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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Filippo Maria Battaglia ino a qualche anno fa, sembravano contrapporsi in modo netto e radicale. Nessuna possibilità di dialogo, nessuna interazione tra due mezzi che sembra non avessero niente da dirsi e da raccontarsi. Eppure, sin dai suoi esordi e a onta delle critiche dei più scettici, internet e libri hanno avuto un rapporto più stretto di quanto si possa immaginare. Contribuendo a costituire - a dispetto di certe critiche superciliose - un ponte virtuale forte almeno com’è forte quello tra il lettore tradizionale e la carta stampata. E gli esempi non mancano: a citarli tutti, specie nella comunità (fin troppo!) democratica della rete si perderebbe il conto. Il trait d’union più netto e vistoso ha visto un editore iper-istituzionale come Einaudi, flirtare vis-à-vis con l’avanguardia della rete. Ne è nato un libro, insieme a un’infinità di dibattiti e di polemiche. «Wu Ming» è un’espressione cinese, che nel mandarino significa «Nessun nome». Ed è diventato anche l’appellativo di un gruppo di cinque scrittori: Riccardo Pedrini, Federico Guglielmi, Luca Di Meo, Giovanni Cattabriga, Roberto Bui. Ma attenzione: mai nominarli, almeno nelle vesti di autori di racconti, romanzi e sceneggiature. Sin dai primordi, infatti, il diktat è stato chiaro, quasi fulminante: «il rifiuto del ruolo dell’autore come star».
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IL LETTORE DIGITALE Parola chiave Patriottismo di Gennaro Malgieri
9 771827 881301
80426
ISSN 1827-8817
Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
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Il meglio di Morrisey dagli Smiths in poi di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Arthur Rimbaud il veggente e l’ignoto di Francesco Napoli
Canali interattivi, e-book, riviste telematiche: sempre più stretto il legame tra libro e internet, a cui anche editori iperistituzionali si stanno adeguando. Come nel caso di Einaudi e di un romanzo che si può scaricare gratuitamente...
Guareschi a cent’anni dalla nascita di Pier Mario Fasanotti Storia e letteratura a misura di donna di Anselma Dell’Olio
I disegni dismessi di Stefano Arienti di Marco Vallora
il lettore
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segue dalla prima Non appare strano quindi che una simile scelta sia coincisa con un’altra, più radicale, sui diritti d’autore: dal sito ufficiale del gruppo (http://www.wumingfoundation.com/italiano) si scopre presto che è possibile eseguire il download (parziale o totale, non importa) del libro, senza sborsare un solo centesimo di euro. Manituana è appunto l’ultimo romanzo, che qualche mese fa lo Struzzo torinese ha avuto il coraggio di pubblicare, riscuotendo peraltro un certo successo di pubblico e un interesse (sia pure alterno) da parte della critica letteraria più esigente. E Wu Ming ha preteso tra l’altro piena trasparenza con i lettori, anche per ciò che riguarda i dati sulle vendite, disponibili proprio sul sito dei cinque romanzieri. Decisione, questa, motivata tra l’altro con parole semplici e chiare: «In realtà, pare banale dirlo, non tutti i libri che vendono sono per forza banali o compiacenti o derivativi, e non tutti i libri invenduti sono incomprensibili, elitari o - semplicemente - brutti. Eppure, ancora troppa gente snobba chi vende solo perché vende ed esalta chi “floppa” solo perché “floppa”. Occorre un approccio meno ipocrita. Se uno pubblica un libro è perché auspica che altri lo leggano, possibilmente molti altri, più ce n’è meglio è. Se lo pubblica presso un editore, accetta che il libro rechi un prezzo in copertina e venga scambiato con denaro. Se firma un contratto in cui gli viene accordata una percentuale (bassa o alta che sia) del prezzo di copertina, vuol dire che si augura di guadagnarci qualcosa pure lui (e ci mancherebbe altro, è stato lui a scrivere!)».
Ma il caso dei cinque scrittori non è affatto isolato.Tutt’altro: è la punta di un iceberg di un fenomeno in crescita, il trend (si direbbe con linguaggio politicamente corretto) che ha già fatto strabuzzare gli occhi a diversi osservatori, immaginando che la carta stampata, dirà presto adieu anche ai suoi più entusiastici lettori e diventerà oggetto di feticcio capace di esaudire solo le piccole manie di una sparuta élite di cultori. La frontiera si chiama infatti «e-book», anche se a definirla nuova si rischia di essere già considerati vecchi. La matrice del progetto risale al 1971, la prima casa editrice a vendere i libri digitali, Bibliobytes, ha iniziato a vendere quindici anni fa. Un software, un dispositivo hardware e il gioco è fatto: inizia la lettura digitale. I libri sono migliaia: si va dai classicissimi alle novità più vendute, ma si trova pure qualche chicca disponibile solo on-line. «Lulu» (www.lulu.com), ad esempio, riserva una sorpresa a chi è appassionato alla vicende della politica nostrana, pubblicando Il libro grigio del governo Prodi, una requisitoria sferzante contro l’ex
digitale
premier e i suoi ministri, anche a rischio di qualche generalizzazione di troppo. Costo ridottissimo (2 euro), autore anonimo, il pamphlet sta riscuotendo un discreto successo, che non sarebbe stato neppure immaginabile se fosse approdato al classico circuito librario.
Su internet poi c’è spazio anche per la comunità che cerca non solo il titolo ma pure l’edizione introvabile perché esaurita o ormai fuori catalogo. E «Maremagnum» (www.maremagnum.com) assolve alla funzione con la stessa voracità con cui la biblioteca pubblica dispensava gioie bulimiche al giovanissimo Giovanni Papini nel romanzo autobiografico Un uomo finito. Poco più di cinque milioni di libri, centinaia di librerie antiquarie, un catalogo virtuale infinito, che questa volta però si riserva di essere alle volte salatissimo. Chi vorrà invece ripiegare su soluzioni a costo zero, magari sfruttando le biblioteche di mezza Europa, potrà orientarsi su Google e sul suo canale di libri: «books.google.it» è il motore di ricerca internazionale che permette una consultazione rapida e veloce (copyright permettendo) e che, al peggio, consente di localizzare la disponibilità di testi introvabili. E tuttavia, nella rete non solo si compra, ma si legge e si discute. Le riviste on-line di critica letteraria non si riescono infatti a contare. Centinaia, forse migliaia, solo quelle in lingua italiana, molte delle quali autogestite, quasi tutte con costi redazionali piuttosto bassi. Tra le più cliccate, c’è di sicuro «Italialibri» (www.italialibri.net), «una libreria esclusivamente di autori italiani aperta a tutti coloro che nel mondo sono italiani per origine o per passione». Una redazione piuttosto variegata, composta di un centinaio di firme note e meno note, che recensiscono romanzi, scrivono medaglioni, intervistano autori sulle ultime opere sfornate per il lettore italiano. E poi una serie di link a siti di editori e scrittori. È questo il caso di un mostro sacro della narrativa contemporanea, Isabel Allende, che sul suo sito dedica ampio spazio a chi «vuole recensire o pubblicizzare il nuovo libro», ma i blog di autori di piccoli e medio cabotaggio sono tantissimi. Più recente e più interattiva è «booksweb.tv», il canale dedicato al libro e curato dalla giornalista Alessandra Casella. Interviste, auto-interviste, rubriche e conversazioni tra scrittori, ma anche indicazioni di lettura, spesso consigliati da autori noti anche al grande pubblico come Raul Montanari, Marco Buticchi e Fabio Bonini. Novità in arrivo in libreria, il catalogo dei libri, ma anche qualche indicazione utile è fornita invece da «Wuz» (www.wuz.it), che integra le proprie pagine con contributi e inediti interessanti. Su internet, quotidiani e settimanali nazionali riservano invece poco spazio alla comunità libraria e agli
Andrea Camilleri si racconta in videointerviste sul sito della Sellerio. Isabel Allende dedica ampio spazio sul suo sito ad autori sconosciuti. In basso, il logo di Wu Ming, nome di gruppo di cinque scrittori, e la copertina del loro libro edito da Einaudi e scaricabile gratuitamente dal loro sito aspiranti scrittori. Panorama.it dispone di un canale esclusivo dedicato a saggi e romanzi e strutturato in forma di blog; il sito del Corriere della Sera ha messo a disposizione di Paolo Di Stefano una rubrica, «Leggere e scrivere»; quello della Repubblica preferisce trattare di volta in volta temi che hanno a che fare con i libri e i suoi fruitori, mentre la versione domenicale del quotidiano on-line L’Occidentale è invece tutta dedicata a recensioni agli ultimi arrivi in libreria: firmano l’inserto alcuni tra i più noti critici letterari nostrani e al lettore è riservata la possibilità di commentare sia i libri che gli articoli a essi dedicati.
Nel frattempo, in questi mesi, gli editori non sono rimasti di certo a guardare. Sul suo sito, la Sellerio ha fatto raccontare a tre dei suoi pesi massimi (Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio e Pietro Grossi) i loro libri in brevi videointerviste. E lo scrittore di Porto Empedocle ha deciso tra l’altro di svelare l’origine della sua Maruzza Musumeci, storia immaginaria di una sirena arenata in spiaggia, «favola seria per adulti, che - per usare le parole del padre di Montalbano non è solo un divertissement, ma anche il tentativo di raccontare la nascita dell’arte, o meglio la casualità assoluta della nascita di un fatto artistico». E per chi è invece alla ricerca di un editore? I siti dedicati agli scrittori esordienti sono infiniti. Si va da strutture professionali (e qui bisogna stare attenti, perché dietro le vesti di improbabili cooperative editoriali si celano spesso stampatori che mandano in tipografia qualsiasi testo, purché sia accompagnato da denaro contante o dal più comodo assegno circolare) a veri e propri circoli letterari virtuali. E poi ci sono «club di poeti», «club di autori», piccoli tazebao virtuali nei quali giornalisti e studiosi in erba possono pubblicare ogni sorta di critiche letterarie. Canali interattivi, e-book, riviste telematiche: basterà a cancellare
Nella rete non solo si compra, ma si legge e si discute. Moltissime anche le riviste online di critica letteraria: da Italialibri a Booksweb a Wuz la storia millenaria del libro? Per molti, no. Tra questi, c’è Umberto Eco che sembra comunque nutrire qualche dubbio sull’argomento: «Se devo ubbidire al mio istinto ha scritto poco tempo fa il semiologo italiano - mi verrebbe da dire che non smetteremo mai di avere bisogno del libro, perché ci sono tutta una serie di attività e un tipo di rapporto, come leggere a letto, che possiamo avere solo con quell’oggetto. Poi però mi dico che se arriveremo ad avere degli schermi a pannelli grandi come pareti, niente ci vieterà di metterli anche in bagno, così uno potrà leggere anche sdraiato nella vasca... Ma alla fine, comunque si voglia rigirare la frittata, comunque cambi la tecnologia, ci ritroveremo sempre fra le mani la struttura sequenziale del libro». Anche se il numero di lettori non è cambiato quantitativamente, un po’ migliorata è invece la qualità dei lettori e ciò si deve anche a internet, grazie al cui aiuto il lettore può orientare meglio le sue scelte. Per il resto, si vedrà. Certo è che per i cultori del libro e del fresco di stampa sarà dura abdicare in favore del più frigido e meccanico video di un testo che non si può nemmeno sfogliare e riporre nell’ansa preferita della propria libreria.
MOBY DICK e di cronach di Ferdinando Adornato
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PATRIOTTISMO on è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un «plebiscito» di tutti i giorni. Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza a una cultura e a un sistema di valori civili ci fa essere cittadini di una nazione. Sembra, e forse lo è, una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mundialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale, il relativismo etico. È difficile qualificare queste tendenze come ideologie strutturate; ma è, viceversa, facile riconoscerle come «veicoli» dell’ulteriore messa in discussione della nazione che apre la strada al rifiuto del riconoscimento delle specificità e, dunque, a un sorta di «totalitarismo morbido» avente la pretesa dell’ineluttabilità dell’omologazione culturale quale fine ultimo della «guerra» alle differenze condotta soprattutto dai gruppi di potere finanziario e mediatico. È per questo che la nazione si configura non come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno ai principi dell’intangibilità dei «sacri confini» e moralmente giustificato da una improponibile «volontà di potenza» declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico e afferma il diritto alla sovranità per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati. Per tale motivo, soprattutto, non si giustifica la pretesa di esportare (magari con le armi) la democrazia «all’occidentale» in aree geografiche dove popoli animati da altre culture non sono in grado di governarla e considerano chi intende promuoverla alla stregua di un colonialista. Ritenere, in altri termini, che chiunque e ovunque debba ragionare secondo i nostri schemi mentali, desiderare ciò che noi desideriamo, essere insomma come noi o quanto meno assomigliarci è democraticamente discutibile oltre che offensivo del principio stesso di nazionalità.
N
La nazione è, dunque, un’idea antica che si rinnova. Credere di poter evitare di riferirsi a essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzione pubbliche è come voler attraversare un deserto privi di generi di sostentamento. Purtroppo l’errore che spesso, e da più parti viene commesso è quello di pensare che la nazione sia un’anticaglia sentimentale, un cascame retorico e non, com’è in realtà, un «organismo vivente» i cui elementi, se non armonizzati, rischiano di produrre conflitti difficilmente sanabili. Questo errore, con tutta evidenza, è affiorato quando si è pensato di riformare il sistema costituzionale
Non è un’anticaglia sentimentale né un cascame retorico è un organismo vivente che sorregge le nostre fondamenta, un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico. È un’estensione dell’amor proprio…
L’idea condivisa di Gennaro Malgieri
Uno degli errori del costituzionalismo moderno è stato quello di credere di poter fare a meno della nazione. Evitare di riferirsi a essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzioni pubbliche del paese è come attraversare un deserto senza generi di sostentamento italiano senza tener conto dei valori a cui ispirare tale lavoro che, mi sembra incontestabile, non possono che essere i valori della nazione e dell’integrità dello Stato nazionale. L’ingegneria costituzionale, senz’anima e priva di prospettive comprensibili dai cittadini, può partorire soltanto progetti velleitari; le grandi Costituzioni sono tali quando i principi che affermano sono in sintonia
con lo spirito dei popoli. Uno degli errori del costituzionalismo moderno è consistito nel ritenere di poter fare a meno della nazione: non a caso uno dei pochi esperimenti del Novecento riusciti è stato quello del generale De Gaulle perché profondamente legato alle istanze del popolo francese. Questa dimensione che esplicita il sentimento dell’appartenenza appena richiamato, è possibile
coltivarla, difenderla, affermarla? Credo che tutte le forze politiche autenticamente popolari e innestate nella storia nazionale abbiano il dovere di rilanciarla al fine di contrastare sia le spinte disgregatrici che dall’interno operano per una rottura della comunità nazionale, sia l’invadente relativismo etico che dall’esterno si propone il fine di recidere legami culturali grazie ai quali si tiene insieme il Paese.
Insomma, la prospettiva è quella di dare vita a una «nazione condivisa», cioè accettata da tutti a prescindere dalle appartenenze, per dare un senso concreto al sentimento che sorregge l’idea stessa di nazione: il patriottismo. Com’è facile dimostrare, esso non può essere quello della Costituzione, come pure qualcunoi ha sostenuto, né quello astratto pronto a farsi supporto ideologico a scopo di sopraffazione. Il patriottismo è il vincolo comunitario tra elementi reali che fanno parte della vita; non è escludente, ma inclusivo; non è la suprema forma dell’egoismo collettivo, ma la prova di generosità di un consapevole aggregato umano conscio che la sua sovranità finisce laddove comincia la sovranità di altri; è il rispetto che si deve ad altre culture, a tutte le culture perché manifestazioni dello spirito dei popoli e che sarebbe delittuoso cancellare. Patriottismo e democrazia, dunque, si tengono, poiché, come osservava Lucine Febbre, il fondatore della scuola degli «Annales», la patria «è una parola astratta, presa in prestito, una parola classica, certo; ma che ben presto si è riempita di sostanza umana, di sostanza individuale, di sostanza vissuta». È questa «sostanza» che la legittima, in un certo senso. Perciò l’amor di Patria, per come storicamente si è incarnato, può dirsi un’estensione dell’«amor proprio». I moralisti francesi del Settecento dicevano che ci si ama veramente soltanto amando la Repubblica e alla fine si arriva ad amarla più di se stessi. Mi chiedo con Henry Jean-Baptiste d’Anguessau, che scriveva di politica nel Diciottesimo secolo, se davvero il patriottismo che giustifica la passione nazionale, «questo amore pressoché connaturato all’uomo, questa virtù che conosciamo attraverso il sentimento, che acquisiamo attraverso la ragione, che dovremmo seguire per interesse, davvero possiede delle radici profonde nei nostri cuori?». Per quanto possa sembrare strano di questi tempi, la risposta è assolutamente affermativa. E le radici profonde del patriottismo sono in tante cose che riassumono la nostra identità, ma soprattutto nel sacrificio di chi porta nel mondo una certa idea dell’Italia. Come i morti di Nassirya nell’autunno del 2003, per esempio… Uno dei disegni degli allunni della III elementare della scuola “Santa Chiara” di Como fatti dopo la strage di Nassyria nel dicembre 2003
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ROCK
musica
Bon ton melodico e strappi elettrici… la maturità di
Morrisey di Stefano Bianchi
oce nasale, cantilenante. Ma efficace e persuasiva. Amori musicali che pescano soprattutto nei Sixties al femminile: da Sandie Shaw a Timi Yuro, passando per Marianne Faithfull. Gestualità snob e ribelle, che fa collidere con consumato mestiere Oscar Wilde e James Dean, da sempre suoi idoli. Steven Patrick Morrissey, 49 anni, da Manchester, abbreviato in Morrissey, è quel carismatico cantante che negli anni Ottanta dà vita agli Smiths: sigla anonima (Smith, in Gran Bretagna, è il cognome più diffuso) che sottintende una polpa sonora viceversa còlta, ironica, dolente. Un pop-rock a presa rapida, estetizzante e «di nicchia» come i fotogrammi di vecchi film che riempiono le copertine dei loro dischi: Joe Dallesandro in una sequenza dello scandaloso Flesh prodotto da Andy Warhol, Vanessa Redgrave e David Hemmings in Blow-Up di Michelangelo Antonioni, Jean Marais, Terence Stamp, frammenti di Nouvel-
V
le Vague e di Free Cinema… Nell’imbarazzante vuoto creativo di troppa new wave, Morrissey è l’eccezione che filosofeggia, cava fuori scheletri dagli armadi (nel brano Suffer Little Children, esamina fra poesia e cronaca nera gli «omicidi della brughiera» a sfondo pedofilo che negli anni Sessanta avevano sconvolto Manchester), ritrae il disagio di un’intera generazione, sbeffeggia Margareth Thatcher e contesta la Regina. Lo Smiths style, però, è destinato a sciogliersi nell’87 con la band. Ma lui non se ne duole e si ricicla in solitudine, sostenuto da un ego incrollabile e voglioso di raccontare ancora il mondo in modo obliquo e intimista. Il successo gli dà ragione e i suoi dischi non deludono, in quanto a sincerità. Requisito che non manca in questo Greatest Hits che ne riassume fruttuosamente la carriera. Fra bon ton melodico e strappi elettrici (sintomatica Irish Blood, English Heart, che li fa amoreggiare), i 15 brani in scaletta punta-
in libreria
no per lo più sulla maturità di Morrissey (cioè sugli ultimi due dischi You Are The Quarry e Ringleader Of The Tormentors, datati 2004 e 2006), mettendo a nudo un rockettino che ammicca all’epoca beat (First Of The Gang To Die), i camuffamenti blues di In The Future When All’s Well e I Just Want To See The Boy Happy, la garrula orecchiabilità pop di You Have Killed Me, la classe di una ballata pianistica come Let Me Kiss You, l’enfatica I Have Forgiven Jesus che coglie l’istrione nei confortevoli panni del crooner. Né mancano, obviously, i cavalli di battaglia dell’immediato post Smiths: dal passo brillante a un tiro di schioppo dal folk (Suedehead), al tipico cabarettismo del glam rock (The Last Of The Famous International
mondo
Playboys), fino alle sospirose ballate Everyday Is Like Sunday e The More You Ignore Me, The Closer I Get. Fanno storia a sé l’azzeccata rilettura di Redondo Beach di Patti Smith e le due composizioni inedite della raccolta, incise di fresco in attesa di un nuovo disco: That’s How People Grow Up, snobisticamente british; e la glamorous, possente All You Need Is Me. Morrissey, Greatest Hits, Decca/Universal, 20,90 euro
riviste
BALLATE POPOLARI ITALIANE
TECNO MA BIOLOGICO
L’AMERICA DI NEIL YOUNG
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iportate secondo le indicazioni dei trascrittori originali, le 85 canzoni che Tito Saffoti ha raccolto in Ballate popolari italiane (Edizioni Booktime, 288 pagine, 20,00 euro) radunano il meglio della tradizione folk italiana, così come ci è stata faticosamente tramandata secondo cifre e modalità dell’oralità dialettale. Di notevole valore sotto il profilo filologico ermeneutico, la raccolta di Saffoti, apprezzato conoscitore della
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dodici anni dal debutto come songwriter dalla voce penetrante, capace di intessere parole ironiche e melodie ruggenti, Alanis Morissette torna sulle scene con il nuovo disco Flavors Of Entanglement. Preceduto dal singolo Underneath, in radio dal 7 aprile, il nuovo lavoro della rocker canadese, in uscita il 2 giugno, si preannuncia controverso. Techno but organic, lo ha definito la Morissette, che si è avvalsa per l’impa-
oriaceo, fieramente rurale e anticonformista, Neil Young attraversa da più di quarant’anni l’immaginario folk americano. Eppure una presunta rudezza e una certa inflessibilità rispetto alle linee di tendenza mainstream, sono valse al cantore canadese lo sprezzante giudizio di alcuni critici che l’hanno definito never too clever, ossia mai troppo intelligente. In risposta a giudizi affrettati, privi di gratitudi-
Il meglio della nostra tradizione folk in 85 brani raccolti in volume da Tito Saffoti
Così Alanis Morisette definisce il suo nuovo disco, frutto di una controversa svolta elettronica
“storiadellamusica.it” rivisita la figura del grande cantautore, esempio di tenacia e lungimiranza
canzone epico lirica nostrana, si segnala anche per lo straordinario contenuto emotivo dei brani scelti. Un’evocazione di figure fiabesche, personaggi seducenti e guerre misteriose, beffe ingegnose e improvvise agnizioni che riallacciano le fila della canzone con quelle della tradizione novellistica quattrocentesca da cui origina fra l’altro, a opera del Bandello, l’immortale script originale del Romeo e Giulietta. Amore e morte, danza ed elegia, ritmico fluire e lirico ristare riannodano storia e mito popolare, in un libro necessario, in tempi in cui realtà locali e antichi specimen affogano nella cappa tossica della globalizzazione.
sto sonoro del disco di Guy Sigsworth, esperto di pop sperimentale che vanta precedenti di prestigio come gli album di Madonna e Björk. Pare però che l’improvvisa svolta elettronica dell’artista non vada presa troppo sul serio, perché alcune anticipazioni delle undici tracce che compongono Flavors Of Entanglement, manifestino sonorità ibride, aperte alla contaminazione, ma in cui l’ingrediente etno-folk, marchio di fabbrica della cantautrice che ha già venduto trenta milioni di dischi nel mondo, resti prevalente. Gli italiani potranno ascoltarla dal vivo il 22 giugno all’Heineken Music Festival e il 24 all’Auditorium di Roma.
ne, storiadellamusica.it rivisita la figura artistica di Young, restituendole tutta la tenacia e la lungimiranza con cui ha saputo imporsi su miti, mood e false mode. L’America cantata da Young è quella poco gettonata ma molto autentica della repubblica invisibile, una terra pastorale di grandi spazi intrisa di un antico senso comunitario. Territori perduti e ritrovati, di frontiera, come quelli evocati dalle pagine di Cormac McCarthy.Territori riscoperti, a volte perché lontani nel tempo, come l’America precolombiana, in cui risplendono, come favole dolci e sinistre, Cortez the killer e Pocahontas.
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CLASSICA
zapping
A SUON DI SPANDAU BALLET (o di Beatles e Stones)
Molière, Lully e la congiura del silenzio di Pietro Gallina
di Bruno Giurato i prepara una seconda british invasion» è il sobrio attacco del sito Kataweb Musica. Uno rimane giustamente impressionato, e viene a sapere che si sta organizzando una tournée americana con alcuni gruppi inglesi degli anni Ottanta. Gli americani avranno la fortuna di vedere dal vivo gente come gli Human League, gli Abc e perfino i Dead or Alive e (udite udite) i Flock of seagulls. Roba da chiedere la green card, o almeno un visto turistico d’urgenza. Ma poi, ripensandoci, non ne vale la pena. Il revival anni Ottanta si celebra anche in Italia, quindi anche noi una volta o l’altra potremo apprezzare codesti artisti. Qualche guastafeste obietterà che quella degli anni Ottanta non fu poi grande musica, che i pochi classici del periodo (Prince, U2, Police) restano classici e che il resto è giustamente scomparso, ma saranno zittiti dalla nostra voglia di Dan Harrow. Altri guastafeste potranno notare che (revival per revival) sarebbe meglio un revival prenatale, con Claudio Villa, Natalino Otto e l’Alberto Sordi di Nonnetta, quella almeno era roba originale. Ma saranno giustamente annientati dai virtusismi tastieristici di Sandy Marton. I maligni irrecuperabili dal revival anni Ottanta (che piace ai trentacinquenni) trarranno qualche feroce considerazione sociologica. I trentacinquenni scalpitano per togliere le leve del potere ai cinquanta-sessantenni, ma se è vero che il potere richiede una buona dose di immaginazione, cosa potrà una generazione che ha avuto gli Spandau Ballet contro una che ha avuto Beatles, Rolling Stones e Hendrix? Il divario di risorse immaginative appare incolmabile. Ma questa sarebbe, appunto, una malignità gratuita.
«S
i può davvero immaginare la collaborazione tra due personaggti geniali e amici come Lully e Molière alla corte Luigi XIV che lavorano insieme alla creazione di uno spettacolo rivoluzionario qual è la comédie-ballet? Lully che forgia la musica e Molière il testo dove la musica splende e trionfa con la danza. La farsa si sposa felicemente alla coreografia e ai suoni. Un testo visionario e una musica scatenata ed elegante vengono presentati per la prima volta nella loro versione integrale nel Bourgeois gentilhomme. Di questo capolavoro è uscito un cd doppio della Accord (copia del 2003), che da tempo incide vari volumi delle opere di Lully senza e con Molière. Hugo Reyne e i musicisti della Simphonie du Marais hanno riscoperto manoscritti con nuovi pezzi di musica che hanno aiutato a dare, del Bourgeois, una interpretazione più vitale e sulfurea. Pur riconoscendo il valore immenso del Bourgeois, raramente la critica all’opera di Molière ha avuto parole felici per quel che riguarda la parte musicale, o addirittura non si è accorta di quanto risulti importante: essa è stata per molto tempo elusa o per partito preso o per ignoranza, o anche per evitare complicazioni a compagnie di modesta entità che non potevano certo permettersi di allestire un’orchestra o un balletto a livello di quelli della corte del Re Sole. Propio per questa corte numerose opere di Molière e Lully furono scritte e pensate, ricche anche di costumi lussuosissimi e scenografie grandiose. Se però tali effetti scenografici possono essere trascurati, tuttavia non si posso-
S
no eludere le parti musicali di Lully che le accompagnano. Molière e Lully rappresentano infatti un binomio paragonabile a quello di Gilbert & Sullivan, di Hoffmannstal e Strauss, di Meihlac Halévy e Offenbach: tutti hanno considerato la musica e il testo, come la pelle sul corpo. Pertanto, perché questa cospirazione al silenzio? Una congiura curiosa, tra l’altro, se si considerano le radici del genio di Molière: giá la famiglia apparteneva a generazioni di musicisti, molti della corte perché facevano parte dei famosi Ventiquattro violini del Re. Infine non casuale, anzi dettato da una sorta di manifesta fatalità, è l’incontro fra Molière e Lully (il Giambattista Lulli, toscano, portato all’età di tredici anni a Parigi come musicista ballerino). Il più italiano dei commedianti francesi incontrava dunque il più francese dei musicisti italiani. Entrambi hanno avuto come maestro Scaramouche, con cui Molière collaborava per ciò che concerneva le parti teatrali e Lully per le coreografie. Les deux Baptiste, come li chiamava Madame de Sevignè, hanno scritto una decina di gioelli teatrali di cui la musica è stata in più casi corrotta o alterata; in altre ignorata. Perché? Eppure la musica è talmente ben inserita nel tessuto teatrale che difficilmente esso può funzionare senza cantanti o musicisti. La collaborazione fra Molière e Lully termina con Psiché, un’opera chiave, anticamera della tragédie-lyrique, in cui testo e musica non sono più intrec-
ciati in un abbraccio indistricabile ma vivono autonomi, in momenti diversi, ognuno col suo ritmo, il suo registro, il suo tempo: due amanti meravigliosi che si ricompongono dopo una travol-
gente storia d’amore: e perché oggi negli allestimenti teatrali di Lully e Molière si fa rivivere solo uno dei due amanti - il testo - e si continua a congiurare per tenere in silenzio la musica?
Lully ou le musicien du Soleil. Le Bourgeois Gentilhomme, Hugo Reyne, La Simphonie du Marais, Accord, 2 cd
JAZZ
Per il “made in Italy” non è mai troppo tardi… di Adriano Mazzoletti uno strano destino quello dei musicisti italiani degli anni Sessanta. Il loro successo era all’epoca circoscritto, i loro dischi venduti in poche copie, la loro notorietà limitata. Per lo più erano dilettanti, i professionisti per sopravvivere dovevano dedicarsi oltre che al jazz ad altri tipi di musica, quella cosiddetta leggera soprattutto. Oggi le cose, per quei musicisti, molti con i capelli bianchi, ma ancora animati dal sacro fuoco, sono e stanno cambiando. Un signore che vive a Savio di Cervia, una piccola località in provincia di Ravenna, Paolo Scotti, ha avuto un’idea. Una di quelle che vengono spesso a noi italiani. Ha preso quei vecchi long playing in vinile , quelli che si vendevano in pochissime copie e che oggi è possibile trovare solo negli archivi di qualche collezionista, li ha ristampati cer-
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cando di non modificare nulla, stessa copertina a colori, stesse note di presentazione, naturalmente stessa musica e li ha esportati in Giappone. Ed è successo il miracolo. Quei dischi stanno andando a ruba e hanno scalato le vette delle classifiche. Ma non solo, i giapponesi, quei musicisti italiani oltre ad ascoltarli attraverso le vecchie incisioni, desideravano vederli e ascoltarli di persona. Così il signor Paolo Scotti che si sta rivelando imprenditore coraggioso, ha organizzato le prime tournées di quei musicisti di jazz italiani anni Sessanta che nella maggior parte non ave-
vano mai fatto ascoltare la loro musica al di fuori dai patri confini. Il successo è stato clamoroso. I primi sono stati Gianni Basso e Dino Piana. E pensare che nel 1962 quando con Oscar Valdambrini vinsero un concorso il cui premio consisteva in una scrittura in un paio di jazz club di New York, una volta giunti negli Stati Uniti, il sindacaGianni Basso to dei musicisti americani proibì loro di suonare e furono costretti a tornarsene in Italia senza aver tirato fuori gli strumenti dagli astucci. Invece a Tokyo e Osaka, le migliaia di persone che affollavano i teatri non volevano che Dino
Piana e Gianni Basso terminassero i loro concerti. Un’altra orchestra, questa volta la romana Modern Jazz Gang, partirà fra breve alla volta del Giappone. Si tratta dello stesso gruppo che il sassofonista Sandro Brugnolini, in realtà giornalista parlamentare, aveva formato negli anni Sessanta con Enzo Scoppa, sassofonista, ma commerciante di mestiere, e altri amici professionisti e non, fra i quali la tromba Cicci Santucci, il pianista Leo Cancellieri e il batterista Roberto Podio. La Modern Jazz Gang, i cui rari dischi fatti loro incidere da Claudio Consorti per la piccola casa discografica Adventure sono stati anch’essi ripubblicati, troverà, ne siamo certi, quel successo popolare che mancò loro cinquant’anni fa. Ma non solo, i dischi ripubblicati solo per il mercato giapponese sono ricercatissimi in Europa e stanno diventando autentici pezzi da collezione.
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NARRATIVA
Un reality book da
libri
strapaese
di Maria Pia Ammirati er parlare del libro che abbiamo scelto questa settimana cominciamo da alcune definizioni. Il libro in questione appartiene prima di tutto all’universo corposo degli esordi, è stato definito da alcuni autorevoli critici come una sorta di reality-book (deducendone la definizione dai meno pregevoli referenti televisivi), appartiene al mondo della non fiction novel. Lo scrittore, Francesco Ceccamea, è un ventinovenne di un paese laziale e Silenzi vietati è diventato un clamoroso caso nella provincia viterbese dove lo scrittore vive. Il motivo di questo successo sta per prima cosa nel fatto che il libro è una spietata autobiografia, niente quindi che appartenga al mondo dell’invenzione romanzesca, ma un crudo report di vita di provincia. Ed è proprio questo ad aver creato clamore intorno al giovane scrittore, che affida alla pagina la sua vita e quella di altri comprimari chiamati col nome e cognome registrato all’anagrafe. Ceccamea è divenuto scrittore sicuramente per passione, ha la levità e l’acutezza giusta della penna, ma soprattutto per un incontro che gli ha cambiato la bolsa vita di provincia. Durante la burrascosa frequenza della scuola secondaria, una Ragioneria tirata tra bocciature e rimandi a settembre, Ceccamea ha la fortuna di avere come insegnante di italiano il critico Massimo Onofri, con il quale imbastisce un relazione maestro-allievo che lo solleva dal ghetto che volontariamente lo tiene isolato. Onofri è uno dei maggiori critici letterari italiani, appartenente alla schiera della nuova critica, ha fama di caustico nonché di attento studioso di letteratura italiana. Ceccamea, oppresso da solitudine, e anche uno speciale senso di inadeguatezza di vivere, si lega in maniera morbosa al maestro mettendolo a dura prova nell’esercizio dell’insegnamento, che non è fatto solo di trasferimento di contenuti notizie date e co-
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noscenze, ma è soprattutto preparazione alla vita. Questo speciale rapporto, fatto per il critico anche di fasi faticose, improvvisamente si trasforma nell’allievo Ceccamea in un brutale diario moderno, dove si intreccia la confidenza, l’analisi psicologica, la pedanteria della chiacchiera di paese vivisezionata e presentata nella sua parte più grottesca e pacchiana. Lo scrittore, che tenta le strade della narrativa iscrivendosi anche a una delle tante scuole di scrittura disseminate sul territorio italiano, comincia a scrivere al suo professore-idolo (verso il quale ha tali manie di proiezione da spingersi a chiedere la figlia undicenne in sposa) una lunga sequenza di e-mail tutte rigorosamente intitolate (qualche esempio: «Salve prof!», «Io mio padre e le troie», «Uno psicologo in famiglia»). Le e-mail sono l’esplosione di un microuniverso in un macrouniverso collegato da giornali e tv, una parodia continua del reale con accenti di comicità surreale. Ceccamea (di mestiere segretario e garzone di pompe funebri) invoca la figura di Onofri come salvatore mentre combatte la sua ossessione principale: il sesso e le donne: «Ah professore, beato lei con la sua deliziosa moglie e quei Suoi adorati figli, che crescono in mezzo a giornali libri e musica classica… lei che si lamenta sino ai limiti del masochismo estremo… della sua meravigliosa e angosciosa vita intellettuale, non può immaginare cosa toccherà a me questo sabato. Ma lo sa che dovrò andare fino a Terni a ballare in discoteca?». Verrebbe da dire: grande provincia dalla quale non trarre solo materia per gialli e noir, ma per il ritorno di una tradizione letteraria del moralismo ironico e grottesco figlio del conflitto strapaese e novecentismo. Francesco Ceccamea, Silenzi vietati, Avagliano, 220 pagine, 13,00 euro
riletture
Quelle lettere di Pound su Moscardino
di Leone Piccioni ncora Pea: anche se non ho ancora la risposta sulla ristampa di Moscardino che avevo auspicato nel nostro precedente incontro, ricevo un libro di poche pagine dedicato al carteggio tra Pea e Ezra Pound quando il grande poeta che viveva in Italia volle tradurre in inglese Il Moscardino, chiedendo via via a Pea il permesso per quella traduzione e poi diverse richieste di chiarimento di certe parole popolari o tradizionali che Pea usava nel libro. Ezra Pound nacque nel 1885 ed è morto in Italia nel 1972. Era americano ma nel 1908 lasciò per sempre l’America trasferendosi per un po’ a Londra e poi dal ’25 al ’45 a Rapallo. Sebbene straniero aveva aderito al fascismo per il sistema sociale che dichiarava di voler mettere in atto (ma non si sa quando!) e che aveva dei punti in comune con il «socialismo corporativo» da lui vagheggiato. Durante la
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guerra Pound fece propaganda attraverso la radio italiana contro la sua stessa patria: gli Usa. Per questo, a guerra finita, fu immediatamente arrestato e poi trasferito a Washington per essere processato per alto tradimento, reato che lo avrebbe probabilmente portato alla pena di morte. Ma un vero e proprio clamore nel mondo dei poeti si erse in sua difesa e il processo fu annullato. Pound fu dichiartao infermo di mente e internato in manicomio. Liberato nel 1959, rientrò poi in Italia, nel Veneto, dove morì. Gli anni della traduzione di Moscardino vanno dal ’40 al ’41. Cominciò tutto con un biglietto assai timido di Pound: «Se non avete combinato di meglio vi chiedo permesso di tradurre Moscardino… non prevedo un affare lucroso ni per autore ni per traduttore». Naturalmente Pea accettò volentieri. Il libro a cui mi riferisco è Il carteggio Pea-Pound. Nascita di un’amicizia intorno alla traduzione di “Moscardino”, pub-
blicato per la Fondazione Primo Conti dall’editore Maria Pacini Fazzi. La stessa Fondazione e lo stesso editore avevano curato in precedenza, nel 2004, un volume in 1200 copie numerate che raccoglieva le lettere spedite a Pea tra il 1909 e il 1958 (data della sua morte). Sono presenti una sessantina degli scrittori italiani più importanti. Peccato che non ci siano le risposte di Pea che probabilmente non sono state conservate. Gianfranco Contini nel ’40 scrive: «Sono entusiasta di Solaio. Siamo al livello di Moscardino, del Volto, del Servitore del grande Pea». Assai fitto il carteggio con De Robertis iniziato nel ’37 e proseguito sino al ’55, con tante lodi e tanti suggerimenti. Pea riceve anche una cartolina di Emilio Cecchi che scrive: «Grazie, caro Pea, grazie da parte di tutti: aspetto di leggere Solaio, tutti me ne dicono benissimo». Eugenio Montale insiste per farlo collaborare al Corriere della Sera. Nel ’27 riceve da Italo Svevo una lettera che co-
mincia così: «Carissimo Pea, l’altra settimana ho avuto l’opportunità di rileggere il Suo Moscardino che già possedevo. Ne fui tanto incantato che, proprio per sfogo mio necessario, Le ho scritto. Sono entusiasta del libro che è veramente strano e mirabile». Ecco una lettera di Vittorini: «Ho appreso la bellissima notizia che c’è stato dato a Saint Vincent il premio per il romanzo Vita in Egitto. Mi ha fatto un grandissimo piacere. È un completo riconoscimento della tua opera e della tua lunga fatica di scrittore. Ho sempre creduto e guardato con fiducia alla tua attività di scrittore e di poeta autentico». Importante anche il carteggio con Lorenzo Viani che va dal 1910 al 1917: proprio nel ’10 Viani loda le Fole di Pea: «Vi è - scrive - impeto vero di fantasia… qualcosa di veramente grande emana dalla nostra terra i vocaboli aspri che tu hai colto, le visioni di caverne delle nostre Alpi materne…». (I volumi di cui ho fatto cenno sono state curati da Angela Guidotti e da Massimo Marsili).
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DIARI
altre letture
Ingmar Bergman cronaca di un addio di Stefano Coletta l grande regista svedese Ingmar Bergman e sua figlia Maria decisero di pubblicare solo nel 2004 il diario che, insieme a Ingrid, moglie di Bergman e madre di Maria, tennero dall’ottobre del ’94 al maggio del ’95 e che racconta la malattia fino alla morte della stessa Ingrid. Tre diari è adesso edito in Italia da Iperborea. «Dalla dottoressa Andrén alle 12,45.Tumore maligno allo stomaco. Ingmar è triste e scioccato. Piangiamo». Così scrive Ingrid l’11 ottobre, è martedì. Da quel giorno le note sui tre diari si susseguono quotidianamente. Scandiscono il progredire della malattia, inesorabile e impietoso. L’operazione per asportare lo stomaco, le sedute di chemioterapia, ancora un’altra operazione, la speranza nella guarigione, il peggioramento, il lento, implacabile orrore dell’infermità, i capelli che cadono a ciocche, il grigiore del viso, il vomito incessante, la magrezza compagna di morte, l’istinto di fuga di Ingmar spaventato da tanto dolore, il risentimento di Maria verso il padre, l’amore che lega le due donne, la dolente comprensione di Ingrid verso il marito… Ha ragione Bergman quando descrive il libro come un documento, una testimonianza. Di letterario c’è poco, e quasi esclusivamente da parte di Bergman: «…sono un vecchio vaso da notte incrinato, pieno di autocompassione svaporata - scrive durante la notte del 6 dicembre. A volte vengo anche colpito da una sorta di spossatezza interiore, che forse è
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dovuta effettivamente all’età. Ma cosa mi aspettavo?». La quotidianità è brutalmente modificata dall’insonnia, dall’angoscia, dal contare i minuti di apparente serenità, un miracolo insperato fatto di qualche ora di assopimento, di un boccone che non viene rimesso, di un sorriso che nasce dall’abisso del dolore… Così il tempo passa in una scansione assurda e disumana, fino a quando l’abitudine alla malattia si fa strada e la normalità prende le sembianze di un corpo irriconoscibile ma non per questo meno amato. Lei ha appena la forza di sorridergli, socchiude gli occhi mentre lui, seduto accanto al letto, le accarezza la mano, avvicina il viso a quello della donna sfiorandole la guancia con le labbra. Sperando che per loro ci sia ancora un giorno, o almeno qualche ora, solo pochi minuti… In mezzo, e nonostante tanto dolore, insopportabile perfino per chi legge, vive una misteriosa armonia che concede di vivere questo strazio come se avesse un qualche senso. Per Kierkegaard l’amore matrimoniale «cimenta se stesso in ciò che viene vissuto e riporta a se stesso il vissuto».Vuol dire che esso si alimenta del vissuto quotidiano e al tempo stesso lo rafforza dando una ragione a quanto si vive. È così, infatti, che la molteplicità dell’esistente diviene forza universale, nucleo profondo e inattaccabile della stessa esistenza. Il tempo, attraverso cui avviene questo incremento di senso, possiede una pro-
gressione crescente e dona armonia, pace ed essenzialità alle nostre azioni. Sembra che Bergman ne sia consapevole, o meglio, abbia avuto la grazia di vivere un simile miracolo quando scrive: «Nella mia costante e quotidiana convivenza con Ingrid ho potuto sperimentare la simbiosi completa (…) La prendevamo per naturale, come l’aria e la luce». Eppure Bergman non sembra essere consolato dalla fede, lui, il regista che come pochi ha saputo confrontarsi con il pensiero che l’uomo ha di Dio. Per Bergman non ci sono parole di conforto dettate da un aldilà luogo di un impossibile incontro. In lui prevale la tenerezza dell’amore vissuto con la leggerezza con cui ci si lascia accarezzare da un raggio di sole: «Ma non ci separeremo mai. Forse ce ne staremo per un po’ ognuno nella propria stanza…», scrive quando mancano pochi giorni alla morte di Ingrid. Questo documento sul dolore e la perdita non offre strumenti per sostenere l’uno e l’altra. L’unica maniera di sopportare il distacco sembra essere quella indicata dalla figlia Maria, quando afferma che la madre continuerà per sempre a vivere in lei, nella sua memoria. Ma non per Bergmano che scrive: «So-
no senza parole. Non oso pensare all’abisso. L’incubo da cui non possiamo risvegliarci». In occasione del ventitreesimo anniversario del matrimonio, Ingrid, dall’ospedale, scrive una lettera a Ingmar, e così la conclude: «Sento solo la tua mancanza. La tua sicurezza, l’amore e la tua debolezza; è come se tra noi scorressero bontà, armonia e amore (…) Bisogna avere un piede nella fossa per riconsiderare le cose. Ti amo!». È questo il cuore che mai cessa di battere all’interno di uno dei più strazianti libri d’amore che si possano leggere. Ingmar Bergman e Maria von Rosen, Tre diari, Iperborea, 264 pagine, 12,40 euro
SOCIETÀ
La vergogna di Prometeo secondo Anders di Riccardo Paradisi redo di essere sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, “vergogna prometeica” e intendo con ciò vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi». Era l’11 marzo 1942 quando Günther Anders scriveva queste parole nel diario che teneva nel suo soggiorno negli Stati Uniti dove il filosofo era emigrato per sfuggire alle persecuzioni razziali che imperversavano in Europa. Da quella intuizione, il senso d’inferiorità del-
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l’uomo rispetto alla tecnica e ai congegni da lui prodotti, nascerà il saggio L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, lavoro che vede la
luce per la prima volta in Germania nel 1956 ma che resta un classico continuamente ripubblicato sul tema del rapporto tra l’uomo e la tecnica. La diagnosi di Anders muove dalla constatazione di una oggettiva subalternità dell’uomo, novello Prometeo, rispetto al mondo delle macchine da lui stesso creato. La vergogna prometeica, spiega Anders, è legata anche a un senso di dislivello, di non sincronicità tra l’uomo e i suoi prodotti meccanici che lo oltrepassano facendolo sentire antiquato. Oltre che perfetta, autoconclusa, autosufficiente, la macchina infatti è ripetibile, standardizzata, riproducibile in esemplari sempre identici: pos-
siede dunque un’identità che all’essere umano è negata. Dalla prima metà del Novecento a oggi l’accelerazione tecnologica è stata esponenziale, il che rende tanto più attuale il libro di Anders. Soprattutto quando nelle sue pagine vengono affrontate le tecniche di persuasione radiofoniche e televisive che, dice l’autore, ci assediano con immagini di fantasmi irreali, di fronte alle quali diventiamo passivi, incapaci di pensare e di comportarci liberamente. E Anders non aveva ancora potuto studiare gli effetti di internet sulla psiche umana. Günther Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 322 pagine, 18,00 euro
È possibile essere di sinistra e allo stesso tempo reazionari? Si può, come pensava Pasolini, fare un uso rivoluzionario della tradizione? Bruno Arpaia a queste domande che potrebbero apparire provocazioni, elettroshock ideologici risponde di sì e lo spiega nel suo intrigantissimo Per una sinistra reazionaria (Guanda, 182 pagine, 12,00 euro). Spiega che la sinistra ha regalato alla destra cose bellissime come la Tradizione, la comunità, la religione, il mito. Non si tratta di rimpiangere lucciole, arcolai o navigazioni a vela, tanto meno di rifugiarsi in idee passatiste. Si tratta piuttosto, dice Arpaia, di recuperare la tradizione senza diventare per questo dei tradizionalisti, fare un uso rivoluzionario della tradizione come diceva Pasolini. Anche perché, dice Arpaia citando Latouche: davvero si può pensare, senza sorriderne, che siccome siamo uomini del 2008, abbiamo per questo superato grazie al nostro progresso morale, grazie al progresso dei consumi, l’intelligenza di Platone, la coscienza morale di Buddha o di Socrate, la raffinatezza della Cina antica? Ecco basterebbe questa riflessione per mettere in soffitta il progressismo e sul comodino il libro di Arpaia. Dopo quindici anni di matrimonio capita di essere tradite dal proprio marito con una ragazza più giovane. A Hils è capitato. A volte può anche capitare che la figlia nata dalla nuova relazione non assomigli affatto al marito traditore ma abbia dei vistosi e dubbi capelli rossi. Ma Hils non si perde d’animo e reagisce: si ritrova scrittrice di un clamoroso bestsellers dal titolo Diario di una divorziata.Tutto questo e altro ancora nel divertente, acuto e sincero Una vacanza per nove, amanti esclusi di Jenny Eclair (Kowalski editore, 407 pagine,16,00 euro). A chi dopo Francesco Rutelli il ministero dei Beni culturali? In attesa di sapere a chi andrà il dicastero di via del Collegio romano si può leggere uno studio di Roberto Cecchi dal titolo I beni culturali, testimonianza materiale di civiltà (Spirali, 233 pagine, 18,00 euro). In questo libro l’autore, architetto con una lunga esperienza di lavoro nelle soprintendenze e dirigente generale del ministero, denuncia il degrado del nostro patrimonio: sfigurato, svenduto, scempiato. Quali sono le origini di questo degrado? Di chi è la colpa dei ritardi che si sono accumulati in tutti questi anni? In allegato al saggio di Cecchi vengono pubblicati anche alcuni importanti documenti, tra cui la carta del restauro e la Convenzione europea del paesaggio.
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ritratti
A CENT’ANNI DALLA NASCITA
CON OLTRE VENTI MILIONI DI COPIE VENDUTE HA RAGGIUNTO IL CUORE DEL PUBBLICO. MA IL PREGIUDIZIO NEI SUOI CONFRONTI COMINCIA SOLO ORA A SBRICIOLARSI. DISPIACEVA ALLA SINISTRA PERCHÉ SI DICHIARAVA DI DESTRA E AGLI INTELLETTUALI IMPEGNATI PERCHÉ SCRIVEVA TROPPO SEMPLICEMENTE. EPPURE PER LUI ERA UN VANTO USARE POCO PIÙ DI DUECENTO PAROLE…
Il coraggio di Guareschi di Pier Mario Fasanotti uareschi si chiamava davvero Giovannino e non Giovanni. Nacque il primo maggio 1908, quindi cent’anni fa, a Fontanelle, in provincia di Reggio Emilia. E in quella pianura «piatta come un biliardo» cercò sempre il senso della vita, magari seduto sulla riva del Po o camminando sulle strade coperte di polvere fine e bianca. Lì sull’argine del fiume, da bambino, aveva sognato di possedere la bicicletta. Fu poi in bicicletta che iniziò a fare il cronista per un giornale di Parma, salvo poi stancarsi e scegliere di «inventare i fatti reali» con il vantaggio di avere più tempo per «correre dietro alle ragazze». Nella Bassa, dove scorre il gran fiume mormorante e popolato di fantasmi e delle stregonerie di menti fantasiose, rischiava di perdersi. In un suo racconto, con tratto da macchiaiolo, comunica al lettore il sito geografico e quello della sua anima: «Il paese era ancora deserto e silenzioso, immerso in quella nebbia marcia». Altre volte c’erano i rombi di motocicletta di un’Italia che poggiava il suo orgoglioso riscatto, dopo la dittatura e le rovine della guerra, sulle ruote di gomma. In mezzo alle arie verdiane conosciute da tutti (e a memoria), che scivolavano dalle finestre, alle grida di ragazzi, al fitto cicaleccio nelle piazze quadrate, alcune con i portici e altre no.
ristici come l’Asino, Il becco giallo, il Marc’Aurelio, il Bertoldo, Settebello e Candido (fondato nel dicembre ’45 da Guareschi e da Giacinto Mondaini). Furono periodici importanti, senza i quali paiono quasi incomprensibili i più recenti Linus, Il Male, Cuore e Comics: «diramazioni complesse - annota Guido Conti - di una stessa tradizione che attraversa il Novecento e ha portato la letteratura fuori dai generi canonici, verso i nuovi strumenti mediatici». Fino a internet, non è azzardato dire. Il pregiudizio comincia solo ora a sbriciolarsi.Vale la pena ricordare che alla morte di Guareschi (22 luglio 1968, giornata piovosa) l’Unità dette notizia con un corsivo di poche righe in cui si parlava del «malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto». Lo ricordano con sdegno Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro nel libro appena uscito dall’editore Piemme (Giovannino Guareschi, 243 pagine, 14,50 euro). L’organo del Pci così concludeva l’acido necrologio: «Così, tra una vignetta e l’altra, aprì un ristorante tipico a Busseto. La battaglia finiva ancora una
Guareschi è lo scrittore italiano più venduto nel mondo: oltre 20 milioni di copie. Il narratore e saggista parmigiano Guido Conti, nel libro biografico dedicato al cantore della Bassa emiliana (Giovannino Guareschi, Rizzoli, 568 pagine, 21,50 euro), scrive che «è sicuramente una delle vette più alte, nel Novecento, di tradizioni popolari italiane ed europee mai spente, che attraversano la storia non solo letteraria del nostro Paese per secoli in maniera più o meno sotterranea, coi tempi lunghi della letteratura e non delle mode del mercato». Assieme ad altri scrittori del Novecento, Guareschi non compare sulle antologie o sulle storie della letteratura, almeno su quelle, come dice Conti, «costruite su griglie obsolete, vecchie, miopi, cimiteriali». Una citazione breve breve, se si è fortunati, la si può trovare. Eppure in questa maniera si salta a piè pari anche la tradizione dei giornali umo-
volta in pastasciutta». Dicembre 1992: il poeta Giovanni Raboni, notoriamente di sinistra radicale, scrisse un violento elzeviro sul Corriere della Sera intitolato «Il suo peccato capitale non fu la destra. Fu di non sapere scrivere». Raboni dimentica signorilità e dubbi: «Detestavo, e continuo a detestare, la sua rozzezza, il suo semplicismo, il suo umorismo goliardico, la sua scrittura impastata di salame cotto e di cattivo Lambrusco, il suo manovrare storie e personaggi con la brutalità di un burattinaio avvinazzato, il suo ridurre l’immaginazione a una sottospecie della propaganda e la realtà drammatica di una nazione e di un’epoca a una rissa tra macchiette, a una farsa paesana». Se Raboni non ha capito niente di Guareschi, è anche vero che il poeta di Porta Venezia (quartiere di Milano) considerava idioti e ignoranti milioni di lettori. Dall’alto del suo con-
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siderarsi il più raffinato traduttore di Proust e dal confortante e remunerato calore dei salotti e salottini, un tipo di frequentazione che Guareschi aborriva. Torna in mente quel che scriveva il grande, e per nulla snob, Albert Camus: «Chi scrive semplice ha dei lettori, chi scrive oscuro ha dei commentatori». Guareschi, che si vantava di usare poco più di duecento parole, non ebbe mai, contro alcuno, il livore di un Raboni e di quelli che covano un sordo rancore per non essere riusciti a raggiungere il cuore del pubblico, ma più facilmente gli ambienti dove si scambiano favori per premi, commesse editoriali, incarichi in enti culturali. Comunque il vento cambia. Tanto è vero che Alessandro Baricco, scrittore che piace molto ai giovani, non esita a definirlo «un classico». E va oltre: «Tutto Guareschi è molto moderno. Direi che rimasi fulminato dalle vicende familiari che raccontava. Da ragazzo mi facevano ridere moltissimo, ridevo forte in camera mia e mi sentivano anche gli altri di casa… in lui c’è una specie di leggerezza e velocità di scrittura… e poi aveva un’epica capacità di creare….». Guareschi si considerava di destra (ma non fascista, ovviamente) e con sfacciata sincerità sbandierava la sua natura di reazionario. S’impegnò moltissimo, nelle elezioni dell’aprile 1948, affinché fosse sconfitto il Fronte Popolare. Senza mai chiedere la tessera della Dc, partito verso il quale fu poi molto critico. Come fu critico, anzi caustico, contro il qualunquismo di Giannini del quale disse: ah quello, ha fatto una scorpacciata di sacramenti per mettersi in regola con il Vaticano. Fu proprio Guareschi, os-
Metteva alla berlina chiunque guardasse il mondo con i paraocchi, chiunque fosse schiavo di stereotipi e falsità storiche. Fu caustico contro il qualunquismo di Giannini ma coltivò il gusto di prediligere gli umili e la semplificazione come forma di vita. Anche a rischio di diventare retorico nell’esercizio dell’antiretorica…
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da ancora il figlio, correggeva all’infinito, poi batteva a macchina. «Ripeteva spesso a noi figli - aggiunge Alberto - che scrivere è una gran fatica per chi vuole farsi capire da tutti. E poi seguiva i suoi personaggi: capitava che li lasciasse nei guai salvo poi venirgli in mente come aiutarli senza ricorrere al facile deus ex machina». Prese spunto dai suoi familiari per ritrarre certi personaggi. Confessò un segreto, lo stesso di Gabriel García Márquez: i favolosi racconti della bisnonna Filomena (diventata Giuseppina nei libri), «ossa minute, fazzoletto, annodato sotto il mento, sopra i capelli candidi, la sottana nera col corpetto accollato e il sottile fuscello di gaggìa». Si vantava d’essere sempre stato svanito, «come i vecchi». Accanito contro la retorica e la letteratura autoreferente, corteggiava però il gusto di prediligere gli umili, la semplificazione come forma di vita. Col rischio che la sua prosa risultasse retorica, a volte mielosa, proprio nell’esercizio dell’antiretorica.
sessionato dalla barbarie del comunismo, a coniare molti slogan passati alla storia. Il più famoso: «Nell’urna Dio ti vede, Stalin no». Sia nella serie di libri Il mondo piccolo sia nelle vicende di Don Camillo e Peppone (interpretati sullo schermo da due attori-giganti come Fernandel e Gino Cervi), metteva alla berlina chiunque guardasse il mondo con i paraocchi, chiunque fosse schiavo di stereotipi e falsità storiche. Nel loro libro, Gnocchi e Palmario enfatizzano il coraggio «civile» di Guareschi arrivando a dichiarare: «Un Leonardo Sciascia e un Pier Paolo Pasolini sono stati eletti al rango di maestri per molto meno. E, in ogni caso, non hanno mai rischiato la pelle ogni settimana per ciò che scrivevano». Be’, questo è troppo, anche se si tiene conto della posizione politica dei due autori. Colpevolmente ignari, comunque, dell’altissimo valore letterario dei due narratori citati. Uno dei quali, l’autore di Ragazzi di vita, venne massacrato (a Fiumicino nel ’75: e non solo per le sue abitudini sessuali). Lo scrittore-regista - occorre ancora ricordarlo agli smemorati? subì minacce e aggressioni.
«affinché la popolazione romana si decida a insorgere al nostro fianco». Ci fu un processo. I giudici rifiutarono la perizia calligrafica e dopo un quarto d’ora di camera di consiglio condannarono Guareschi a un anno di carcere. Il leader democristiano - che tra l’altro nel ’44 aveva definito Stalin «grande conduttore di popoli» - rispose così a un giornalista: «Sono stato anch’io in galera e ci può andare anche Guareschi. E le assicuro che le carceri dello Stato
Aveva il timore di essere dimenticato, malgrado il successo dei libri e dei film ispirati ai suoi racconti. Le vicende di Don Camillo e Peppone divennero note in tutto il mondo, anche a Western Samoa. Il più noto scrittore thailandese lo imitò e sfiorò il plagio, sostituendo il prete con un bonzo che parla con Buddha. Si ispirò al narratore emiliano persino Frate Indovino che pubblicò uno strano Don Camillo in penitenza. Il dilagante successo cinematografico e televisivo non ha soste: non passa estate senza rivedere Fernandel e Gino Cervi che battibeccano nelle strade e negli slarghi polverosi di Brescello (Reggio Emilia). Sono pellicole che il tempo fatica a logorare. In tv il film Don Camillo (1951) ha avuto 18 repliche. La prima volta su Canale 5 Il ritorno di Don Camillo (1952) ha avuto il 39 per cento di share, con 6 milioni di spettatori. I tedeschi hanno teatralizzato tre volte Guareschi e l’ultima pièce ha riscosso applausi lo scorso anno. Dal 1941 a oggi la Rizzoli ha pubblicato 28 volumi diversi. È il caso di parlare di long-seller, o di storia editoriale infinita, miracolo che capita raramente. I personaggi guareschiani sono così veri che assumono il contorno del mito, e il mito, si sa, non ha bisogno di mediazioni accademiche. All’apice del successo, e dopo la malinconica disavventura giudiziaria, Giovannino lasciò Milano, città per la quale nutrì un iniziale entusiasmo, e tornò a contemplare barchesse e biolche, sempre con la penna in mano. Ridonò fiato alla scenografia contadina. Quando arrivava qualcuno a interrogarlo sul suo meccanismo narrativo, tenendo il sigaro in bocca rispondeva che era «un equivoco». Tutto lì, stanco com’era del conformismo e forse anche del proprio anticonformismo. In uno degli ultimi volumi editi dalla Rizzoli compaiono i racconti sull’infanzia, ispirati al mondo semplice ed essenziale dei campi, dei canali, delle cascine. C’è anche un fumetto: Guareschi si divertiva col disegno, tra un fondo da scrivere per il giornale e un corsivo satirico. Cose di altri tempi? Trame e scenari che paiono archeologia se letti da chi naviga in internet e usa il fraseggio barbaramente sincopato degli sms? Non credo. C’è per esempio il racconto intitolato La pagella, per il quale se si parla di profezia sociologica non si è presi per matti. Il protagonista, «un arnese» esile, come scrive l’autore, è turbato dai cattivi voti e dal rigore della famiglia e ha la tentazione di togliersi la vita. Sull’attualità del tema è superfluo richiamare l’attenzione. La mente d’un bambino viene scandagliata anche in Storia segreta del figlio di nessuno: risulta una indicazione agli specialisti dell’adolescenza, oggi numerosi, il passo dove il ragazzo, solo a casa e attanagliato dalla noia, guarda foto «strane» e prova improvvisamente «ribrezzo», e poi «fastidio» a rimanere tra le lenzuola del letto di papà e mamma. Una frase riassume il travaglio giovanile, la fase delicata in cui si cerca soprattutto quella cosa difficile che è la propria identità: «Gli venne in mente sua madre giovane in costume da bagno a cavalcioni sul collo di suo padre giovane e in costume da bagno, e gli parve che sua madre fosse un’altra».
All’apice del successo e dopo la malinconica disavventura giudiziaria che lo vide contrapposto a De Gasperi, lasciò Milano e tornò a contemplare e a descrivere la scenografia contadina. Quando qualcuno arrivava a interrogarlo sul suo meccanismo narrativo, rispondeva che era “un equivoco”
Certo, Guareschi andò in prigione. La prima volta in Germania dopo essere arrestato a Milano per aver inveito (era sbronzo, ma anche sincero) contro la guerra di Mussolini, la seconda per aver pubblicato su Candido due lettere che Alcide De Gasperi avrebbe inviato nel 1944, su carta intestata del Vaticano, al colonnello inglese Carter chiedendo il bombardamento della periferia della capitale
democratico sono migliori che nei periodi di dittatura». Guareschi non ricorse in appello. Si limitò a ricordare che lo statista chiese invece la grazia a Mussolini. Dopo la sentenza (1954), Eugenio Montale e altri brindarono al Bagutta di Milano. Anni dopo un importante leader dc come Flaminio Piccoli non escluse che i giudici potessero essere stati influenzati dal clima politico. Guareschi era profondamente cattolico. E per lui la famiglia era il mondo puro, cui si aggrappò con forza nei periodi di malinconia e di riflessione. Racconta il figlio Alberto: «Mio padre era generoso: lavorava come un matto, mai un giorno di ferie in vita sua, ma non ci trascurava, chiedeva e raccontava. Quante favole da lui! Spesso io e mia sorella trovavamo sulla carta ciò che a tavola ci aveva riferito». Giovannino scriveva di getto «con la matita grassa», ricor-
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TV
video
di Pier Mario Fasanotti
Maigret di Bruno Cremer
ho già scritto e lo ripeto: gli americani sono eccezionali nel confezionare serie poliziesche. Senza dubbio le migliori sono quelle fornite dai canali Sky e talvolta dalla Rai. Mi riferisco a Csi e Criminal Minds, ma anche a Crossing Jordan (di cui parleremo un’altra volta). Il format Csi ha tre ambientazioni: Las Vegas, New York e Miami. La tecnica investigativa più o meno è la stessa, quello che muta è lo scenario. Una serie si differenzia dall’altra soprattutto per il colore degli esterni (furbizia del marketing): il nero per Las Vegas, il grigio per New York e il giallo-sole per Miami. Nulla sfugge ai detectives. Una macchiolina di sangue, una traccia di rame piuttosto che un pelo di gatto conducono al colpevole, che viene inchiodato prima ancora che il suo comportamento segnali cedimenti o contraddizioni. Ecco, è anche per questo che viene la nostalgia per la vecchia Europa dell’intuito, della caparbietà dei poliziotti, dell’atmosfera, dei minimi gesti facciali o di parole dette e solo lasciate intendere. Quale paese meglio della Francia ci consente un viaggio all’indietro, al tempo in cui tutto era affidato al fiuto di un uomo e non posto sotto il vetrino del laboratorio? Chi meglio del commissario Maigret ci porta per mano nelle case di ricchi e di poveri, tra piccole miserie e rancori covati per anni? Fox Crime ha iniziato a mandare in onda il Maigret interpretato dal bravissimo Bruno Cremer, che il pubblico italiano ha conosciuto nella Piovra (quarta e quinta serie: era un «cattivo» e molto credibile). L’orario è antipatico, almeno per chi non ha il registratore: a tarda mattinata e all’inizio del pomeriggio, sabato e domenica. Come dire: se lo vedano i pensionati, quelli in ospedale o nelle case di cura. Spiace che non ci siano repliche notturne. Servirebbe a spezzare il ritmo di un presente esagitato e con atteggiamento fideistico verso la scienza. I giovani potrebbero calarsi in un mondo che non è affatto scomparso, basta allontanarsi dalle grandi città. E capire che certi delitti recenti (Cogne, Erba, Garlasco, Perugia) sarebbero stati scandagliati meglio da un Maigret attento a un batter di ciglia, poco importa se sprovvisto di laurea in psicologia. Quel che piace nei romanzi di Simenon è il contorno. Il cantoniere ubriaco, la leziosa hall dell’hotel Coq rouge, il parlottio del Cafè Lion d’Or, il gabinetto che si chiama «sala da bagno», gli amori notturni, il verso della civetta, i taxi neri.
L’
contro lo stress della vita moderna
web
games
NICKNAME: I LOVE CHINA
BEAUTIFUL KATAMARI
dvd
MADRI D’ISRAELE E DI PALESTINA
I
n segno di protesta contro la disagevole marcia forzata della fiaccola olimpica nelle capitali del pianeta, i navigatori cinesi del web, che di recente hanno superato quelli americani per numero di utenti complessivi, hanno dato vita a una singolare controffensiva. A tutela del buon nome della propria nazione, un passaparola serrato e capillare ha spinto migliaia di frequentatori dei servizi di messaggistica istantanea, a rinominare
S
barca finalmente in Europa, su Xbox 360, Beautiful Katamari, la versione realizzata per la console nextgen Microsoft del capolavoro di Jun Morikawa. Dopo aver letteralmente conquistato i possessori di Ps2 e Psp con Katamari Damacy e i suoi fortunati sequel (We Love Katamari, Me and My Katamari), la Namco prova l’avventura con l’ammiraglia Microsoft, anche nella speranza di scalfire la supremazia Sony e Nintendo nel mer-
«H
o incontrato le madri di due popoli separati da un muro fisico e mentale ma resi fratelli dallo stesso dolore. Sono entrata nelle case che un tempo erano luoghi di vita e gioia in cui oggi rimbomba lo straziante vuoto di camerette cristallizzate in un ordine innaturale e di zaini che nessuno porterà più a scuola». Barbara Cupisti, attrice di culto dell’horror italiano anni Ottanta, presenta così Madri, suo primo
Il popolo cinese di internet fa muro contro l’Occidente e in difesa delle Olimpiadi
Sbarca in Europa la versione per la console next-gen Microsoft del capolavoro di Morikawa
Donne che piangono la morte dei figli in una guerra senza fine, nel documentario della Cupisti
il proprio nickname in «I Love China». Contattati tramite mailing list e lunghe catene di Sant’Antonio informatiche, il popolo del web cinese ha risposto positivamente all’iniziativa, nata, secondo quanto riportato dal comunicato ufficiale, per rispondere al ventilato boicottaggio dei Giochi Olimpici da parte di protagonisti e semplici cittadini del mondo occidentale. I quattro milioni di cinesi che hanno scelto nel web un unico nickname collettivo, sperano di sensibilizzare così amici e conoscenti sui presunti picchi diffamatori raggiunti dalla stampa occidentale, colpevole, secondo le autorità cinesi, di aver instaurato un clima cospirativo.
cato giapponese. Per chi non conoscesse il gioco, Katamari si basa su un’idea semplicissima che può provocare conseguenze che definire «cosmiche» non è esagerato. Si parte con un minuscolo folletto jap-style che deve far rotolare un «katamari» (una specie di sfera magnetica in grado di attirare ogni oggetto più piccolo del proprio diametro) per «inglobare» tutto quello che trova sul proprio cammino. Si parte con gli oggetti minuscoli (monete, puntine da disegno, dadi) per passare, gradualmente, a quelli più grossi (ortaggi, animali domestici, persone). Per finire con quelli enormi (case, grattacieli, vulcani, isole). La sensazione di onnipotenza è inimitabile.
lavoro da regista e David di Donatello come miglior documentario dell’anno. Road movie atipico, girato fra Israele e Palestina, Madri scava nei conflitti e nei drammi privati di donne che hanno perduto i loro figli in un’assurda spirale di odio e violenze che attanaglia il Medio Oriente da decenni. Testimonianze, momenti quotidiani e video privati in gran parte inediti, scandiscono un tessuto filmico quanto mai vicino alla realtà, e insieme da questa distante. Lontane dalle facili distorsioni mediatiche, e dalle beghe propagandistiche, le madri della Cupisti, israeliane e palestinesi, piangono i loro figli immolati a una guerra senza fine.
cinema
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Storia e letteratura a misura di donna S di Anselma Dell’Olio
i dice che in punto di morte la nostra vita ci passa davanti agli occhi. È l’idea centrale del romanzo di Susan Minot (Evening), da cui è tratto il film omonimo (in italiano Amore senza tempo). Sin dal titolo siamo avvisati: trattasi di melodramma che richiederà molti fazzoletti, almeno da parte del pubblico più tenero. Basterebbe il cast per allarmare: un battaglione di attrici tra le più stimate di tre generazioni, incluse due mamme e due figlie d’arte. Vanessa Redgrave è Ann Lord, l’anziana protagonista che durante una lunga agonia vaneggia sul passato e «il grande errore» della sua vita. È accudita nell’invidiabile villa in riva all’oceano dalle figlie Nina (Toni Collette) e Constance (Natasha Richardson, sua figlia di sangue). Ann vuole trasmettere alla prole il senso delle sue scelte errate, metterle in guardia contro un eccesso di scrupoli che potrebbe sfociare in rimpianti senza fine. Purtroppo tutte le sue reminiscenze avvengono in una mente obnubilata dalla morfina. Come faranno le sue ragazze a trarne insegnamento è un mistero. Nel presente, Nina, una donna irrisolta e irrequieta, e Constance, moglie e mamma contenta, accudiscono la madre e bisticciano tra loro, da brave sorelle. Nei ripetuti flashback incontriamo Ann da giovane, una Claire Danes a disagio e poco credibile come aspirante cantante di nightclub; è talmente poco somigliante alla Redgrave che si stenta a credere che sia lo stesso personaggio, sia pure in verde età. È venuta a Newport per fare da damigella d’onore e stampella emotiva a Lila Wittenborn (Mamie Gummer) la sua più cara amica, apprensiva come tutte le spose e forse un po’ più del dovuto.
Lila è da sempre innamorata più che del fidanzato di Harris (Patrick Wilson), giovane medico e amico di famiglia, ma di ceto inferiore, dunque inaccettabile per la sua famiglia altoborghese. Durante i festeggiamenti Ann è inseguita da Buddy (Hugh Dancy), un giovanotto che non riesce a crescere, né a decidere cosa fare di sé nella vita, con gli ormoni in grave disordine. Ha struggimenti verso Ann, che dice di voler sposare e un debole (quasi) inconfessato per Harris. Il quale pare che emani un carisma devastante, impercettibile al pubblico, perché anche Ann s’infuoca per lui, durante una notte passata insieme in una rimessa della lussuosa tenuta, con villa sull’ocea-
per essersi lasciata sfuggire Harris. Il dramma strappacuore scaturisce dal fatto che mentre Ann e Harris si conoscevano carnalmente, Buddy, un idealista che s’ubriaca abitualmente di champagne in ribellione all’ingessata vita famigliare e alla confusione sessuale, muore in un incidente d’auto.
Gli sposi rientrano immediatamente dal viaggio di nozze, e con i due neoamanti, congelati dall’orrore per aver ceduto alla passione mentre l’amico moriva, assistono alla disperazione della madre di Buddy per la perdita del turbato figliolo. Glenn Close, nella parte della signora Wittenborn, si prende la rivincita per aver avuto la
Due “woman’s film”: il primo, tratto da un romanzo di Susan Minot, e con un cast di grandi star, è un piagnisteo sulle occasioni perdute. Il secondo, su Enrico VIII, Anna Bolena e sua sorella Maria, è un polpettone strappacorsetti che ha il merito di non annoiare no più stupenda ancora di quella in cui l’anziana Ann sta morendo. È sempre difficile trarre un film riuscito da un romanzo, complicato dal fatto che questo di Susan Minot ha fama di essere un libro «amatissimo». Dopo che la Minot aveva provato a misurarsi con la sceneggiatura, è stato chiamato in soccorso Michael Cunningham, Premio Pulitzer per The Hours, romanzo trasformato in film premiato (da David Hare, però). Nel ridurre drasticamente personaggi ed eventi, Cunningham ha tralasciato di comunicare che diamine di delusioni abbia subito Ann nella sua vita successiva, tanto da giustificare il suo abissale rammarico
parte più piccola, rispetto a quelle distribuite agli altri mostri sacri che troneggiano nel film, con una titanica scena madre che miracolosamente lascia quasi intatto l’arredo aristocratico del suo maniero. Meryl Streep ha un cammeo come Lila anziana, in visita all’amica sul letto di morte, che serve per constatare quanto la figlia Mamie Gummer le assomigli, e per sentire la frignante domanda di Ann: «Non credi che almeno una di noi avrebbe dovuto sposare Harris?». Il tutto è avvolto in un compiaciuto stile visivo, più adatto a cartoline e libri di fiabe che a un woman’s film che vuole commuoverci per le occasioni perdute.
Secondo woman’s film della settimana è L’altra donna del re, polpettone strappacorsetti tratto dal romanzo storico di Phillipa Gregory, best-seller da un milione di copie e magari «amatissimo» quanto Amore senza tempo. È la storia di Anna Bolena, regina per mille giorni, la donna che provocò il divorzio di EnricoVIII d’Inghilterra dalla prima moglie e dalla Chiesa di Roma. La Gregory, intuendo la possibilità di ricavare altro oro da quella miniera storica, manipola i fatti, immaginando due sorelle Boleyn, rivali per il favore del Re (Eric Bana, superslurp) divorato dall’ambizione e dagli appetiti sessuali pantagruelici. Anna (Natalie Portman) è la scaltra arrampicatrice sociale, linguacciuta e irriverente, che dopo un primo tentativo di migliorare finanze e sorti della famiglia adescando il re, fallisce per improntitudine e viene spedita in Francia a imparare «l’arte di essere donna». Nel frattempo papà Boleyn non esita a offrire al Re l’altra figlia, dolce e mansueta, benché già felicemente maritata. Si chiama Maria, interpretata da una Scarlett Johansson più patatona del solito. L’annoso problema del Re è che la moglie legittima, Caterina d’Aragona, non riesce a dargli un figlio maschio per assicurare la successione. Maria un maschio lo sforna per Enrico, ma è illegittimo, e lei troppo mite e noiosa per il vulcanico regnante. Con tempismo ammirevole Anna torna in patria, forte di sottili arti amatorie galliche, ben assimilate. Il Re è talmente arrapato dalla caparbia seduttrice che rompe con moglie e Papa pur di averla; ma dopo pochi anni Anna perderà la testa una seconda volta per lui, questa volta letteralmente. Non gli ha dato un maschio, bensì una bambina rossa che salirà al trono come Elisabetta I d’Inghilterra, una vittoria postuma per Anna e le femmine tutte. Il film è lussuosamente prodotto e non annoia.
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Arthur Rimbaud, via
VOCALI A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, Io dirò un giorno le vostre nascite latenti: A, nero corsetto, vello di mosche splendenti, Ronzanti intorno a crudeli fetori, golfi D’ombra; E, candore di vapori e tende, lance Di ghiacciai fieri, bianchi re, frementi umbelle; I, porpore, sputo di sangue, labbra belle In riso di collera o d’ebbrezze penitenti; U, cicli, vibramenti divini dei viridi mari, Pace d’animali al pascolo, pace di rughe Impresse dall’alchimia su ampie fronti studiose; O, Tromba suprema piena d’arcani stridori, Silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi: - Oh l’Omega, di quei Suoi Occhi il raggio viola! ARTHUR RIMBAUD da Poesie
poesia
di Francesco Napoli eve essere il fatto di aver scritto poesie tra i sedici e i diciannove anni per poi abbandonare del tutto il campo; deve essere per il fatto che, lasciata la musa Calliope, abbia intrapreso, sorta di Ulisse della modernità, un intenso e pericoloso pellegrinare tra terre d’Africa e d’Asia, dandosi a traffici più o meno leciti di armi e generi di mercanzie le più disparate; sarà per una turbolenta ed equivoca relazione con il poeta Paul Verlaine, di dieci anni più grande di lui, che arrivò sino alle soglie di un suicidio; sarà per il titolo di una sua raccolta, Una stagione all’Inferno; sarà, infine, per una morte che lo colse ancor giovanissimo, ma la figura di Arthur Rimbaud (1854-1891), poeta della provincia francese, è tutt’oggi circonfusa da un certo alone di mistero ed è considerata emblematica di quella generazione di «maledetti» (Tristan Corbière, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud stesso, Auguste Villiers de L’Isle-Adam, Marceline Desbordes de Valmore, Pauvre Lelian e Paul Verlaine) raccolti in una famosa antologia dall’amico Paul Verlaine nel 1883. In
D
il club di calliope
realtà, nel senso originario, «maledetti» significava semplicemente trascurati dagli onori pubblici. Così leggendaria e affascinante, la vita di Arthur Rimbaud è forse quella, tra i poeti, più celebrata anche sul grande schermo, con numerose trasposizioni cinematografiche, dal film di Nelo Risi del 1970 (Terence Stamp nella parte di Rimbaud) a quello del 1995, Total eclipse, dove un giovanissimo Di Caprio assolve bene al ruolo del maledetto francese. «Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso, ragionato disordine di tutti i sensi», così Rimbaud scrive in una delle sue tante lettere oggi passata alla storia della letteratura come Lettera del veggente (indirizzata all’amico Paul Demeny). Un passo citatissimo che riassume i due cardini del suo fare. Il poeta deve essere veggente (voyant) e capace di deviare dal senso ordinario (déreglèment), fondamenti che ben si colgono anche nel noto sonetto Vocali (Voyelles) qui riportato dall’edizione Mondadori Poesie e prose curata e tra-
TRACCIARE PAROLE SULLA SPIAGGIA INFINITA in libreria
di Loretto Rafanelli e fotografie sbiadite della riviera romagnola, con quei cieli di mare soffocati nelle stagioni che scorrono impietose e che ci rammentano i momenti di una vita, ci ritornano leggendo questo libro di Mariarita Stefanini (Nell’ora bianca, Marietti, 78 pagine, 10,00 euro). Squarci marmati, che fiondano, come la sabbia fine che cade dalle mani, nell’ansia del tempo che fugge, nel senso sospeso dell’esistenza. Mappe svanite nel nulla, mutilate negli affetti, in una rincorsa allo sguardo ospitale che è in verità solo il «tu…/ tempo del mio tempo breve». Un bel libro quello della Stefanini, un libro struggente in alcune parti, che ha una sua forza,
L
Uno sforzo immane di linfa e immaginazione ha fatto i fiori miracolo non solo vegetale. Petalo dopo petalo fuoriescono con travaglio indescrivibile da scorze, da cortecce e terra dura al minimo presentimento d’acqua e dopo tutti i giorni il cui senso sta quasi nell’attenderne l’arrivo presto, troppo presto appassiranno i petali si uniranno al primo vento o avvizziranno verso una nostalgia del suolo. Così sei spuntata tu amore, e nessuno sa quanti giorni o anni i nostri petali staranno prima che l’acqua venga meno. Ricordati allora della fioritura venuta per sempre e non qui solo come ogni singolo fiore e atto dell’amore, ricordati di oggi. Gianfranco Lauretano
“Nell’ora bianca”: l’originalità di Mariarita Stefanini, una voce giovane, con un suo centro di gravità autonomo un suo centro gravitazionale, ed è fuori da quella assimilazione ritmica e linguistica ai poeti cinquantenni che caratterizza la poesia dei più giovani. E speriamo che l’autrice voglia dar forza e peso a tale originalità e svilupparne le coordinate, specie quelle evidenziate nella sezione «L’ombra della piena». Perché quella fisicità corposa fatta delle cose della propria terra «nell’inverno del viaggio», con «quelle scale», «le cabine rotte», quando si è «mangiati/ dal mare che si gonfia», ci sembra una poesia fondata sull’urgenza di tracciare una parola. E non bisogna deludere il proprio orizzonte, ma raccogliere e dire di quel mare che invoca i giorni; neppure scordare quell’occhio teso a scandire, anno dopo anno, il passaggio senza sosta delle persone nella spiaggia infinita. Guardare quindi, ma anche guardarsi, nel senso di dirsi. La Stefanini infatti ricerca il «centro della scena», una dimora vagante e deserta, la ricerca di una verità, forse misera («dammi una corona/ intrisa di terra»). Un verso sincero e coraggioso il suo, soprattutto nella dignitosa elencazione del dolore («il lago di dolore/ che nessuna stagione gela»).
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aggio di un veggente al fondo dell’ignoto dotta da Diana Grange Fiori. Il testo, sul quale si è particolarmente accanita la critica e che presenta una ricca bibliografia dedicata alla sua interpretazione, fu scritto da Rimbaud nel 1871 avendo certamente sotto gli occhi un altro sonetto allora famoso, Le corrispondenze di Charles Baudelaire, sicuro maestro dell’intera generazione maudit. Infatti, nella misura in cui Rimbaud qui cerca di riunire un suono a un colore partendo dalle vocali (e si sa dall’epistolario che aveva in animo di fare un’analoga composizione per le consonanti) è lampante il possibile parallelo alla teoria delle corrispondenze. Ma se per Baudelaire qualsiasi cosa nell’universo «si risponde», la poesia diventa la matrice dei simboli e dà all’uomo i mezzi per oltrepassare il reale in un surreale che gli rende tollerabile il reale stesso, Rimbaud con le sue Vocali sembra spingersi oltre. Egli cerca di trovare una risposta a quello che nel dibattito poetico fine Ottocento era un vivido e avvertito problema. Il senso di una parola, ad esempio «notte», e il suo suono dovevano essere in qualche misura contigui, ci doveva pur essere nella parola un «corrispondere» alla qua-
lità materiale e sensoria del suo significato. È, in altre parole, l’ansiosa ricerca di una poesia che non sia più soggettiva ma trovi in sé un fondamento di oggettività, posizione da cui deriva la fiducia nei poteri della poesia che si estrinseca nella ferma certezza di poter associare la scienza delle sensazioni alla pratica della scrittura. In questa ottica deve anche intendersi l’ampliamento dell’esercizio svolto da Rimbaud in questo sonetto dove non si limita alla primaria preoccupazione di associare colori a vocali in un universo di corrispondenze sensoriali ma cerca di far combaciare oltre la lettera anche un dato sensibile più ampio. In questo modo le vocali diventano via via oggetti, perfino impoetici: «A, nero corsetto, vello di mosche splendenti», «E, candore di vapori e tende», «I, porpore, sputo di sangue, labbra belle», «U, cicli, vibramenti divini dei viridi mari» e, infine, «O, Tromba suprema piena d’arcani stridori». Resta da chiedersi come mai una scrittura così personale e la ricerca assoluta dell’essenza della poesia così come Rimbaud l’ha incarnata abbiano avuto tanta risonanza. Forse perché la scrittura del
poeta è universalmente esemplare di un’esperienza diretta dei limiti. Ma Rimbaud ha anche cercato di inventare una nuova lingua, come egli stesso la desiderava: «l’anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, il pensiero che si aggrappa al pensiero e tira», sempre nella già ricordata Lettera del veggente. Nelle sue visioni, poi, gli esseri, gli oggetti si animano e si uniscono sul sentiero dell’immagine. Questo nuovo verbo poetico ha fatto saltare le norme della letteratura così come fino a lui si erano evolute. Dopo Rimbaud la poesia ha il colore della musica e della pittura, il movimento della danza e del sogno. Fra i suoi successori in Italia si annoverano poeti meno conosciuti, Olindo Guerrini, o più noti come Dino Campana. Ma è il Surrealismo francese e le diverse scuole che in Europa germinarono sulla scia di questo movimento a ritrovarsi nei suoi dettati. Poeti italiani della contemporaneità si sono cimentati finanche un cantante quale Jim Morrison sembra in qualche modo a lui ispirarsi. Come il suo Battello ebbro, tanti sono andati come lui a fondo nell’ignoto, aprendo la strada alla poesia contemporanea.
UN POPOLO DI POETI Io conosco l’angelo, e la pietra. Venne prima la pietra, poi l’angelo. L’ho visto a un’ora corta, nel mio giardino ero piccolo, lo era. Fu poco fa. Arrivava, bianco come lo si può immaginare desumendolo da iconografie volgari. Era enorme. Le ali aveva solo un po’ più sporche. Volatile di grandi dimensioni, ferito lievemente a un’estremità dell’ala. Piangeva; gli chiesi, senza risposta, se qualcosa potevo fare per lui. Lui: una leggerezza. Si dissolse in minuscoli grani di zucchero poi in acqua infine forse in un nulla polveroso quando gli chiesi di toccarlo. Poco prima aveva parlato o pregato nel linguaggio delle polveri animose o forse aveva pianto un flebile pianto mentre più inafferrabile si faceva il suo profilo e incomprensibile il profumo, denso come un capitolo del Libro. La mia parola era e fu mostruosa soltanto perché non gli appartenne. Nel mondo è venuta prima la pietra, di cui non si può parlare, poi l’angelo, solo dopo. Ma la dura pietra, finale, indelebile come lavora a conquistarci la coscienza, alla fine come ci prende… Visitazione di Renato Nisticò
Agli estremi del bunker farsesche memorie lambiscono miracoli un’aria candida dissolve astuzie la mia è una parte abnorme nell’emisfero dell’ilarità
Agli estremi del bunker di Lino Giarrusso ***
Arsura dei sassi, sola si sbriciola la morbidezza di una coperta di polvere che imita l’erica e sale, ma giunge al buio. La mia pelle non conosce questa stanza che domino nella mappa della sua cultura, non so l’ora in cui il piede schiaccia l’ombra di una presenza fuggita nelle anse del tempo. Rimane un vuoto, sugli scaffali affollati di relitti di pensiero: passa l’idea di un cubo nero che adombra la distrazione dei sensi mentre altra pelle urlava, esigeva. Il sonno dello sveglio ha tramato coperto il chiodo che batte contro l’osso e l’occhio che vede parole e ignora i profumi. Avrò occhi fin negli spigoli, l’usura dei sogni prescritti sarà mondata. Lo so, sei egregia memoria e pieghi di scatto, ma un singhiozzo severo può cadenzare l’intreccio di fili non sperati. di Sandro Montalto
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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Se il demone del disegno morde a sorpresa… di Marco Vallora a si può di un artista dell’indefinibile, dell’inaspettato, dell’inafferrabile, intraducibile in parola, come Stefano Arienti, dare un resoconto diligente ed efficace, una «recensione»? Bella sfida, già perduta in partenza (inevadibile bêtise della critica) eppure scelta doverosa. Perché Stefano Arienti, mantovano, classe 1961, è davvero uno dei pochi, pochissimi artisti di quella generazione ormai di mezzo, galleggiante, degno di stima e di attenzione non soltanto intermittente e quasi incondizionata. Come già aveva dimostrato in una convincente, misteriosa mostra al Maxxi di Roma, una delle poche «giovanili» davvero degna di ricordo. Ma qui è alle prese con un’impresa ancor più complessa e stimolante. Introfularsi, come un bruco agrestamente ben accetto (diciamo così perché Arienti non proviene da disastrate Accademie d’arte, ma da solidi e poco bucolici studi d’agraria) scivolare subdolo e ben pasciuto (pensiamo alla sinuosa e spiraliforme opera Trefili, sibilante serpentina di trecce di carta arrotolate, che si snoda, dinoccolata e annodata, per varie stanze del Museo) invadere gentilmente le avite sale nobiliari della Fondazione Querini Stampalia di Venezia, già ravvivate dal genio manipolatorio di Carlo Scarpa, maestro in disegno. Anche Arienti pensa e lavora secondo l’esile (e scolpita, profondamente incisa) traccia del disegno, come supporto fragile di carta e arabesco del pensiero. Disegni dismessi è infatti l’illuminante e suggestivo titolo di questa mostra, che in realtà si «tiene» come un unico organismo in preistorici frammenti dispersi, che attraversa e «suona» saloni salotti e porteghi, alterando e dialogando con gli ambienti inscatolati. Facendo rivibrare le «stanze» della casa-museo, preziosa e aristocratica, ma che Arienti tramuta in una sorta di solaio rustico, ove depositare e ritrovare i «tuberi» gettati via e scaduti, ma sempre ritornanti, della cara memoria. Con semplicità, inusuale all’artistoidismo d’oggi, ammette: «Il palazzo cittadino di Santa Maria Formosa mi rimanda in qualche modo al-
M
“Enciclopedia”, una delle opere di Stefano Arienti in mostra alla Fondazione Querini Stampalia a Venezia
arti
l’antica cascina nel mantovano dove sono nato, con ampi spazi vuoti nella soffitta, allo stesso tempo deposito e primo inconsapevole esperimento di ambientazione artistica» e di avventura installativa (anche se paradossalmente Arienti sta più dalla parte della vecchia scultura manipolata). Si pensi alla grande stanza invasa d’una soffice zolla-lanugine (di crini da materassi spiumati) che sono come esplosi dalla loro gabbia abituale, e rilassati e morbidi invitano a un déjeuner intellettuale dans l’herbe. Intellettuale, perché l’opera si chiama diderottianamente Enciclopedia ed è circondata come da un’esatta cornice d’una trentina di raccolte enciclopediche impilate, proprio come avviene nelle soffitte delle case borghesi. La memoria dell’infanzia non si può buttar via, come i santini, irreligiosamente, ma si relega egualmente, incatenata in pacchetti morti d’immagini e di sapere ormai inutile, negli abbaini del nostro decoro. Libri-scheletri, messi e dismessi a maturare, come frutti della terra, gettati nel solaio dell’impolverata vergogna. Non è la prima volta che le stanze del museo vengono ravvivate dall’intervento di un artista, dai Kabakov a Paolini, da Kiki Smith a Georges Adébago, ma forse è la prima volta che si realizza davvero il senso del titolo dell’iniziativa: «Conservare il futuro». Come spiega la curatrice Chiara Bertola, che si è assunta anche il compito difficile, ma riuscito, di «spiegare» un artista inesplicabile coma Arienti: «l’antico non solo come memoria ma come azione, trasformazione, materia viva». Trasmutatore alchemico di materie, Arienti può far fiorire una nuova decorazione semplicemente decapitando le coste dei libri, che perdono così la loro sostanza interiore ma non l’inganno-promessa di felicità d’una lettura futura.Trafora col trapano i vecchi dischi di vinile, inseguendo i disegni arabescati delle copertine: come facevano i vecchi freschisti col metodo dello spolvero. La promessa di musica futura s’infrange, ma si apre una nuova musica visiva, quella dei dischi trapanati a merletto, appesi alle vecchie finestre come tendaggi tondi d’insoliti ramages. La porta divelta e dislocata d’una vecchia auto può divenire il leggiadro supporto d’un merletto à la Burano: il demone del disegno morde dove può, a sorpresa. Come confessa l’artista: «La contingenza è fondamentale perché dallo scontro con qualcosa di inaspettatamente conformato, più facilmente possiamo ottenere un godimento che è più prezioso, perché non è quello che ci aspettavamo».
Stefano Arienti. Disegni dismessi, Venezia, Fondazione Querini Stampalia. Sino all’11 maggio
autostorie
Così Marzotto vinse le Mille Miglia in doppiopetto di Paolo Malagodi i è stato un periodo dell’automobilismo sportivo, quello di inizio anni Cinquanta, contrassegnato dalla straordinaria passione delle folle per le grandi corse su strada. Benché proprio nel 1950 sia stato organizzato il primo campionato del mondo, vinto da Nino Farina, più che i Gran Premi in circuito le gare seguite per centinaia di chilometri da ininterrotte ali di folla entusiasta erano, prima di tutto, la Mille Miglia e la Targa Florio; ma anche competizioni come la Carrera Panamericana in Messico, i cui esiti interessavano gli italiani, o la Coppa d’Oro delle Dolomiti disputata sino al 1956 su un percorso di 303 chilometri, con partenza e arrivo a Cortina d’Ampezzo.
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Un’epopea delle corse su strada che, a fianco di professionisti quali Piero Taruffi e Gigi Villoresi, vedeva lo schieramento di veloci granturismo di proprietà privata. Condotte da gentlemen dal portafoglio indubbiamente fornito, per poter acquistare le Ferrari o le Maserati su cui si divertivano a correre, ma parimenti dotati di qualità di guida che non di rado davano filo da torcere ai piloti ufficiali delle case. Come riuscirà a fare, in modo netto e al suo debutto nella Mille Miglia del 1950, il rampollo di una importante dinastia industriale del tessile, le cui attività in campo laniero si erano avviate già alla fine del Settecento nel vicentino. Quella edizione della corsa bresciana fu infatti appannaggio del ventiduenne Giannino Marzotto, tra l’altro celebrato come il più giovane vincitore
di una prova che, con andata a Roma e ritorno, si snodava per i circa 1.600 chilometri riecheggiati dal mitico nome. Curioso è, invece, un altro particolare che allora distinse il vittorioso arrivo della Ferrari 166, una coupè dalla quale pilota e coéquipier scesero in elegante doppiopetto, ovviamente di produzione Marzotto, su camicia bianca e cravatta scura. Dopo dodici ore di guida sotto la pioggia, su una berlinetta con un bagagliaio dove erano stati riposti vari capi di vestiario insieme a una maglia rosa, la cosa venne così spiegata dal protagonista: «A un certo punto e in prospettiva di vittoria, mi fermai e dissi al mio compagno di prendere la maglia rosa, che però era bagnata e si preferì il doppiopetto». La pronta leggenda di un vincitore in impeccabile abbigliamento fiorirà in altre gare e di nuovo nella Mille
Miglia del 1953, prima che il 1954 segni il ritiro dalle corse di «un pilota velocissimo - come disse Enzo Ferrari - che sarebbe stato un ottimo professionista». Diversa fu la scelta di Giannino Marzotto, nato a Valdagno il 13 aprile 1928 e figlio del conte Gaetano; il quale, con perfetto understatement, nel 1950 fece dare sul giornale aziendale la notizia che «suo figlio aveva conseguito la laurea in Giurisprudenza con 110 e aveva anche vinto la Mille Miglia». Come racconta lo stesso Giannino Marzotto, in un libro autobiografico (Così è o mi parve, dalla grande industria alla Mille Miglia in doppiopetto, Fucina editore, 304 pagine, 18,00 euro) scritto con penna arguta da un campione che correva per divertimento, prima di essere assorbito dalle responsabilità dell’omonimo grande gruppo industriale.
MobyDICK
26 aprile 2008 • pagina 15
DESIGN
Una risposta al consumismo di Marina Pinzuti Ansolini l 21 di aprile si è concluso, a Milano, il trentesimo Salone del Mobile, appuntamento annuale per gli addetti al settore e non solo. Per una settimana, migliaia di persone si riversano nelle strade del capoluogo milanese; da tutto il mondo giungono orde di produttori, designer, commercianti, giornalisti, studenti, curiosi a caccia dell’evento e, da qualche anno, anche famiglie in cerca di idee per arredare la nuova casa. Il Salone si svolge a Rho, nell’imponente contenitore progettato da Massimiliano Fuksas mentre centinaia di eventi «Fuori salone» invadono diversi quartieri di Milano, trasformata in una gigantesca vetrina al servizio dell’industria dell’abitare. La quantità di proposte in mostra per arredare case, cucine e bagni, è assolutamente sconcertante e la reazione rischia di scivolare sulla nostalgia dei «mobili di famiglia». Pochi, ben fatti, meritevoli di restauro, lasciati in eredità, destinati alle case dei figli dei figli, oggetti di affezioni particolari e perfino causa di dispute familiari. Il consumismo, oggi, ha inevitabilmente contaminato e trasformato anche il settore dell’arredamento. Il concetto del «per sempre» è sostituito con quello della «tendenza». Colori e tessuti seguono la moda con lo stesso incessante ritmo stagionale; i materiali sono sempre più innovativi, la qualità spesso piegata alle regole
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della produzione. È difficile immaginare altre vite per la poltrona ricoperta di lunghi peli, per il divano di ecopelle viola o per le sei sedie della sala da pranzo di resina fucsia. L’offerta del mercato è così vasta da generare un po’ di confusione e una domanda: quale è il vero design, quello insegnato e promosso dai grandi maestri? Dove trovare quelle caratteristiche di estetica, funzione, qualità artigianale e riproducibilità industriale? La risposta, in questi giorni, è sempre a Milano, nel Palazzo della Triennale che ospita una mostra su un design eccellente, quello prodotto dalla famiglia Cassina, dagli anni Trenta coraggiosi imprenditori di Meda. La società «Amedeo Cassina», nel 1927 poco più di un laboratorio artigianale, cresce rapidamente grazie alla riconosciuta qualità dei suoi prodotti e, dagli anni Quaranta, alla collaborazione di valenti architetti esterni all’azienda. Sono gli anni in cui nasce il design italiano e Cassina si colloca immediatamente tra i protagonisti. La mostra Made in Cassina, racconta, in uno spazio di mille metri quadri, cinquanta anni di storia del design attraverso più di cento oggetti tra arredi prodotti, modelli di studio, stampi e prototipi che testimoniano il percorso del mobile nelle diverse fasi di realizzazione. Autori delle opere, più di una ventina di designer ec-
Achille Castiglioni. In basso, un divano di Ico Parisi cellenti, tra cui Ponti, Parisi, Afra e Tobia Scarpa, Magistretti, Mendini, Panton, Sottsass, Castiglioni, Starck. Accanto a loro alcuni pezzi della collezione dei «Maestri», operazione illuminata iniziata da Cassina negli anni Sessanta, con l’acquisizione dei diritti di riproduzione di quattro modelli di Le Courbusier, seguiti successivamente dai mobili di Mackintosh, di Rietveld e di Wright.
Made in Cassina, Milano, Palazzo della Triennale, fino al 7 settembre. Catalogo Skira, 350 pagine, 450 immagini
FOTOGRAFIA
Storia privata di un viaggio in Italia
Coppia di amanti di Paolo Ventura
di Mario Accongiagioco Luigi Ontani a darci il benvenuto. Immediato il fascino orientale del suo Carriolo solitario (in legno laccato ma con lo splendore di una porcellana) sul quale inizia virtualmente il percorso fotografico. E la «storia privata» di Anna Rosa e Giovanni Cotroneo, che espongono la loro collezione di fotografia e arte contemporanea al Museo Bilotti a Roma, è subito immortalata da Pistoletto in una delle sue ricostruzioni di frammenti di memoria. Ma procediamo in una descrizione per capitoli, suggerita dalle opere in mostra. Corpi. Nella Tempesta di Vettor Pisani, ancora una volta, ha la meglio il simbolismo, dove l’erotismo è ironia, «l’amore porta alla conoscenza, ma la conoscenza è appena un riflesso». Allegoria presente anche in Silvio Wolf: «La luce stessa che genera l’immagine fotografica distrugge quella pittorica». Procede con la sua ricerca antropologica Antonio Biasucci dove graffiti e fossili sembrano impressi dal suo «impastatore». Sperimentazione attuata anche da Paolo Mussat Sartor (con Gamba argentata) e Paul Thorel che invita nel mondo digitale con sali d’argento e virate al selenio, da cui appaiono visi di donne e figure contrastanti. Decisamente reale, Luciano D’Alessandro commuove con Gli esclusi (dove semplici mani parlano riflettendo sulle condizioni degli emarginati) ed esalta con foto inusuali (a colori) della celebrazio-
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ne di San Gennaro. E Mimmo Jodice sorprende con i suoi ritratti pieni di luce che sembrano ridare vita alla scultura, come un moderno Caravaggio della fotografia. Città. Francesco Jodice, attratto dall’immagine tecnologica, compie un viaggio da Bagnoli a Tokyo scoprendo che non sono poi così diverse. Vincenzo Castella approfondisce la passione architettonica mostrando una Genova inusuale, mentre il genovese Gianni Berengo Gardin illustra unaVenezia ammaliante. Onirica e lirica la Natura morta di Raffaella Mariniello, cresciuta come fotoreporter di cronaca, con una Napoli solitaria e crepuscolare, segnale di alienazione e disagio sociale. Ma anche contraddittoria, quando i Quartieri Spagnoli diventano presepe. Terre. Luigi Ghirri ci porta in riva al mare e indietro nel tempo, nel fantastico mondo della polaroid che per lunghi tratti della sua carriera sperimentò in parallelo con il paesaggio urbano. Celebre quello di Capri dove è facile individuare il punto di scatto nei celebri Bagni Gioia. Coprotagonista della mostra Viaggio in Italia progettata dallo stesso Ghirri, Gabriele Basilico appare più legato all’area industriale, alla sua spettralità desertica e alle forme che ne scaturiscono in un insieme di simmetrie e parallelismi. Franco Fontana fonde la sua sensibilità cromatica con la capacità di rilevare geometrie nascoste nella natura (dalle immagini rurali a quelle cittadine).
Ferdinando Scianna denuncia da subito il suo passato di giornalista, ma la sua passione da cronista, influenzata da scrittori come Sciascia e fotografi come Cartier Bresson, ammette ben presto la ricerca dell’elemento artistico. Mario Giacomelli «regala» due tra le opere più famose: La buona Terra e il magico Teatro della neve. Visioni del mondo che lo hanno reso famoso a livello internazionale. «Io non ritraggo il paesaggio, ma i segni, le memorie di un mio paesaggio. Attraverso il paesaggio trovo la mia anima». Paolo Ventura si può definire il futuro della fotografia. La sua opera è originale, meticolosa, affascinante. Il suo lavoro In tempo di guerra inizia dal modellismo (in esposizione una miniatura). Costruisce strade, palazzi, case in maniera dettagliata e con un’accurata ricerca storica (compresi i manifesti del periodo). Poi procede alla fase fotografica dove la finzione diventa realtà. Performance. Spezza il flusso fotografico Bruna Esposito con Verso Sud, dove la costanza dei movimenti prosegue senza una meta precisa. Ma forse questo è il punto di partenza. Vanno dritti dentro i luoghi dell’arte le opere di Claudio Abate (in Un segno nel foro di Cesare si scopre tutta l’immediatezza di Mario Merz), Elisabetta Catalano (le sei sequenze in studio per la preparazione dell’opera Plagio testimonia la sua collaborazione con artisti concettuali) e Grazia Toderi (Semper Eadem conferma
la sua attrazione per le dinamiche dello spettacolo, come occasione di unione e incontro).Alfredo Pirri ci congeda con la sua installazione, realizzata appositamente per la mostra, dove la luce sintetizza tutto ciò che accade quando l’immagine si imprime sulla pellicola, dandogli un senso compiuto e nuova vita. L’esposizione (a cura di Alessandra Mauro e Federica Pirani) delle circa 150 opere della collezione dei napoletani Anna Rosa e Giovanni Cotroneo (sempre attenti all’evoluzione dell’arte contemporanea italiana, senza distinzioni geografiche) è la «prima della serie» organizzata da Zètema Progetto Cultura. Le prossime tappe sono in Spagna per il festival della Fotografia di Madrid e in Messico a Guadalajara. Sontuoso catalogo Contrasto.
Una storia privata. Fotografia e arte contemporanea nella Collezione Cotroneo, Roma, Museo Bilotti, fino al 25 maggio
MobyDICK
pagina 16 • 26 aprile 2008
CRISTALLI SOGNANTI
ai confini della realtà
Tutti pazzi per i gashapon di Roberto Genovesi o sapevate che i primi distributori automatici risalgono al 215 avanti Cristo? Li ritroviamo nell’antico Egitto. A essi si applicava il principio della leva: il peso di cinque dramme - gli emidrammi e i tetradrammi rappresentavano il principale conio egizio durante l’epoca dei tolomei - su un piatto lo faceva abbassare fino all’apertura di una valvola che distribuiva acqua cerimoniale all’ingresso dei templi. Per trovare però i primi distributori a monetine dobbiamo arrivare fino all’epoca post industriale. Il primo distributore di epoca moderna risale infatti al 1888, è giapponese e distribuiva tabacco mentre, sempre in Giappone, appare nel 1904 il primo distributore automatico di francobolli.
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L’introduzione della scelta attraverso i pulsanti vede il primato statunitense ed è datata 1925. Da quel momento l’evoluzione delle macchinette distributrici di oggetti di piccole dimensioni e merci di rapido consumo è costante e arriva fino alla fusione di parti elettroniche e parti meccaniche per quelli che vengono chiamati in gergo mechatronics. Oggi i distributori automatici, più o meno computerizzati, rilasciano praticamente tutti i generi di consumo: bibite, sigarette, merendine ma soprattutto gashapon… I gashapon sono in pratica palline di plastica che possono raggiun-
gere il diametro di sette centimetri contenenti un giocattolo a sorpresa, il più delle volte in pezzi montabili. Il termine gashapon è utilizzato soprattutto in Occidente per descrivere sia il giocattolo che la macchinetta attraverso la fusione di due onomatopee giapponesi: gacha è il suono emesso dal meccanismo del distributore quando si fa girare la manopola per depositare le monete e far scendere la pallina di plastica mentre pon è il suono emesso dalla pallina che cade nel-
Chi di voi non ha mai messo un euro in una di quelle macchinette tondeggianti e plasticose che si trovano fuori dai bar o nelle stazioni per catturare una miniatura di Winnie the Pooh o un personaggio della serie Dragon Ball? E chi non ha mai appeso uno di questi pupazzetti al proprio cellulare? Ebbene, se lo avete fatto, rientrate anche voi nella categoria dei gashapon hunter che sono proprio i protagonisti del libro della Daniele. Il taglio della collana diretta da Bellina è certa-
Sono quelle palline di plastica, dispensate da distributori automatici, che contengono i personaggi in miniatura dei serial più amati. Un libro sui cacciatori di gashapon mette in luce le caratteristiche di un fenomeno in espansione. Dal mondo del collezionismo al merchandising… lo spazio preposto alla raccolta. Possibile, chiederete voi, che sia così importante o perlomeno utile sapere tutte queste informazioni sui gashapon? Deborda Daniele, concept artist e storyboard artist tra l’Italia e gli Stati Uniti, risponderebbe sicuramente in modo affermativo visto che sul fenomeno gashapon ha pubblicato da poco un manuale pubblicato nella collana Jarring diretta da Mario Bellina per la nuovissima casa editrice Jar.
mente demenziale come il suo curatore. Autore e conduttore Rai, Bellina ha scelto la linea dei libri impossibili per la sua collana che dirige ma che non firma «solo perché tutto sommato non serve’». Ma il libro Gashapon hunter mette in luce non solo le caratteristiche di un fenomeno in rapida espansione ma anche tutte le derivate legate al mondo del collezionismo e del merchandising che il fenomeno produce in giro per il mondo. Sì, per-
ché il mondo dei cacciatori di gashapon è assolutamente internazionale e viaggia abitualmente e con abilità su internet dove, al momento di completare collezioni a tema, si ritrova per acquistare pezzi ai prezzi più convenienti o realizzare una vera e propria rete di scambio stile figurine Panini. Gli strumenti dei cacciatori di pupazzetti delle macchinette sono sostanzialmente tre: una monetina, il collegamento a internet e un catalogo di settore aggiornato.
Con questa dotazione egli è in grado di fare di tutto e di arrivare a collezionare serie di personaggi che un giorno potrebbero valere come un quadro di Guttuso. Ma perché un essere umano apparentemente normale dovrebbe diventare un gashapon hunter? La risposta, in due fasi, la ritroviamo nel Manifesto del gashapon hunter che ritroviamo in apertura del libro. Al punto quattro una spiegazione puramente sensoriale: perché svegliarsi la mattina sniffando l’odore del pvc (materiale con cui sono fatti i pupazzetti) cambia la visione del mondo e il senso della vita! Al punto nove dello stesso manifesto la spiegazione filosofica: il gashapon hunter sa di dover rispondere a «perché lo fai?» con una sola frase: «perché il gashapon è più bello della vittoria di Samotracia… anche quando non sa cosa sia la vittoria di Samotracia».