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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“Misure straordinarie” di Tom Vaughan
L’AMORE PATERNO
di Anselma Dell’Olio
n che cosa consiste l’amore dei genitori per i figli? Misure straordinarie, un una patologia neuromuscolare che danneggia progressivamente i muscoli di film appena uscito di Tom Vaughan, lo fa capire meglio di una bibliotegambe, braccia e torace. Oltre all’ipotonia muscolare, causa l’ingrossamenca intera di tomi filosofici, antropologici o psicologici. Partendo da to del cuore e di altri organi, e comunemente si muore in pochi anni per Coinvolgente una disgrazia tra le più tremende che possono capitare - non insufficienza cardiaca. Poteva essere il solito film strappalacrime, il thriller medico su uno, ma due figli piccoli colpiti da una rarissima malattia gedi cui se ne sono visti anche troppi; ma non è così. Ci sono aluna famiglia alle prese con due netica che provoca la morte in breve tempo, e per la meno tre temi principali che s’intrecciano con efficacia quale non esiste cura - l’essenziale sul significato e che impediscono di subire la sensazione del «già bambini affetti dal morbo di Pompe. profondo di «amore paterno» è illuminato senvisto». Il primo è l’ordinaria-straordinaria quoTratto da una storia vera, dice moltissimo sul za sbavature sentimentali. La nuova società Cbs tidianità famigliare, composta di un adolescenrapporto genitori-figli. Bravo Harrison films debutta nella produzione cinematografica con te sano, due bambini su sedie a rotelle e intubati per un coinvolgente thriller medico: le avventure di una famirespirare, infermiere che s’avvicendano costantemente Ford nei panni inusuali di uno glia vera alle prese con la lotta per la sopravvivenza di due di per le cure, e la determinazione di John e Aileen (Brendan Frastrambo scienziato loro. John e Aileen Crowley sono una giovane coppia con tre figli. ser, perfetto, e l’incantevole, bravissima Keri Russell) di dare ai figli John, il più grande, è sano. A Megan e Patrick, nove e otto anni è stata diauna vita normale, organizzando feste di compleanno al bowling, con palgnosticata il morbo di Pompe (glicogenosi di tipo II) poco dopo la nascita. È loncini e torta, e gite campestre e al mare.
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Parola chiave Sapere di Sergio Valzania Potenza di “Raw Power” quasi 40 anni dopo di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Cesare Pavese e la metrica della solitudine di Francesco Napoli
Lewis Carroll riabilitato di Mario Bernardi Guardi Il tascapane dell’«uomo di pena» di Pasquale Di Palmo
Senza Morandi non è Novecento di Marco Vallora
l’amore
pagina 12 • 24 aprile 2010
Premio Pulitzer del Wall Street Journal Geeta Anand, scrittrice del libro dal quale il film è tratto. Harrison Ford si è innamorato di The Cure, il cui sottotitolo è Come un padre raccolse cento milioni di dollari, lottando contro l’establishment medico per salvare i suoi figli. Ford avrebbe voluto fare Crowley, ma era troppo anziano per la parte, e s’è tuffato nel ruolo del burbero scienziato, in realtà una figura composita. Erano tre i principali ricercatori che hanno lavorato per trovare la cura. Il caratteraccio di Stonehill appartiene a Bill Canfield, dell’Università dell’Oklahoma, lo scienziato con cui Crowley decise di fondare un’azienda di biotecnologia. Si diverte moltissimo, Indiana Jones, a calarsi nella parte di un uomo assai spigoloso e pieno di fisime.
John Crowley è un dirigente in ascesa alla Bristol Meyers. Da radici operaie è riuscito a conquistare prima la laurea a Harvard, e poi un’ottima carriera in una delle aziende farmaceutiche internazionali più rinomate. Aileen si dedica a tempo pieno a rendere la vita di tutti la più armoniosa e serena possibile. Quando gli altri dormono, John s’immerge in letture scientifiche sui libri e navigando in Internet fino alle ore piccole. È così che scopre l’esistenza di uno scienziato, il dottor Robert Stonehill (Harrison Ford), ricercatore all’università del Nebraska, che sta facendo grandi passi avanti verso la produzione di una terapia enzimatica sostitutiva che possa, se non guarire, almeno allungare la prospettiva di vita dei colpiti dalla malattia di Pompe. Il secondo tema del film è il buddy movie: la strana coppia composta da un padre altruista, emotivo, motivato, solido negli affetti e perseverante, e da un misantropo solitario, malfidato, bisbetico, insofferente e scostumato. John prova a contattare Stonehill ma raggiungerlo con i mezzi di comunicazione moderni è impossibile. Il ricercatore ascolta musica rock a tutto volume mentre lavora, non sente il telefono e se risponde lascia cadere la linea per distrazione, senza accorgersene. Disperato e determinato, John lo bombarda di messaggi per posta elettronica ma il caratteriale scienziato è talmente solipsista e monomaniacale che non se ne cura e non risponde. Il suo mondo è il suo ombelico: divorziato due volte da donne che lo trovavano insopportabile, ama pescare, bere la birra direttamente dalla bottiglia in demotici locali della prateria, e barricarsi in laboratorio. D’impulso, John lascia una riunione e vola a stanarlo di persona, mettendo a rischio il suo posto (e l’assicurazione medica che garantisce per i figli) perché non sopporta d’accettare la propria impotenza. Il terzo tema è il thriller medico che illumina un pubblico non specializzalo, sui meccanismi intricati della ricerca medica.
Il tema del padre di famiglia che incassa il colpo, si rimbocca le maniche e rischia tutto perché i figli abbiano un futuro, entra sotto pelle, senza l’aiutino di scene e colonna sonora strazianti, con i soliti primi piani di bimbi sofferenti. Una scena madre tra le mura domestiche c’è: Megan (Meredith Droeger) è colpita da una polmonite violenta che rischia di portarla via definitivamente, inserita al momento giusto per ricordarci che la vita dei bambini è fragilissima. La piccola Droeger, attrice dall’età di sei anni, ha già un folto curriculum che include cinema, serie e spot tv e perfino Shakespeare a teatro. È perfettamente credibile come la piccina delicata ma spavalda e combattiva, che sfida il fratello sano a corse a piedi contro la sua carrozzella. John Junior è Sam M. Hall; è un peccato che non si è potuto sviluppare il suo personaggio. In una situazione del genere, il figlio sano ha un peso enorme da sopportare - essere trascurato come l’ultima ruota del carro. Il fatto che dipenda da una buona causa è di magrissima consolazione. Chi è passato per quella particolare discriminazione affettiva a favore di un fratello sofferente, ne sa qualcosa. È una condizione poco trattata al cinema: sarà per un’altra volta. La sceneggiatura, però, ha il compito di semplificare una vicenda complessa, e anche se sarebbe stata affascinante una radiografia più completa e penetrante delle dinamiche famigliari, non è poco averci fatto capire meglio come gira il mondo della ricerca scientifica e l’intreccio d’interessi in ballo. Il merito va diviso tra lo sceneggiatore Robert Nelson Jacobs e la reporter anno III - numero 16 - pagina II
paterno
Sopra, alcune immagini del film. A sinistra, la famiglia dalla cui storia è tratto il soggetto della pellicola di Vaughan
MISURE STRAORDINARIE GENERE DRAMMATICO DURATA 110 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE SONY PICTURES
REGIA TOM VAUGHAN INTERPRETI BRENDAN FRASER, HARRISON FORD, KERI RUSSELL, JARED HARRIS, COURTNEY B.VANCE
Gli scontri tra l’egocentrico scienziato e il generoso papà sono epici e molto divertenti. Un altro cambiamento rispetto al libro è l’età dei ragazzi e quella del padre all’epoca del racconto. Crowley era un trentenne con i due figli più piccoli ancora in fasce quando ha iniziato la sua lunga, difficile impresa. Creare una sola controparte a Crowley è stata una scelta obbligata dall’economia drammaturgica, e alzare di qualche anno l’età dei bambini malati ha permesso di rendere la storia parecchio più urgente e tesa, una corsa contro il tempo: raramente i colpiti da Pompe superano gli 8-9 anni. Fraser, noto per film avventurosi come La mummia 1 e 2, Giorgio della giungla e Viaggio al centro della terra, si è fatto apprezzare anche in film drammatici come Demoni e dei (era il giardiniere concupito dal regista di Frankenstein) e The Quiet American (era il misterioso, idealista operativo della Cia, contrapposto al cinico giornalista inglese di Michael Caine). Se prima era uno statuario oggetto del desiderio, un fusto pauroso, ora che ha superato i quaranta e messo su un po’ di peso, gli calzano bene ruoli di bonaccioni facili da sottovalutare, perfetti per un carattere forgiato da un’infanzia sradicata a seguito del padre giornalista, che spostava spesso la famiglia da una città e da un paese all’altro. Forma una coppia credibile con l’adorabile Keri Russell. L’attrice californiana ha avuto successo in televisione, iniziando con Il club di Topolino della Disney e vincendo un’Emmy come migliore attrice per la serie Felicity, di cui era protagonista. Per ora l’unico ruolo in un film degno del suo talento è l’indimenticabile Jenna di Waitress - Ricette d’amore, della sfortunata Adrienne Shelley, regista e sceneggiatrice tragicamente uccisa da un operaio impazzito alla vigilia dell’uscita del film, un successo a Sundance assai meritato. È probabilmente non casuale che il primo cineasta che ha saputo mettere in risalto le complesse sfaccettature drammatiche e brillanti della Russell sia stata una donna. La carriera di Harrison Ford era talmente deludente nei primi anni che si è messo a fare il falegname e l’ebanista per mantenere la famiglia. Mentre lavorava a una ristrutturazione in casa di George Lucas, è stato scelto per un piccolo ruolo in American Graffiti, seguito da un altro in La conversazione di Francis Ford Coppola; con la parte di Han Solo nel successo planetario Guerre stellari, è «arrivato». Con Indiana Jones, la sua consacrazione a icona di sexy-burbero è completa. Blade Runner lo colloca tra gli artisti di culto, mentre l’ispettore di Witness - Il testimone di Peter Weir gli porta la prima, e per ora unica, candidatura all’Oscar. Certo che Ford avrebbe preferito avere il ruolo del nobile papà Crowley, ma vederlo tagliarsi addosso i panni dell’impossibile, maleducato e geniale Stonehill è uno spasso. Da vedere.
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parola chiave
apere costituisce sia un’ambizione che una pretesa. Tutte le discipline ideate dall’uomo sono rivolte al sapere: filosofia, astronomia, teologia, matematica, fisica, chimica. Anche la storia, la medicina, la sociologia, le arti, come la poesia e la musica, vanno in cerca della conoscenza e della sua trasmissione, con ambizioni oggi più sfumate, senza dimenticare che per Aristotele era proprio la poesia l’espressione umana più adatta ad attingere il vero. Il grande filosofo toccava così il nervo dolente, sempre lo stesso e dai suoi tempi immutato, della tensione a conoscere, dove lo sforzo di sapere si scontra con il limite proprio di questa attività ossia di non essere mai sicuri, certi, di quello che si sa. Si è soliti contrapporre il credere al sapere, senza riflettere sul fatto che al fondo ci troviamo di fronte a due sinonimi impropri, nel senso che la diversità che riconosciamo nei loro significati è del tutto psicologica. È una questione di approccio, o di percorso intellettuale, di strumentazione messa in campo, più che di risultati. Da un certo punto di vista il credere appare persino più potente del sapere. La locuzione «credo in Dio» rimanda a una certezza e nello stesso tempo a uno sforzo di volontà. Sottintende una decisione consapevole, non l’abbandono all’evidenza, peraltro spesso ingannevole.
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SAPERE Per definizione richiede completezza e perfezione. Il senso del limite lo mina alle radici. Così mentre aumentano le conoscenze parziali cresce il numero delle domande alle quali mancano le risposte
Il motore del dubbio di Sergio Valzania
Credere, come sapere, comporta in questo caso un’elaborazione, lo sviluppo di un’intuizione, l’accettazione di una tradizione alla quale si intende conservare e confermare la propria appartenenza. Nei suoi passaggi il processo non è diverso da quello elaborato dal sapere scientifico moderno, anche nelle sue forme più rigorose. Si tratta sempre dell’accettazione di paradigmi costruiti nel tempo attraverso continue correzioni e qualche strappo, nell’accoglimento di concetti legati a un percorso che si è sviluppato nella storia. L’idea stessa di verità scientifica rimanda al fatto che questa verità non si propone come assoluta, ma ha bisogno di una specificazione per poter essere accettata come tale. Allora la locuzione «so che esiste l’attrazione terrestre» si trasforma in una formula più complessa, attraverso la quale si dichiara l’appartenenza a una cultura più che la certezza di un sapere. Al fondo di tutta la nostra conoscenza non si trova una spiegazione in termini di evidenza, e condivisione, per il funzionamento della gravità, dell’attrazione fra i corpi. La teoria unificata della quale si va in cerca da decenni non è stata trovata, mentre l’aumento delle conoscenze parziali fa crescere il numero delle domande alle quali mancano le risposte. Per definizione il sapere richiede completezza, perfezione, il limite lo mina alla radici, riconduce al motto di Socrate, scritto sull’architrave del tempio di Apollo a Delfi: So di non sapere. De Crescenzo
L’approccio al mondo fondato sul credere piuttosto che sul conoscere è confortante. Perché basato sulla consapevolezza della nostra responsabilità nell’elaborazione dell’insieme delle ipotesi sulle quali centriamo il nostro agire. Con il dono della libertà creatrice di mettere in discussione le certezze ironizzava sullo studente che si presenta all’esame forte solo di questa innegabile verità. Nella storia dell’uomo si sono succedute molte stagioni nelle quali la pretesa di una compiutezza prossima della conoscenza si era presentata. In questo gli alchimisti sono simili ai positivisti dell’Ottocento, nelle ultime vibrazioni del cui pensiero ci troviamo ancora a vivere. Cartesio aveva tentato la costruzione di un sistema chiuso e coerente per la descrizione del mondo, fondato su una verità che gli sembrava indubitabile. Prima di lui lo aveva fatto Aristotele, per non dire di Platone, geniale costruttore di un sistema di pensiero che si ripropone di continuo. In fondo il modello astratto dello scienti-
smo moderno è platonico e prevede un percorso di avvicinamento continuo e sempre più prossimo ai fondamenti certi della realtà. Eppure questo processo, nonostante i suoi innegabili successi, solleva critiche sempre più motivate e precise, che colpiscono il sistema nel suo complesso più che i suoi risultati. Le obbiezioni si rivolgono all’insieme di credenze che lo scientismo comporta e non il sapere che esprime. Siamo ancora alle contestazioni che si rivolgevano Galileo e i suoi accusatori, relative appunto alle forme nelle quali il sapere si manifesta. Riconoscendo alle scritture sacre la loro verità, Galileo ricordava che la loro interpretazione rimaneva interna all’esperienza umana e avvertiva che
un loro contrasto con le manifestazioni sensibili va ricondotto a una scarsa comprensione delle scritture e non di necessità a errori compiuti nell’osservazione dei fatti. La questione si allarga quando ci rendiamo conto, come ci viene ricordato in fisica dalla teoria dei quanti, che i fatti e la loro osservazione non sono per nulla distinti. Alla base di ogni sapere certo si trova in sostanza una convinzione, una credenza, quella cioè che esso sia raggiungibile, disponibile per l’uomo e che la sua dimensione non sia quella della chiamata per fede. «Beati quelli che crederanno senza aver visto» dice il Cristo a San Tommaso, dopo avergli mostrato le piaghe della crocifissione. L’alternativa è decidere, scegliere, credere che sia possibile e lecito considerare certo un sapere parziale, provvisorio, storico, legato a una dimensione circoscritta dell’esistenza. Il percorso individuato per realizzare un tale progetto è consistito nell’esclusione dalla zona di indagine di ciò che non era comprensibile sulla base degli strumenti tecnici disponibili e dell’ideologia alla quale si faceva riferimento. Questo sta alla base dell’esperimento scientifico moderno: circoscrivere i fenomeni in un ambito nel quale siano riproducibili senza contaminazioni esterne. Il prezzo da pagare è l’esclusione dall’ambiente di indagine, sia fisico che concettuale, di tutto ciò che non è adatto a queste modalità di riduzione. E non è poco, visto che tutto quello che rientra negli ambiti dell’etica, dell’estetica, della memoria storica, dell’affettività rimane tagliato fuori senza rimedio.
Risulta difficile parlare di arte o di amore in termini di neurobiologia, di misurazione delle onde elettriche che attraversano il nostro cervello, eppure ciascuno sa quanto sono importanti le emozioni nella vita e questa esperienza risulta fondante riguardo alle molte decisioni che prendiamo, la cui natura razionale è di solito discutibile. Perciò accettiamo la prevalenza linguistica della formula «credo di fare la cosa giusta» rispetto al drastico «so di fare la cosa giusta». Fra i due termini quasi sinonimi il credere rimane più umano, lo sentiamo prossimo, coerente con la nostra quotidianità. Questo ci conforta in un approccio al mondo fondato sul credere piuttosto che sul sapere, nella consapevolezza della nostra responsabilità nell’elaborazione dell’insieme di ipotesi sulle quali basiamo il nostro agire. Non siamo esseri angelici, ai quali la verità è rivelata in modo immediato. Il dono della libertà passa attraverso il dubbio e la possibilità offerta a ciascuno di elaborare il proprio sistema di consapevolezze, nel quale proprio il dubbio ha una parte importante e creatrice, dato che rappresenta il motore di ogni possibile crescita. Alla fine, o all’inizio, dobbiamo sostenere di sapere di credere e quindi di essere responsabili di quello che crediamo.
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Pop
musica
I Baustelle? Niente di più CHE TROTTOLINI AMOROSI di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi erano anche John Lydon e Mick Jones, nella bolgia infernale del 15 luglio 1972 al Kings Cross Cinema di Londra. Entrambi, cinque anni dopo, daranno il via all’uragano punk: il primo, trasformatosi in Johnny Rotten, coi Sex Pistols; il secondo coi Clash. Jones dichiarerà: «La qualità che gli Stooges riuscirono a sprigionare quella sera da quel palcoscenico fu enorme. Un lanciafiamme». Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, dirà invece di aver imparato a suonare lo strumento ascoltando Raw Power; Kurt Cobain dei Nirvana ammetterà di amare quel disco più d’ogni altro; Henry Rollins si farà tatuare da una spalla all’altra il titolo del pezzo più incendiario in scaletta: Search And Destroy. Potenza di Raw Power, l’album che nel ’73 anticipò il punk e adesso rivede la (rimasterizzata) luce per la gioia di tutti gli adrenalinici del rock con l’aggiunta di un secondo cd dal vivo e due composizioni inedite: la tribale, parossistica Doojiman e Head On, in equilibrio precario fra rock e honky tonk. Sgusciava come un’iguana James Jewel Osterberg, in arte Iggy Pop, nato nel Michigan. Il palco, per lui, equivaleva a un bordello dove torturarsi l’anima. Al microfono, con la sua voce appuntita e ferrosa, urlava storie autolesioniste cospargendosi il torace di burro d’arachidi per poi tagliuzzarselo con una lametta da barba. Dopo aver formato gli Iguanas (’64) ed essere entrato nei Prime Movers (’65), s’inventa gli Psy-
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chedelic Stooges che abbrevia in Stooges come il titolo dell’ellepì del ’69, seguito nel ’70 da Fun House. Dischi di musiche blasfeme, urticanti, sepolcrali. Improvvise scariche rock che sbeffeggiano il Flower Power promuovendo il nichilismo di pezzi come I Wanna Be Your Dog, No Fun e We Will Fall. Iggy, però, evapora. Non ce la fa a reggere il gioco fino in fondo. L’eroina stoppa lui e la sua band. Ma nel ’72, è David Bowie ad afferrare per la coda l’Iguana in frantumi. Ha già salvato/rilanciato Lou Reed e i Mott The Hoople, gli fa incidere Raw Power ai Cbs Studios londinesi marchiandolo Iggy & The Stooges e facendogli ritrovare l’antico furore belluino. Resuscita, l’Iguana dei più oltraggiosi sogni d’America, e con lui James Williamson (chitarra) e i fratelli Ron e Scott Asheton (basso e batteria). Macché datato: a riascoltarlo, Raw Power è follemente rivoluzionario come allora. Ultrasonico e deviante, ti sbatte sul muso il proto-punk di Search And De-
stroy, della title track e di Shake Appeal; rumina un isterico blues con Penetration e I Need Somebody; snocciola turgido rock & roll con Your Pretty Face Is Going To Hell e Death Trip; ti ipnotizza con una velenosa ballata come Gimme Danger. Ben venga, poi, la registrazione intitolata Georgia Peaches che documenta l’ora di concerto degli Stooges al Richards di Atlanta, ottobre ’73, con l’aggiunta di Scott Thurston al pianoforte. Catturate dal vivo, Raw Power, Gimme Danger, Search And Destroy e I Need Somebody sono se possibile ancor più intossicate; i sette minuti e passa di Heavy Liquid sono un continuo stop & go elettrico; i dieci di Open Up And Bleed inanellano il suono di un’armonica blues e una polpa melodica e poi rock che ricorda i Rolling Stones; Cock In My Pocket coglie la mela avvelenata del rock e la calpesta per poi trasformarla in un qualcosa che ha già l’odore acidulo del punk. C’era l’Iguana dalle innumerevoli vite, su quel palcoscenico. A detergersi il sudore dopo l’ennesima performance da infarto. Iggy & The Stooges, Raw Power, Columbia/Legacy, 23,90 euro
L’idea di Dio che aveva Duke Ellington
on largo anticipo, battendo sul tempo tutte le altre manifestazioni estive, Gianni Borgna e Carlo Fuortes, presidente e amministratore delegato di Musica per Roma, hanno annunciato il cartellone di Luglio suona bene, l’ormai collaudata manifestazione che da otto anni il Parco della Musica organizza in Cavea. Saranno trenta i concerti, rock, pop e jazz, a cui sarà possibile assistere fra il 29 giugno e il 31 luglio. Nella speranza che l’estate sia clemente - la «nube» islandese, dicono gli esperti porterà un’estate particolarmente piovosa -, sul palco della Cavea giungeranno alcune fra le maggiori star del jazz ancora in attività, Herbie Hancock, Chick Corea, Pat Metheny e Keith Jarrett, con i suoi abituali accompagnatori, a cui si aggiungeranno Stefano Bollani in un, speriamo, appassionante duo con Corea e infine
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on l’ho letto e non mi piace» diceva Giorgio Manganelli (o Vanni Scheiwiller, non ci ricordiamo bene), una frase meravigliosa, un elogio del naso e dell’oblio, una dichiarazione d’amore per la vita (e l’arte). Anche logico il ragionamento: se non l’hai letto è perché non ti piace. Non hai mai assaggiato lo sformato di assafetida perché non ti piace, non hai mai fatto l’amore con un appartenente all’ordine degli anuri perché non ti piace, non hai ascoltato I Mistici dell’Occidente, il nuovo disco dei Baustelle, perché non ti piace. Il critico musicale (che da qualche parte si agita, certo non dentro di te) non è d’accordo. Forse perché gli piace lo sformato di assafetida e/o l’amore con gli anuri. Il critico musicale, lui, dice che bisognerebbe provare prima di giudicare, dice che questo Mistici dell’Occidente te lo dovresti sentire tutto più di una volta. Ma tu qualche pezzettino l’hai annusato. Lo sai. Sai che i Baustelle inventano bei titoli e qualche bel testo (nel caso da leggere a parte). Sai che i loro pezzi evocano in ogni giuntura armonica, nei tappetoni d’archi, nella voce bassa del maschio e in quella incolore della femmina il duo del trottolino amoroso ddu ddu dda dda dda, sai che i loro concerti sono la fiera della moscerìa. Eppure a molta gente i Baustelle piacciono, come la mettiamo? Saranno tutti anurofili? Forse, oppure hanno nostalgia del trottolino amoroso, tutto qui. E poi c’è un fatto. I Baustelle li trovi citati dappertutto a marchio di un pop italiano che è finalmente maturo. Li trovi pure su Nazione Indiana, il blog di critici e intellettuali civili. Vuol dire che non i Baustelle ma il duo del trottolino amoroso è stato seminale (aggettivo da critici musicali) per la cultura anurofila.
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Potenza di Raw Power quasi quarant’anni dopo
Jazz
zapping
di Adriano Mazzoletti Paolo Fresu in trio con il pianista Omar Sosa e il percussionista turco Trilok Gurtu. Una produzione originale di grande interesse, ma di notevoli difficoltà, sarà invece il concerto che la Jazz Orchestra del Parco della Musica dedicherà ai Concerti Sacri di Duke Ellington. Con l’orchestra parteciperanno a questa iniziativa la cantante Petra Magoni, il coro e le voci soliste dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Coproduzione a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre, quali Treemonisha: a Guest of Honour, splendida opera in tre atti di Scott Jo-
plin rappresentata il 5 marzo 1908 a New York - anche se Joplin la depositò solo nel 1911 - riscoperta e nuovamente rappresentata e incisa nel 1973. Il concerto dedicato alle composizioni sacre di Ellington si baserà sulle partiture originali e saranno scelte pagine provenienti dalle tre opere. Il primo dei tre concerti venne rappresentato alla Grace Cathedral di San Francisco il 16 settembre 1965. Fu ripetuto integralmente alla Chiesa Presbiteriana della Quinta strada a New York e, nei mesi successivi, in Gran Bretagna alla Cat-
tedrale di Coventry. Anche se questo primo concerto venne commissionato a Ellington per la consacrazione della cattedrale di San Francisco, da tempo egli aveva l’idea di comporre un’opera a carattere religioso per la sua intima convinzione dell’esistenza di un amore universale identificabile con Dio. Per questa prima opera, Ellington si rifece a composizioni precedenti fra cui Come Sunday e Work Song tratte da Black Brown and Beige del 1943, ma anche New World A-Comin del 1962. Il brano più importante e significativo è In the Beginning God interpretato, nella registrazione realizzata alla Presbiterian Church, dal Mother A.M.E. Zion Cathedral Choir, uno dei più esaltanti cori gospel della musica nera. I concerti successivi del 1968 e del 1973, un anno prima della scomparsa di Duke Ellington, contengono invece pagine originali di grande suggestione.
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arti Mostre
trane coincidenze tappezzano spesso la nostra vita. Mentre m’accingo a portare i miei studenti universitari a visitare (in corner, sta chiudendo) la mostra che ha il titolo ambizioso di Nove100 (ma scopro che verrà prorogata, quindi posso tornare in questo spazio a formulare quelle osservazioni che avevo promesso in un’altra puntata, dedicata soprattutto alla fotografia e al disegno d’architettura, di questa mostra parmigiana così faraonica e ramificata in varie sedi), ecco che ci occorre d’assistere a una bella-terribile lezione di vita, durante una prova generale del Werther di Massenet, sempre a Parma, al leggendario Regio. Ovazioni viscerali, durante un’aria singhiozzata del tenore, che non ha tempo nemmeno d’accasciarsi, secondo i dettami d’una regia finto-moderna e dissennata di sciocchezze pseudo-avanguardistiche. Ma soprattutto non ha tempo di concludersi la musica rotonda, sapientemente profumata di Massenet. E allora vedi l’umile e provato vecchio maestro della tradizione francese Michel Plasson, che in reazione a tanto strepito chiassoso e ferino d’entusiasmo scomposto e agonistico, si volge squassato e viperino al «suo» pubblico, e prorompe in una predica accorata e irritata, che non si può che condividere. «Sì, capisco, avrà anche cantato benissimo, lo riconosco» (parla del Werther della serata, l’idolo locale ottimo Francesco Meli), «capisco pure che siete abituati così», alludendo probabilmente e non offensivamente a un certo modo d’essere facinorosi-verdiani, «sono contento d’essere al Regio e capisco che dovete fare così», quasi fosse d’obbligo far per mestiere i loggionisti, «ma scusate, anche Massenet non è poi così male, ha scritto musica abbastanza buona»... e allora ascoltatelo Massenet, lasciatelo finire, non decapitate la sua melodia ben confezionata, per buttarvi, come tori meccanici, sull’acuto nazionale,
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Design
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Senza Morandi non è Novecento di Marco Vallora sul goal dell’ugola! Forse non tutta la musica è soltanto applausi sopra lo sfogato e animale do di petto. E riprende, legittimamente irato, dove è stato interrotto: a far ascoltare il tranciato via: non sarà «granché», pare dire, ma è la sapienza di Parigi, e ci vuole rispetto, non tracotanza di sé. Che bella lezione! Perché anche un applauso può essere protervo, volgare, gradasso e soprattutto auto-riferito, pasciuto di sé: io so e mi faccio valere, applaudo la mia capacità d’apprezzare. No, non sai niente, se non sai nemmeno attendere la chiusa melodica. Un applauso
dovrebbe esser manifestazione di capacità critica, non d’ignoranza tecnica. Né si dirà poi come la platea replicò, piccata: zittendo gli applausi, quando Plasson ridiscende in buca, al second’atto e qualche classico imbecille sentenzia: «era geloso perché s’applaudiva il tenore e non lui». Altri non han capito nulla del tutto, pensano non voglia applausi perché si è in prova o come si fosse a una sacra rappresentazione del Parsifal. Sto andando fuori tema? No, non credo: perché pantografato o trasposto, quest’applauso dell’ignoranza, della protervia, ebbene è lo stesso incompetente «ap-
plauso» che ritroviamo nel mondo dell’arte. Non solo di chi guarda le mostre, ma di chi le fa (non disturbiamo il termine termale «cura»), di chi le spiega (ci sono guide bravissime, ma altre dementi), talvolta perfino di chi le giudica (nulla di peggio dei critici saccenti, più ignoranti delle stesse mostre che stroncano). C’entra così Nove100? Ho sentito dire da una ragazzina adorante al suo fidanzato, perplesso, sul treno (sì, tutto nella stessa giornata): «No, dobbiamo assolutamente andarci, c’è dentro tutto il Novecento!». No, non c’è tutto il Novecento, se non ci sono né Boccioni né Morandi, né De Pisis o Carrà o Severini. Non c’è Casorati, ma magari il suo rivale Spazzapan. C’è Sironi ma non Balla, entrambi il Novecento. Certo, c’è molto, ma c’è solo il tardo Novecento di quegli artisti viventi, o disponibili, che Quintavalle, il «dispensiere’» dello Sacs, ha potuto contattare, sirenare e convogliare a giuste donazioni. Ma poi, si può riassumere, raccontare, sintetizzare un secolo complesso come il Novecento? Non è pensabile che una formula pubblicitaria, accalappiante , inganni così le attese e tradisca il senso del vero. Non ce l’abbiamo con questa mostra, ma con la maleducazione galoppante di simil mondo. Anche se lì troviamo un’altra bella morale. Si guardi Lo spirato di Luciano Fabro, 1963. Ma non è, esattamente la stessa opera, tanto ammirata, di Cattelan, alla Fondazione Pinault, tra l’omertà ignava della critica, che non lo sa - dice?
Nove100, Parma, Palazzo del Governatore, fino al 26 maggio
Quell’inatteso incontro tra Pollaiolo e Gaetano Pesce urante la settimana del Salone del Mobile, appena conclusa, Milano diventa città aperta: piazze, palazzi, cortili, botteghe, laboratori e spazi industriali accolgono generosamente il design di tutto il mondo e il fiume di visitatori che scorre incontenibile in ogni dove. Evento da non mancare, la mostra Ospiti inaspettati, organizzata dal Circuito delle quattro Case Museo di Milano (Museo Poldi Pezzoli, Museo Bagatti Valsecchi, Casa Museo Boschi Di Stefano,Villa Necchi Campiglio), aperta fino al 2 maggio. Un tempo preziose dimore private appartenute ad amanti e collezionisti delle arti decorative, oggi sono musei aperti al pubblico. Gli «ospiti inaspettati», oggetti di design contemporaneo, a volte estremo, entrano un po’ prepotenti a scuotere quell’atmosfera, nonostante tutto inevitabilmente museale, ma, dopo un primo momento di leggero imbarazzo, si inseriscono in modo sorprendentemente naturale, assolvendo più che altrove alla loro funzione di oggetti non solo belli ma anche utili. L’allestimento più efficace è al Museo Poldi Pezzoli, una volta residenza del nobile milanese Gian Giacomo, il quale, dal 1846 acquista e collezio-
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di Marina Pinzuti Ansolini na oggetti di tutte le epoche, armi, armature, smalti, vetri, ceramiche, oreficerie, tappeti, arazzi, mobili e dipinti. Nelle varie stanze si susseguivano diversi stili «neo»: il barroco, il rococò, il gotico, il rinascimentale, il mediovale. Dagli anni Cinquanta, un po’ meno casa e un po’ più museo, oltre ad aumentare vertiginosamente la collezione di circa 1200 oggetti a opera di importanti donazioni, è stata oggetto di trasformazioni architettoniche e decorative. In questo tempio del design ottocentesco, sono stati collocati 70 oggetti contemporanei: divani, sedute, lampade, apparecchiature per la tavola, specchi e tappeti selezionati in modo attento per le loro forme e funzioni, per i colori e i materiali. Le sorprese si susseguono stanza dopo stanza. Nel salone centrale, nello sguardo intenso di Gian Giacomo Poldi Pezzoli si scorge un lampo di curiosità indirizzato al centro della sala, dove è collocato il gigantesco Boa, divano dei fratelli Campana, eclettici designer brasiliani. È un invito a osservare, sulla parete, adagiati sul morbito intreccio di velluto am-
brato, le minuziose scene di caccia rappresentate nell’imponente tappeto persiano, tessuto nelle manifatture di Tabriz nel 1542. Nel Salone Dorato è irresistibile sedersi su una Michetta di velluto rosa per godere del Ritratto di Dama del Pollaiolo, forse uno dei ritratti femminili più famosi del Rinascimento italiano e simbolo stesso del museo. Le Michette, creazioni di Gaetano Pesce, sono divani modulari: colorati, ironici, forse scomodi altrove, qui perfetti per osservare in composto raccoglimento. Nelle vetrine dell’austero e intatto studiolo dantesco, sopravvissuto ai bombardamenti del 1943, bisquit, miniature e bruciaprofumo fanno spazio, senza sforzo apparente, al vaso Medusa di Andrea Branzi e al calice Grande brindisi di Alessandro Mendini. Nella sala dei trecenteschi, una delle apparizioni più felici della mostra: una nuvola sospesa, formata da moduli componibili di tessuto dai colori delicati, creazione dei fratelli Bouroullec, esalta la bellezza composta di una Madonna lignea toscana della fine del 1200. Il dialogo tra gli oggetti del passato, antichi padroni di casa e gli ospiti inaspettati del presente diventa vivace; il confronto efficace, il risultato vincente. L’intelligente inizitiva della mostra è destinata certamente a essere un «precedente» nella storia degli allestimenti.
Ospiti inaspettati, Circuito delle quattro Case Museo di Milano, fino al 2 maggio
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NÉ UN SANTO NÉ UN MOSTRO. È QUANTO EMERGE DALLO STUDIO CHE KAROLINE LEACH, LAVORANDO SU DOCUMENTI FINORA IGNORATI, HA DEDICATO ALL’AUTORE DI “ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE”. SMENTENDO IL RITRATTO AGIOGRAFICO CHE NE AVEVA FATTO IL NIPOTE NELL’UNICA BIOGRAFIA UFFICIALE E CHE HA OFFERTO IL DESTRO A INFINITE INTERPRETAZIONI PSICOANALITICHE SULLA SUA SESSUALITÀ MALATA
MobyDICK
il paginone
Lewis Carroll riabilitato
di Mario Bernardi Guardi na lontana, magica notte nell’Inghilterra vittoriana. Una deliziosa fanciullona, di nome Alice, che sogna. Ecco: se ne sta seduta insieme alla sorella nel folto di un bosco, in riva a un ruscello, e all’improvviso appare un coniglio bianco, vestito con grande eleganza, che estrae dal taschino del panciotto un orologio, lo controlla con una certa aria preoccupata, sbuffa «sono in ritardo», corre agitato verso un buco nel terreno e ci si infila agevolmente. Alice lo insegue e precipita fino al centro della terra. Da questo momento in poi, le accade di tutto. Ad esempio, di cambiare dimensioni con facilità sorprendente, a seconda di quel che mangia - una torta trovata per caso - o di quel che beve - un bicchierino di liquore nella casa del coniglio. Nel Paese delle Meraviglie, del resto, non bisogna meravigliarsi di nulla. Alice aprirà porticine con chiavette d’oro, scorgerà stupendi giardini, incontrerà il gatto del Cheshire che si offre e si sottrae alla sua vista, diciamo così, «a pezzetti», cominciando dal sorriso e finendo col sorriso. Memorabile il commento della ragazzina: «Mi è capitato
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Eletto, casto, ingenuo, affabulatore di angeliche bambine: ecco l’icona da tramandare. Nella realtà Charles L. Dodgson (questo il suo vero nome) era pieno di interessi per le idee nuove, appassionato dei Preraffaelliti e delle belle donne spesso di vedere un gatto senza sorriso, ma un sorriso senza gatto! È la cosa più curiosa che abbia mai visto in vita mia». Ma la curiosità non finisce mai di essere stimolata e appagata, in uno scialo di incontri sorprendenti: dal Cappellaio Matto, che la invita al tè della lepre marzolina, alla Regina di cuori, che, dopo una partita a criquet nel suo splendido giardino, la chiama a testimoniare nel processo a un Fante accusato per un furto di biscotti.
È un «volo fantastico» quello di Alice: è come se le storie che lei legge nella sua cameretta di beneducata pargola di agiata famiglia alto-borghese, uscissero dai libri, liberando i personaggi e moltiplicandone i tratti bizzarri, paradossali, surreali. E lei ovviamente si stupisce, ma non più di tanto. Infatti, nella vita tranquilla e ordinata che la famiglia le garantisce c’è spazio adeguato per il «bisogno di sogno» e nel sogno non si rispettano regole e convenzioni: ma poi ci si sveglia, si torna alla realtà e il Paese delle Meraviglie ritrova immagini più consuete: il bosco, il ruscello, la sorella. Di Alice, noi che abbiamo superato gli anta, conserviamo un’icona-ricordo: il film del 1951, col contrassegno d.o.c. Walt Disney, che comunque non ci incantò così come avevano fatto Biancaneve e Cenerentola. La spiegazione? Leggiamo sul Morandini (Zanichelli) il giudizio di O. De Fornari: «Non si può espungere la filosofia dell’assurdo di Carroll e, insieme, conservarne l’impianto narrativo bislacco che soltanto quella filosofia anno III - numero 16 - pagina VIII
avrebbe potuto giustificare». Già, ma la «filosofia dell’assurdo» è compatibile con un attestato e più volte riconfermato «capolavoro della letteratura infantile»? A meno che il racconto che il compassato (o complessato?) ma estroso (anche un po’ matto?) Lewis Carroll, al secolo Charles L. Dodgson, prete anglicano nonché professore di matematica, scrisse per le sorelline Liddell, dedicandolo a una di loro, la prediletta Alice; a meno che, dicevamo, Alice’s Adventures in Wonderland non fosse in realtà rivolto ai «grandi», con il nascosto, ma non troppo, intento di denunciare ipocrisie, censure e modelli virtuistici vittoriani, grazie a coloriti e impertinenti granelli di lucida follia, sparsi di pagina in pagina. Con soave-perfida ironia che ha ben poco di infantile. Chissà… Certo è che il geniale e sregolato Tim Burton, col geniale e sregolato Johnny Depp, e con un’Alice diciannovenne e antivittoriana che rammemora riti di passaggio e altri ne compie, esplicitamente si sono proposti di ritrovare il vero spirito del romanzo, ripercorrendone le sequenze incantate e/o allucinate e svelandone la trama simbolica, anzi sacrale. Ci sono riusciti? Come per l’Alice disneyana, critica e pubblico appaiono perplessi. Suggestioni a iosa, grandi, godibilissimi effetti speciali, ma…
Non sarà che, per comprendere le stramberie di Alice, abbiamo bisogno di comprenderne il «padre», e cioè Lewis Carroll? Ma com’era davvero? Un tipo strambo e un po’ inquietante? O addirittura un tipac-
cio, quasi un orco sotto le mentite spoglie di un dolcissimo, affettuoso affabulatore? Ebbene sì: amava le bambine.Trascorreva con loro gran parte del suo tempo, le coccolava, le vezzeggiava, inventava mille giochi per farle divertire. E le fotografava, cercando di cogliere nei loro sguardi quel misto di tenerezza, capriccio e ambiguità che le rendeva deliziose. Lewis Carroll amava le bambine, piccoli, enigmatici angeli, con addosso qualcosa di magico. Come, appunto, Alice Liddell che trasfigurò in Alice nel Paese delle Meraviglie. Amava le bambine il reverendo anglicano nonché prof. di matematica Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll. E mentre il primo, come scrive Karoline Leach (La vita segreta del papà di Alice, Castelvecchi, 427 pagine, 22,00 euro), «nacque il 27 gennaio 1832, visse la sua vita e morì il 14 gennaio 1898», il secondo «nacque il primo marzo 1856 ed è ancora tra noi».
Già, perché da cento anni ci si occupa soprattutto della seconda incarnazione. E cioè del mito di Lewis Carroll, piuttosto che della realtà di Charles Dodgson. Ora, come è noto, sul capo dello scrittore è da decenni sospesa una sinistra, sulfurea nuvoletta. Insomma - si dice - anche ammettendo che il Nostro amasse platonicamente le bambine prepuberi che circolavano per la sua casa, di fatto quei vagheggiamenti erano morbosi, frutto di una sessualità repressa, deviata, malata. Il povero Lewis viveva fuori dal mondo, non aveva contatti umani, trovava unico conforto nella compa-
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gnia delle pargolette non ancora sbocciate, si disinteressava delle sue amiche non appena diventavano grandi. O erano loro che, a un certo punto, si sottraevano all’atmosfera malsana di quella casa… Questa è la vulgata. Ed è ovvio che, trattandosi di un argomento pruriginoso, la letteratura in materia abbondi. Che storia eccitante quella del pretino solitario, complessato e pedofilo! Peccato che la verità sia un’altra. Come dimostra la Leach, a suon di documenti. Ne restano abbastanza, anche se gli eredi infierirono, tra roghi e aste, sulla sterminata quantità di carte che riempivano le stanze del defunto. Basta avere la voglia di consultarle, buttando via i pregiudizi. Ebbene, sostiene la Leach, carte alla mano, non è vero che Carroll concedesse amore e attenzione solo a bambine in età prepubere. È vero, invece, che gran parte delle frequentatrici di casa sua cominciarono come «amiche bambine», ma poi crebbero e restarono tali anche quando avevano venti, trent’anni. Lui continuò a chiamarle «piccole amiche», ma erano donne sposate, vedove, ragazze single, con molte delle quali ebbe relazioni più o meno intense. Insomma, primo, al suo amore per le bambine non si mescolavano fantasie morbose né tanto meno sotterranee vocazioni pedofile. Secondo, gli piacevano le ragazze e le donne. Come normalità comanda.
E allora com’è potuta nascere la leggenda e come mai su di essa sono prosperati tanti maliziosi malintesi? La colpa originaria sta nella prima e unica biografia «ufficiale» di Lewis Carroll, quella scritta, undici mesi dopo il suo decesso, dal nipote Stuart Dodgson Collingwood. Il quale, più che un attendibile profilo biografico, ne confezionò uno agiografico. In perfetta conformità allo spirito vittoriano incline ai santini. Ragion per cui la vita dello zio doveva essere l’immagine della virtù: duro lavoro, autodisciplina, rigido conservatorismo, genuina fede religiosa. E le bambine? Ma
Carroll, raccontavano, loro erano bambine, le bambine che lui purissimamente amava. E non, come sarebbe stato possibile verificare, le ragazze cui lui si interessava, ovviamente con minor purezza, ma in maniera perfettamente conforme agli istinti naturali. In questo modo si consolidò l’etereo ritratto che avrebbero offerto il destro a ben altre interpretazioni. Perché, diciamo la verità, uno che ama troppo le bambine, mica la racconta giusta. Quanto meno è un tipo ambiguo. Da studiare. E se ci pensa la psicoanalisi, il gioco è fatto. A tracciare il solco, racconta la Leach, fu un giovane studioso, Anthony Goldschmidt, che, a metà anni Trenta, cominciò a compulsare con crescente curiosità la biografie dedicate a Carroll. Quel tipo con le bambine piccole che lo contornavano estasiate, col suo isolamento sociale, con la sua apparente assenza di contatti col mondo degli adulti ecc. - non lo convinceva. O meglio gli faceva nascere il sospetto che di mezzo c’era una patologia. In poche parole, Carroll «non era né un santo né una creatura eterea coperta da un manto di carne e sangue, bensì un pedofilo represso». Goldschmidt pubblicò i risultati della sua ricerca in un articolo di quattro pagine sul New Oxford Outlook. Così parlò Goldschmidt: l’inizio di Alice è un messaggio in codice che viene dal subconscio di Lewis Carroll; segni e simboli possono essere decodificati alla luce della moderna psicoanalisi; l’intero svolgimento della storia può essere spiegato con il desiderio di raggiungere una virilità completa, in conflitto con il desiderio di una soddisfazione sessuale anomala. Ne deriva che la caduta nella tana del coniglio allude alla penetrazione sessuale, che le porte qua e là disseminate sono emblemi dei genitali femminili e che alla porta più piccola, e più «interessante», corrisponde una bambina. La desiata Alice. Ergo, Carroll era un pedofilo. Seguono decenni di saggi e biografie a conferma della sentenza. Inappellabile? No, perché Karo-
Pedofilo represso. Questa la vulgata che ha sempre circondato la figura dello scrittore vittoriano. Ma la sua era un’epoca in cui i bambini, spesso ritratti nella loro nudità, erano sinonimo di purezza. Un’inversione di tendenza rispetto a oggi... in età vittoriana «chi amava le bambine» era uno spirito superiore attratto dagli angeli, e davvero Collingwood mai e poi mai avrebbe immaginato di consegnare ai posteri un’immagine equivoca dell’amato zio. Il puro, l’eletto, il casto, l’ingenuo Lewis Carroll, meraviglioso affabulatore, con tante bambine intorno, amate con innocenza: ecco l’icona da tramandare. Via, dunque, in nome di un’immagine «sublime», ogni traccia di normali appetiti sessuali e di altri legami affettivi. E lievi, rapidi cenni al fatto che il Nostro a trent’anni aveva abbandonato la tonaca, era pieno di interessi per le idee nuove e coltivava una vera e propria passione per l’estetismo voluttuoso e vagamente eretico dei Preraffaelliti. Rapidissimi cenni, poi, agli affetti adulti, cioè alle donne che, bene o male, compaiono nella vita di Carroll, e che non possono essere ignorate. Ma che finiscono con l’avere una fisicità e un carattere indistinti, svaporando nel paesaggio meraviglioso dove l’Affabulatore, contornato da angeli, narra le sue storie, in un tripudio di creatività e affettività sublimemente avvinte. Così, per eccesso di benevolenza, Collingwood arò il terreno dove avrebbero operato i sostenitori di un Lewis, se non puro spirito alieno da umanissimi desideri, quanto meno meraviglioso maestro che, sospeso tra terra e cielo, affidava al suo genio l’invenzione di spazi incontaminati, alieni da ogni bassura e abitati solo da una fantasia che non conosce confini. E che è la migliore educatrice di ogni anima innocente. Il bello è che, a dare opportuni ritocchi a questa immagine di Lewis, concorsero non poche donne con cui il Nostro aveva avuto legami affettivi assolutamente normali, quando loro erano delle belle ragazze e lui un giovane uomo dall’indiscutibile fascino. Ma quel passato contrastava con il mito vittoriano di un Lewis asessuato e dunque su esso si doveva intervenire con qualche ritocco. Ed è così che le testimoni in questione si accorciarono l’età: ai tempi dell’amicizia con
line Leach, lavorando sui documenti, e rimproverando ai biografi di Carroll di non averlo fatto adeguatamente o di averne estrapolato quel che serviva a confermare inveterati pregiudizi, contesta la vulgata del «bambino invecchiato», sessuofobo e sessuomane a un tempo, dunque perverso anziché no, e ci dà il profilo di un uomo adulto, con un carnet fitto di relazioni, e con tutti i pregi e i difetti di uno che non era né un santo né un mostro.
Come la mettiamo, allora, con il grave indizio delle foto? Il fatto è che negli anni Settanta, alla collezione Rosenbach di Filadelfia, «furono rinvenute quattro immagini che rappresentavano i corpi piccoli, gli arti tondeggianti e l’indubbia nudità di quattro bambine prepuberi» e che a scattarle era stato Lewis Carroll. La scoperta sembra valere da conferma senza appello per chi da sempre sventolava il vessillo dell’Affabulatore pedofilo. E indubbiamente, rileva la Leach, soggetti infantili del genere ai nostri giorni sono unicamente disponibili in forma pornografica. Ai nostri giorni, però, e non in età vittoriana. Perché se allora, in un’epoca che adorava l’innocenza, l’amore per la compagnia «pura» dei bambini era sinonimo di integrità morale, l’essenza pittorica di tutto questo era la nudità. Insomma, «in un’inversione un po’ spiazzante della morale attuale, la rappresentazione di bambine nude non era un’espressione pornografica e un sintomo di sensualità deviata, bensì un’immagine artistica (…). L’immagine della bimba nuda veniva vista nel mondo dell’arte come una fonte di bellezza celeste, immune da qualsiasi cenno a un’identità sessuale manifesta. Quindi, bellezza allo stato puro». Così era nella moralissima età vittoriana, allorché la rispettabile borghesia «inviava cartoline natalizie recanti giovani Veneri che mostravano le loro pudende implumi». E allora? E allora forse bisogna riaprire il dibattito su Lewis Carroll. E su Alice, naturalmente.
Sopra, alcune illustrazioni (film, libri e fumetti) di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Nella pagina a fianco, Carroll e Alice Lidell in una foto dello scrittore
Religione
MobyDICK
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ento pagine per raccontare la storia di un amore. Il suo verso la Chiesa. Così vero da non poterne parlare senza parlare della sua vita. Un saggio breve e irresistibile su ciò che accade a un uomo che si converte al cattolicesimo (nel 1922) è il libro La Chiesa cattolica di Gilbert K. Chesterton, battezzato anglicano e cresciuto in un mondo agnostico. Ci sono pagine memorabili sulla propaganda anti-cattolica, riferite all’Inghilterra di allora, ma perfette per oggi. Alla fine di una vita pienamente vissuta, Chesterton ha il cuore di un bambino e la mente di un gentiluomo. Con profetica ironia smaschera i falsi ragionamenti con cui si attacca la Chiesa: ma lui sa che «lei» «è molto più grande dentro che fuori». Così grande che due uomini non vi entreranno mai con la stessa angolazione. Così nuova, che vale «per il primo dei pastori e per l’ultimo dei convertiti». Una dichiarazione d’amore alla Chiesa dedicata a tutti, anche a chi già crede. Un invito a rimanere. Perché tutte le volte che le ragioni della Chiesa non si vedono, alla fine ha ragione lei. E l’uomo scopre la più grande verità. «Con il tempo», dice Chesterton. E «con l’arrivo della speranza». Il «Genio colossale», come l’amicorivale George Bernard Shaw definì Chesterton, aveva scoperto la speranza, che giorno dopo giorno comprese essere Dio, il Dio cristiano, cioè il Dio incarnato, e più avanti scoprì che Egli era il Dio della Chiesa cattolica romana, come si dice in Inghilterra con un’espressione che nasconde secoli di rancori e di rivendicazioni. Quando Chesterton parla di religione, ne parla sempre a partire dalla ragione e dalla vita. Non fa un discorso ecclesiastico o clericale. Può partire da un pezzo di gesso, un dente di leone o un tramonto per arrivare al rapporto di ciascuno di noi con il Mistero. Perché per lui fu così: il Mistero che fa tutte le cose si manifestò nella sua vita attraverso gli umili ma potenti segni dell’allegria familiare, del gusto del bello scorto nelle cose di tutti i giorni, come il vento che sconvolse la casa dove si svolge la vicenda di «Uomovivo».Tutto era per lui la conferma che la vita era degna di essere vissuta. Chesterton si scusa dicendo di aver dato «dispiacere a coloro che mi auguravano ogni bene, e a molte persone sagge e prudenti, per la mia condotta incauta nel diventare cristiano, cristiano ortodosso, e infine cattolico nel senso di cattolico romano», in un’adesione progressiva al nocciolo del Credo degli Apostoli, definito come la maggiore sorgente di energia e di sanità morale. In effetti, per qualcuno questo ingresso fu un vero trauma: c’era chi credeva che fosse già cattolico, chi invece non auspicava questo passaggio, ritenuto quasi fatale. Shaw stesso lo metterà in guardia in una lettera: «Gilbert, questo è andare troppo lontano...». Ma il punto è a che cosa un uomo non può fare a meno di credere. L’uomo non può
C
libri
Gilbert K. Chesterton LA CHIESA CATTOLICA Lindau, 117 pagine, 13,00 euro
Chesterton cattolico con allegria
Tra paradosso e ironia la storia di una conversione nell’Inghilterra del XX secolo
Il bibliofilo
di Rossella Fabiani
dubitare dell’elefante dopo averne visto uno, e non può trattare come un bambino la Chiesa dopo avere scoperto di esserne figlio. La Chiesa è madre non per un’emozione, ma per un fatto storico. E quando l’uomo esige di avere la priorità sulla legge primitiva di tutta la terra, allora se la sarà cercata se ottiene come risposta la franchezza spiazzante del Libro di Giobbe: «Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?». In modo sottile, brillante e appassionato, Chesterton, dunque, accompagna l’anima perennemente in bilico del convertito attraverso le tre fasi che precedono l’ingresso nella Chiesa di Roma: l’assunzione di un atteggiamento intellettualmente onesto nei confronti di essa, poi la sua progressiva e irresistibile scoperta e infine l’impossibilità di abbandonarla una volta entratovi. E al termine di questo pellegrinaggio interiore, la religione più antica si rivela sorprendentemente la più nuova, più nuova delle cosiddette religioni nuove, come protestantesimo, socialismo o spiritismo, perché, a differenze di esse, da duemila anni la tradizione e la verità cattoliche conservano intatta la propria validità. Ma come spiegare perché sia ancora tanto nuova oggi, per l’ultimo dei convertiti, quanto lo era per il primo dei pastori? C’è qualcosa di leggendario nel fatto che una religione vecchia di duemila anni sia considerata una rivale delle religioni nuove. Per Chesterton il fondamento di questa reale universalità, oltre a risiedere nell’azione della Grazia, mistero teologico della fede, risiede nella razionalità e nella libertà del cattolicesimo, come Benedetto XVI va instancabilmente ripetedendo agli uomini di oggi. Chesterton è convinto che l’uomo dovrebbe combinare ragione e immaginazione. Il pensatore costruttivo è come Neemia che difende le mura di Gerusalemme con una cazzuola in una mano e la spada nell’altra: la cazzuola rappresenta l’immaginazione, il potere costruttivo; la spada è la ragione, lo strumento difensivo.Tutto è ben riassunto nel consiglio che egli diede al giovane ragazzo al quale regalò un libro illustrato: «Così ti ricordi del tuo libro, mio piccolo uomo, e ascolti gli sproloqui e le critiche dei pedanti. Ma non credere in niente che non possa essere raccontato in immagini colorate». In occasione della sua conversione al cattolicesimo, disse: «I saggi hanno cento mappe che disegnano universi fitti come alberi, scuotono la ragione con mille setacci che accantonano la sabbia e lasciano filtrare l’oro: per me tutto ciò vale meno della polvere poiché il mio nome è Lazzaro e sono vivo».
Il tascapane dell’«uomo di pena»
ncomincio Il Porto Sepolto, dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noi. Nelle trincee, quasi sempre nelle stesse trincee, perché siamo rimasti sul San Michele anche nel periodo di riposo, per un anno si svolsero i combattimenti. Il Porto Sepolto racchiude l’esperienza di quell’anno». Sono parole di Giuseppe Ungaretti tese a rievocare la pubblicazione della sua raccolta d’esordio, edita nel 1916 dallo Stabilimento Tipografico Friulano di Udine in una tiratura di appena 80 esemplari. Com’è noto fu l’ufficiale Ettore Serra a improvvisarsi editore dopo aver conosciuto quel soldato semplice «dal fare trasandato e disattento» che scrisse in seguito: «La colpa fu tutta sua. A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute... sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, por-
«I
di Pasquale Di Palmo tandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico». Serra, divenuto amico del poeta, si fece consegnare, dopo qualche mese, il tascapane contenente varie carte, tra cui le liriche scritte tra il 1915 e il 1916 e ne ricavò una spoglia brochure di 48 pagine. Si tratta del celebre diario in versi ungarettiano, ricco di immagini folgoranti e di una musicalità franta che cambieranno radicalmente le sorti della nostra lirica moderna. Leone Piccioni ha così rievocato l’incontro con il «Gentile / Ettore Serra», come recita l’incipit della lirica conclusiva, intitolata Poesia: «Era un giovane tenente, amante della poesia e poeta lui stesso, lettore della Voce e di Lacerba. Nella primavera del ’16 [...] era a Versa: vi giunse a riposo il reggimento di Ungaretti, 19° fanteria della Brigata Brescia, dopo un mese e mezzo e forse più passato sul Carso, in trincea. Serra ha raccontato che passando per l’acquartieramento di quel reparto, notò, per un puro caso, un fante che si distingueva dagli al-
Le quotazioni, da capogiro, del “Porto sepolto” di Ungaretti edito nel 1916 in 80 esemplari
tri per il suo portamento trascurato e per il disordine della sua tenuta militare e della persona: camminava lentamente, dondolando, le mani in tasca, il cappello militare di traverso, le scarpe sporche, esposto al sole, godendoselo,“come una lucertola”. [...]“Come ti chiami?”“Giuseppe Ungaretti.”“Di dove sei?”“Di Lucca, più precisamente di Alessandria d’Egitto”, ecc. ecc. Ma il nome non era del tutto nuovo per Serra, ripensò alle poesie di Lacerba, forse aveva fatto in tempo a vedere il numero della Voce del mese avanti». Serra ristamperà nel 1923 Il Porto Sepolto presso la sua Stamperia Apuana in un’edizione di 500 copie numerate fuori commercio, corredata da una presentazione di Mussolini e da 5 xilografie e 15 fregi di Francesco Gamba. Ma quell’editio princeps dall’aspetto grafico così povero e dimesso, che adesso costituisce uno dei titoli più ricercati del Novecento, conserva il fascino impagabile dei versicoli dell’«uomo di pena» che trascina la sua «carcassa/ usata dal fango/ come una suola/ o come un seme/ di spinalba». Nel 1919 sarà la volta dei versi francesi di La Guerre, pubblicati dall’Établissement Lux di Parigi in 80 esemplari fuori commercio. Entrambi i titoli, rarissimi, hanno quotazioni ormai da capogiro, che si aggirano intorno ai 25 mila euro.
MobyDICK
Esordi
di Maria Pia Ammirati
arrebbe la pena, per raccontare questo romanzo scritto da una ragazza dell’89, tessere e ritessere citazioni dal testo, opera prima da poco candidata allo Strega 2010, che di diritto entra nella schiera del pastiche letterario di buona tradizione italica che da Dossi arriva a Carlo Emilio Gadda non dimenticando un minore come Antonio Pizzuto. La casa è il titolo sintetico e vagamente anonimo per il nuovo romanzo di Angela Bubba, scrittrice già individuata nel 2008 tra i finalisti del Premio Calvino, che contrasta la fluvialità linguistica e il parossismo di una novella in lingua pasticciata, appunto, con il dialetto calabrese, lingua madre dell’autrice. Forza d’urto i derivati verbali dei tanti neologismi che creano quindi non solo una mappa geografica del testo, ma esaltano una letterarietà di spirito naturale. Lo spessore linguistico che imprime forza al testo sovrasta la storia che, forse, occhieggia all’impronta verista citata nella quarta di copertina. Per il resto, cioè oltre la materia grezza del plot, difficile avvicinare il testo al verismo degli scrittori meridionali. Tralasciando alcune sapide scene come quella del primario che incontra la protagonista Lia (incontro tra il popolo e la classe dirigente), tutto il resto fugge via dal verismo per parlare una lingua mista e decadente, a tratti epica. Una dose di ironia e disincanto, una mancata partecipazione del narratore, l’impegno stilistico che sopravanza la storia in quanto tale. La storia, peraltro, sarebbe anche facile e collaudata, riportabile ad altri esperimenti narrativi recenti dedicati alle storie di famiglie come
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La casa dove la donna è solo psicologia quelle di Mariolina Venezia o di Milena Agus, se non fosse che lo scatto della Bubba è nella maturità espressiva che procede per accumulo. Ma per non perdere il filo enunciato al principio, prima di dar conto della storia, sentiamo l’incipit del libro e introduciamoci in argomento: «Nella famiglia Manfredi la donna non era un essere umano, né una qualche corporea entità, e neanche una sorta d’impasto di sangue ossa e passione. Era una psicologia, quella cosa soltanto». La famiglia Manfredi che abita la casa è composta da cinque figli, quattro femmine e un maschio. Per questo motivo l’apertura del libro è dedicata alla descrizione ontologica del mondo femminile. Una sorta di nobilitazione del concetto di matriarcato meridionale dove il corpo delle donne vive una funzione prevalentemente ri-produttiva, il resto è psicologia, cioè intricato sistema di relazioni. Non sarà un caso che, sempre in apertura, è posta la nascita del figlio della prima ragazza della famiglia Manfredi. La casa è situata in uno strano e sghembo luogo della Calabria «a Petronà, un groppo di pietre fra la Calabria e le nuvole», in un tempo lontano e sospeso, tutto da consumare dentro le dinamiche familiari fatte di nascite, malattie e morti. Il luogo è tutto, oltre che la scena per i suoi personaggi, è la rappresentazione stessa di un mondo arcaico e avulso dalla storia. Come arcaiche sono a volte le impennate linguistiche, i neologismi, la parlata volgare: «spincionarsi… sbobinava… ululava nella gelata… spulicò timido… una brancata d’uomini... i ragazzi passiavano nella piazza». Un testo corposo e arduo, di sorprendente maturità per una scrittrice giovanissima che avrà ancora molto da dire.
Racconti
Angela Bubba, La casa, Elliot, 363 pagine, 16,50 euro
Raymond Carver primo e ultimo essuna sorpresa, questo è certo: il copione emozionale non si ribalta. Ma viene spontaneo ripensare a quanto sia squallida e triste una gran parte di America leggendo i racconti inediti di Raymond Carver proposti ora dalla Einaudi. Anche sul grande schermo, per merito di Robert Altman che rese pellicola (America oggi) nove testi dello scrittore scarno e tagliente, il cosiddetto paese delle opportunità appariva ripiegato su se stesso, desolato, in preda a contraddizioni che mai esploravano davvero i tortuosi cunicoli dell’anima. Dentro villette e appartamenti, dentro un decoro di superficie, si avverte il niente o il quasi niente, oppure il brusio di un temporale in arrivo. Accanto a sconfitti automatismi di persone che si agitano come cavie in gabbia o come manichini nelle vetrine della piccineria piccolo-borghese, affiora uno dei temi cari - evidenti gli appigli autobiografici - a Carver, ossia la fatica dell’uomo di liberarsi da certe schiavitù come l’alcol per adottare regole di vita semplici, rigorose anche se apparentemente assurde.
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di Mario Donati Questo testo si compone di due parti: la prima contiene gli inediti di un Carver già maturo, la seconda i racconti giovanili. Ed è interessante rilevare come i secondi siano in qualche modo prologo dei primi, almeno nelle parti, non tante, in cui compare la luce del riscatto. Carver è fedele al suo idolomaestro Hemingway, senza però dimenticare il corteggiamento letterario verso Cechov. Nel racconto Legna da ardere compare un uomo, Myers, attorno al quale lo scrittore non si perita di mobilitare memorie. Basta un gesto, una parola, un particolare: tutto è affidato all’elaborazione di chi legge. Si può facilmente affermare che Carver non schiavizza il lettore, non lo tiene per le redini. Semmai dà una sterzata al suo calesse, indicandone la direzione. Questo personaggio è descritto magistralmente nelle prime tre righe: «Era la metà di agosto e Myers era sospeso a metà tra una vita e l’altra. L’unica differenza, rispetto alle altre volte, era che questa volta era sobrio». Il resto,
se ci fosse, sarebbe per Carver antiquato chiacchiericcio. È una scelta stilistica: la si può apprezzare oppure no, quel che è certo è che risulta di grande efficacia. Certe volte uno schizzo su carta «parla» più di un affresco. Ebbene, Myers affitta una camera presso due coniugi, che lo considerano subito «uno a posto». Un giorno si offre a tagliare la legna. Nulla vuole in cambio, nemmeno un invito a cena. Il suo scopo è quello di fare bene un lavoro faticoso. I suoi ospiti non capiscono, ma accettano quel volontariato con accetta e motosega: sono una coppia di una grottesca chiusura spirituale, lontana dalle domande. Dopo pochi giorni Myers, terminato il lavoro, si tiene la testa tra le mani per qualche istante poi spegne la luce e va a letto, lasciando la finestra aperta: «Andava bene così». Ce l’ha fatta, se ne andrà. Il primo importante passo è compiuto. Al lettore il compito di immaginare il tipo di inferno da cui Myers proviene. Raymond Carver, Se hai bisogno, chiama, Einaudi, 143 pagine, 18,00 euro
ALTRE LETTURE
QUELLA FOLLIA CHE PER I GRECI ERA SAGGEZZA di Riccardo Paradisi
ella Grecia delle origini la follia non fu solo malattia, ma mezzo per forzare i limiti dell’anima e dilatare la personalità. Faceva parte dell’esperienza religiosa, stava alla base dell’attività di profeti e persino di politici, era la voce degli oracoli. C’era metodo in quella pazzia: ispirava poeti e cantori, né mancavano culti estatici, come quello di Dioniso, in cui gli adepti avevano esperienze visionarie. In Grecia i pazzi non venivano reclusi; piuttosto la società era capace di modellare la follia al proprio interno, sfruttandola in modo creativo. Ai confini dell’anima di Giulio Guidorizzi, (Raffaello Cortina editore, 225 pagine, 19,00 euro) è il primo studio italiano a delineare una storia della pazzia nell’antichità mostrando quanto la stessa civiltà occidentale deve alla non-ragione.
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UN FUOCO DISTRUTTIVO CHIAMATO RABBIA *****
uò prenderti mentre sei in coda in auto, sul posto di lavoro, o durante una discussione con il partner. E poi quando si esaurisce e se ne va è troppo tardi per rimediare ai danni che ha provocato. Ma che cosa è esattamente la rabbia? Da dove viene e perché si scatena? E soprattutto che cosa si può fare per combatterla? Da questi interrogativi prende le mosse l’intervista di Cinzia Tani al neurologo Rosario Sorrentino Rabbia (Mondadori, 225 pagine, 18,50 euro) dove si cerca di risalire alle radici neurologiche e mentali di un’emozione diventata la cifra della società contemporanea con i suoi ritmi sempre più frenetici. Un virus quello della rabbia che sta avvelenando e corrodendo non solo rapporti di coppia e famigliari, ma anche le più elementari norme della convivenza civile.
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L’ITALIA PREROMANA NELLA TOPONOMASTICA *****
e mappe parlano e raccontano attraverso i nomi dei luoghi, storie di civiltà e di popoli che nel corso dei secoli sono vissuti e si sono sviluppati nella nostra Penisola. Accanto ai toponimi di origine latina o romanza e ad altri più recenti attributi a scopi celebrativi e augurali, ci sono anche nomi in cui affiorano resti di lingue di antichi popoli che abitavano l’Italia nel I millennio a.C. o ancora più indietro nel tempo. Sabini, sanniti, etruschi, celti, venetici, sardiani, siculi, messapi, piceni, liguri, prima di diventare tutti romani e poi antenati di noi italiani, ci hanno lasciato misteriosi e spesso finora «muti» toponimi che Toponomastica d’Italia di Antonio Sciarretta (Mursia, 273 pagine, 18,00 euro) spiega in un viaggio affascinante alla scoperta del nostro passato più remoto.
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di Enrica Rosso ongo brutta e nun so bella/ chesta so: ‘na cartuscella,/ ‘na palomma co’‘na scella/ e me chiammano Pupella» (Son brutta e non son bella/ questa sono: una piccola cosa/ una colomba con un’ala sola/ e mi chiamano Bambolina). Così si presenta Giacinta Maggio, in arte Pupella nel libro autobiografico del 1995 Poca luce in tanto spazio che ne raccoglie ricordi, riflessioni e poesie. Figlia di Domenico Maggio, detto Mimì, e di Antonietta Gravante, entrambi attori e cantanti, si guadagnò l’appellativo di Pupella sul campo, debuttando a soli due anni, nella compagnia paterna nel ruolo del titolo della commedia La pupa movibile di Eduardo Scarpetta. In effetti Pupella nasce protagonista. Donna d’indole forte, sempre fautrice delle sue scelte, aveva un animo da guerriero ospitato in un corpo minuto. Non doveva essere stato facile nascere femmina, a Napoli, il 24 aprile del 1910. Certo suo padre era un capocomico importante, ma le bocche da sfamare in famiglia erano tante (sedici figli di cui non tutti sopravvissuti) e la concorrenza di ben cinque fratelli in palcoscenico, per una con il suo temperamento, sicuramente stimolante (anche se le valse il nomignolo di «Duse», frutto di un eccessivo autocompiacimento). Lei però non aveva nulla da rimproverarsi, nessuno le aveva fatto sconti e solo lavorando duro era arrivata a guadagnarsi l’amore del pubblico e la stima della critica dimostrata con l’assegnazione di numerosi premi. Dopo lo scioglimento della compagnia di famiglia Pupella si affilia alla «Scarpettiana» e sotto la guida del capocomico Eduardo maturerà la sua arte fino al conseguimento nel 1959 del clamoroso successo personale nel ruolo di Rosa che
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Televisione
Teatro Un guerriero di nome Pupella MobyDICK
Alla Casa dei Teatri di Roma, omaggio alla grande attrice napoletana a 100 anni dalla nascita Eduardo le scrisse addosso, in quel Sabato domenica e lunedì datato 1959. Il suo intuito d’interprete le farà interrompere l’esperienza partenopea per affrontare Arialda di Giovanni Testori messo in scena da Luchino Visconti. Da quel momento prenderà parte, in ruoli secondari ma che le regaleranno la popolarità, ad alcune delle pellicole che hanno fatto la storia del cinema: Amarcord di Federico
spettacoli
Fellini, La Ciociara di Vittorio De Sica, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, Sabato, domenica e lunedì della Wertmüller, Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Non rinuncia però al teatro di Giuseppe Patroni Griffi: In memoria di una signora amica di nuovo scritto per lei e diretto da Francesco Rosi, e con Antonio Calenda che la dirigerà in La madre di Bertolt Brecht e Aspettando Godot di Samuel Beckett. Sempre imprevedibile, verso la fine della sua splendida carriera si è ritrovata con i fratelli Rosalia e Beniamino in Na sera ‘e maggio costruito su misura da Calenda per creare l’occasione. In seguito a un incidente d’auto che la costrinse a interrompere la tournée decise poi di ritirarsi tra Roma e Todi. Fino all’ultimo vitalissima, gioiosa, grata alla vita. Nel centenario della nascita O-Maggio a Pupella è il titolo della rassegna video che la Casa dei Teatri a Roma le dedica tra aprile e maggio per ricordarla. Già dal 16 aprile, ogni settimana, nei giorni di venerdì e sabato alle ore 16.00, si potrà assistere a Le quattro giornate di Napoli del 1962, Il cilindro e Le voci di dentro, entrambi diretti da Eduardo De Filippo, In memoria di una signora amica per la regia di Giuseppe Patroni Griffi, Sabato, domenica e lunedì e in ultimo la pellicola di Francesco Apolloni Fate come noi del 2001.
DVD
ANCORA IL MISTERO DELLA SINDONE ncominciata da pochi giorni l’Ostensione presso il duomo di Torino, la Sacra Sindone continua a interrogare gli studiosi e a richiamare migliaia di fedeli da tutto il mondo. E il prezioso lenzuolo di Giuseppe d’Arimatea, che secondo la tradizione avvolse il Cristo dopo la deposizione, è al centro di un bel documentario di David W. Rolfe, intitolato Sindone-Passio Christi Passio hominis. Passata tra le mani di musulmani e crociati, e poi da casa Savoia che la affidò al Papa, la reliquia più amata dai fedeli è oggetto di numerose leggende e fatti storici, che il regista ripercorre con perizia ed equilibrio.
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GAMES
ARAGORN E GANDALF ALLA RISCOSSA appuntamento tanto atteso ha finalmente una data: l’inizio dell’autunno porterà in dote agli amanti di Tolkien una grande avventura in console che consentirà al giocatore di vestire i panni di Aragorn. Il nuovo episodio ludico de Il Signore degli Anelli porterà il sigillo Warner Bros e sarà improntato agli elementi che hanno fatto la fortuna della saga: combattimenti con spade e archi, a piedi o a cavallo, nel corso di un assedio o mentre si raggiungono frettolosamente i ripari. Le versioni per Wii e playstation3, disporranno inoltre di una golosa modalità di gioco cooperativa: il compagno d’avventura potrà infatti impersonare Gandalf.
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di Francesco Lo Dico
La “mala education” che rende assassini
iù che una sensazione è un dato di fatto: nel 2010 la fiction televisiva s’è presa una vacanza. I canali Sky ripropongono le vecchie serie, da Csi a Criminal Minds, da Ncis a l’Ispettore Barnaby.Tutto già visto. Un tutto che si affianca all’archeologia divertente del canale Retro: che avrebbe senso, eccome, se avesse come contraltare la novità. Rai e Mediaset non ne approfittano. Oppure tentano, ma con muscoli infiacchiti. Si dovrà attendere il prossimo autunno, quando Sky lancerà la seconda serie di Romanzo criminale, in fase di lavorazione (fino a giugno) nelle aulebunker del Foro Italico, a Roma.Vedremo agire, in tribunale e fuori, i «veri bastardi» italiani, con quelle connessioni tra Banda della Magliana, terrorismo e servizi segreti deviati che fanno tanto paura all’estabilishment, tanto è vero che Mediaset s’è tolta dalla coproduzione («prodotto troppo duro», hanno detto) e proporrà sulla sua
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di Pier Mario Fasanotti rete alcuni brani della fiction debitamente tagliati. L’autore dell’omonimo romanzo, il magistrato Giancarlo De Cataldo, è stato sferzante a proposito del rifiuto della realtà, un misto di fantasia e di verità processuali: «È da trent’anni che la tv ci narcotizza». E dunque, si chiede il telespettatore? Si può scovare un altro prodotto come la «docu-fiction», in pratica la spiegazione per immagini di un argomento, di uno scandalo, di un tema sociale. Seguendo questo filone vale la pena prestare attenzione a Donne mortali, con sottotitolo Young blood, presentato da Discovery Real. Siamo alla terza serie, coordinata dalla psicologa e criminologa Roberta Bruzzone. È un pugno sullo stomaco perché si tratta di vicende vissute e queste spingono la gente a interrogarsi sul cardine primario della società, cioè la famiglia. Il serial narra delle piccole donne che
uccidono. Immancabilmente va in primo piano la causa familiare di tanto sangue: la mala education, per dirla alla spagnola. Newcastle, fine anni Sessanta: Mary ha dieci anni e strangola Martin, un bambino di quattro anni la cui unica colpa è stata quella di essere uscito da casa per andare a giocare ai giardini. Casualmente verrà trovato il suo cadavere in una casa abbandonata. L’autopsia dirà «morte naturale». Mary fa di tutto per attirare l’attenzione, ma nessuno la crede. Scrive frasi esplicite sul diario. Poco dopo, assieme a Norma, una sua amica poco più grande, firma un altro omicidio. Ai funerali della vittima (tre anni) qualcuno la nota mentre sogghigna. Partono le indagini, Norma crolla, Mary è in trappola. Ed ecco la sua storia familiare: figlia di una prostituta che l’ha partorita a sedici anni, è stata ripetutamente abbando-
nata dall’unico e osceno genitore che ha tentato anche di avvelenarla. Mary ha assistito a tutti gli incontri sessualmercenari della mamma, a volte partecipando come se fosse stata un «regalo» in più ai clienti. La bambina non comprende le conseguenze di quel che fa, ha però in sé il senso della morte. Una sua frase-chiave: «Uccido per tornare indietro». Il passato è una morsa. Ai giudici confessa: «Mi piace fare cose terribili a esseri più deboli di me». Praticamente voleva uccidere se stessa. È condannata all’ergastolo, il suo caso sarà riesaminato con il compimento della maggiore età. Ora Mary, dopo aver scontato dodici anni di carcere, ha un’altra identità e vive lontano. Ha pure un figlio. Stranezza della legge britannica: Betty, la madre della bimba assassina, non è mai stata dietro le sbarre. Spiega un esperto: «Molti non riconoscono i segnali di avvertimento lanciati a volte da bambini e da adolescenti. Sottovalutarli è un errore fatale».
MobyDICK
poesia
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Pavese e la metrica della solitudine di Francesco Napoli talo Calvino ha ricordato, nelle sue Note generali alle Poesie edite e inedite di Cesare Pavese apparse nel 1962, come l’autore volle apporre a Lavorare stanca in «nuova edizione aumentata» (1943) una fascetta con su scritto: «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea». Perché tale si sentiva il letterato piemontese e tale effettivamente era. Leggendo quei suoi versi e confrontandoli con alcune opere di quegli anni da Sentimento del tempo (1933) di Ungaretti a Erato e Apollion (1936) di Quasimodo, passando da Isola (1932) di Gatto, poeta peraltro con tratti sintonici con il poeta delle Langhe, alle Poesie (1936) di Cardarelli - ci si rende conto dell’originalità di Pavese esordiente. Ma potrebbe essere utile anche andare indietro nel tempo e, risalendo al 1936 e alla prima edizione di quell’opera, venuta alla luce per i tipi della rivista Solaria di Alberto Carocci, si riconosce come l’ambiente poetico italiano era allora tutto pervaso dagli stilemi ermetici, e poeti e critici di quella scuola ignorarono quasi del tutto la raccolta di Pavese. Leone Ginzburg aveva provveduto dalla proposta, fatta sin dal 1932, all’effettiva uscita, quattro anni dopo, a difendere con tenacia il lavoro poetico dell’amico, scrivendo tra l’altro a Carocci che «il libro così poco ungarettiano, andrebbe: è proprio obbligatorio piegarsi alle esigenze del cosiddetto fiuto di chi non se ne intende?».
PAESAGGIO VIII
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man e la traduzione del Moby Dick di Melville, cioè dopo aver iniziato a tracciare un percorso di lettura del mondo angloamericano quasi in opposizione alla francofilia dell’Ermetismo italico.
E Cesare Pavese (1908-1950) nasce proprio poeta e la condizione di solitudine denunciata con lucidità nella succitata fascetta editoriale la porterà sempre con sé. Subito abbandonato dal padre, morto prematuramente nel 1914; subito solo, lontano dagli affetti famigliari per evitare il contagio del tifo contratto dalla sorella Maria, Cesare Pavese crescerà di fatto nella nativa Santo Stefano Belbo, Cuneo, e apprende quale è il dolore del suicidio quando ne viene sfiorato nel 1926: l’amico e collega universitario di Torino, Elico Baraldi, si toglie la vita per amore. Anni prima al liceo D’Azeglio, allievo di Augusto Monti crociano di formazione e gramsciano per ammirazione, si era formato un gruppo di intellettuali uniti da tendenze politiche molto prossime - Norberto Bobbio, il già citato Ginzburg, Ludovico Geymonat, Federico Chabod, Giulio Einaudi, Vittorio Foa, oltre il nostro - che si terranno per mano nell’Italia post-fascista con le loro parabola culturale dalle alterne fortune. Cesare Pavese subentra nel 1934 a Ginzburg, incarcerato dai fascisti, nella direzione della rivista Cultura edita dalla neonata casa editrice Einaudi. Ma anche per lui la mannaia fascista è pronta a colpire. Andrà al confino, a Brancaleone Calabro, dopo la brillante tesi su Whit-
Sì, perché in Lavorare stanca appare subito chiara «la sua estraneità a Ungaretti e alla lirica ermetica, la quale piuttosto sta nell’essersi Pavese scelto modelli completamente estranei alla formazione e al successo delNel silenzio del buio sale uno sciacquo la poesia pura di stampo francese» (Guglieldove passano voci e risa remote; minetti). Cesare Pavese ha voluto probabilmente rifarsi all’amato Whitman degli anni s’accompagna al brusio un colore vano universitari, con la volontà di scrivere un che è di sole, di rive e di sguardi chiari. poema sull’uomo moderno pari a quello del poeta delle Foglie d’erba ma senza quell’ottiUn’estate di voci. Ogni viso contiene mismo di fondo che permea il capolavoro Come un frutto maturo un sapore andato. americano. Ci sono grandi contrasti nella raccolta: città e campagna, bivacchi e giovani, uomini e donne, albe e notti, terra e sanOgni occhiata che torna, conserva un gusto gue. Si ha la sensazione, leggendo soprattutto la prima edizione della raccolta, di attradi erba e cose impregnate di sole a sera versare una serie continua di stazioni di un sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare. itinerario paesistico ed esistenziale in un tutt’uno poco disarticolabile, compatto come Come un mare notturno è quest’ombra vaga anche Charles Baudelaire sa farlo. Ecco, il poeta dei Fiori del male è forse l’unico dei di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora francesi del XIX secolo che Pavese e ogni sera ritorna. Le voci morte ammira e imita, seppure alla lontana. La versificazione si assomigliano al frangersi di quel mare poggia su una misura largamente narrativa, vicina certo ai poemetti Cesare Pavese whitmaniani ma anda Lavorare stanca che a certe nostrane esperienze marginali come quella di Thovez e di Jahier. Il ritmo ha una cadenza iterativa al- narrativa: romanzi noti, con una lunga riflessione sul miquanto pronunciata, che sembra to culminata nell’equilibrio tra sofferta problematica esivoler comunicare l’effetto di una stenziale, fascinazione del mito stesso e richiamo alla realtà condannata a riprodursi di realtà storica, nelle ultime prove, fino a quel La bella continuo nelle proprie forme, a ritor- estate (1950) che pur valendogli il riconoscimento pubnare sul proprio destino. Pavese realiz- blico del Premio Strega a nulla servì per trarlo da un rinza un verso narrativo del tutto personale, novato stato depressivo. Roma non l’aveva rigenerato, organizzato spesso nel suo respiro lungo su tutt’altro. Vi aveva conosciuto l’ennesimo amore inecombinazioni di metri regolari variamente combi- spresso, Constance Dowling, ma una volta tornato a Tonati e disposti. E quale uomo ci appare tra le pieghe dei rino temeva d’averla persa. Per sempre. La giovane ameversi? Scrive Gianfranco Lauretano nel bel lavoro La ricana si recò da lui: voleva flirtare con un famoso lettetraccia di Cesare Pavese apparso pochi anni orsono, che rato; Pavese, forse, l’amava per davvero. Constance illunella poesia di Pavese «i personaggi (…) sono sempre e se l’uomo, che la seguì in quel di Cervinia, e poi ripartirà soprattutto simbolo, e la memoria cerca di fermare in ben presto lasciando all’amareggiato scrittore modo di un’immagine un incontro rappresentativo di un senti- dedicarle La luna e i falò: «For C. - Ripeness is all» e lo mento o di un dato dell’essere». Poi basta poesia e solo spazio appena di qualche giorno prima del suicidio.
il club di calliope
I ricordi cominciano nella sera sotto il fiato del vento a levare il volto e ascoltare la voce del fiume. L’acqua è la stessa, nel buio, degli anni morti.
ALLA SCOPERTA DEL SACRO CHE È IN NOI in libreria
Ho ascoltato il rumore delle onde, ma non ho sentito il tuo respiro, il calore del tuo corpo, il suono delle tue parole, sussurrate, gridate, insieme a lacrime di dolore (di gioia?). Impietrito, atterrito, perduto, senza di te. E con te. Vorrei perdermi in un mare in tempesta, in uno Tsunami di pensiero, questa volta, senza più ritrovarti, senza più ritrovarmi. Ma la vita ti riserva sempre sorprese amare, amarissime, che però si rivelano quando li sai riconoscere - solo buchi in un barattolo, rispetto al baratro che ci circonda. Aldo Forbice
di Loretto Rafanelli abrizio Pagni, giovane critico toscano interessato in particolare a Roberto Mussapi, sul quale ha scritto una monografia e curato un libro intervista, esce ora, ed è un esordio, con una raccolta di poesie dal bel titolo L’Anima e il Fango (Noubs, 68 pagine,10,00 euro). Pagni è un poeta solare con un senso pieno della vita, la ricchezza del suo dettato è la ricchezza e la coscienza di una storia che nasce, muore e si rigenera in continuazione, capace quindi di cogliere la speranza e di superare «il ciclico senso del vuoto». E in questo dialogo tra la vita e la morte, il pieno e il vuoto, l’anima e la melma, egli coglie la ragione incessante e miracolosa dell’esistenza. Nei suoi versi si avverte una germinazione continua «…dove non è possibile riconoscere il confine/ tra il finito e il non finito/ tra l’orizzonte e il suo oltre…» ma si scopre «il sacro che è in noi». Pagni certamente ha in mente la lezione di Bigongiari, con quel dialogo aperto tra minuto e assoluto, ma pure quella di Celan, nel dire: «riconosco un bagliore in quel buio/ riconosco una luce tremante».
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i misteri dell’universo
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isola di Pasqua, proprietà del Cile da cui dista circa 4000 km, è una delle più sperdute dell’Oceano Pacifico. Situata sulla parte meridionale, a circa 27 gradi di latitudine, ovvero circa la latitudine di Tebe in Egitto, dista un 2100 km dall’isola più vicina, Pitcairn. Fu scoperta da una nave olandese nel 1722, annessa dalla Spagna nel 1770 per poi passare sotto il controllo del Cile. Ora è raggiungibile in aereo e costituisce una importante attrazione turistica. I marinai olandesi che vi giunsero nel 1722 la trovarono con abitanti di due tipi: uno minoritario di pelle chiara, alta statura e orecchie forate, l’altro di pelle più scura e statura più bassa. Alla seconda visita gli abitanti di pelle chiara erano quasi scomparsi, la causa probabile fu una guerra fra i due gruppi. I bianchi, minoritari, si rifugiarono in una penisoletta difesa da una palizzata, stando ai ricordi raccolti nell’Ottocento, ma questo non bastò e furono sterminati. Se ne salvò un piccolo numero tenuto in vita, potremmo dire, per preservare il seme, un’usanza che si ritrova nelle tribù degli ebrei in occasione di scontri interni, come quello organizzato da Ghersom, figlio di Mosè, che virtualmente distrusse la tribù di Beniamino. Dopo l’annessione gli spagnoli lasciarono l’isola, povera di risorse, abbandonata per quasi un secolo, ma ricordiamo le brevi visite di Cook e La Pérouse. Verso il 1860 arrivarono dei trafficanti che trattarono gli abitanti locali come schiavi. Ne trasportarono molti in Perù a lavorare nelle miniere di guano. Similmente, migliaia di indigeni dell’attuale Venezuela erano stati portati da Cristoforo Colombo a lavorare nelle miniere di rame e di oro di Hispaniola, dopo che i locali abitanti, i Taino, circa tre milioni secondo Las Casas, furono virtualmente distrutti in pochi anni dalle malattie di origine europea e dalle terribili corvées imposte da Colombo. La popolazione dell’isola di Pasqua, stimata in 15 mila abitanti, si ridusse a 111!
MobyDICK
ai confini della realtà
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Notizie dall’isola di Pasqua
Al 1947 risale il primo dei viaggi per oceani del norvegese Thor Heyerdahl, che chi scrive ha incontrato nella sua
di Emilio Spedicato Kon Tiki, nome del Dio Sole incaico, e titolo del libro che scrisse; il primo editore lo rifiutò, il secondo ne vendette milioni di copie, e Thor mi ha fatto vedere, nella torre romana dove lavorava sopra Laigueglia, le traduzioni in settanta lingue. Libro che lessi da ragazzo in francese e poi rilessi… uno dei più affascinanti libri di viaggi. Il viaggio gli fu suggerito dalla leggenda intorno a un re inca che avrebbe viaggiato dal Perù alle isole della Polinesia con venti mila soldati e marinai, tornando al punto di partenza dopo circa un anno. Heyerdahl voleva verificare la fattibilità di questo viaggio, e dopo circa tre mesi s’imbattè in un’isola del-
esistevano grandi camere sotterranee, accessibili da budelli naturali nelle rocce vulcaniche (Heyerdahl rischiò di essere intrappolato), dove le persone usavano passare giorni in meditazione, vicine ai corpi mummificati dei loro avi: meditazione dichiarata utile per far passare la depressione. Luoghi abitati da spiriti chiamati Aku Aku, nome del libro dove Heyerdahl parla di questa esperienza. Notiamo che Aku Aku è il nome degli spiriti della foresta in Cameroon, come ha raccontato Mary Kingsley che visitò la regione oltre cento anni fa e una notte li vide volteggiare nella forma di sfere violacee luminose grandi come aran-
Sperduta nell’Oceano Pacifico, fu scoperta da una nave olandese nel 1722. Molti gli interrogativi intorno alla sua storia. Come quelli relativi ai suoi abitanti, di due razze diverse, una delle quali fu quasi sterminata dall’altra. I resoconti dei viaggi di Thor Heyerdahl casa sulle colline di Laigueglia e in quella a Tenerife, presso le piramidi di Guimar. Heyerdahl, uno dei più grandi esploratori del mare, morto ultra novantenne, quattro anni di resistenza antinazista nella Norvegia occupata, ha intrapreso viaggi per mare su navi del tipo di quelle usate in tempi antichi, zattere di balsa o costruite con canne. Ha dimostrato la possibilità di attraversare interi oceani con questi mezzi, cosa ritenuta prima impossibile. Il primo viaggio fu con la zattera
l’arcipelago delle Marchesi. Nel viaggio ci fu l’incontro con una piovra gigantesca (se ne sono ora osservate lunghe 30 metri e si parla della possibilità che raggiungano anche 100 metri) e si dimostrò la grande stabilità della zattera, attraverso le cui aperture passavano senza danni le più grandi ondate. In un viaggio successivo Heyerdahl studiò l’isola di Pasqua, negli aspetti antropologici e archeologici. La popolazione aveva ormai perso quasi tutte le sue tradizioni. Tuttavia
ce; e di una varietà di spiriti degli antichi egizi. Identità di nomi forse associata ad antichi collegamenti. Esiste anche una scrittura propria dell’isola, documentata in una ventina di tavolette, chiamata rongo rongo, non ancora decifrata con certezza.
L’isola di Pasqua è famosa per le piattaforme megalitiche e per le statue dai profili alla Modigliani, alcune gi-
ganti: una enorme giace incompleta in una cava. Per Heyerdahl la popolazione di pelle chiara e orecchie forate (costume tipico degli ariani, lo si vede in Budda) era quella originaria, proveniente dal sud America (popolato sappiamo ora da popolazione dell’Asia sud orientale, quindi con possibile componente indiana). Gli altri abitanti erano arrivati successivamente, erano stati per un periodo schiavi, poi si erano ribellati, sterminando i nobili dalle orecchie forate. Recenti datazioni al radiocarbonio hanno indicato tempi di popolamento meno antichi, verso il 1200. Questo suggerisce un arrivo nell’isola di popolazioni dalla Polinesia o Melanesia fuggite dalle loro terre dopo la probabile catastrofe tsnunamica del 1178 (causata dalla caduta sul Pacifico di frammenti di un oggetto il cui nucleo si schiantò sulla Luna in quell’anno, dando luogo a curiosi fenomeni osservati ad esempio anche a Canterbury). Ma che i nobili dalle orecchie forate fossero arrivati prima non è impossibile, dato che lo tsunami provocato dall’evento potrebbe avere completamente dilavato la parte dell’isola con materiale databile al radiocarbonio. Forse alcuni si salvarono salendo verso la cima del vulcano che domina l’isola. Un problema ancora aperto, come quello degli Aku Aku…