculum (Exile On Main Street del ’72) per ridisegnare le traiettorie rock-blues di All Down The Line e la turgida spontaneità di Tumbling Dice. Si dà al rhythm & blues rivisitando Just My Imagination dei Temptations e poi al country con Faraway Eyes, una sorprendente versione di Some Girls e Loving Cup, che Jagger intona con Jack White dei White Stripes. Ben lieto, quest’ultimo, di partecipare alla festa come gli altri due ospiti: il bluesman Buddy Guy e Christina Aguilera, che insieme a Mick condividono Champagne & Reefer di Muddy Waters e la pimpante Live With Me. Avercene, di rughe così. E una volta conclusa la promozione di Shine A Light, Keith Richards ha garantito che le pietre ricominceranno a rotolare con un nuovo disco. Aggiungendo che lui, il rock, lo farebbe anche seduto su una sedia a rotelle. Rolling Stones, Shine A Light, Polydor, 21,50 euro
in libreria
mondo
riviste
LIBRI E MUSICA: NASCE UN PREMIO
RACCONTARSI NEL SUONO
LA SCOMMESSA DEGLI AFTERHOURS
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ai libri fotografici agli e-book sonori scaricabili su I-Pod, dai libri tradizionali dedicati ai cantautori, ai saggi che spaziano dal pop alla musica contemporanea fino a giungere al jazz-world e alle sperimentazioni d’autore: all’insegna di un fitto programma di eventi, nasce a Sanremo il primo Festival internazionale del libro musicale, che sarà tenuto a battesimo nell’ambito della Festa europea della mu-
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ccertati ormai da tempo gli effetti di trasporto e di spiazzamento di chi ascolta musica jazz, nessuno si era mai interrogato fino a oggi su ciò che accade nel cervello di un jazzista. Se ne è preso la briga un pool di ricercatori della Johns Hoplins University of Baltimora, che ha studiato le dinamiche neuronali che presiedono all’improvvisazione. Coinvolti nello studio sei pianisti, che si sono trovati a eseguire un brano musicale a parti-
and di punta del rock alternativo italiano, gli Afterhours proseguono il loro percorso artistico con I milanesi ammazzano il sabato, anticipato dall’uscita di un disco come Le sessioni ricreative, a fare da ludico apripista. In contemporanea con l’album, il gruppo di Manuel Agnelli intraprenderà un tour nelle principali città italiane, presentato da indiemusic.blogosfere.it come l’ennesima conferma di una filosofia che
A Sanremo, dal 20 al 22 giugno, cinquanta giurati si riuniranno nell’ambito della Festa europea
Studiate le dinamiche neuronali di sei pianisti alle prese con una partitura e con l’improvvisazione
Un nuovo album e un tour per il gruppo rock “indipendente e alternativo” di Manuel Agnelli
sica. Nella tre giorni che avrà luogo dal 20 al 22 giugno, oltre a essere presentate le nuove opere in corso di pubblicazione o da poco presenti sul mercato editoriale, farà da protagonista la musica live in una serie di concerti e sessioni che porterà sul palco numerosi artisti coinvolti nel progetto e nei volumi presentati ai lettori. A una giuria di 50 elementi, formata da scrittori, giornalisti, musicisti e giovani che potranno votare direttamente da casa, il compito di assegnare i diversi premi previsti, fra cui quello per il miglior libro fotografico e quello musicale. Maggiori informazioni su www.elisabettacastiglioni.com.
tura scritta, e poi un assolo affidato alla libertà interpretativa del singolo artista: la risonanza magnetica con la quale si sono monitorate le performance ha messo in luce una ridotta attività cerebrale della corteccia prefrontale durante l’esecuzione delle improvvisazioni. Il jazzista manifesta cioè una preponderante perdita di controllo e un parziale abbandono della sfera percettiva, a favore delle aree mentali che presiedono alla creatività. È stata riscontrata inoltre una crescita dell’attività prefrontale dedicata all’espressione di sé, preposta negli uomini ad attivare le modalità di narrazione. Il jazzista, insomma, si racconta nel suono.
mira a coinvolgere i giovani con prezzi modici e testi musicali sospesi fra lirismo e disagio. Rock crudo, immerso in un cono d’ombra, quello della compagine milanese, che alterna scenari intimisti ad altri più evanescenti. Un sound originale, a tratti spiazzante che è valso agli Afterhours una tournée in Germania e negli Stati Uniti. A distanza di tre anni dal fortunato Ballata per piccole iene, Manuel e soci, che tanto bene hanno fatto alla musica italiana indipendente con il festival itinerante Tora! Tora! hanno vinto la loro scommessa: suonare liberi, senza ricatti mediatici, la musica che amano. Riamati dai giovani.
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BASTA CON L’ALLORO sono solo “canzonette”
Il Novecento di Puccini e di Mascagni di Jacopo Pellegrini
di Bruno Giurato a queste parti quando si sente che Bob Dylan ha vinto il Pulitzer si rabbrividisce. E non perché Dylan non sembri degno. Da queste parti se non proprio con il Blowin’ in the wind (coverizzato in una mesta soirée dal duo Sircana Prodi come pezzo d’addio al governo) si cresceva con All along the watchtower, e perciò si porta rispetto, e poi il Pulitzer ha una sezione musicale. Ma, per essere precisi, è indegno il fatto che la (sempre sgradevole) monumentalizzazione di un cantante/cantautore/musicista passi attraverso l’attribuzione di alloro poetico, genericamente letterario e alla fine di contenuto. Da queste parti già la parola «contenuto» rievoca Zdanov, il formidabile commissario del realismo socialista. Da queste parti si rabbrividisce anche quando si sente dire di De Andrè: «i testi delle sue canzoni si trovano sulle antologie di scuola» (mettere un testo nelle antologie vuol dire condannarlo all’odio perpetuo degli studenti, ma forse l’intento subdolo è proprio questo), e la sola lettura dell’espressione «esegesi del testo» in riferimento a una canzone fa venire una voglia di costringere l’esegeta, in ginocchio sui ceci, all’ascolto di tutta la discografia degli Squallor, Leone Di Lernia, Marco Carena e i Santa Rita s’accascia, come Fantozzi constringeva il cinefilo alla visione dell’Esorciccio. E a voler fare i tignosi pesatori di artisti pop: vogliamo paragonare i poeti e pensatori Burroughs e Ginsberg ai classici ma descamisados Beatles e Hendrix? Ecco, dopo la doverosa penitenza sui ceci bisognerebbe costringere chi misura le canzoni col metro del contenuto a fare una bella esegesi di she loves you yeah yeah yeah.
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ol Trittico proposto dalla Scala e con un convegno di studi su Luigi Illica, librettista principe della Giovane scuola, svoltosi a metà marzo tra Piacenza e Castell’Arquato, può dirsi ufficialmente aperto l’anno pucciniano: i 150 anni dalla nascita del compositore lucchese hanno in serbo mostre e simposi, che s’annunciano d’alta qualità; meno ragguardevoli, almeno sulla carta, gli spettacoli, se si esclude la riproposta del giovanile sfortunato e quasi ignoto Edgar (1889) in due allestimenti diversi, a Torino e a Torre del Lago (dove ci si appresta anche a inaugurare il nuovo teatro in muratura). Dell’anniversario non mancherà occasione di parlare; qui basti rammentare quanto l’immensa popolarità di Puccini si riveli, alla prova dei fatti, l’esatto contrario della facilità.Vedi il caso del Trittico montato da Luca Ronconi su scene di Margherita Palli e costumi di Silvia Aymonino: indeciso tra bozzetto realistico e vaghi intenti simbolici (tutto nero il Tabarro, bianco-azzurra Suor Angelica, rosso lo Schicchi), l’allestimento rinuncia a caratterizzare i personaggi e non sa, o non vuole, affrontare il nodo critico posto da una drammaturgia estremamente originale per l’epoca in cui fu concepita (1916-18): i tre pannelli, che raccontano tre storie diverse, vivono in reciproca unità o in autonomia? Una risposta a siffatto quesito la offre Riccardo Chailly, il quale propende per l’ipotesi unitaria, affermando dal podio il dominio del parametro orchestrale su quello vocale. Un Puccini a misura mitteleuropea: suono denso ampio corrusco (ottima prova dell’orchestra), cantabilità spasmodica al limite dell’isteria (un po’ alla Mahler); clima sonoro tutt’altro che asciutto e selettivo nella tavolozza timbrica, assimilato anzi al gusto viennese per l’ornamentazione (Klimt in pittura, Zemlinsky in musica), che si appaga e si esaurisce in se stessa. Sicché lo straniamento, effetto caratteristico delle estetiche novecentesche, è indotto per eccesso non per difetto. Un’impressione, questa del predominante sinfonismo, accentuata forse anche dalla pochezza del cast (quest’anno alla Scala non ne azzeccano uno). Meglio comunque l’onesta compagnia in seconda, da me vista in teatro (bene la Kabatu, la Chiuri e vari comprimari), della prima, udita alla radio, infarcita di nomoni sfiatati. Proprio tra le mura di Castell’Arquato, incantevole paesino medievale del piacentino e patria del sullodato Illica, Mascagni, ch’era suo ospite, compose buona parte di Isabeau (1911): l’aura allegorica e la cornice dugentesca, tra liberty e dannunziana, che la pervade anticipa Parisina prossima ventura
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Pietro Mascagni (1913). A dieci anni dal volume dedicato appunto all’incontro Vate-Mascagni (Il Gabbiano, Livorno 1997), esce ora per i tipi di LoGisma, Firenze, un’ulteriore fatica, l’ultima purtroppo, di Carlo Botteghi: «Isabeau» leggenda drammatica di Illica-Mascagni (282 pagine, 28,00 euro). Docente universitario di chimica per professione, appassionato e studioso di musica per elezione, l’autore non ha avuto il tempo di rivedere il testo. Amico fraterno di Botteghi, oltre che numero uno tra gli studiosi di Mascagni, Cesare Orselli ha messo ordine nella materia abbondantissima (non altrettanto impeccabile, purtroppo, la cura editoriale). La chiarezza del dettato, una valanga d’informazioni, qualche malcelato entusiasmo da mascagnano doc, una descrizione delle simbologie testuali e della musica che più accurate non si può, tutto in questo libro prezioso contribuisce ad avvalorare e approfondire l’idea d’uno spartito sperimentale (e - occorre specificarlo? - alterno nei risultati), che, ispirandosi al ruolo di narratore onnisciente ricoperto dall’orchestra nel dramma musicale wagneriano, ambisce dar voce, attraverso una fitta rete di motivi conduttori strumentali, alle profondità sommerse, al non-detto di personaggi-simboli, re, vergini sdegnose ma calienti, eroi fanciulli un po’ Sigfrido un po’ Parsifal.
JAZZ
Senza contaminazioni, all’ombra di Palladio di Adriano Mazzoletti e architetture del jazz a Vicenza».Questo il titolo del festival che apre la stagione estiva. Avrà luogo nella città veneta dal 2 al 10 maggio. Tredicesima edizione della manifestazione vicentina che i responsabili hanno voluto chiamare così non certo per ricordare il Palladio, di cui comunque ricorre quest’anno il quinto centenario della nascita, ma la situazione attuale del jazz. Musica ormai dalle strutture multiformi, dalle influenze le più disparate, che per certi versi ricorda un periodo assai lontano, quello della nascita del jazz quando musiche provenienti da tre continenti diedero vita a una nuova forma musicale. Difficile oggi intuire quale sarà la «nuova musica» che dovrebbe nascere dall’incontro-scontro fra culture europee, africane, asiatiche, magrebine, medio-orientali, americane del Nord, del
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avulsi dal jazz e dalle altre musiche collaterali. In nove giorni nella città veneta la «musica calerà nei monumenti architettonici del Palladio, nel Palazzo Barbaran da Porto, al Teatro Olimpico a Piazza dei Signori», annuncia la pubblicità. Luoghi di straordinaria importanza artistica e architettonica, che ospiteranno musiJean Luc cisti ormai affermati nella tradiPonty zionale del jazz, il sassofonista americano Jerry Bergonzi, il chiCentro, del Sud. Limitiamoci perciò ad tarrista francese Philippe Catherine, il piaascoltare e cercare di capire se tutto ciò nista e la tromba italiani Franco D’Andrea che viene proposto nei festival, ai concerti e Fabrizio Bosso. Due serate saranno dedie nella discografia mondiale avrà uno cate al ricordo di grandi musicisti. Il violisbocco oppure sarà semplicemente limita- nista Stéphane Grappelli nel centenario to a sperimentazioni più o meno valide. Il della nascita e Chet Baker nel ventennale cartellone di Vicenza Jazz ha una sua spe- della morte. A rendere omaggio al primo, cifica filosofia che spesso manca in altre il suo migliore e più celebre allievo, Jean manifestazioni del genere, dove sovente Luc Ponty. A ricordare il secondo saranno vengono invitati artisti assolutamente Enrico Rava oltre a Riccardo Del Fra e Al-
do Romano che tanto suonarono con il celebre musicista americano. Jazz dagli Stati Uniti, dalla Francia e dall’Italia, ma anche dal vicino Oriente. Per la prima volta si potranno ascoltare la Fanfara Tirana, la Kocani Orkestar, il coro Sintonia Tbilisi e il solista Florin Niculescu che suonerà con Ponty per ricordare il jazz manouche di Django Reinhardt e Stéphane Grappelli. Nell’architettura jazzistica vicentina non potevano mancare musicisti dell’area free-jazz e post free degli anni Sessanta e Settanta. Il batterista Andrew Cyrille, il sassofonista Oliver Lake, ma soprattutto Ravi Coltrane sassofonista come il suo celebre padre. Un plauso dunque a Riccardo Brazzale direttore artistico di questo festival la cui architettura non fa rimpiangere le grandi kermesses jazzistiche di anni lontani e che propone soprattutto il jazz che è possibile ascoltare all’inizio di questo terzo millennio, senza contaminazioni con musiche di consumo.
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NARRATIVA
Entrando nel Regno dei Cieli
a passo di danza di Massimo Tosti ederica era una ragazza (una donna) speciale. Avrebbe quarantacinque anni, oggi, se non se ne fosse andata l’anno scorso, dopo una settimana di silenzio nel reparto rianimazione di un ospedale romano. Si era sposata, giovanissima, e aveva tre figli, due femmine e un maschio. La più grande si era già allontanata da casa, per andare a lavorare a Milano. Una donna, dunque, che conservava però l’animo di una fanciulla: piena di entusiasmi, curiosa di tutto, sorridente e malinconica, capace di attraversare la vita con invidiabile leggerezza. Era solare, se questo aggettivo non fosse stato banalizzato per descrivere tutte le ragazze dotate di un sorriso accattivante e un volto (più o meno) da copertina. Federica irradiava bontà, comprensione verso gli altri e serenità: la serenità che ricavava dalla sua anima buona. Federica insegnava religione nelle scuole, e questo è sufficiente per spiegare quanto fosse importante la fede nel suo percorso terreno. Ma era anche una donna di straordinaria vitalità, con mille interessi e una passione: il ballo. E il tango in particolare, che considerava alla stregua di un salmo profano. Questo aiuta a capire - anche da un punto di vista semantico - la convinzione del padre, che lei sia entrata nel Regno dei Cieli «con piglio sicuro, con ardito passo di danza». Il padre di Federica è Fausto Gianfranceschi, giornalista e scrittore di vaglia, che ha trovato la forza per raccontare in un libro la «settimana di passione» che le ha strappato la sua piccola
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Federica: dall’alba di una tremenda domenica mattina, quando lei è svenuta sul pavimento, con il sangue che le fuoriusciva dalla testa, al lunedì della settimana seguente («il giorno più gelido, ventoso e piovoso di questo inverno») quando si sono celebrati i funerali. Un racconto doloroso, interrotto dai ricordi che, inevitabilmente, riaffiorano nelle memorie di un padre. Colpito così duramente nei suoi affetti. Non è neanche la prima volta che Gianfranceschi si trova a metabolizzare una ferita così profonda. Trent’anni fa morì il suo primogenito, Giovanni, in un incidente stradale. Fausto scrisse allora un saggio, intitola-
to Svelare la morte. Questa volta ha scelto il racconto in prima persona, il dialogo diretto con Federica, adagiata in un letto di ospedale. Che non è soltanto un modo per esorcizzare la fine, ma è anche e soprattutto l’unico mezzo per far sopravvivere la figlia che lo sta lasciando, nella memoria di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla. Un racconto intriso di fede religiosa, quella che Federica custodiva al centro del proprio cuore, e che ogni tanto corre il rischio di incrinarsi nella mente del padre, che continua a porsi la domanda che riaffiora inevitabilmente ogni volta che la morte scavalca le gerarchie ana-
libri
grafiche: «Perché proprio lei». L’unica risposta possibile è quella che offre la fede: per raggiungere prima l’altra vita, per vigilare dall’alto su chi è rimasto nella «valle di lacrime». Qualche anno fa un altro scrittore si è misurato con la stessa tragedia, ricavandone un libro disperato e senza speranza. Marco Nese (Come sopravvivere a un figlio) non trovava alcuna ragione di conforto nella perdita subita, nelle paure e nelle angosce che colpiscono i genitori, spingendosi fino a mettere in discussione l’opportunità di mettere al mondo bambini, di creare nuove vite dal destino incerto e atroce. Il monologo di Gianfranceschi apre uno spiraglio alla speranza, anche nella decisione sofferta di donare gli organi: «Piccola, sei appena arrivata per vie tormentate lassù, e già riprendi il tuo mestiere di dispensatrice di bene». È un libro importante questo, perché non è soltanto lo sfogo di un genitore colpito dalla sventura più grande che possa capitare. È molto di più: è una riflessione sui sentimenti, sulla necessità oggettiva di abbandonarsi a essi, sulla forza d’animo indispensabile per tirare avanti (guardando avanti) quando si fanno i conti con le regole implacabili della vita e della morte. Gianfranceschi ricorda una frase della «matita di Dio», Madre Teresa di Calcutta: «La vita è un gioco, giocalo». L’immagine che esce dalle pagine di questo piccolo libro (e dalla memoria di quanti hanno avuto la ventura di conoscerla) è che Federica abbia avuto la forza di giocare. E di danzare. Con la lievità che il gioco e la danza richiedono per sigillare il fascino di una vita spesa nel migliore dei modi. Fausto Gianfranceschi, Federica. Morte di una figlia, Pagine editore, 118 pagine, 11,00 euro
riletture
L’etica di Machiavelli secondo Prezzolini di Giancristiano Desiderio ara e porca italia», voleva dire, «tu sei il giardino d’Europa, ma ti manca una bella siepe di spini all’intorno che stia a indicare che sei proprietà di qualcuno, e dei bei viottoli nel mezzo, per renderti ordinata, seminata, innaffiata in ogni tua parte. Potess’io farti quella siepe!». A parlare è il Machiavelli, ma le parole sono di Prezzolini, che assai si dovette divertire a scrivere questa godibilissima Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino. «E gli tornarono a gola tutte le sue esperienze di ragazzo, di cittadino, di messo, di commissario di leva, di ambasciatore; ricordava che non era possibile farli andare d’accordo, a nessun costo, quegli Italiani». Che diceva
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Nicolò? «Gl’Italiani sono matti», diceva. «E con i matti si adopra il bastone e la fune. Bisogna legarli e bastonarli. Io vedo venire il castigamatti». E continuava così Nicolò parlando grazie al Prezzolini che lo faceva parlare pensando all’Italia del Cinquecento ma anche all’Italia del Novecento. E il Prezzolini quanto si divertì a far parlare il grande fiorentino. Il grande italiano. Un libro da leggere e rileggere. Ma dove andare a pescare questo gran libro? E chi lo sa? Io ne ho un’edizione tascabile: i libri pocket della Longanesi & C. In sulla copertina c’è una scritta che fa: «La più importante biografia di Machiavelli presentata nel quinto centenario della nascita con interventi di Benedetti, Branca, Montanelli, Moravia, Ridolfi, Prezzolini». Come potete capire, un libro che è meglio
avere che non avere. Cercatelo. Praticamente non lo potete perdere. Se sapeste quante fesserie riesce a dire Alberto Moravia in poche righe. E quante cose vere e intelligenti invece diceva con grande chiarezza Montanelli, ma soprattutto quante ne diceva di giuste e sacrosante proprio Prezzolini. La sua interpretazione del pensiero dell’autore del Principe è semplicemente una buona interpretazione. Ora, di interpretazioni del Principe ce ne sono tante e tante. È, forse, quello del Machiavelli un pensiero che ha avuto circa una ventina di serie e contrastanti interpretazioni. Tra queste c’è senz’altro quella di Croce che vedeva nel segretario fiorentino l’artefice della «scienza della politica», ossia colui che fece della politica il primo gradino dell’attività pratica: lo scopritore
della politica non come morale bensì come utilità. Un’interpretazione classica che ha fatto scuola. Ma era quella interpretazione il vero pensiero di Machiavelli o non era piuttosto il pensiero di Croce? Prezzolini propende per la seconda ipotesi. E lui, Prezzolini come la vede? È interessante notare che l’interpretazione di Prezzolini è molto simile a quella data da un grande pensatore come Isaiah Berlin: «La patria innanzi tutto, ecco l’etica del Machiavelli». Si può anche perdere l’anima per difendere la patria. Machiavelli è anticristiano e, come direbbe Berlin, fa saltare per aria il canone della classicità che vuole che tutto si componga nell’armonia. Ma c’è un altro motivo per leggere questa biografia: la prosa di Prezzolini. Inizia così: «Nicolò Machiavelli nacque con gli occhi aperti».
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PERSONAGGI
Anticomunismo di un vescovo “scomodo” di Maurizio Schoepflin e volessimo ricorrere a categorie storicogiornalistiche tanto poco rigorose quanto diffuse ed esplicative, potremmo definire quella di Monsignor Roberto Ronca come una figura tipica di vescovo preconciliare.Vissuto fra il 1901 e il 1978, Ronca, nativo di Roma, laureato in ingegneria, diventò prete nel 1928 e, nominato assistente del Circolo romano della Fuci, si mosse su una linea diversa da quella seguita da Monsignor Montini, il futuro Paolo VI. Uomo dalle notevoli doti organizzative, fu posto alla guida del Seminario Romano e negli anni della guerra accolse molti perseguitati, tra cui Saragat, Nenni e De Gasperi. Ma proprio di quest’ultimo, all’indomani della guerra mondiale, Ronca non condivise le scelte politiche e incoraggiò la nascita di un partito cattolico moderato, diverso dalla Democrazia cristiana. A causa del suo zelo politico, considerato eccessivo, fu trasferito al Santuario di Pompei, dove
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continuò a impegnarsi attivamente, soprattutto in chiave anticomunista. Decisiva fu pure la sua azione a favore della creazione di un nuovo e più positivo rapporto fra il mondo cattolico e le formazioni politiche di destra, nella convinzione che ciò risultasse utile a scongiurare l’affermarsi del comunismo in Italia. Allontanato da Pompei nel 1955, visse l’ultima parte della sua esistenza assolvendo all’incarico di ispettore dei cappellani delle carceri, affidatogli da Giovanni XXIII, e, soprattutto, dedicandosi alle congregazioni religiose da lui fondate. Giuseppe Brienza offre una ricostruzione precisa e documentata della personalità di questo vescovo, che testimoniò fattivamente le
proprie convinzioni e simpatie politiche, pagando in prima persona il prezzo di tale coerenza. Sullo sfondo, ben tratteggiata, l’Italia postbellica, in bilico tra democrazia e rischi di totalitarismo comunista, e, altrettanto ben descritto, l’universo cattolico, che tanto contribuì a quella «salvezza» del nostro Paese, ottenuta grazie alle elezioni del 1948, come ricorda il cardinale Angelini nella Presentazione del libro. Giuseppe Brienza, Identità cattolica e anticomunismo nell’Italia del dopoguerra. La figura e l’opera di mons. Roberto Ronca, D’Ettoris Editori, 244 pagine, 18,90 euro
POLITICA
Fini e quell’alleanza necessaria
di Riccardo Paradisi on Piero Ignazi e Marco Tarchi Alessandro Campi, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia, è il politologo che con maggiore continuità si è applicato allo studio della destra italiana. Dopo Il nero e il grigio, pubblicato nel 2003 e La destra di Fini. I dieci anni di An apparso nel 2006, per i tipi di Rubbettino esce ora il terzo studio di Campi su An: La destra in cammino. Da Alleanza nazionale al Popolo delle libertà. Il libro è una raccolta di saggi e articoli
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giornalistici attraverso i quali Campi ha letto i nuovi mutamenti della destra italiana di questi ultimi anni. Tra i quali il più recente è anche quello più decisivo: la confluenza cioè del soggetto politico autonomo di An nel più vasto partito del Popolo delle libertà, fondato da Silvio Berlusconi. Campi giudica questo passaggio di An con l’occhio del realista politico e dell’osservatore partecipato: parla di un’evoluzione necessaria, di un passo obbligato e senza alternative. E questo perché le famiglie e le tradizioni politiche di massa che hanno fatto la storia di questo Paese dal
dopoguerra a oggi - quella comunista, quella missina, quella socialista e quella democristiana - hanno esaurito, scrive Campi, il loro ciclo vitale. Sicché, «piuttosto che temere per la propria scomparsa la destra ha l’occasione per giocare nei prossimi anni una nuova e più impegnativa partita politica e culturale e questa volta all’interno di uno spazio politico più vasto di quello in cui ha sin qui operato. L’occasione, sarebbe insomma quella di dare corpo e concretezza alle ambizioni egemoniche che An ha manifestato sin dalla sua nascita e che però sono finora rimaste
largamente disattese». Ma perché queste ambizioni sono rimaste finora frustrate? Per un complesso di ragioni, spiega Campi: tra tutte la composizione statica del suo gruppo dirigente e la mancata elaborazione, in tutti questi anni, di un profilo culturale davvero innovativo rispetto a quello di partenza. Si tratta di vedere se il successo elettorale del centrodestra stimolerà questa evoluzione o no. Alessandro Campi, La destra in cammino. Da Alleanza nazionale al Popolo delle libertà, Rubbettino, 271 pagine, 15,00 euro
FILOSOFIA
La “magica forza” che viene da Hegel di Renato Cristin nche nella più selezionata biblioteca della civiltà umana, la Fenomenologia dello spirito ha un suo posto inamovibile, che le deriva dalla radicalità e dall’originalità con cui in essa viene concepito il rapporto fra singolarità e universalità dello spirito. Una nuova edizione italiana, dotata di un prezioso apparato critico, richiama oggi l’attenzione su quest’opera che vide la luce due secoli fa (1807) e che ha prodotto una gigantesca ondata di effetti filosofici e culturali tutt’ora percepibili. A partire dal principio fondamentale che caratterizza l’idealismo hegeliano, e cioè dalla tesi che la datità del reale è presente solo nella dimensione del
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pensiero, si dipana l’itinerario dello spirito, che viene esibito attraverso le «figure» in cui il sapere appare alla coscienza. Dal livello naturale a quello dell’intelletto, l’autocompren-
sione della coscienza è lo specchio dei gradi dello spirito, che si emancipa dal mondo materiale con la «religione rivelata» offerta all’umanità dal cristianesimo mediante l’incarnazione di Dio e che si perfeziona infine come spirito assoluto, il quale, passando per la «purezza del concetto» e per l’identità di soggetto e sostanza, diventa sapere che l’assoluto ha di se stesso. Rendendo «fluidi» i concetti, la «scienza dell’esperienza della coscienza» mostra come lo spirito, vivendo nella dialettica, possa «guardare in faccia il negativo», per fare i conti fino in fondo con le dimensioni problematiche del pensiero e per acquisire quella «magica forza» che permette di trasformare «il negativo nell’essere». Attraverso l’esperienza
del negativo possiamo comprendere che la verità sta nel concetto («solo nel concetto la verità trova l’elemento della sua esistenza») e nello spirito vivente. Grazie a questa forza, il capolavoro hegeliano riesce ancora a trasmetterci il coraggio del pensare per contraddizioni in un’epoca in cui il positivismo sembra vincente. Anche perciò, accostarsi a Hegel significa, pur imbattendosi in uno stile tortuoso e in un linguaggio ad alta complessità tecnico-concettuale, entrare in una delle pieghe storico-filosofiche decisive per comprendere la storia della civiltà occidentale. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, Einaudi, 558 pagine, 25,00 euro
altre letture Il governo dei conflitti, di Elio Veltri e Francesco Paola, (Tea edizioni, 220 pagine, 8,60 euro) è un libro sul conflitto di interessi diverso dagli altri. La differenza l’ha spiegata bene in una recensione Luca Ricolfi: «Non è un libro che parla del conflitto di interessi in generale per porre il problema di Berlusconi, ma è un libro che parlando del conflitto di interessi in generate si deve occupare anche di Berlusconi». Uno studio serio insomma che va dall’analisi delle reti collusive che strozzano l’economia italiana alle regole che dovrebbero assicurare competitività tra le imprese e non lo fanno, dalla non trasparenza dei bilanci alla scarsa tutela dei consumatori e degli utenti come nel caso dell’industria farmaceutica, dove, come scrive Augusto Barbera nell’introduzione «è forte l’intreccio fra industria, formazione, pubblicità e ricerca». Atlantide, il continente perduto di cui parla Platone nel Timeo e nel Crizia è solo un mito che ha acceso la fantasia degli uomini dai tempi dell’Ellade a oggi o è possibile che sia per davvero esistito, prima di scomparire, o di inabissarsi circa dodicimila anni fa, come racconta la leggenda, una porzione di territorio su cui prosperava una civiltà antichissima? Charles Berlitz in Atlantide (Edizioni Mediterranee 268 pagine, 14,50 euro) ricorre alle teorie scientifiche più moderne e attuali per portare acqua al mulino dell’esistenza di Atlantide. In particolar modo alla teoria della deriva dei continenti di Wegener. D’altra parte, come scrive Gianfranco de Turris nell’introduzione a questo libro, «lo scivolamento improvviso e non immaginabile delle Placche indiana e birmana che il 24 dicembre 2004 ha provocato lo tsunami di Sumatra dimostra che certi movimenti di pochi centimetri l’anno possono velocizzarsi senza un apparente ragione, producendo effetti disastrosi». E se le rovine sommerse nel triangolo delle Bermude - si chiede Berlitz - fossero i resti di una civiltà cancellata da una catastrofe del genere? La storia con la esse maiuscola si occupa degli eventi straordinari, il racconto di Dominic Blanchard Oggi mi sento molto variopinto (Gme editore,166 pagine, 10,00 euro) parla invece di persone ordinarie, di gente comune. E lo fa con molta grazia e molta attenzione verso gli umili, gli strampalati, gli ineducati, gli istintivi. Trovando in qualsiasi evento il risvolto comico, in qualsiasi personaggio il suo genio. E così risulta godiblissima la rassegna di tipi umani - il barista, la fidanzata, l’agricoltore, l’intellettuale di provincia che si incontrano nelle pagine di Blanchard.
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PIETRO ZVETEREMICH È L’ARTEFICE DELLA PUBBLICAZIONE DEL CAPOLAVORO DI PASTERNAK CHE TRADUSSE PER FELTRINELLI NEL 1957. CON LO SCRITTORE RUSSO, CHE A LUI AFFIDÒ IN UN BIGLIETTO LA DEFINITIVA INTENZIONE DI PUBBLICARE IL ROMANZO, CONDIVIDEVA L’AMORE PER LA VERITÀ
ˇ Il Signor Zivago di Francesco Cannatà ukopisi ne gorjat!, i manoscritti non bruciano. Paradossalmente uno degli appelli più appassionati alla giustizia fatti nella Russia stalinista viene da quella che Bulgakov in una lettera al governo sovietico aveva definito, la «minuta di un romanzo sul diavolo». La sentenza, contenuta nella seconda parte del Maestro e Margherita è stata a suo modo profetica, se è vero che la letteratura russa nonostante le decimazioni delle sue file, l’esilio di tanti suoi rappresentanti e la censura di ogni sua espressione, è riuscita a sopravvivere e persino a svilupparsi anche nel periodo del totalitarismo bolscevico. Non è stato possibile bruciare le opere rivoluzionarie di Babel e Majakovskij né quelle controrivoluzionarie di Bulgakov e Pasternak e nemmeno le liriche isolate ma genialmente innovative delle «monache prostitute» Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. Mentre in ogni altro campo i vincitori dell’Ottobre, che spesso erano a loro modo intellettuali, hanno fatto terra bruciata, la letteratura russa, per quanto vessata e angariata è riuscita, almeno in parte, a continuare la propria produzione. Se nessun manoscritto brucia, ve ne sono però alcuni in grado di appiccare il fuoco al cammino del genere umano verso le «magnifiche e progressive sorti». Questo è stato il destino del capolavoro di Boris Pasternak, ˇ Il dottor Zivago. Un romanzo che ammettendo le contraddizioni della storia - emancipazione e violenza, liberazione e oppressione del singolo - ritiene però che gli esseri umani possano fare appello a valori universali per giustificare le proprie scelte. Un libro completa-
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concludeva la lettera con la quale Zveteremich «imponeva» a Feltrinelli l’uscita italiana del capolavoro del poeta russo (precedentemente Einaudi aveva rifiutato di pubblicare il romanzo segnalato da Vittorio Strada, dopo che Angelo Maria Ripellino ne aveva dato un giudizio negativo). Queste parole davano il via non solo a un lavoro, ma a una «operazione culturale» che si sarebbe conclusa con il Nobel a Pasternak. Non pura letteratura ma uno scontro, combattuto a volte alla luce del sole ma più spesso negli arcana imperii delle relazioni internazionali, che vedeva schierati partiti politici, servizi segreti, un editore di razza e uno scrittore di grandezza mondiale. Una battaglia che avrebbe attraversato i partiti comunisti più importanti d’Europa, Pcus e Pci, coinvolto le due superpotenze planetarie, per giungere addirittura al dirottamento da parte della Cia dell’aereo di Giangiacomo Feltrinelli proprietario ˇ Quest’episodio, ridella casa editrice del DottorZivago. velato dalla stampa statunitense nel cinquantesimo anniversario del Nobel, forse più vicino ai romanzi di spionaggio e fantapolitica che alla realtà, non può essere escluso.Tutto era possibile nei momenti di apoteosi della guerra fredda.
Zveteremich riteneva che il romanzo voleva dare «una visione più corretta» delle drammatiche vicende del suo Paese, «del tutto diversa» dalle «menzogne sconcertanti» spacciate per verità nella patria del socialismo ˇ eventi come «la rivoluzione del reale. Nel Dottor Zivago
Militante del partito comunista, l’intellettuale triestino partecipò al dibattito culturale della sua epoca sfidando il conformismo di burocrati e potenti per affermare la priorità dell’individuo sul popolo, dell’etica sulla politica, della ricerca sull’opportunismo. Scegliendo poi di uscire dal Pci mente russo, secondo il giudizio di tutti i suoi critici, ma pienamente immerso nel conflitto tra le diverse «utopie» che hanno percorso la storia politica, intellettuale e religiosa del grande Paese slavo e ortodosso. Un romanzo dilaniato, come il suo autore, «dalla tragedia» che in quel momento viveva l’Unione Sovietica. Un’opera che il suo primo traduttore mondiale, l’italiano Pietro Zveteremich, giudicherà un «messaggio diretto della letteratura russa, fuori dallo Stato, dalle forze organizzate, dalle idee ufficiali»... «non pubblicare un libro simile costituisce delitto contro la cultura», così
1905, il periodo di Stolypin, la prima guerra mondiale, la rivoluzione del febbraio 1917, la presa del potere bolscevico, la guerra civile, la collettivizzazione, l’ultima grande guerra mondiale e il periodo che ne seguì», vengono illuminati alla luce della libertà di pensiero artistica e al di fuori di tutti gli schemi della cultura sovietica. Zveteremich era un militante del partito comunista italiano. Ma nonostante ciò il traduttore, consapevole di avere nelle mani un lavoro che «nessuno scrittore sovietico» aveva ancora prodotto, non si tira indietro. Come Pasternak anche Zveteremich non teme di sfidare il conformi-
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smo di burocrati e potenti per affermare la «priorità dell’individuo sul popolo, dell’etica sulla politica, della verità e della ricerca» sull’opportunismo. Che rapporto esiste tra un libro e il suo traduttore? Tra il romanzo moderno, l’espressione più alta - più della filosofia - della coscienza che ha il singolo di aver perso l’armonia della vita per trovarsi dentro una rete di dissidi inconciliabili, e l’uomo che deve trovare le parole per riprodurre la disincantata consapevolezza di un’autore in un’altra lingua? Qual è la relazione tra l’odissea degli eroi della letteratura contemporanea e quella di chi deve far conoscere al mondo questa inquietudine? Nel caso di Pasternak e Zveteremich, come arrivano a incontrarsi l’italiano di origini slave, padre triestino e madre ligure, e il russo nato nella «Terza Roma», la Mosca che in quegli anni voleva portare il cielo in terra? Quale rapporto lega il bambino iniziato alla passione per lingua e letteratura russa dai racconti di un prete che gli riportano alla mente i giochi fatti con Gorkij ad Alassio - e il futuro premio Nobel abituato a vedere tra gli amici della madre un genio del livello di Tolstoj? Come nasce il rapporto tra lo slavista autore delle Notti di Mosca e del Grande Parvus, il primo un romanzo grottesco di satira e dell’assurdo, il secondo un saggio su un personaggio determinante per la diffusione del pensiero rivoluzionario in Russia, e il
sca ma fa presente «che il giudizio favorevole alla pubˇ blicazione del Dottor Zivago è prevalente su quello negativo». Il 1957 è anche l’anno dei viaggi incrociati di russi e italiani tra Roma e Mosca. Anche il nostro Paese aveva la sua percentuale di «duri». In una nota del gennaio 1957 firmata da Mikhail Suslov, il custode dell’ortodossia ideologica del comunismo mondiale afferma che vi sarebbe un accordo di sostanza con il compagno Longo, «gli amici italiani faranno di tutto per sequestrare il dattiloscritto», scrive il russo. Un altro documento, protetto dal timbro «strettamente riservato», è del primo agosto 1957. È una informativa della sezione cultura del Comitato centrale del Pcus sulle misure «volte a scongiurare o ˇ bloccare la pubblicazione di Zivago in Italia». Ma è stata forse l’azione congiunta tra la componente riformista del Pcus e il Pci togliattiano a favorire il successo finale di Feltrinelli. L’Unione degli scrittori sovietici, i servizi segreti comunisti e qualche intransigente italiano rappresentavano invece l’opposizione «dura e pura» alla pubblicazione. Le false lettere con cui Pasternak chiedeva all’editore la restituzione del manoscritto - «il romanzo sarebbe un preliminare di un’opera futura, bisognosa di serio perfezionamento» -, per Feltrinelli non avevano nessun valore.Tra l’editore e lo scrittore vi era il tacito accordo di considerare valide solo le lettere scritte in francese,
L’Università a Milano e in Svizzera, i contatti con Elio Vittorini e la collaborazione al “Politecnico”, la docenza di lingua e letteratura russa a Messina, dove ieri è stato ricordato in un convegno a quindici anni dalla scomparsa. “Un solitario lupo da lavoro” e “un maestro ineguagliabile” poeta «futurista moderato» russo? Il primo traduttore europeo di Marina Cvetaeva e di tanti autori russi minori sconosciuti, è anche un professore allegro, ricordato da Ernesto Modica e Giuseppe Iannello, studenti ed «eredi» di Zveteremich, per il rigore messo nelle lezioni e l’energia portata nella vita accademica di Messina. Un intellettuale definito un «solitario lupo da lavoro» da un giornale locale e «maestro ineguagliabile» da Aleksandra Parysiewicz, unica sua assistente nei decenni siciliani. Cosa ha in comune con il dissidente sovietico che nell’arte cercava una «via d’uscita interiore… alle mancate realizzazioni» delle «radiose speranze e gli attesi mutamenti che avrebbe dovuto portare la guerra»? Solo l’amore per la verità poteva legare tra loro vite e opere di personaggi cosi diversi.
Come ha dichiarato Evgenij Pasternak, figlio dell’autore, Zveteremich è il «vero protagonista del dramma» ˇ «il traduttore italiache ruota attorno al Dottor Zivago, no che per la sua modestia» è rimasto «sempre nell’ombra». «L’ideologia di cui è permeato il romanzo è quella del cristianesimo concepito filosoficamente, libero da ogni Chiesa e trasformato in una concezione del mondo, in impegno di cultura e di civiltà...», così scrive il traduttore triestino all’editore milanese. Dopo questa lettera, Feltrinelli informa Pasternak della sua intenzione di pubblicare il romanzo e gli fa pervenire il contratto. Dell’operazione sono informati la sezione esteri del Pcus e il Kgb, i servizi segreti sovietici. Nel mese di settembre del 1957 la rivista di cultura Novyj Mir restituisce il dattiloscritto a Pasternak, accusandolo di non aver capito l’importanza della rivoluzione d’Ottobre. Inizia così il braccio di ferro tra i russi che vogliono la copia in possesso di Feltrinelli, e l’editore. È l’ora del tormentone, le lettere false che Pasternak, sollecitato dagli «amici» del Pcus è costretto a firmare. Feltrinelli cerca di evitare che i rapporti con il Cremlino arrivino a un punto di non ritorno. L’editore si rivolge ad Aleksej Surkov, segretario dell’Unione degli scrittori sovietici, cerca di non inimicarsi del tutto Mo-
tutto il resto era da intendersi come il risultato di pressioni fatte dalle autorità sovietiche e dunque non rispecchiava la volontà del poeta. È però Zveteremich a ricevere il via libera da Pasternak. Un appunto in russo scritto a matita su un foglio con cui lo scrittore chiedeva al traduttore di smentire le voci che l’uscita del libro potesse in qualche modo danneggiarlo. «Ho scritto il romanzo per pubblicarlo e farlo leggere. Ciò rimane il mio unico desiderio», afferma Boris Leonidovic. È questo il momento decisivo di tutta la vicenda. Dopo la visita a Pasternak nell’autunno del 1957, Zveteremich trasmette a Feltrinelli l’invito a pubblicare il romanzo al più presto. Quel viaggio a Mosca, a un anno dalla tragedia d’Ungheria, è lo stimolo ad attuare un passo maturato da anni. Lasciare il Partito comunista. «Mi sono convinto che nell’Urss non esiste nessun socialismo ma c’è semplicemente un dispotismo teocratico asiatico. Il socialismo non è che un’utopia», scrive Zveteremich motivando la sua decisione. La vicenda della pubblicazione del ˇ Dottor Zivago è il momento chiave dell’opera di Pietro Zveteremich. Il traduttore e professore triestino partecipa al dibattito intellettuale della sua epoca, gli anni finali della guerra fredda e l’inizio del «disgelo». Ed è proprio nel contesto del «disgelo» che si deve inquadrare la vicenda ˇ della pubblicazione del Dottor Zivago. La neonata Feltrinelli, presentando nel 1953 Nella sua città di Nekrasov era diventata la casa editrice del «disgelo» e andava a caccia di nuovi libri e autori russi, che fossero espressione degli spifferi di libertà che arrivavano dalla cortina di ferro. Nasce così la collaborazione tra il triestino, conoscitore di quel mondo, e la casa editrice milanese. Parlare della vita di Zveteremich, ricordato proprio ieri, a quindici anni dalla scomparsa, in un convegno di studi nella «sua» Università di Messina, significa parlare di un pezzo di storia culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. L’Università a Milano e in Svizzera, i contatti con Elio Vittorini e la collaborazione al Politecnico, la docenza di lingua e letteratura russa in Sicilia, rivelano un intellettuale che non guardava al mondo «dalla lontanza di una torre».
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TV
di Pier Mario Fasanotti
A Speciale Chiambretti Z un “evergreen”
apping sui canali Sky, a ora tarda. La rete offre il vantaggio di recuperare interventi e polemiche. È comparso Mario Capanna, in Speciale Chiambretti. Il vivace Pierino è stato fin troppo signorile, visto che c’era da perdere la pazienza. Capanna continua a vivere nella nostalgia del Sessantotto e guai a chi osa criticare non dico negare - quel gran fiume di proteste. Puntualizza ex cattedra, si autocelebra con modestia da vecchia sacrestia: «Lascia stare il mio libro, non sono qui per far vendere più copie». Chiambretti gli ricorda quanto ha scritto Aldo Grasso sul Magazine del Corriere: Capanna ci deve chiedere scusa. Esplode a questo punto l’irritazione per le critiche, una furia così connaturata in un uomo che dovrebbe aver fatto della contestazione (che significa anche critica, o no?) il proprio perno ideologico. Prima offesa: «E chi è Aldo Grasso?». Seconda offesa: «Quello spara cazzate». Frase di moda tra i ragazzi di quarant’anni fa. Insomma, chi ragiona diversamente è un idiota. Sì, dottor Capanna sappiamo che idioti deriva dal greco idiòtes, quelli che badano al proprio privato. Grazie per avercelo ricordato nel suo libro. E grazie per averci avvertito che chi non medita sulle sorti dell’universo, da mane a sera, è uno da mettere al rogo, un piccolo capitalista dell’anima. Chiambretti prosegue nella sua pazienza. Gli fa domande sugli ex sessantottini ora in posizione di comando. Altra esplosione dell’ospite: «Ah, sì!? Fuori i nomi, allora!». Chiambretti non ci casca, non scivola nel gossip scorretto. E Capanna sorride beato. Peccato che nel suo libro (Il Sessantotto al futuro, Garzanti) lui i nomi non li fa. Ci gira attorno. A pagina 21 si legge: «Quello che straripa in tv dalle proprie bretelle… l’altro che dirige il grande quotidiano con mellifluo (quanto finto)“terzismo”; un altro ancora che conduce un talk show televisivo intitolato in modo consono al proprio percorso». Capanna, i nomi le fanno proprio schifo? Perché non scriverli? Si chiamano Giuliano Ferrara, Paolo Mieli e Bruno Vespa. Molto signorile la sua prosa, dottor Mario. Le do un consiglio (inutile): legga l’ottimo libro della storica Anna Bravo, Colpi di cuore. Storie del sessantotto (Laterza). Rifletta laddove l’autrice si pone domande sul paradosso di un movimento che nasce sinceramente libertario e portatore di ansie democratiche, ma al tempo stesso carente di una reale cultura democratica e per questo esposto all’insidia delle ideologie. E poi: i leader della contestazione, spesero parole per il ’56 ungherese, per Solzenicyn, per Praga? Forse ci sono carri armati più buoni degli altri?
la furia sessantottina di Mario Capanna
web
video
games
dvd
PER TUTELARE IL DIRITTO ALLO STUDIO
ASPETTANDO L’ARRIVO DI “ZUNE”
L’ITALIA DI SUSO CECCHI D’AMICO
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a legalità è una cosa buona e giusta, non bisogna creare caos, ma alcune cose ci sono state tolte: il diritto allo studio e alla cultura sono sotto attacco». Affossati da costi proibitivi e servizi carenti, da biblioteche che quasi mai consentono il prelievo o l’uso dei libri di testo, giovani gruppi universitari dell’Università orientale di Napoli sono ricorsi alle straordinarie opportunità di apprendimento offerte
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uone notizie per il dispositivo portatile di Microsoft, non ancora disponibile in Europa ma secondo recenti rumors, forse in arrivo già per l’inizio del prossimo anno. Stando infatti a quanto dichiarato al sito Internet Eurogamer.net da Chris Satchell, capo della divisione Xna di Microsoft, i videogiochi per il lettore multimediale Zune «non saranno più una leggenda metropolitana». Si parla ancora di semplici prototipi ma le descrizioni so-
a Ladri di biciclette a I soliti ignoti, da Casanova ’70 all’intensa collaborazione con Visconti che consegnò al cinema italiano capolavori come Bellissima, Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo e Ludwig. Una carriera cinquantennale, quella di Suso Cecchi D’Amico, culminata anni fa con l’assegnazione del Leone d’Oro. Una vita lunga, costellata di gemme, aneddoti e amicizie indimenticabili che la più famosa
“libreremo.org” sfida le tutele dei copyright e offre testi difficilmente reperibili
Microsoft sperimenta i primi giochi per il lettore multimediale non ancora distribuito in Europa
Con la regia di Luca Zingaretti, la grande sceneggiatrice si racconta alla nipote Margherita
dalla rete, dando il via al progetto libreremo.org, un servizio pensato «per la condivisione e la libera circolazione di materiali di studio». In risposta a palmari difficoltà di reperire testi spesso fuori stampa, o acquistabili a prezzi proibitivi se si considerano i problemi finanziari dei fuorisede nelle università italiane, l’iniziativa napoletana consiste nella digitalizzazione di testi offerti nelle principali reti di peer to peer. Consapevoli di poter incorrere nella violazione del copyright, i giovani di libreremo puntano a sollecitare una risposta politica forte a una domanda, da troppo tempo inevasa, di tutela del diritto allo studio.
no molto dettagliate: un gioco di bowling, per esempio, in cui bisogna simulare il lancio della palla «solo muovendo il dito sul touchpad di Zune, o uno shooter in prima persona, stile Wolfenstein 3D in termini di dettaglio grafico, capace di muoversi a trenta frame per secondo». Ancora, Satchell ha sottolineato «le alte potenzialità aperte dal chip wireless di Zune, come gioco cooperativo e competitivo, anche per la possibilità di simulare giochi che prevedano immediatezza e velocità». Per vedere concretizzati questi progetti bisognerà attendere la fine dell’anno, e chissà che per allora Microsoft non abbia davvero deciso di distribuire Zune anche in Europa.
sceneggiatrice italiana rievoca in Suso - Conversazione con Margherita D’Amico, amabile colloquio con la nipote filmato da Luca Zingaretti nell’amato salotto della casa di Castiglioncello. Anche se non mancano considerazioni e riflessioni su quella che fu la mitica stagione del cinema italiano, da lei vissuta in prima linea, l’affabile chiacchierata tra Suso e Margherita lascia spazio a picchi di intensa commozione, in cui l’artista si spoglia della gloria ripensandosi come madre, moglie e donna. Ne viene fuori un ritratto intenso, in bianco e nero come l’Italia che raccontò come pochi, di un Paese riconoscibile a tutti, ormai lontano.
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cinema
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10 cose di noi inizia con un simpatico cammeo di Jonah Hill, il priapico Seth di SuXbad, superdivertente commedia adolescenziale. È l’entusiasta e sprovveduto tuttofare che accompagna il protagonista (Morgan Freeman, identificato solo come «Lui») a Carson, una desolante cittadina di colletti blu latini a sud di Los Angeles. La conversazione nel camioncino tra il veterano e il giovane è zeppa di gustose osservazioni antropologiche sul mondo del cinema. Freeman, che ha prodotto il film, si diverte a recidi Anselma Dell’Olio tare un se stesso disoccupato da tempo. Dice «Lui»: «Rifiuti un film perché non tesa della grande occasione le trova racconto, e li fa combaciare in un’a- è all’altezza, poi ne rifiuti un altro, e un ingaggi in locali andanti per fare ro- grodolce commedia familiare. Tim è altro ancora, in attesa di un’occasione daggio. Ma Jean è sempre sotto i ri- subito incantato dalla sinuosa bionda, migliore. Poi un giorno ti svegli e scopri flettori, anche in famiglia, e Blethyn insicura del suo charme. La ragazza che non lavori da quattro anni». Per ne fa un ritratto impietoso e al limite deve essere passata per mani parec- questo ha deciso di prendere in considedel sopportabile. A questo punto la ge- chio più ruvide di quelle sensibili di razione il ruolo di un direttore di superniale sceneggiatura di Keith Thom- Tim, perché scambia il terrore paraliz- mercato periferico in un film a basso copson si sposta sul figlio Tim, un ragaz- zante del ragazzo (vergine; a differen- sto con regista esordiente. Il ragazzo dezo dolce e timido, in delicatissimo za di Jill) per repulsa verso il suo cor- posita «Lui» davanti allo scadente negoequilibrio tra adolescenza e maturità. po efebico. «Di’ la verità: non mi vuoi zio e promette di tornare tra un’ora. La madre lo ama e lo tiranneggia: è perché è come fare l’amore con un ta- «Lui» entra per studiare la parte osserl’uomo di casa da quando si è divor- volo da stiro!», grida lei, prendendo vando il direttore, che non c’è. L’enorme ziata, il suo fan costante, il suo tuttofa- per indifferenza l’impaccio dell’ine- locale è quasi vuoto, la cialtrona sexy re. Gli compra un camion perché Tim sperto amatore. In realtà Tim è solo (Anne Dudek) alla cassa principale si possa fare piccoli traslochi e lui le fa sconvolto e incredulo di fronte all’e- dipinge le unghie dei piedi, e l’unica operativa è la cassiera della fila express, quella per i “Il matrimonio è un affare di famiglia” con Brenda Blethyn, clienti con «10 articoli o meindimenticabile protagonista di “Segreti e bugie”, no» (titolo originale). Lei è Scarlet, interpretata da Paz è un film scovato al festival di Sundance Vega, splendore ispanico vibello e imperfetto. Mentre “10 cose di noi”, prodotto sto nella sottovalutata commedia Spanglish. Scarlet è e interpretato da Morgan Freeman, intrattiene con lievità spigolosa, efficiente e severissima. Prima scocciata dalda autista in giro per Sydney e provin- normità dell’offerta totalizzante che la presenza dell’attore, finisce per apcia, assistendo alle sue serate e rassi- lei fa di se stessa. Jean la odia a prima prezzare il suo divertito «studio» dei curandola sulla sua riuscita.Tim ha un vista, intuendo subito la fine del suo comportamenti umani, il suo spassoso fratello più grande, Mark (Richard ruolo di vedette assoluta almeno sulla inseguimento del vicedirettore (con riWilson) un giovanotto cerebroleso du- scena domestica. Grazie alla tenacia porto a ciambella) e gli offre un passagrante una nascita difficile. Jean lo ama generosa di Jill, Mark comincia ad gio quando l’autista della produzione e lo vezzeggia, ma lo tiene quasi na- avere una vita sociale normale, e Tim non si ripresenta. Segue un film lieve, di scosto, obbligandolo a chiudersi in ba- a compiere il passaggio all’età adulta, piccole avventure e incidenti di percorgno se qualcuno suona alla porta facendo sbocciare il maschio virile so dall’umorismo dolce. Le avventure mentre è solo in casa. Il padre cerca di che è in lui. I Dwight senior sognano della cassiera e dell’attore si snodano fare la sua parte, ma non riesce a con- carriere da star, ma il loro vero suc- sulle freeway (perché le autostrade deltrastare Jean, preso com’è pure lui da cesso è di aver tirato su degli ottimi ra- lo Stato sono gratis, finanziate da tasse sogni di rinnovata gloria mai sopiti. gazzi, che hanno la voglia e il corag- sulla benzina) di una California nascoDurante un trasloco Tim incontra Jill gio di abbracciare la vita nella sua sta, fatta di paesaggi industriali e quar(Emma Booth). Il loro rapporto d’a- pienezza. Si esce da questo film, bello tieri operai, con vista su due anime che more nascente e tribolato illumina il e imperfetto, contenti d’aver fatto la sono di ottima compagnia, che intratfilm e raccoglie tutti i pezzi affilati del loro conoscenza. tengono senza angosciarci.
Umorismo vintage e freeway californiane l matrimonio è un affare di famiglia è una pepita scovata al festival di Sundance. L’unica attrice nota da noi è Brenda Blethyn, la protagonista, soprattutto per la sua indimenticabile madre nel film di Mike Leigh Segreti e bugie, per il quale fu nominata all’Oscar e vinse la Palma come miglior attrice a Cannes. Il titolo originale del film australiano è Clubland, ma è più calzante quello americano Introducing the Dwights. Jean Dwight (Blethyn) è un’indomita cabarettista di mezz’età che soffia sulla brace della sua carriera in declino, nella speranza di ritrovare il semi-successo che aveva conosciuto anni prima nei nightclub inglesi. Il suo ormai exmarito John (Frank Golden) l’aveva convinta a trasferirsi in Australia, suo paese d’origine, dove pensava di poter sfondare come cantante country, forte di un unico disco finito in classifica per qualche settimana nel 1975. Invece venticinque anni dopo, lui fa la guardia giurata in un supermercato e registra dischi a sue spese, e Jean ha tirato su i suoi due figli facendo la cuoca in una mensa aziendale.
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L’umorismo molto vintage di Jean è sarcastico insult humour. I suoi bersagli sono i maschi gaglioffi, il sesso coniugale e funzioni ginecologiche poco discusse in società, forse influenza del femminismo in ascesa durante gli anni dei suoi esordi. «Fare sesso con un maschio robusto è come essere schiacciata da un armadio in piena notte», è una delle sue poche battute riferibili. Il suo agente pensa che Jean possa diventare un’icona gay, e in at-
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IL BORGO Fu nelle vie di questo Borgo che nuova cosa m’avvenne. Fu come un vano sospiro il desiderio improvviso d’uscire di me stesso, di vivere la vita di tutti, d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. Non ebbi io mai sì grande gioia, né averla dalla vita spero. Vent’anni avevo quella volta, ed ero malato. Per le nuove strade del Borgo il desiderio vano come un sospiro mi fece suo Dove nel dolce tempo d’infanzia poche vedevo sperse arrampicate casette sul nudo della collina sorgeva un Borgo fervente d’umano lavoro. Il lui la prima volta soffersi il desiderio dolce e vano d’immettere la mia dentro la calda vita di tutti, d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. La fede avere di tutti, dire parole, fare cose che poi ciascuno intende, e sono, come il vino ed il pane, come i bimbi e le donne, valori di tutti. Ma un cantuccio, ahimé , lasciavo al desiderio, azzurro spiraglio, per contemplarmi da quello, godere l’alta gioia ottenuta di non esser più io, d’essere questo soltanto: fra gli uomini un uomo (…) UMBERTO SABA dal Cuor morituro
poesia
Saba alla ricerca della musica nelle cose di Filippo La Porta oma, inverno del 1966, liceo Mameli: in una mattina così buia, per il cielo uniformemente coperto, che si dovette accendere la luce, il professore di italiano del V ginnasio cominciò a leggere, con tono partecipe, una delle più celebri poesie di Umberto Saba. Quando arrivò ai versi «In una capra dal viso semita/sentivo querelare ogni altro mal,/ogni altra vita», il mio compagno di banco di allora - Leonardo -, uno dei più intelligenti e spavaldi della classe, si mise a imitare il belato di una capra e tutti scoppiammo a ridere. Ricordo che allora l’anziano, probo insegnante, prima di rivolgerci le sue invettive, ebbe una espressione più sofferente che indignata. In quella risata collettiva si preannunciava la imminente, liberatoria irriverenza del Sessantotto. Peccato che quella irriverenza aveva clamorosamente sbagliato oggetto, condannandosi in ciò alla aridità e alla stupidità. Lo stesso Leonardo simulò in quell’occasione una durezza che non gli apparteneva, tutta esteriore e teatrale, e che anzi nascondeva una immensa, inconfessabile fragilità. Tanto che imboccò in seguito una via autodistruttiva e senza ritorno. A lui dedico questo commento. Ah, avessimo saputo capire e apprezzare Saba! Del resto il poeta triestino si lamentò sempre di essere stato un incompreso, per di più maltrattato dalla critica, di non aver avuto il suo De Sanctis, tanto che per compensare questa presunta lacuna volle scrivere una specie di autocommento (Storia e cronistoria del Canzoniere, nel 1947). Sappiamo in realtà che non è stato proprio così, che già nel ’23 Giacomo Debenedetti scrisse su Saba il primo saggio importante, e che nel ’28 la rivista Solaria gli dedicò un numero. Però è vero che Saba apparve ai più - ingannevolmente - troppo semplice, troppo cantabile, troppo tradizionale, troppo poco ermetico. Come scrisse Contini nella Letteratura dell’Italia unita 1861-1968 è «il solo poeta contemporaneo che esuli interamente dalle esperienze, non si dice d’avanguardia, ma legate anche bassamente alla cultura simbolista». Eppure, tornando alle mirabili pagine di Debenedetti (vedi Intermezzo, del 1963) la «inaudita semplicità» di quei versi, il loro «facile, piano cantare» era il vero scandalo. Come osservò acutamente il critico non si trattava tanto di trovare le cose in musica ma «di trovare la musica nelle cose».
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Non era affatto idillico Saba ma un «uomo in fuga» e un perseguitato. In fuga da cosa? Da se stesso, dalle proprie tormentate radici e dalla propria pena di vivere. Percepiva la propria stessa infelicità come colpa (allo stesso modo di Kafka), però ciò non gli impedì mai di sentire, quasi spudoratamente, (e di cantare) la felicità dell’esistenza e del destino umano. Dunque: da una parte l’urto con le cose, la dolorosa sensazione di separatezza e dall’altra la pienezza gioiosa della vita, che la macchina un po’ polverosa del nostro melodramma (da lui tanto amata) riu-
scì a volte a esprimere. Attraverso le rime sparse e le misure metriche variate del Borgo (con alcuni abbaglianti endecasillabi) poesia tratta dal Cuor morituro, 1925-1930 Saba ci dice il suo desiderio di uscire da sé per immergersi nella calda vita, per essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. Un populismo, come è stato osservato, più erotico che sociale. E si tratta di desiderio dolce ma «vano», irrealizzato. Più in là nella poesia parla del suo solitario «duro patire» e poi ricorda di essere nato «d’oscure vicende». Resta sempre la polarità tra calda, accogliente vita e solitudine fredda dell’intelletto, tra abbraccio fraterno della comunità umana e disperante sensazione di inappartenenza e malattia (una «serena disperazione»). Saba ci si presenta come orfano (il padre fuggì che lui era bambino, la madre è una figura severa, assai poco affettiva), e per di più in un mondo che gli sembra sempre più irriconoscibile (il trauma delle due guerre, il fascismo e le leggi razziali). Inoltre è scrittore e poeta, in quanto tale un eccentrico, un diverso. Però non fa l’elogio dello sradicamento, della eccentricità e della «orfanità». Pur sapendo che la vita di tutti gli è preclusa per sempre, non cessa di amarla, di cercarla, di sospirarla. Non rinuncia a cercare la musica nelle cose, attraverso un bel canto a volte convenzionale e attraverso versi teneramente dissonanti.
In un recente, lucido saggio Paolo Febbraro (Saba, Umberto, Gaffi) conclude che l’essere ottocentesco e melodrammatico di Saba, quell’uso di un italiano poetico anche frusto ma miracolosamente «spugnoso» (di tutti gli umori possibili) costituiva precisamente il modo di essere fedele a uno dei suoi «cattivi maestri», Nietzsche. In che senso? Vorrei sviluppare ulteriormente questo spunto critico. Direi fedele in primo luogo all’inflessibile impulso nietzscheano verso la verità («che giace nel fondo») - anche a costo di scrivere a volte versi «brutti» -, all’affilato illuminismo che avrebbe dovuto annunciare una utopica «gaia scienza» e che invece sospinse il filosofo nella follia. E poi soprattutto fedele al tragico, al senso di una irrimediabile non solubilità dei conflitti umani. Saba assumeva per intero la «moderna» scissione dell’umano (tra parole e cose, tra l’io e il mondo, tra soggetto e oggetto, tra l’individuo e la società), accettava la fondamentale contraddizione insita nella realtà, mentre le avanguardie pretendevano di risolverla (o attraverso una rivoluzione politica sempre un po’ nebulosa o identificandosi con il progresso tecnico o celebrando euforicamente la disgregazione). Ripenso a quel compagno di scuola, inquieto e ribelle, a Leonardo. Anche lui voleva, disperatamente, «uscire da se stesso» e avere la fede di tutti. Purtroppo non riuscì mai a trovare nelle cose - certo urtanti, estranee, separate da noi ma non necessariamente nemiche - quella «musica» che forse lo avrebbe salvato.
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il club di calliope
LE RESIDENZE DELL’ANIMA (E I LORO ABITANTI) in libreria
Nel buon tempo
di Loretto Rafanelli ei luoghi, Attilio Bertolucci ricordava, con semplice e materna espressione, che erano la «terra per viverci». Dal poeta parmense iniziamo, per dirvi di un bel volume di poesie sui luoghi, quelle «residenze» dell’anima che ci aiutano a «ritrovare le rotte giuste per schivare le secche e i vortici, per rigettarci verso le isole del sogno e della luce, dell’umana dignità e della bellezza», come scrive nella introduzione Lagazzi. Si tratta di una antologia con straordinari testi inediti (44 poeti tra i più importanti da Bandini a Bertolucci, da Conte a Cucchi, da Loi a Luzi, dalla Merini a Mussapi, dalla Spaziani a Viviani a Zanzotto), accompagnati dalle fotografie dei volti degli scrittori. Il libro è curato da Eric Toccaceli
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Comunque c’è chi nasce e c’è chi muore anche nel buon tempo, quando s’annuncia nuova la stagione, e calmo, uguale il cielo.
Un libro dedicato ai volti e ai luoghi di quarantaquattro autori celebri. Un’antologia con testi inediti a cura di Eric Toccaceli, poeta fotografo
Ed io vorrei, nel buon tempo, carpire la forma della vita come sia senza dramma.
(Poeti. Volti e luoghi, Marietti, 35,00 euro), da anni fotografo dei poeti, senza però che questa sua attività sia stata «riconosciuta» o «spesa» a livello di pubblicazioni o mostre. Toccaceli è un singolare personaggio.Vive nella campagna umbra, e da lì si allontana solo per assistere a incontri di poesia o per girovagare fra le case degli scrittori. Un fotografo atipico, che usa la macchina fotografica come fosse una macchina da presa, intento a scandire come in un film la vita dei poeti. Un film infinito, se è vero come è vero che sono ormai decine di migliaia gli scatti da lui eseguiti (e non remunerati). Ma il motivo è semplice: Toccaceli prima che la fotografia, che rappresenta per lui un supporto tecnico, ama la poesia. E questo lo fa doppiamente artista. Che è la fotografia senza la poesia? I «suoi» volti non sono mai scontati, non sono mai semplici ritratti ed emergono dalle sue immagini il profondo essere degli scrittori, la loro personalità, il fascino di un percorso. E certo anche i loro affanni. Ma pure emerge la passione di Toccaceli. Il poeta fotografo.
Distesa la vorrei, illimitata pianura inattesa, e lì, passo dopo passo, inconsapevolmente rigenerarmi, inavvertitamente di me scordarmi. Giovanni Piccioni
UN POPOLO DI POETI È bello tenere per sé Orione quando un vetro traduce la luna in tre parti di luce. di Jessica Imolesi ***** Rincorrono silenziose i loro sogni, fragili utopie di tulle e leggere disegnano la libertà
Tre scalini, di scale che non portano a nulla, come tutto, non è una novità. Scalini scale, labirinto, perso nel vuoto di verde fogliame, circonda i miei pensieri. Volti le spalle e c’è un rosso amore che ti avvolge: il cuore sospeso nell’aria come i fogli gialli di autunno. Una scala, un labirinto, un viaggio nel vuoto.
Ballerine di Sara Navacchia
di Ilaria Faggiano
Sono i giorni dell’attesa, fumo circolare di sigaretta e i primi papaveri sul ciglio delle rotaie. L’uomo con l’alito di vino guarda fuori, nell’oziare stanco della littorina, oltre la città e la sciara laddove il mare disegna il tenue confine tra l’uomo e il cielo. di Marina Mongiovì
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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PITTURA
arti
Le possibili
convergenze
tra suono e colore di Marco Vallora on era uomo di fede, Luigi Veronesi, ma credeva nella libertà pura, nella divinità incoercibile della Fantasia. Scriveva, a proposito di quella fotografia senza apparecchio, luce impressa senza bisogno della macchina (che altri ribattezzò col proprio nome, rayograph o schadografia, che sia, e che lui chiamava più umilmente: «fotogramma»): «In effetti il fotogramma fu inventato da Dio quando creò la luce, le cose e le loro ombre; gli uomini più tardi sono riusciti a fissarle sulla carta fotografica». Fotografo delle ombre delle cose (in modo molto allineato con lo spirito avanguardisticoBauhaus di Moholy-Nagy, e un poco di Schlemmer, soprattutto per quanto riguardò la scenografia della sua Histoire du Soldat e del Balletto di Riccardo Malipiero),Veronesi fu un astrattista atipico, scarsamente geometrico e tutto sinusoidi ellissi e scarti vaganti, più apparentato alla famiglia dei Soldati e Melotti, che non dei rigorosi comaschi, alla Rho e Radice. Infatti: «Fra l’astrazione geometrica chiamata “fredda” e quella espressionista della “macchia”cerco di trovare, nella scoperta di un infinito spaziale assolutamente pittorico, un ordine poetico del tutto libero, ma in cui resta sempre un fondamento compositivo»: ritmico, musicale, quasi danzante (sono gli anni della riscoperta «coreografica» di Bach, della percussività di Bartok o del neoclassicismo nuova oggettività di Hindemith, pure lui disegnatore fantasioso, alla Klee). Personalità singolare dell’astrattismo milanese, dominato da quel libro epocale che fu Kn di Carlo Belli (teorico e disegnatore delizioso, imparentato con Melotti e l’architetto Pollini), fratello di quella donna straordinaria che fu Giulia Veronesi, studiosa profonda d’architettura, molto legata a Persico e Giò Ponti, riscopritrice del liberty, musa editoriale dapprima di molte riviste d’architettura e design, poi di Valentino Bompiani e infine di
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quell’incredibile fucina di intelligenza, che fu la casa Editrice Rosa e Ballo, di cui Luigi fu ispiratore grafico,Veronesi, piccolo fauno ribelle, ha avuto un lungo legame anche con la città di Torino e con un entusiasta studioso dell’astrattismo, animatore dell’Einaudi, quale Paolo Fossati, e con una pionieristica galleria d’arte come la Martano, che gli dedicò mostre periodiche e raccolte di testi, oggi introvabili. Questa delicata mostra di ricordo, per un artista non troppo omaggiato, che quest’anno avrebbe compiuto cent’anni, ha una genesi gentile e dolcemente ripartrice. Liliana De Matteis, che ha avuto con lui una lunga consuetudine di lavoro e di collaborazione, e che ha curato questa portatile retrospettiva assai composita - che colma il divario tra gli anni Trenta (in cui l’artista era ancora un realista periferico, scuro e brutalista, tra Bartolini e Rosai) e gl’ultimi anni di vita - proprio su quella sua pittura tarda manifestò qualche delicata perplessità, rimandando una mostra doverosa, che non ci fu, in vita. Questa funge dunque da melanconico risarcimento postumo: da nobile gesto riparatore. Veronesi del resto era artista abituato alle contrarietà, polimorfo nell’inventarsi mestieri ed escamotages, lui stesso
leggermente distratto e superiore alla propria opera di sofisticato amateur, com’è nel caso dei suoi preziosi e anticipatori film d’avanguardia, ora diventati quasi leggendari, perché nessuno li ha veduti più ed esistono solo intriganti, promettenti fotogrammi. C’è una lettera insieme toccante e illuminante, all’editore e suo sostenitore, Ferdinando Ballo, in cui egli accenna all’eventualità d’aver dimenticato nella casa dell’amico i preziosi incunaboli di film «senza soggetto», che probabilmente mostrava come diapositive da serata uggiosa. La souplesse con cui ne parla e la disinvoltura con cui accenna all’ipotesi che la «verbosa» sorella, un giorno, possa fortunosamente riportarglieli, dice molto su quel curioso ménage sororale e sul fatalismo divertito con cui trattava la sua arte: «nella possibile convergenza fra suono e colore». Nutrita dall’amicizia con Léger, con i Delaunay, con il profeta di De Stijl, Vantangerloo. Arte che «prima di essere un fatto artistico è essenzialmente un fatto umano».
Luigi Veronesi. Nel centenario della nascita, Torino, Galleria Martano, via Principe Amedeo 29. Sino al 10 maggio.
autostorie
Top manager dell’auto: una galleria di ritratti di Paolo Malagodi on passa quasi giorno che il grande pubblico non sia interessato da notizie sul mondo dell’auto, a partire dalle ricorrenti voci su alleanze o fusioni tra costruttori, per arrivare alle continue presentazioni di novità che tengono alta la propensione all’acquisto. Strategie e programmi che, in questo come in pochi altri campi, vedono l’accentramento dei poteri decisionali nelle mani di singole persone, che assumono una rilevanza mediatica di primissimo piano e le cui caratteristiche comportamentali appassionano vaste platee. I top manager dell’auto sono così spesso al centro di interviste e conferenze stampa, che offrono ai giornalisti del settore l’opportunità di conoscerli a fon-
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do. Derivando impressioni che, al di là dei temi finanziari e produttivi solitamente affrontati, permettono di sviluppare una serie di riflessioni su personaggi «famosi come rockstar» e che non di rado «emanano note di onnipotenza». Come osserva Francesco Paternò, che da anni si occupa di auto per diverse testate, mettendo a frutto i tanti incontri di lavoro in una galleria di ritratti (Marchionne & C., storie di manager al volante, Cooper editore, 112 pagine, 9,00 euro) esclusivamente maschili: perché nell’auto «donne amministratore delegato non esistono, per loro la scala verso il cielo si interrompe alla comunicazione, al design d’interni, alla responsabilità di un singolo progetto». Pressoché obbligato, il primo medaglione è per Gianni Agnelli, subito incorniciato come «più potente di un
qualsiasi primo ministro nell’Italia dei governi balneari e più credibile per la rete di relazioni internazionali sviluppate nel jet set». Tuttavia, in poche e documentate pagine, la mitica figura dell’Avvocato viene messa in controluce ripercorrendo, tra i tanti risultati azzeccati, anche momenti in cui «a Torino è mancato il coraggio» di approfittare di una invidiabile solidità finanziaria, per consacrarsi tra i massimi protagonisti della scena automobilistica mondiale. Così, alla fine del 1985, salta la trattativa per una intesa con la Ford e, dopo un 1988 di utili record per il Lingotto, altrettanto inutile resta la profferta di Lee Iacocca per «fondere le attività della sua Chrysler con quelle della Fiat». Intrecci che, in una situazione economica assai meno florida, vengono ripresi «nell’ora
del terzo millennio, quando - secondo Paternò - la Fiat dell’Avvocato entra in folle. Il 13 marzo del 2000 Agnelli si fa un gigantesco regalo di compleanno (lui è nato il 12), spingendo la Fiat tra le braccia della General Motors». Un matrimonio travagliato, che verrà risolto da Sergio Marchionne, chiamato nel giugno 2004 al timone di una Fiat in condizioni disperate e che riuscirà rapidamente a risanare. Tanto da diventare «il supermanager invocato come un messia per qualsiasi gruppo in turbolenza, per lui non avrebbero fatto primarie in Telecom o in Alitalia», sostiene Francesco Paternò; ma non senza porre ai lettori dell’agile volume una disincantata domanda, sui principali attori di questo scenario industriale in veloce e complessa mutazione: «Comprereste un’auto nuova da uno così?».
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ARCHITETTURA
Il genio di Nervi prestato a Brasilia di Marzia Marandola l 1 luglio del 1969 il ministro degli Esteri Pietro Nenni affida a Pier Luigi Nervi il progetto dell’ambasciata italiana a Brasilia. Il quasi ottantenne ingegnere è al culmine di una brillante carriera: ha realizzato a Roma per le Olimpiadi il palazzetto e il palazzo dello Sport, a Torino le strutture per il centenario dell’Unità nazionale e sta completando l’aula delle Udienze in Vaticano, che prenderà il suo nome. In definitiva è un progettista affermato a scala internazionale, per questo viene incaricato direttamente, in deroga alle stesse istanze del Ministero, che riteneva opportuno un concorso nazionale. Brasilia, la nuova capitale del Brasile, inaugurata nel 1960, è costruita dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer secondo il Plano piloto di Lucio Costa, impostato su un tracciato planimetrico a forma d’aeroplano, che concentra nell’asse centrale - la plancia dell’aereo - gli edifici dei ministeri e il parlamento, e lungo le ali le residenze e il commercio. In particolare nell’ala sud, lungo l’avenida das Nações, sono individuate le aree di circa 25 mila metri quadri ognuna per le ambasciate. Le vicende relative all’incarico, alla pro-
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gettazione e alla costruzione dell’ambasciata italiana sono vivacemente ripercorse in un appassionante volume, patrocinato dall’ambasciatore Michele Valensise. I due autori,Tullia Iori e Sergio Poretti, docenti alla facoltà di Ingegneria di Roma Tor Vergata, dipanano con una seducente abilità narrativa, pari alla penetrante competenza tecnica, temi e intrecci che legano la figura di Pier Luigi Nervi all’Ambasciata. Poretti, come anticipa con cinematografica eloquenza il titolo del suo saggio, «Nervi che visse tre volte», suddivide criticamente la carriera professionale di Nervi in tre diverse fasi: una prima tra gli anni della laurea (1913) e la seconda guerra mondiale, nella quale il giovane ingegnere (è nato a Sondrio nel 1891) si appassiona alla costruzione cementizia; una seconda, dalla metà degli anni Trenta agli anni Sessanta, dedicata a un modo del tutto inedito di concepire il cemento armato che approda a innovativi brevetti. Infine una terza fase, nella quale il geniale ingegnere è titolare dello studio Nervi e con i suoi tre figli opera in tutto il mondo. L’ambasciata italiana, costruita tra il 1974 e il 1977, rientra e, in un certo senso, conclude quest’ultima
fase. La non comune abilità narrativa di Iori si coniuga con acutezza critica nel dare vita alla specifica storia del progetto dell’Ambasciata e della sua costruzione, intrecciandola fittamente con le vicende politiche ed economiche dell’Italia e del Brasile. Infatti l’edificio, impostato sulla chiarezza statica tipica della progettazione di Nervi, è ideato in Italia e realizzato Oltreoceano, secondo metodi costruttivi correnti in Europa, ma praticamente sconosciuti alle maestranze brasiliane. Questa contraddizione è all’origine di una serie di problemi e di difficoltà di
cantiere, che tuttavia non intaccano l’eleganza compositiva del manufatto, che ancora oggi emerge nel panorama della città. Esso è impalcato da slanciati piani orizzontali, dove si sviluppano gli uffici e le residenze, sostenuti da robusti pilastri cementizi che emergono dallo specchio d’acqua, che contrassegna la facciata, e si diramano con lievità in quattro bracci. Tullia Iori, Sergio Poretti, Pier Luigi Nervi. L’Ambasciata d’Italia a Brasilia, Mondadori Electa, 141 pagine, 35,00 euro
MODA
12 centimetri da terra: un rischio da correre? di Roselina Salemi olendo essere contemporanee, le donne, anche le top manager, dovranno alzarsi, non tre metri sopra il cielo, ma dodici centimetri da terra, altrimenti sono guai. Nessuno prende sul serio una dirigente con le flip flap, questo è certo. Quanto al mezzo tacco, non è glam. Potranno scegliere calzature appropriate, con e senza plateau, zeppe ricoperte di strass, stiletti assassini, o scenografici tacchi-scultura. Va da sé che è impossibile chiamarle scarpe e basta. Sono idee platoniche. Feticci. Armi di seduzione di massa. Oggetti per i quali, in linea con il tradizionale masochismo femminile, ogni donna è disposta a soffrire. Nel film The Wedding Planner, Jennifer LoDue modelli pez, con una scarpa da di Ferragamo quattrocento dollari incastrata in un
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tombino in mezzo alla strada, rischia di finire sotto un’auto, pur di non separarsene. Certo, ci sono voluti Sex and the City e Sarah Jessica Parker-Carrie per far diventare popolari i sandali preziosi di Manolo Blahnik. Mentre per Jimmy Choo il film-rivelazione è stato In her shoes (in italiano: Se fossi lei), con Cameron Diaz e Toni Collette, dove le scarpe contano quanto le attrici. Molta moda si regge sui tacchi, ma il primo a capirlo è stato Salvatore Ferragamo: la maison, all’ottantesimo anniversario in questi giorni, ha festeggiato con una sfilata-spettacolo a Shanghai e una mostra fotografica dedicata a dive ardite e indimenticabili first lady, da Gloria Swanson a Jackie Kennedy, gente che aveva il mondo ai suoi piedi e non si accontentava di scarpe qualsiasi. Mentre a Vigevano, fino al 25 maggio, può essere istruttivo visitare Tacchi a spillo, repertorio di tutte le follie che le donne fanno per elevarsi un po’ e meritare, dopo tanta fatica, l’iro-
nico appellativo di tacchettine. Ma adesso la situazione si è fatta seria. Abbiamo il tacco a teiera barocca di Miu Miu, e quello liberty di Prada, abbiamo quello con le catene di Louis Vuitton e con il dragone di Jimmy Choo. Sfere-gioiello da Dior, boule da Sergio Rossi, clessidre da Donna Karan, futurismo puro da Fendi, paillettes e cinturini sadomaso da Christian Louboutin. E piume, stelle, nappine, fiocchi, persino diamanti veri, a parziale consolazione del rischio di cadere da simili altezze. In questo bamboleggiare e dondolare esibito da attrici e top model, si insinua il sospetto che le meravigliose creazioni siano in realtà trappole mortali. Le donne hanno fatto troppa strada, saltato troppi ostacoli, tagliato troppi traguardi. E dal momento che è passato il tempo dei piedini cinesi, soltanto la vanità, soltanto il desiderio, può fermare la corsa. Come le modelle crollate (ma con grande dignità) in passerella durante le sfilate, le donne affrontano impavide lo show dell’esistenza, in bilico su teiere, stiletti, dragoni, architetture di plexiglas. Guardano avanti, sentendosi molto sexy. Camminano circospette, senza capire che tanta bellezza, tanta ammaliante esibizione di colori vernici fibbie, lampi di oro e cristallo, potrebbe avere il solo scopo di rallentarle.
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FANTASCIENZA
no dei pericoli nei cui confronti la fantascienza e l’antiutopia hanno da sempre messo in guardia è lo strapotere delle «macchine» (in senso lato) sull’uomo, il fatto che a esse potesse venire delegato tutto con due possibilità negative: da un lato che, presa coscienza di se stesse, alla fine imponessero il loro volere sugli esseri in carne e ossa, e dall’altro che, pur non diventando «coscienti», divenissero così indispensabili da portare l’umanità a una crisi mortale nel caso di un loro generale non funzionamento. Si pensi che quest’ultima ipotesi critica risale addirittura al 1909 quando E.M. Forster, in seguito divenuto famoso col suo Passaggio in India (1924), scrisse un lungo racconto intitolato Quando le macchine si fermano che era una critica alla società razionalizzata al massimo descritta da Wells nel suo Una utopia moderna (1904). Si pensi cosa succederebbe oggi se all’improvviso tutti i computer del mondo per cause misteriose smettessero di funzionare: la società globale collasserebbe perché, in genere, non si sono previste alternative durature a un loro blocco: attualmente i computer governano e gestiscono quasi tutte le attività complesse.
MobyDICK
ai confini della realtà che non seguono il conformismo generale: la pratica di affidarsi per le comunicazioni esclusivamente a internet e alla posta elettronica contribuisce ad annullare i contatti personali e chiude gli utenti in una specie di bozzolo.
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Forster un secolo fa immaginava una umanità che, delegata ogni e qualsiasi cosa alle macchine, si rifugia nel sottosuolo, ogni umano in un suo cubicolo servito da mille accessori, che non ha più contatti diretti con gli altri. Nel momento in cui «le macchine si fermano», la società implode, va in malora e si salvano soltanto i pochi che ancora vivono da soli sulla superfice. Uno scrittore americano, noto a torto soprattutto per i suoi racconti fulminanti con capovolgimento di scena finale, Fredric Brown, oltre all’imitatissimmo Sentinella, ne ha scritto un altro, La risposta (1954) in cui uno scienziato allo scopo di sapere se Dio esiste veramente effettua il collegamento fra tutti i computer del mondo e una volta posta la domanda e abbassata la leva del collegamento fra essi, la leva si blocca e arriva la risposta: «Adesso dio esiste!». Un anno prima Arthur Clarke, di recente scomparso, in I nove miliardi di nomi di dio fa calcolare questo numero a un computer ma, appena conclusa l’operazione, l’uomo ha esaurito il suo compito, non c’è altro da fare e inevitabilmente avviene la fine del mondo. Tutto questo immaginario fantascientifico ritorna con prepotenza alla mente guardando quanto avviene intorno e che è stato anche denunciato da alcuni scienziati
Il dioGoogle di Gianfranco de Turris
Un gruppo di giornalisti, che si firmano Erik Gunnar Tryo, sono gli autori di un libro dedicato all’oracolo delle rete: una divinità fasulla, volutamente fallace. Ma la letteratura fantascientifica è piena di opere che si interrogano sulla relazione, spesso pericolosa, tra uomo e macchina
Chi comunica soltanto attraverso le macchine, inoltre, riduce e rende sempre più elementari e concise le comunicazioni. Non «apre al mondo» come si suol dire, ma viceversa chiude al mondo, con tanti saluti per chi vede, al contrario, nella rete il massimo della «socialità». Non solo, ma - come solo negli Stati Uniti poteva accadere sembra che stia nascendo e diffondendosi una nuova religione «tecnologica» che ha per divinità.... Google! Da adorare, cui rendere tributi e devozione. Perché? Ma semplicemente perché il più famoso motore di ricerca esistente ha assunto pian piano agli occhi dei suoi utenti gli attributi della divinità: l’onniscienza e l’onnipresenza, almeno. Quanto all’onnipotenza ci manca poco e di sicuro avverrà! Il Dio Google sta dappertutto e in ogni luogo: a Lui si può accedere da ogni terminale che puoi trovare ovunque, a Lui si può far ricorso e chiedere un aiuto da ogni dove. Il Dio Google sa tutto, offre una risposta a ogni domanda, sempre che gli si pongano domande adeguate, soddisfa ogni richiesta di informazioni e di documentazione, anche troppe spesso e volentieri. Il Dio Google è anche un po’ oracolo; come l’oracolo di Delfi devi sapere come interpretatare per bene le Sue risposte che possono essere di molteplice significato, perché molteplice è il materiale di risposta che ti offre. Se sbagli a capire in fondo è colpa tua, Lui ti ha detto tutto... Ma il Dio Google può essere anche un dio falso e bugiardo: infatti ti può fornire soltanto le risposte che Lui ritiene poter meglio selezionare. Il Dio Google potrebbe essere quindi una divinità fasulla, un oracolo volutamente fallace, come documenta un gruppo di giornalisti che, sotto la firma complessiva di Erik Gunnar Tryo, ha appena pubblicato l’intrigante GoogleCrazia per le Edizioni Leconte. Non sappiamo se al Dio Google, all’Oracolo della rete, i devoti rechino offerte casalinghe da depositare la sera prima di andare a dormire o prima di porre le proprie domande, se Gli rivolgano devozioni quotidiane nel salotto o nello studio dove il computer è sistemato, se accendano lumini intorno a Lui. Magari gli rivolgeranno le «litanie elettroniche» immaginate da Robert Silverberg nel suo Violare il cielo (1967)!