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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Israele alla fiera del libro di Torino

di Filippo Maria Battaglia

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Lo Stato israeliano ospite d’onore al Salone che apre i battenti giovedì. Nonostante le polemiche che hanno accompagnato la sua candidatura. Da Apperfeld ad Amos Gitai, protagonisti e appuntamenti al Lingotto. E non solo...

E GLI ALTRI Parola chiave Denaro di Sergio Valzania

9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

YEHOSHUA

a domanda è semplice semplice, ma è di quelle che mettono subito in imbarazzo: «La bellezza salverà il mondo?». Come è ovvio, pensare di ottenere una risposta chiara o quantomeno ancorata in granitiche certezze, è quanto mai vano. Ciononostante, la XXI Fiera del libro, che si aprirà giovedì prossimo 8 maggio a Torino, ha deciso comunque di porsi l’interrogativo, dedicandogli tra l’altro il tema principale della rassegna. E come ogni anno, a discuterne saranno filosofi, scrittori, antichisti e studiosi di ogni genia: da Remo Bodei a Giovanni Reale, da Raffaele La Capria a Erri De Luca passando per Vittorio Sgarbi, Andrea Cortellessa e Valerio Massimo Manfredi. Con un ospite autorevole, e per qualcuno anche piuttosto ingombrante: Israele. Una candidatura da subito accompagnata da accese polemiche - talune provenienti da accademici come Gianni Vattimo, che ha partecipato all’assemblea di boicotaggio della Fiera del libro che si è svolta alla facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna la scorsa settimana -, che fino alla vigilia non si sono spente. Emblematico il divieto del questore di Torino di esporre la bandiera israeliana alla Fiera perché «potrebbe essere intesa come una provocazione». Una

R.E.M. il ritorno con “Accelerate” di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Walt Whitman i segreti del cosmo e il compito del poeta di Roberto Mussapi

Marco d’Aviano visto da vicino di Franco Cardini Notizie dal Tribeca film festival di Anselma Dell’Olio

Lawrence Carrol al Museo Correr di Marco Vallora


yehoshua e gli

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segue dalla prima «Appuntamento a Gerusalemme» e l’«Associazione romana amici d’Israele» - hanno risposto con un appello, firmato da personalità del mondo della cultura e della politica, e dando appuntamento a Torino l’8 maggio a «tutti i cittadini amanti del confronto civile». Di diverso segno, invece, il seminario in programma allUniversità di Torino lunedì e martedì prossimi dal titolo «Le democrazie occidentali e la pulizia etnica in Palestina». In ogni caso, al salone gli scrittori israeliani ci saranno e, significativamente, copriranno un periodo di quasi tre generazioni. Al «decano» Aharon Appelfeld (classe 1932) tocca la prolusione inaugurale la sera di mercoledì. E già la storia personale dello scrittore di origini rumene, di cui l’editore Guanda sta pubblicando l’opera omnia, potrebbe fornire materiale a sufficienza per un’intera fiera. Sopravvissuto alla Shoah (che gli falcidiò buona parte degli affetti più cari), Appelfeld riuscì fortunosamente a salvarsi dallo sterminio nazista, sopravvivendo alcuni anni nei boschi e unendosi poi all’Armata Rossa dove prestò servizio come cuoco. Emigrato in Palestina nel 1946, quando era ancora sotto mandato britannico, non si è più spostato dal territorio israeliano, dove nel 1959 ha ritrovato anche il padre. E nonostante abbia appreso l’ebraico tardi nella sua vita, Appelfeld è da oggi uno dei più importanti scrittori israeliani. Con una tema prevalente per tutte le sue opere: la Shoah e l’Europa prima e durante la seconda guerra mondiale. Tra queste, Badenheim 1939, tradotto in Italia da Elena Lowenthal: un romanzo breve, rigonfio d’umorismo yiddish (e non

è un caso che Philip Roth consideri Appefeld come uno dei più grandi scrittori viventi).

Badenheim esiste davvero: è una località austriaca dove, durante il secolo scorso, ogni anno si svolge un celebrato festival di musica. Ogni anno appunto - e quindi anche nella primavera del 1939 quando una novità accoglie gli ospiti giunti da ogni parte d’Europa. Su ordine delle autorità locali, viene infatti imposto a tutti gli ebrei l’obbligo di registrazione presso un fantomatico «dipartimento sanitario». Un ufficio misterioso, ma comunque dotato di ampi poteri e di decine e decine di funzionari occhiuti. Alla richiesta, i convenuti protestano, ma nessuno avverte una seria minaccia.Anche perché corre voce che gli ospiti saranno trasferiti, a spese del Dipartimento, in Polonia, luogo di origine della maggior parte di essi. Così, l’angoscia iniziale si trasforma persino in nostalgia per la terra dei padri e illusione per un viaggio da molti desiderato.Tra amicizie, rapporti sentimentali e piccole turbolenze quotidiane, il gruppo si convince così ad avviarsi alla stazione di partenza.

La scrittura secondo Amos Oz urtroppo Amos Oz, uno dei più grandi scrittori di Israele, non sarà al Salone di Torino. Occasione mancata per centinaia di persone, curiose di conoscere le ragioni dello scrivere, il come e il quando. Oz sarebbe stato disposto a rispondere anche a domande divertenti e per nulla futili. Per esempio: «Che ne dice la tua ex moglie delle figure femminili nei tuoi libri?». Oppure: «Com’è che la tua vita personale non è poi così tumultuosa?». Oz avrebbe detto che il mestiere del narratore assomiglia per certi versi - la tenacia, la ripetitività dei gesti, la disciplina - a quella di un semplice ragioniere. Le domande non le inventiamo noi, e nemmeno la ventilata somiglianza con un contabile-sedere-di-pietra. Sono scritte nelle prime pagine del suo ultimo libro La vita fa rima con la morte, Feltrinelli, 106 pagine, 10,00 euro). Oz parte dai quesiti e se ne distacca subito narrando di uno scrittore che si siede al tavoli-

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no di un bar: «Noterà subito le gambe della cameriera, un paio di belle gambe piene, soltanto la caviglia un po’ grossa… allo scrittore giungerà un sentore di sudore e sapone, odore di donna stanca… lei noterà quello sguardo… e sbufferà con un’aria fra il disgustato e l’implorante: e basta, piantala». Formidabile come incipit di un romanzo. Ma è chiaro che il narratore deve colmare la sua ignoranza con la fantasia, allora s’immaginerà il primo amore della cameriera, gli inizi frizzanti di una relazione amorosa quando lui «la sollevava per aria tremendamente forte, la faceva volare come un cuscino». Poi la fine: «L’amore è una cosa che quasi sempre in un modo o nell’altro finisce male». Ecco, così decolla chi si siede davanti al computer. Viaggi imprevedibili, partendo da un bar qualsiasi. P.MF.

In senso orario: Abraham Yehoshua, Aharon, Appelfeld, Amos Gitai e Shlomo Venezia. In basso Amos Oz L’intervento di Aharon Appfeld non sarà evidentemente isolato: alla cinque giorni torinese, parteciperanno, tra gli altri, anche l’iracheno Sami Michael, ebreo d’adozione e autore di una quindicina di opere tra romanzi, saggi e opere teatrali, tutte per lo più incentrate sul tema della convivenza (e del conflitto) tra le tre religioni monoteiste e i suoi fedeli. Delle sue opere, è di recente apparso in Italia Victoria (pubblicato da Bur, 366 pagine, 17,00 euro): una suggestiva saga familiare ambientata nei cortili della Bagdad ebraica dell’inizio del secolo scorso. L’altro attesissimo ospite è Abraham Yehoshua, con il suo nuovo romanzo, Fuoco amico (Einaudi, 399 pagine, 19,00 euro), la storia di una coppia che decide di separarsi per una settimana: il marito resta in Israele, affrontando la vita di ogni giorno, la moglie, una professoressa di liceo, decide di fare rotta verso l’Africa, per raggiungere il cognato rimasto un anno prima vedovo della sorella e ora con un altro drammatico lutto alle spalle: la morte del figlio. E proprio «un romanzo sulla elaborazione del lutto» lo ha definito lo scrittore israeliano, precisando che «la chiave di lettura sta nel modo in cui ho deciso di esaminare una coppia davvero interessante: l’uomo ha oltre settant’anni, la donna un po’ meno e sono comunque legati grazie a un bellissimo matrimonio». Un romanzo nato da una precisione visione estetica ed etica: «la letteratura significa ritagliare artificialmente un breve tratto di vita, quasi fosse un fotogramma: noi viviamo di fatto la nostra vita quotidiana senza mai immaginare gli effetti che le nostre azioni, anche le più banali, hanno. Sia che si tratti di letteratura, sia che si tratti di un film, il nostro compito è proprio questo: tagliare un breve fotogramma e sottoporlo all’attenzione del lettore. Spetterà a quest’ultimo fare collegamenti e connessioni, integrando tutti gli

elementi della narrazione. E il modo in cui ho scritto questo libro, alternando i capitoli dedicati a Israele a quelli dedicati all’Africa, mi è servito proprio per fornire questi collegamenti, che altrimenti non avrei potuto ottenere».

Yehoshua parlerà giovedì, lo stesso giorno di Shlomo Venezia, che lo scorso autunno ha pubblicato il suo Sonderkommando Auschwitz (Rizzoli, 235 pagine, 17,50 euro).Venezia è infatti uno dei dodici sopravvissuti (l’unico in Italia) degli ebrei che durante lo sterminio nazista furono obbligati a far parte delle «unità speciali», con l’obiettivo dello «smaltimento e della cremazione» degli ebrei deportati nei campi di concentramento. Ma a rappresentare Israele non ci saranno solo scrittori. Oltre a diversi storici (e in questo caso spicca il nome di Benny Morris, autore di una fortunatissima storia del conflitto arabo-israeliano, Vittime, pubblicata da Rizzoli), al Museo del Cinema di Torino e negli stessi giorni della Fiera del libro sarà ospitata una rassegna sul «cinema israeliano d’oggi» a cura di Grazia Paganelli. Ci saranno Amos Gitai (premiato tre anni fa a Cannes per il suo Free Zone), David Volach (presente l’anno scorso anche al Taormina Film Festival con il suo My Father, My Lord), Joseph Cedar (autore, da ultimo, di Beaufort, tratto dal romanzo di Ron Leshem). Dieci film, in tutto, che per la curatrice Grazia Paganelli «non possono di certo bastare a raccontare una cinematografia e neppure a mostrare le molte linee che l’attraversano, ma che sono comunque utili per comprendere le tensioni e le urgenze, per avvicinarci ai temi, ai personaggi, agli attori e ai registi, per comprenderne le difficoltà e per scoprire che anche in Israele il cinema è l’occhio sensibile e discreto per osservare nel profondo un mondo e i suoi microcosmi». Dopo libri e pellicole, spazio alle note: si inizia giovedì con l’esibizione dell’Orchestra di Nazareth, poi con l’Arab Music Orchestra di Nazareth, composta da musicisti cattolici, ebrei e musulmani: uno

altri

degli esempi più riusciti di convivenza artistica e anche religiosa perché, nel gruppo, alla voce della palestinese Lubna Bassal, si affiancano musicisti e strumenti arabi classici come l’archi, il qanun, l’oud e le percussioni. Ma al Lingotto di Torino non saranno presenti solo personalità israeliane: tra gli altri, oltre a un autore di prima lama come l’americano Gore Vidal, ci sarà spazio per lo spagnolo Javier Marías (che riceverà il Premio Alassio Internazionale), per il poeta francese Yves Bonnefoy, per l’americano Clive Cussler e per il barcellonese Ildefonso Falcones, l’avvocato autore di quella Cattedrale del Mare pubblicata in Italia da Longanesi, che ha venduto più di un milione di copie.Tra i saggisti nostrani, alcuni dei più noti giornalisti e commentatori, come Magdi Cristiano Allam, Ritanna Armeni, Enzo Bianchi, Anna Bravo, Mario Calabresi, Giovanni Floris e Massimo Gramellini. La primadonna della Fiera del libro di quest’anno resterà comunque Israele. I suoi scrittori, i suoi storici e i suoi registi invitati alla rassegna sono la dimostrazione di quanto becere e al tempo stesso velleitarie siano state le contestazioni per una scelta, quella del Paese ospite, mai così arguta e azzeccata.

MOBY DICK e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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parola chiave

embra che a inventare il denaro sia stato Creso, re di Lidia. Fu lui che, poco più di duemilacinquecento anni fa, per primo impose la propria effige sopra dei frammenti di elettro, una lega di argento e oro che i fiumi della penisola anatolica trascinano verso il mare. In questo modo Creso istituì il conio, l’atto decisivo della monetazione, ciò che rende diverso un dischetto o una sfera di metallo prezioso da una moneta vera e propria. Anche se siamo abituati a maneggiare spiccioli e banconote non ci può sfuggire il valore dell’intuizione, forse neppure consapevole, sulla quale si fonda l’esistenza del denaro. Conio e metallo prezioso sono infatti due realtà assolutamente diverse e lontane; prova ne sia il fatto che nella nostra esperienza comune li incontriamo separatamente. Ormai l’oro e l’argento hanno perduto la loro funzione di base reale per le misure di scambio e a parte qualche occasione di altissima tecnologia, per esempio era d’oro il rivestimento della navicella Apollo 11 che discese sulla Luna nel 1969, il loro uso è destinato alla produzione di gioielli, mentre le monete e ancora di più le banconote si sono trasformate in oggetti simbolici, rappresentativi del valore che assicurano di possedere. Probabilmente un pezzo da due euro, che pure ha un valore, in materia prima, superiore alla carta moneta, non ha un costo di produzione lontano da quello di una banconota da 500 o da 1.000 euro, e fra queste ultime la differenza in termini materiali non esiste neppure. Il sistema funziona però così bene da procedere in un totale automatismo, senza che ci fermiamo mai a riflettere su quanto grande debba essere l’investimento psicologico e fideistico che facciamo per mantenerlo in essere. Infatti perché il denaro circoli e i rapporti basati sulla sua esistenza funzionino bisogna credere in lui. Secondo me si tratta di un atteggiamento più sorridente e meno gaglioffo di quanto una simile espressione non induca a pensare. Usare il denaro, accettarlo, scambiarlo, tesaurizzarlo, chiederlo e concederlo a prestito, donarlo, persino contraffarlo o rubarlo sono tutte attività che si fondano su una grande fiducia nel futuro, nella società nella quale si vive e nei nostri simili, che siamo certi continueranno a comportarsi come hanno fatto fino a ora, che resteranno uomini con i pregi e i limiti di oggi. Solo la continuità del mondo in cui viviamo, nelle sue abitudini e anche nei suoi difetti, dà valore al denaro.

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Per accettarlo in cambio di un bene materiale di uso evidente, per superare la cultura del baratto e dello scambio rituale, occorre affidarsi a un elemento condiviso, a una fede e a una speranza comuni. In questo senso il denaro dimostra persino una sua capacità etica: non divide gli uomini, li unisce. Su di esso e sul suo valore assoluto ride il poeta arabo Khayyam quando si domanda che cosa ne facciano i vinai: «cosa mai posson comperare migliore di quel ch’han venduto?». Né va trascurata la tendenza all’astrazione propria del denaro, la sua vocazione anti-

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DENARO Perché circoli e i rapporti basati sulla sua esistenza funzionino bisogna credere in lui. Il che coincide con un grande investimento fideistico che facciamo, attraverso di esso, sulla continuità del mondo in cui viviamo…

Quella fiducia nel futuro di Sergio Valzania

Breve storia del suo valore simbolico dal metallo prezioso alla carta moneta all’incorporeità delle carte di credito. Nell’istituzione del conio è ravvisabile persino l’atto generante del nostro universo, il gesto con cui Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, rendendolo creatore di realtà complesse... materialistica. Il conio, alla sua nascita, è solo un accessorio rispetto alla materia preziosa, poco più di una certificazione pubblica relativa al peso di ogni singola porzione di metallo. Per rendere più agevole il suo uso negli scambi, il re sceglieva il formato standard nel quale farlo circolare e si assumeva l’onere, oltreché l’onore, di creare la massa circolante e di verificare il peso corretto di ogni pezzo. Il sigillo reale impresso su di esso costituiva il marchio di garanzia. Solo in seguito il

conio si carica di molteplici significati, pratici e simbolici, anche perché per secoli e secoli, fino all’invenzione del torchio da stampa, è l’unico media capace di veicolare immagini. Questa è una delle ragioni principali per le quali nella monetazione antica i ritratti regi sono poco addomesticati, a volte quasi caricaturali: dovevano rendere la verità dei tratti somatici in modo chiaro e sintetico, dato che il denaro circolante rappresentava l’unico canale attraverso il quale il volto del regnante

veniva mostrato alla larghissima maggioranza dei sudditi. Mi riferisco a un mondo senza televisione, che non conosce neppure giornali, cartoline o fotografie, nel quale per sapere che faccia ha colui che detiene il potere bisogna incontrarlo di persona, fisicamente e anche da vicino.

Ormai il denaro ha abbandonato questa funzione didattica e anche quelle che le erano collegate, come il fare la pubblicità ai maggiori edifici civili o di culto e il diffondere la notizia dei grandi eventi politici. Dopo l’uccisione di Cesare, Bruto si affrettò a battere una moneta che annunciava il ripristino delle libertà repubblicane, dato che si trattava del miglior modo di cui disponeva per far circolare la notizia e l’interpretazione che intendeva attribuirle. Le nuove banconote europee non hanno immagini ideologiche né d’informazione, solo architetture e carte geografiche, neppure a Bruxelles e Strasburgo si riesce a ricostruire un Panteon comune da proporre agli europei per consolidare un sentire condiviso. Né Carlo Magno né il suo erede Carlo V, né il bellicoso Napoleone né il pacifico San Benedetto sono riusciti a conquistarsi il diritto di comparire sulla carta moneta usata in comune dai loro pronipoti. Così un’assenza vistosa diviene elemento ulteriore di divisione, la moneta unica si presenta come un fatto tecnico, che non tenta di proiettare dati simbolici. Anche gli spiccioli recano sulla faccia condivisa un’immagine stilizzata dell’Europa, a ciascuno Stato è lasciata la decisione se riprodurre un volto rappresentativo o un monumento. La Spagna ha il suo re sulle pezzature maggiori, l’Italia il Sommo Poeta, solo sulla moneta da due euro. Ma intanto il denaro è fuggito altrove. Dopo essersi ridotto a puro conio sulla carta moneta ha quasi abbandonato del tutto le sue spoglie fisiche per ritirarsi nell’incorporeità dei computer delle banche, dove si è trasformato in serie numeriche che non esistono se non in formato elettronico, dopo essersi ritratte dalla carta dei libri contabili. Quando facciamo un acquisto di una certa dimensione ricorriamo a strumenti come l’assegno, recessivo, o la più comoda carta di credito, anch’essa dal carattere digitale ed evanescente. Per compiere un percorso così lungo sono bastati pochi secoli, neppure trenta, corrispondenti a centoventi generazioni umane di venticinque anni ciascuna. Qualche teologo avveduto ha voluto ricordare che in un mondo la cui esistenza si fonda sul mistero dell’incarnazione, un fenomeno potente e diffuso come quello del denaro non poteva evitare di riverberarne i tratti. E allora, come spunto di meditazione, possiamo pensare che all’origine persino il denaro, che è stato definito «la merda del diavolo», reca in sé il segno necessario di una doppia natura, fisica del metallo prezioso e astratta del conio che lo individua come moneta.Tale è la forza dell’atto generante del nostro universo e l’intensità del gesto con il quale Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, e quindi creatore di realtà complesse.


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ROCK

musica

Il ritorno dei R.E.M. Accelerazioni a tempo di rock di Stefano Bianchi n trentacinque anni di militanza rock (da ascoltatore) e in venti da critico musicale, poche volte mi è capitato di perdere la testa per una canzone. Figurarsi per due. Oltretutto dello stesso gruppo: i R.E.M. È successo nel 1991, con quel benedetto mandolino folk che innervava Losing My Religion, e l’anno successivo con quel prodigio d’intimismo intitolato Drive. Due salutari sberle, che ancora me le ricordo. In precedenza, la band di Athens (Georgia) non mi aveva impressionato granché: a quelle scariche elettriche un po’ monocordi preferivo di gran lunga il ritmo compulsivo dei Talking Heads e l’estetismo sonoro dei Japan. Questione di gusti e di new wave. Comunque, quel che riconoscevo a Michael Stipe e soci era il coraggio di macinare rock impegnato in quel vuoto degli anni Ottanta che vedeva il pubblico spellarsi le mani per Wild Boys dei Duran Duran o per la nefasta coppia Michael Jackson & Paul McCartney. Poi, dopo quei colpi di fulmine, ho continuato a seguirli apprezzando la coerenza di dischi come Monster, New Adventures In Hi-Fi e Up. Fino alla svolta nel ventunesimo secolo col passabile Reveal e il

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bolso Around The Sun. Caduta a picco, grazie R.E.M., è stato bello, passiamo oltre. E giuro che non avrei scommesso un centesimo sulla loro rinascita. Invece, ascolto Accelerate e non so se perdere la testa per la rabbia rock & roll e la voce tritatutto di Living Well Is The Best Revenge, il giro di chitarra alla Sweet Jane di Supernatural Superserious o il quasi punk di

in libreria

Horse To Water. Già, perché dopo l’artrosi compositiva e il quasi de profundis, Michael Stipe (voce), Peter Buck (chitarra) e Mike Mills (basso) si sono rimboccati le maniche, hanno buttato giù nuove canzoni, le hanno suonate l’estate scorsa ai fan di Dublino (in un pugno di live rehearsal: veri concerti, seppur camuffati da prove) per vedere l’effetto che faceva e, incassata

la piena approvazione, le hanno registrate in studio con un’energia da «buona la prima». Accelerando al massimo, come titolo insegna, e preoccupandosi anzitutto di eliminare scorie e ampollosità delle ultime delusioni. Accelerate, vivaddio, è un disco carnoso. Suonato da tre cinquantenni che ai rockettari di vent’anni gli fanno un baffo. Electric guitar oriented. Strizzato in 34 minuti su di giri. Rock pieno, moderno, senza arzigogoli. Rabbioso e comunicativo: una stoccata a Bush, un’altra allo scempio di New Orleans. Ma in mezzo a tanta velocità, c’è sufficiente e creativo spazio per il copyright della «ballata alla R.E.M.»: ossia i colpi di genio pianoforte & chitarra di Hollow Man, i lineamenti folk di Houston, la smagliante melodiosità di Until The Day Is Done, la psichedelìa di Mr. Richards e di Sing For The Submarine. Undici pezzi in tutto (cinque un filo sopra i due minuti), che sarà un piacere testare dal vivo quando i R.E.M. arriveranno in Italia: il 20 luglio a Perugia, il 21 a Verona, il 23 a Napoli, il 14 a Codroipo (UD), il 26 a Milano.

R.E.M., Accelerate, Warner Bros/Wea, 20,60 euro

mondo

riviste

CON CHET BAKER ON THE ROAD

PER I NOVANT’ANNI DI MANDELA

LOOPS: TUTTO SUL POP

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uesto racconto dall’andamento selvaggio (mi piacerebbe definirlo fauve) l’ho scritto con l’intenzione di fare rivivere un’epoca che oggi - con le sue pulsioni e i suoi ritmi - è diventata quasi argomento di culto dagli inevitabili risvolti di nostalgia. La nostra è stata una musica che divertiva l’ascoltatore: alla resa dei conti, gli anni Cinquanta e Sessanta, per quanto rivoluzionari, erano, nella sostanza, il crepuscolare prolun-

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ella splendida cornice di Hyde Park è ormai tutto pronto per la festa di compleanno per i 90 anni di Nelson Mandela. Per l’ex presidente sudafricano, premio Nobel per la Pace, la coppia di promoter d’eccezione, Will Smith e Jada Pinkett, ha allestito per il concerto del 27 giugno un parterre d’eccezione. Già confermati sul palco Razorlight, Keane, Queen, Annie Lennox, Spi-

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Il batterista Franco Mondini fa rivivere in un libro di memorie ritmi e protagonisti degli anni 50 e 60

Grande concerto rock a Hyde Park previsto il 27 giugno. Gli incassi devoluti a scopi benefici

Nel Regno Unito si progetta un semestrale con esperti musicologi e firme del giornalismo

gamento dei Roaring Twenties». Franco Mondini, batterista jazz tra i più ammirati in Italia e all’estero rievoca così la cavalcata sonoro-biografica del suo Sulla strada con Chet Baker e tutti gli altri (Edizioni Lindau, 192 pagine, 16,00 euro). Cronache di passione e amicizia, narrate con un caldo respiro sincopato e una penna fluida e accattivante. Sulle onde di jazz bebop e blues, l’autore celebra un ventennio di bellezza musicale e di grandi protagonisti come Chet Baker, Renè Thomas, Jacques Pelzer e Bobby Jaspar. All’insegna del concetto modernista, e nobilmente antico insieme, che anche nel blues tradition is not imitation.

ce Girls, Paul McCartney e U2, si sono aggiunti all’evento anche il rapper Eminem, da lungo tempo assente dalle scene, e Leona Lewis, cantante fenomeno del momento con la sua arcinota Bleeding Love. I 45 mila biglietti messi a disposizione, verranno venduti a giorni tramite un sistema di registrazione on line. Grande show dunque, ma anche l’occasione per coadiuvare la lotta contro l’Aids. Gli incassi del concerto saranno devoluti all’organizzazione benefica «46664», creata qualche tempo fa dallo storico leader che si oppose all’apartheid.

starebbe lavorando insieme con la Domino Recording Company, azienda indipendente che opera con Franz Ferdinand ed Arctic Monkeys. Ovviamente, viste le uscite estremamente dilatate, il periodico, che secondo le prime indiscrezioni sarebbe stato battezzato Loops, punterà principalmente sui grandi approfondimenti musicali, affidati, si dice, a penne importanti: firmeranno probabilmente Thurston Moore dei Sonic Youth, lo scrittore scozzese Ian Rankin e una giornalista del quotidiano The Guardian. Il primo numero è previsto probabilmente per luglio 2009.

a Faber ha fatto sapere di voler lanciare, per il momento soltanto in Gran Bretagna, una nuova rivista semestrale interamente dedicata alla musica pop. Dunque la pubblicazione, in tempi in cui le notizie possono cambiare non più ogni giorno ma addirittura ogni ora, sarà nelle edicole e nelle librerie del Regno Unito solamente due volte l’anno. Per la realizzazione del progetto, la Faber


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CLASSICA

zapping

Bonobo Power, un altro mito (ARCOBALENO) CHE CROLLA di Bruno Giurato n questo mondo ingrato che non lascia spazio alla gioconda civilizzazione multikulti, arcobaleno, se non falce e martello almeno falce e mirtillo, ci sarà pure un modello antropologico valido. Così avrà pensato il rapper Caparezza da Molfetta. Poi, vista la latitanza di un modello antropologico, in rapper ha virato sul modello etologico, proprio nel senso dell’animale. E ha composto Bonobo Power, una canzone sui Bonobo, scimmia africana antropomorfa. Udite: il Bonobo non pratica il conflitto sociale, non usa l’aggressività, usa il sesso come valvola di sfogo, invece. E senza discriminazioni, il Bonobo pratica sesso etero e omo. Un modello etico ed appunto etologico per l’altro mondo possibile. Il Bonobo, citiamo Caparezza: «stando a come si comporta è l’evoluzione dell’uomo». Qui si stava per chiedere l’iscrizione d’ufficio del Caparezza alla più vicina società di Patafisica, ma ci è capitato sott’occhio un articolo del New Yorker, che mette in crisi l’assunto caparezziano. Innanzitutto l’articolo del New Yorker ci informa del fatto che il Bonobo da decenni è l’icona di certa sinistra liberal, quindi la ripresa rap-molfettese è un altro mito americano di riporto. Ma soprattutto gli studi scientifici che ci dipingono il Bonobo come scimmia «di facili costumi ma di sani principi» (per citare il film Arrapaho dei sempiterni Squallor) si riferiscono solo agli esemplari in cattività. Si sa, in gabbia c’è poco da fare e appena possibile ci si butta sul sesso. Ma nel loro habitat naturale i Bonobo mostrano anche comportamenti aggressivi. Mannaggia, un altro mito arcobaleno che crolla. Resta un dubbio, i Bonobo voteranno Hillary o Obama? O addirittura ci saranno Bonobo che hanno votato Bush?

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Jackie’s Story a ritmo di habanera di Jacopo Pellegrini alle Alpi al Reno (quello in Emilia Romagna, non il tedesco) annata felice per il teatro musicale made in Usa, la corrente: a Verona Nixon in China di John Adams, a Torino, per la rassegna Rai NuovaMusica, What Next? (1999), unica opera prodotta dal fresco centenario Elliot Carter, a Trieste Trouble in Tahiti di Leonard Bernstein (1952), al Teatro Rossini di Lugo Jackie ’O di Michael Daugherty (classe 1954). Se al presente elenco si aggiungono Il tram chiamato desiderio di Previn, proposto non molte stagioni fa al Regio di Torino, Vanessa di Barber riapparsa a Palermo, il Bernstein autore di musical-operistici - West Side Story e Candide si danno ormai dappertutto -, persino 1984 di Maazel, attualmente alla Scala, ce n’è abbastanza per mettere in relazione questo sdoganamento di «merci» alternative al melodramma eurocentrico col tramonto delle istanze radicali avanzate dalla Nuova Musica a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Da Bernstein (e prima di lui da Blitzstein, Menotti, ecc.) a Previn e Maazel (anche loro, non a caso, direttori d’orchestra), giù giù fino a Daugherty, che agli studi accademici affianca una vasta competenza jazz e pop, la parola d’ordine è una sola: comunicare col e al pubblico. Caratteristica del «compositore“americano”» - chiosa Bernstein nel volumetto Una vita per la musica, appena riedito dalla Pantheon -, è di credere «ancora nella musica!». Sbaglierebbe peraltro chi interpretasse quest’ansia di condivisione emotiva come un giuoco al ribasso, una semplificazione a oltranza.Al contrario, i testi per musica presentano spesso un accentuato anelito al simbolo, all’allegoria morale, giusta la lezione appresa dal teatro di parola di O’Neill, Miller, Williams. Non fa eccezione Jackie ’O (Houston, 1997), versi e prosa di Wayne Koestenbaum, poeta, critico e teorico dei Gender Studies, gli studi di genere, che investigano i riflessi socio-culturali dell’identità sessuale. Con The Queen’s Throat: Homosexuality and the Mystery of Desire del 1993, lo scrittore ha inaugurato un filone d’indagini sui rapporti intercorrenti tra mondo dell’opera e omosessualità; due anni dopo, con Jackie Under My Skin, affronta le ragioni e l’essenza di un mito nazionale, la due volte vedova Mrs. Kennedy e Onassis. Il libretto riunisce i due temi in un’unica vena, appoggiandosi all’episodio storico del matrimonio coll’armatore greco come a uno spunto per parlare di molto altro: la reificazione della creatività nel Pop Art, il confronto tra due opposte concezioni del femminile (Jackie versus Maria Callas), l’elaborazione del lutto (dialogo coll’ombra di Kennedy), la crisi della società americana intor-

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no al ’68, l’utopia d’un mondo migliore. Discorso analogo per la musica: dalla catena di pezzi rigorosamente chiusi, uniti da recitativi cantati su note ribattute (un quasi gregoriano) o declamati in forma di melologo (parlato su accompagnamento strumentale), emerge lo studiato eclettismo di chi mescola musical, jazz, ritmi di danza (habanera e tango su tutti), songs intimistici e qualche parodia garbata, mai aggressiva (la Callas cita La Traviata, il fantasma del presidente assassinato guarda al Britten del Giro di vite), al fine di divertire, commuovere, sorprendere: obiettivo, quest’ultimo, non sempre centrato, causa il ricorso fin troppo insistito a un numero limitato di spunti melodici e ritmici (una trovata, peraltro, la dogliosa frase del violoncello associata alla protagonista). A Lugo, per la prima italiana di quest’opera da camera, si son fatte le cose per bene: vivace, spigliata la direzione di Franklin; idem la messinscena di Michieletto, anche pensosa quando occorre, con scene e costumi perfettamente in clima Warhol di Fantin e Pernigotti; idem idem l’Orchestra di Bologna e la compagnia, tutta in parte per voce e figura. Un bravo di cuore al piccolo ensemble corale messo insieme per l’occasione e quasi pronto per sbarcare a Broadway.

JAZZ

Omaggio a Sonny Rollins, star di Umbria jazz di Adriano Mazzoletti receduto dalla notizia che Sonny Rollins sarà una delle star della prossima edizione di Umbria Jazz, è stato pubblicato un cofanetto che comprende l’opera integrale che il grande sassofonista realizzò fra il 1962 e 1965, quando era sotto contratto con Rca Victor. La selezione si apre con The Bridge l’album forse più importante e significativo realizzato da Rollins dopo il ritorno. Le cronache del jazz ricordano infatti come fra novembre 1958 e gennaio 1962, il sassofonista abbia taciuto. Solo ufficialmente però, in quanto la leggenda, che poi tanto leggenda non è perché molti lo avevano ascoltato, Rollins era solito, soprattutto in ore notturne, soffiare disperatamente nel suo strumento sotto uno dei tanti ponti di New York. Esilio volontario dovuto a una crisi creativa. Molti in quel periodo si erano chiesti le ragioni dell’inquietudine che

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aveva colpito uno dei più grandi musicisti del momento. La risposta è stata fornita, quasi del tutto involontariamente dallo stesso Rollins quando molti anni dopo, rievocando quel periodo, parlò con grande ammirazione di John Coltrane e del nuovo arrivato Ornette Coleman. Confrontando l’ultimo disco inciso prima del ritiro (Contemporary Leaders), con il primo dopo il ritorno (The Bridge), si nota immediatamente la diversità. Il suono del suo strumento era diventato robusto, come vigorosa era la sonorità di Coltrane. Lo stile, diversamente dalle precedenti incisioni, era riconoscibile alle prime note. Per il secondo microsolco inciso nel 1963, aveva

chiesto la collaborazione dei musicisti che all’epoca suonavano con Ornette Coleman fra i quali il giovanissimo Don Cherry solista di pocket-trumpet, una tromba tascabile, quasi un giocattolo. Il disco Our Man in Jazz, non ottenne lo stesso successo del precedente e cinque mesi dopo, la Rca preoccupata del calo di interesse da parte del pubblico per il suo artista convinse Rollins a confrontarsi con un colosso del sassofono tenore, che però era attivo sulla scena del jazz già dal 1924, Coleman Hawkins. Il disco Sonny Meets Hawks rivelò immediatamente quanto Hawkins avesse inizialmente influenzato il suo più giovane collega, e quel disco salì immedia-

tamente le vette delle classifiche dei dischi jazz maggiormente venduti, anche per la scelta del repertorio che comprendeva celebri brani come Lover Man, Summertime,Yesterdays. Nel 1964 l’incontro con il giovane pianista Herbie Hancock e la decisione di abbandonare la sperimentazione con musicisti dell’area del cosiddetto free-jazz, fu la carta vincente per i successivi due album What’s New dove per la prima volta Rollins suonava quel St. Thomas ispirato a motivi caraibici che divenne in seguito uno dei suoi maggiori successi e The Standars in cui Rollins e Hancock interpretavano celebri motivi del grande repertorio della canzone americana. Quel sassofonista di trentacinque anni era ormai diventato una delle personalità più importanti e significative del jazz. Sonny Rollins, Original Album Classics, Sony BMG


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NARRATIVA

Il noir vissuto tra malavita e ispirazione I di Pier Mario Fasanotti

n quarta di copertina si legge: «Con lui nasce un nuovo stile: il noir vissuto». Indubbiamente una bella sorpresa il romanzo di Nan Aurousseau. A narrare le stravaganti vicende è, in prima persona, lo scrittore Joss Meredith, approdato tardi alla

letteratura dopo trascorsi di malavita. Ma sembra che il passato bussi di nuovo alla sua porta. Per colpa, anche, di quel che ha scritto. Si presenta alla porta una sua vicina di casa: nuda, con una Colt 45 in mano. «Come tutti i vincenti, non ho ragionato e ho tentato

stupidamente di portale via la pistola… è partito il colpo e mi sono beccato una pallottola nella coscia». La donna, drogata e seducente, lo porta via perché vuole punirlo considerandolo responsabile dei suoi guai. Buchi nella sua memoria, ma sa che molti le han-

libri

no usato violenza. L’autore procede con vari colpi di scena, ma senza mai perdere l’arguzia lessicale e il gusto di una prosa riflessiva. Joss ha modo di ricordare la sua vita malavitosa. E con la sua sequestratrice diventa tenero. Ma il rebus non si scioglie con facilità: chi sono gli uomini che fanno fatto male alla ragazza? Quale complotto c’è dietro? Joss ama l’azione, ma è ormai avvezzo ai pensieri: «Il gene del crimine non esiste. Quello che esiste invece è un gran casino virologico illuminato di sbieco dalla luna, una specie di contagio infettivo delle nevrosi familiari storicamente accoppiate con un mucchio di letame socioculturale ipercriminologico.Vista da vicino, questa è la storia del crimine». Ricordi dei giorni in carcere. Le celle non sono diverse dai pourrissoirs, le prigioni-marcitoio del secolo scorso. Affollate da «poveracci pieni zeppi di problemi, imbottiti di miseria socioculturale e psicologica, tutti i ragazzi venuti dai ghetti… ripiegati sulla difesa della propria identità, erano il terreno ideale per gli estremismi di qualsiasi credo». Morgane, la donna con la Colt, torna e «richiude la porta con una culata piuttosto sexy». Joss deve vedersela anche con una sua ex, Lea: «Quando piangeva era micidiale, nessuno poteva resistere». Una complicazione in più. E dà ragione a Nietzsche: bisogna difendere i forti dai deboli. Ci sarà amore? Joss ha paura di essere felice: «Starò attento perché so che la barca dell’amore fa presto a spezzarsi contro gli scogli della vita che scorre. Non c’è niente di peggio della vita che scorre, logora tutto». Nan Aurousseau, Dello stesso autore, Edizioni e/o, 128 pagine, 14,00 euro

riletture

Attualità di Spengler (e del nostro tramonto) di Gennaro Malgieri ovant’anni fa veniva pubblicato in Germania un libro destinato a sconvolgere l’Europa e a riposizionare il pensiero politico-filosofico sul ciglio del realismo antropologico che fino ad allora era stato negato dalla speculazione post-hegeliana. Il titolo era suggestivo e, al tempo stesso, crepuscolare: Il tramonto dell’Occidente. L’autore era Oswald Spengler. La sua influenza sugli studi storici e sociologici del Novecento sarebbe stata decisiva. Al punto che fin da quando la sua opera apparve egli fu, a torto o a ragione, considerato un «profeta». Invece, con tutta evidenza, era e resta «soltanto» un morfologo della storia, cioè a dire un osservatore delle metamorfosi dei

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popoli e delle civiltà. La borghesia europea, e in particolare quella tedesca, trovò nel Tramonto la buona coscienza del suo pessimismo che né la lezione di Schopenhauer, né quella di Nietzsche avevano saputo destare. Spengler mise nel cassetto di ognuno una parola: decadenza. E contribuì a destare il Vecchio Continente dal torpore e dall’avvilimento provocati dalla prima guerra mondiale. Il libro lanciò nuove ombre in particolare sulla Germania sconfitta; affascinò e stimolò alla rivolta la società mitteleuropea non ancora rassegnata alla fine; fece cadere le facili illusioni di chi coltivava ottimistici e ingiustificati entusiasmi sul futuro della civiltà occidentale affrescando un mondo vacillante nel quale tuttavia non mancava l’energia necessaria per un ulti-

mo atto di orgoglio: era questa l’illusione di Spengler. Quando il Tramonto apparve, nel 1918, fu facile denigrarlo come prodotto della Germania prostrata, non sospettando che esso fu partorito nel 1911, mentre la Germania ancora si illudeva che il suo destino poteva essere diverso, come quello del resto dell’Europa. Ma oggi qual è il suo significato, cosa possiamo cogliere da questo insuperato saggio che sta tra la letteratura, la storia politica, l’antropologia sociale, la filosofia teoretica e forse sconfina addirittura nella teologia? Esso può ancora parlarci perché se è vero, come diceva Spengler, che «la civiltà è una pianta», è anche vero che questa pianta sta morendo, le sue foglie ingialliscono, cadono e il vento sradicherà prima o poi il tronco senza vita. È un apologo del declino, una summa

dei vizi che stanno distruggendo l’Occidente. Un capolavoro del pessimismo consapevole. Il tempo in cui il Tramonto veniva concepito, è lo stesso nel quale siamo immersi, almeno moralmente, che lo ammettiamo o meno. Il relativismo nel quale nuotiamo è il medesimo in cui affogarono i «miti» culturali di Weimar; e l’eclissi dell’anima europea la vediamo riprodursi sotto i nostri occhi attoniti senza spiegarci la ragione. Spengler delineò una storia della decadenza delle civiltà che è la preconizzazione di quanto sta accadendo attorno a noi. Da qui la sua attualità. E, insieme, la necessità di rileggere il suo capolavoro alla luce della disperazione che domina la modernità. Agli ottimisti imbecilli, lo sconsigliamo vivamente. Si tengano il Grande Fratello e l’Isola dei famosi.


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FILOSOFIA

Lévinas, il volto dell’altro e la trascendenza di Renato Cristin eggere Lévinas è un’esperienza della difficoltà di accostarsi alla filosofia, ma poiché si tratta di una delle grandi figure filosofiche della contemporaneità, la lettura delle sue opere è un’esperienza altamente raccomandabile. Disponiamo ora della traduzione italiana di un libro del 1982 che fornisce una ricognizione, in forma di dialogo, sui principali concetti e sui più significativi temi del suo pensiero. Modificando l’impostazione aristotelica, Lévinas ritiene che la «filosofia prima» sia l’etica, che non si configurerebbe dunque come una disciplina ma come il fondamento del nodo che lega il pensare e l’agire;

L

non un sistema concettuale e normativo, ma un’esperienza della relazione fra i soggetti, di quel rapporto concreto di prossimità che si instaura «nel faccia a faccia degli uomini». La «prossimità» non è una categoria dell’intelletto ma un’obbligazione morale, e stare nella prossimità significa corrispondere alla finalità dell’esistenza. L’altro si incontra a partire dal suo volto: credo, dice Lévinas, «all’eminenza del volto umano espresso nella letteratura greca e nella nostra», perché il volto è l’altro senza contesto, il «tu» che è senso per se stesso. Nel volto dell’altro si manifesta la trascendenza: «il volto significa l’infinito», perché «nell’accesso al volto è presente anche un accesso all’idea di Dio». È dinanzi all’altro che l’io

manifesta la sua caratteristica essenziale: l’essere responsabile. Essere uomo, infatti, significa anzitutto assumersi la radicale e paradossale conseguenza di questa responsabilità: rispondere dell’agire altrui come se si trattasse del proprio agire, risponderne «fino al punto di espiare per gli altri». In questo modo, l’io riesce a esprimere la sua «identità stessa a partire dalla responsabilità», a partire cioè «da ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente,

io non posso rifiutare». La responsabilità individuale è «incedibile», perché è «la struttura essenziale della soggettività». E poiché nella sua «inalienabile identità di soggetto» e nella sua assoluta responsabilità verso gli altri, l’io «sostiene il mondo», l’io «ha sempre una responsabilità in più rispetto a tutti gli altri». Emmanuel Lévinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città Aperta Edizioni, 117 pagine, 11,00 euro

SOCIETÀ

Il giornalismo senza conformismi

di Riccardo Paradisi aremo anche una categoria di cialtroni, contaballe, privilegiati eccetera eccetera, ma se c’è una cosa che non si può dire è che siamo una categoria di impuniti… Se quel che abbiamo scritto non è vero la mannaia della legge cala inesorabilmente». In tempi in cui la nuova categoria da mettere alla gogna sembra essere quella dei giornalisti - a loro, a noi, Beppe Grillo ha dedicato il suo secondo V-day dello scorso 25 aprile a Torino - fa bene leggere Sempre meglio che lavorare, un libro pieno di grazia e di aneddoti di Michele Brambilla. Uno di quelli che secondo Grillo, uomo che ragiona per categorie e non per individui - sarebbe un servo, un parassita e un privilegiato.

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Brambilla invece è uno che il mestiere del giornalista l’ha fatto e lo fa davvero, con serietà, con rigore, con passione. Servo poi… proprio no. Quando era ancora al Corriere della Sera oggi, dopo avere diretto la Provincia di Como è vicedirettore del Giornale - Brambilla scrisse un libro che della categoria svelava conformismi ideologici e aggressive viltà di branco. Il libro si chiama L’eskimo in redazione e ci voleva coraggio a pubblicarlo (per le edizioni Ares in prima battuta e poi per Mondadori) quando ancora nel 1990 la vulgata sessantottina si chiudeva come una cappa di piombo su ogni autonomia di giudizio individuale. Sempre meglio che lavorare ci fa entrare nelle redazioni dei grandi quotidiani italiani per scoprire come si vive nel palcoscenico dell’informazione, un mondo animato da una gamma infinita di

figure: da quella del cialtrone nullafacente a quella del professionista coraggioso con la schiena diritta. Un vero cameo la descrizione dell’indignato speciale, il grillo parlante ultramoralista che di solito i giornali non si fanno mancare. Non mancano poi i ritratti dei giganti del giornalismo italiano come Enzo Biagi e Indro Montanelli che Brambilla ha conosciuto da vicino. Di grande suggestione il ricordo Dino Buzzati la cui presenza Brambilla ancora avvertiva nelle stanze di Via Solforino, dove Buzzati aveva concepito e immaginato il suo Deserto dei Tartari, una metafora, come è noto, della condizione esistenziale dello scrittore e dei suoi colleghi. Michele Brambilla, Sempre meglio che lavorare, Piemme edizioni, 218 pagine, 7,50 euro

RELIGIONE

Storie di preti “dalle scarpe sporche” di Francesco Rositano retacci. Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede. Ecco il titolo dell’ultima fatica letteraria di Candido Cannavò pubblicato da Rizzoli. Il giornalista - diventato celebre per aver fatto della Gazzetta dello Sport il più diffuso quotidiano sportivo italiano, quando ne era il direttore - è ritornato alla sua passione primigenia: la cronaca. Ha preso il treno e ha attraversato l’Italia a caccia di storie. Ne è uscito fuori un libro che raccoglie venti ritratti: istantanee di uomini, prima che di sacerdoti, che quotidianamente danno la loro vita per portare il Vangelo e regalare un sorriso alle persone cui la vita l’ha tolto: le prostitute, i carcera-

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ti, i tossicodipendenti. Preti «dalle scarpe sporche» che, per raggiungere il Cielo, non hanno avuto paura di inabissarsi tra i sentieri pietrosi dell’esistenza: «uomini in jeans, semplici don o umili graduati, con un crocifisso attaccato alla maglietta dal quale non si separano mai». Il cronista non nasconde la sua simpatia per quella che lui stesso, riprendendo il gergo sportivo a lui caro, definisce «l’ala sinistra della Chiesa». E contemporaneamente non esita a lanciare una stoccata nei confronti di un’altra Chiesa: «quella del fasto del tempio, delle sovrastrutture, delle mitre in testa e degli anelli da baciare». Il suo tifo personale va a uomini come don Oreste Benzi, che tendeva la mano alle prostitute di strada, come don Virginio

di, che nel 1972 diede una delle due camere di casa sua a un ragazzo appena uscito dal carcere minorile, e da allora è diventato il fratello maggiore dei diseredati di Milano. Don Ciotti che predica la virtù della legalità in terra di mafia a quella di padre Bossi, il missionario che per 39 giorni è stato tenuto prigioniero nella giungla delle Filippine. Da quest’esperienza Cannavò è tornato sicuramente più pieno: «Mi è arrivata addosso un’ondata di fedeltà e di coraggio. Non finirò mai di esserne grato alla vita e alla Chiesa “vera” che ci rimane e ci affascina». Colmegna, che non si stanca mai di difendere i rom, come monsignor Pietro Sigurani, «padre di tutti gli emigranti». O come don Gino Rigol-

Candido Cannavò, Pretacci. Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede, Rizzoli, 312 pagine, 18,00 euro

altre letture La lotta all’inquinamento e la tutela dell’ambiente sono divenute negli ultimi anni autentiche priorità della politica interna di molti Paesi. L’ecologia di mercato è un approccio nuovo a questo problema che sostiene essere il mercato e non lo Stato lo strumento più efficace per migliorare la qualità del mondo che ci circonda. In L’ecologia di mercato, (Lindau, 388 pagine, 28,00 euro) Terry Anderson e Donald Leal delineano le componenti principali di questo approccio, prima tra tutte la necessità di definire e salvaguardare diritti di proprietà trasferibili, senza i quali nessuno è incentivato a prendersi cura delle risorse e dei beni ambientali. Il latino mistico di Remy De Gourmont (Medusa edizioni, 342 pagine, 24,00 euro) è un libro dedicato a JorisKarl Huysmans, l’inventore dell’ultradandy Des Esseintes e padre del decadentismo. È un percorso nella selva della letteratura latina medievale dall’epoca di Sant’Agostino al Trecento e un viaggio nelle radici, nelle motivazioni più profonde del Simbolismo europeo. Il percorso di Gourmont avviene nei tesori della Bibliothèque Nationale de France da Sidonio Apollinare a Wipo di Borgogna, da San Bernardo a Adamo di San Vittore, fino a Jacopone da Todi. «Leggere questo testo ha scritto Marzio Pieri permette di uscire dalla piège del simbolismo come movimento, serenamente raccolto in un ben provveduto e distinto museo, per riappigliarsi al simbolismo come metodo». La storia dei Paesi baltici appare complessa e frammentata. Si sono caratterizzati a lungo più come conglomerati territoriali che come vere unità politiche, economiche e sociali, in una continua sovrapposizione etnica fra lettoni, estoni, prussiani, russi, polacchi. Storia dei Paesi baltici di Ralph Tuchtenhagen (Il Mulino, 147 pagine, 11,00 euro) offre un panorama chiaro e sintetico delle turbolente vicende di questo territorio di frontiera nell’arco di otto secoli, dalle crociate dei cavalieri teutonici nel Medioevo fino all’ingresso di Estonia, Lettonia e Litania nell’Unione europea.


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PADRE D’AVIANO VITA E OPERE DELL’EROICO CAPPUCCINO CHE CON ARDORE PREDICÒ LA RESISTENZA CONTRO L’ULTIMO DEI FURIOSI ASSALTI LANCIATI DAI TURCHI OTTOMANI VERSO LA CRISTIANITÀ, A VIENNA NEL 1683

Marco d’Europa di Franco Cardini olte canonizzazioni o beatificazioni restano ignote e passano inosservate all’opinione pubblica: ma, quando succede che vengano per qualche motivo notate, non accade mai che non sorgano interpretazioni più o meno dietrologiche, di solito malevole. Basti pensare a san Pio da Pietrelcina. Ora, non c’è dubbio che certe canonizzazioni o beatificazioni vengano «sospese» e «ibernate» per ragioni di opportunità politica. La Santa Sede ha aspettato cinque secoli prima di canonizzare Giovanna d’Arco; e non se l’è finora sentita - oltre un’ottantina d’anni dopo - di beatificare il «servo di Dio» Carlo I d’Austria, l’ultimo imperatore della casa d’Asburgo. Il papato era sospetto durante la prima guerra mondiale di una certa propensione per la causa degli Imperi Centrali, o almeno per quella della cattolica Austria: può darsi che quella situazione abbia pesato fino a oggi sulle scelte dei pontefici. Allo stesso modo, non si può escludere che vi siano santi la cui ascesa alla gloria degli altari serva in qualche modo ad accelerare o a facilitare una situazione in corso. Ma da qui a leggere la scelta di Giovanni Paolo II di beatificare, il 27 aprile del 2003, il «servo di Dio» Marco d’Aviano solo perché l’eroico cappuccino contribuì come sappiamo, con la sua parola ispirata, alla liberazione di Vienna dall’assedio turco del 1683, cioè come a una specie di gesto antimusulmano, ce ne corre. Anzi, la storia non sta per nulla in piedi.Vero è che in quell’occasione alcuni baldi giovi-

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mostrato tenacemente avverso alla nuova crociata di Bush, abbia beatificato il seicentesco nemico dei turchi proprio in odio di quei turchi stessi, oggi tra i non troppi alleati «sicuri» della politica bushista (ma ormai, dopo gli eventi curdo-iracheni, non si può più dire nemmeno questo). O, al contrario, che lo abbia fatto come gesto distensivo proprio nei confronti degli Usa, visto che Aviano è una delle 107 (ben centosette!) basi di cui l’esercito statunitense - si badi: non la Nato… - dispone nella nostra penisola. Naturalmente, ci si può baloccare con divertimenti del genere: ma niente di tutto ciò è storicamente plausibile. Carlo Cristofori, nato nel 1631 ad Aviano e morto a Vienna nel 1699, noto col suo nome da cappuccino di Marco d’Aviano, è famoso senza dubbio per il suo ardore nel predicare la resistenza contro quello che oggi sappiamo essere stato l’ultimo dei furiosi assalti lanciati tra metà Quattrocento e primo Settecento dai turchi ottomani contro l’Europa cristiana. È bene ricordare che la «secolare lotta» tra musulmani e cristiani occidentali (quella che nel Medioevo si coagulò più o meno impropriamente nelle crociate, e che nell’età moderna divenne guerra tesa ad arginare le potenzialità espansive dell’impero ottomano) non ebbe mai i caratteri di una «guerra di religione»: fu semmai, è vero, guerra tra Stati e tra persone che incentravano la loro vita e la loro esperienza sul fatto religioso. In questo senso conta, anzi è fonda-

Viene venerato dalla Chiesa per la sua radicale pietas cristiana. È il santo della penitenza, dell’Atto di dolore. E in questo senso va interpretata l’intenzione di Giovanni Paolo II espressa nella sua beatificazione il 27 aprile del 2003: un monito contro l’eclissi dei valori notti della Lega Nord, sostenuti con affettuosa indulgenza da qualche sacerdote, si affrettarono a travestirsi da crociati (ma con costumi «liberamente» ispirati al Medioevo…) per celebrare con marziale e un po’ anacronistica fierezza cristiana ed europea il taumaturgo che, a loro dire, avrebbe impedito trecentoventi anni fa che dai campanili di tutta Europa, divenuti minareti, si proclamasse il nome di Allah.

È un vecchio tormentone. Secondo alcuni dotti, i musulmani avrebbero conquistato tutta l’Europa se non ci fossero state le vittorie provvidenziali di Poitiers nel 732, di Lepanto nel 1571, di Vienna nel 1529 e nel 1683, magari di San Gottardo nel 1664 e di Petervaradino nel 1716. Mai che a questi entusiasti dei salvataggi eroici, alla Captain America, venga in mente che le condizioni e i contesti politici, economici e militari di quei tempi non avrebbero comunque consentito né agli arabo-berberi del 732 (o 733), né agli ottomani del 1529 e del 1683 alcuna improbabile conquista globale: così accadde peraltro appunto nel 1453, quando gli ottomani conquistarono sì Costantinopoli, ma si fermarono alle isole dell’Egeo e ai Balcani meridionali. D’altronde, quanto a interpretazioni demenziali, ci si potrebbe divertire. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che Giovanni Paolo II, che appunto nel 2003 si era di-

mentale, che simboli e valori religiosi entrassero anche nei campi di battaglia e finissero con l’esserne il nerbo spirituale e morale. Ma non v’era alcuna volontà diretta di assoggettamento religioso reciproco: e i (pochi) casi di conversione forzata dei vinti da parte dei vincitori non furono mai legittimati da nessuna delle due parti in conflitto. Con tutto ciò, l’ispirazione cristiana nella reazione all’avanzata turca fu fondamentale nell’età moderna. Lo fu a metà Quattrocento, quando i crociati combatterono nei Balcani sostenuti dalla calda parola del francescano Giovanni da Capestrano; e uno dei modelli di Marco d’Aviano fu senza dubbio anche il carmelitano scalzo Domenico di Gesù Maria, il mistico aragonese che nel novembre del 1620, alla Montagna Bianca, guidò gli eserciti cattolici contro i protestanti brandendo un crocifisso e un’immagine della Vergine ch’era stata mutilata dai calvinisti. L’ispirazione mistica era ingrediente fondamentale delle guerre vissute come «sante»: non vi è, in ciò, nulla di cui vergognarsi, nulla da rinnegare. Anzi.

Ma, se non c’è di per sé nulla di miracoloso nell’entusiasmo che Marco riuscì a suscitare negli eserciti cristiani, e che pure ebbe del prodigioso, sono altre le ragioni della sua beatificazione. Questo religioso, che in gioventù era stato attratto

ritratti


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dall’esperienza gesuitica e che seppe sostenere con profondità la robusta ispirazione cristiana dell’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, viene venerato nella Chiesa per la sua radicale pietà cristiana, valorizzata da molti e impressionanti episodi miracolosi nei quali spesso appare, in funzione privilegiata, la Vergine Maria. Marco d’Aviano, per il quale il Turco era il segno e lo strumento della giustizia divina indignata per i peccati dei cristiani, è anzitutto il santo della penitenza, il santo dell’«Atto di Dolore». Se si vuole in qualche modo interpretare la volontà di Giovanni Paolo II nella sua beatificazione, forse la strada è proprio questa. Non possiamo certo dimenticare le parole terribili pronunziate da papa Wojtyla sul ritrarsi doloroso e sdegnoso di Dio dinanzi ai peccati degli uomini del nostro tempo. L’eclisse del senso del peccato, il prevalere nella vita dei sedicenti cristiani di valori ispirati al materialismo del benessere: questi sono forse i nuovi Turchi che assediano la Vienna di oggi, cioè quel che resta della cristianità. È per combattere questi nuovi Turchi che il papa proponeva un lustro fa alla soglia della gloria degli altari l’umile frate friulano rievocato anni fa dalla penna di Carlo Sgorlon in Marco d’Europa (Edizioni Paoline, 1993): quel Marco d’Aviano che veglia ancora, nel centro di Vienna, sulla Cripta dei Cappuccini, dove dormono gli imperatori cattolici di casa d’Asburgo. Un luogo, quella Cripta, che dovrebbe davvero simboleggiare meglio di ogni altro l’identità europea, se l’Europa moderna - che sembra paga dell’euro e non riesce neppure a esprimere una forza militare che la garantisca indipendente - si curasse finalmente di averne una. Già nel marzo del 1682 frate Marco aveva cercato di andare in Spagna per predicarvi la crociata: ma Luigi XIV gliel’aveva impedito. Nel corso dell’estate 1683 Benedetto XI, dopo aver impegnato per l’organizzazione della crociata anche i suoi beni personali, nominò frate Marco cappellano dell’ar-

vittoria non fu sfruttata appieno, perché le truppe turche in rotta non furono inseguite e annientate. I principi cristiani presero a litigare su tutto: dalla spartizione del bottino alla distribuzione degli alloggiamenti alla tattica e alla strategia da adottare. L’imperatore, rientrato in Vienna, era stato accolto freddamente dal suo popolo ed era geloso del re di Polonia, considerato l’eroe del giorno. Inoltre, egli era preoccupato per le possibili mosse di Luigi XIV, che dava segni di voler approfittare della guerra sul Danubio per mangiarsi qualche altro pezzo di Sacro Romano Impero al confine con la Francia: e non era detto che alcuni principi e città tedesche cattoliche non lo preferissero all’Asburgo, considerato troppo condiscendente con i protestanti. Si sapeva ad esempio che l’Elettore di Baviera era continuamente tentato dall’alleanza con il Re Sole, mentre attorno all’imperatore si combattevano i due partiti, quello «spagnolo» che chiedeva una tregua con i turchi per poter contrastare il «Turco di Versailles» a Ovest, e quello «tedesco» che avrebbe invece preferito veder sicuri una volta per tutti i confini balcano-danubiani e sconfitto sul serio il sultano. Papa Innocenzo XI stesso, che premeva per la guerra al Turco ed era anima e finanziatore della Santa Lega stipulata nel marzo 1684 tra impero, Polonia e Venezia, preferiva non entrar in urto con il sovrano francese, del quale pur riprovava l’ambigua politica, e insisteva perché si arrivasse a liberare Buda e Belgrado per poi lanciarsi magari sull’ottomana Adrianopoli.

Padre Marco fece sua questa linea. Nelle sue appassionate lettere inviate ai principi cristiani s’insiste sulla necessità di avanzare senza esitazioni verso il centro della potenza turca giungendo a dar consigli che sembrano quasi ordini in campo tattico, strategico e logistico; ma al tempo stesso si stigmatizzano disordini, violenze e comportamenti peccaminosi del-

Nelle sue appassionate lettere inviate ai principi cristiani insisteva sulla necessità di avanzare senza esitazioni verso il centro della potenza turca. E instancabile percorreva i territori dell’impero predicando la ripresa della crociata. Ma la Realpolitik aveva ragioni meno nobili del suo ardore mistico mata imperiale che si andava costituendo per la liberazione di Vienna, che dalla metà del luglio di quell’anno era circondata dall’imponente esercito ottomano guidato dal gran vizir Kara Mustafà e forte, secondo calcoli incerti ma nel complesso attendibili, di circa 200 mila uomini (per quanto solo una parte di essi fosse fatta di veri e propri combattenti). Già noto in tutta Europa per la sua predicazione nei paesi protestanti, la pietà, la fama di grande tuamaturgo, Marco era divenuto padre spirituale dell’imperatore e aveva miracolosamente guarito Carlo di Lorena, generalissimo dell’armata imperiale, da una frattura mal saldata a una gamba. Su richiesta dell’imperatore frate Marco giunse a Passau, la città «dei tre fiumi» al confine tra Baviera e Austria alla confluenza del Danubio con l’Inn e con l’Ilz nella quale si era stabilita la corte durante l’assedio turco alla capitale. Da lì, egli passò presto però agli accampamenti del re Giovanni III di Polonia e del duca Carlo di Lorena, che comandavano le differenti colonne dell’esercito cui era affidato il compito della liberazione della capitale; e, richiesto, sconsigliò l’imperatore di raggiungere le truppe in movimento. L’equilibrio della concordia tra i capi militari era già precario, e il sovrano avrebbe rischiato di provocare nuove tensioni.

Marco d’Aviano aveva raggiunto le varie colonne dell’esercito cristiano nella pazzaforte in cui si erano riunite, a Tulln sul Danubio, circa quaranta chilometri a nord-ovest di Vienna; e si trovava sulla collina del Kahlenberg, quella fatidica mattina del 12 settembre con le truppe il generalissimo delle quali era re Giovanni III e che erano guidate da Carlo di Lorena, da Giorgio Federico di Waldeck, da Massimiliano Emanuele di Baviera, da Ludovico del Baden, da Giovanni Giorgio III di Sassonia. Il frate celebrò la messa e benedisse le truppe schierate (non si sa con quanta gioia dei sassoni e dei brandeburghesi presenti, luterani). La giornata fu, com’è noto, quella di una travolgente vittoria: Vienna fu liberata, lo sterminato accampamento turco sottoposto a saccheggio. Ma le difficoltà, per Marco - e non solo per lui - giunsero dopo. La

le truppe cristiane, si chiede moderazione e clemenza per i prigionieri di guerra, s’impone ai capi di obbligare le loro truppe a unire valore, disciplina e pietas cristiana. Padre Marco vuol trasformare i combattenti in crociati ideali: ma conosce gli uomini, e sa che chiedere a dei soldati coraggio e virtù al tempo stesso è praticamente impossibile. D’altronde, anche la sua tesi di continuar la guerra contro il Turco a tutti i costi, nonostante il re di Francia avesse ripreso le ostilità a Ovest contro l’impero, era avversata dai militari per ovvie ragioni: come aveva raccomandato il Montecuccoli, non si deve mai far la guerra su due fronti. «Un’idea del genere non può essere sostenuta che dai frati», era il commento sprezzante di Eugenio di Savoia. Anche i papi succeduti a Innocenzo XI, cioè Alessandro VIII e Innocenzo XII, sembravano preoccuparsi piuttosto della situazione europea. Instancabile, Marco d’Aviano percorreva l’Italia e i territori dell’impero predicando la ripresa della crociata e ottenendo dappertutto successi di popolo trionfali; impetrava dal papa l’istituzione di speciali preghiere alla Vergine e all’Arcangelo Michele, difensori in battaglia della cristianità; ma la Realpolitik aveva dalla sua ragioni meno nobili e sul momento ben più forti del suo ardore mistico. La guerra scoppiata nel 1688 dopo l’occupazione francese del palatinato aveva sconvolto l’intera Europa occidentale e si concluse solo nel 1697 con la pace di Rijswijk, la prima battuta d’arresto conosciuta dal Re Sole nella sua lunga politica di aggressioni e di espansione. Solo dopo allora fu possibile sul serio riprendere la «crociata» nei Balcani, con le travolgenti vittorie austriache e veneziane che avrebbero condotto alla pace di Carlowitz, nel 1699. Ma l’ultimo sforzo consumò l’ormai fragile corpo di frate Marco. Si spense a Vienna, sopraffatto dall’eccezionale calura di quell’anno ma soprattutto dagli sforzi e dai viaggi continui, il 13 agosto1699, assistito dall’imperatore Leopoldo I e dall’imperatrice che lo consideravano il loro padre spirituale. La sua statua domina ancora, in una Vienna che non lo ha mai dimenticato, la piazza dalla quale si accede alla Cripta dei Cappuccini, dove dormono i nostri imperatori.


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TV

di Pier Mario Fasanotti

A sollevare l’audience ci pensa (finalmente) De Luca

il caso di dire «finalmente». Il commissario De Luca, creatura letteraria di Carlo Lucarelli, è diventato personaggio televisivo. Col volto del bravo Alessandro Preziosi, tormentato nell’animo, uomo d’ordine malgrado non gradisca le carnevalate del fascismo (la sua prima indagine è del 1938, la seconda del ’45), sobrio nella recitazione ma comunque aggrappato al destino del bell’uomo. A ogni inchiesta ci scappa un bacio e quel che segue. Rai Uno l’ha mandato in onda, sollevando l’audience. Qualche considerazione attorno a questo Montalbano del Ventennio. La prima: perché c’è voluto così tanto a ispirarsi ai due romanzi (Indagine riservata e Carta bianca, pubblicati dalla Sellerio agli inizi degli anni Novanta) di un giallista che ormai è diventato famoso anche come conduttore televisivo? Con la penuria di soggetti buoni, ci voleva tanto a scoprire che Lucarelli ebbe i suoi primi successi proprio con lo sbirro De Luca? La seconda: una sceneggiatura tratta da un romanzo appare sempre più credibile e ben fatta rispetto a quelle create da zero. La mano del narratore si sente, eccome. E poi Lucarelli ha il vantaggio, quando scrive, di seguire un ritmo moderno, quasi filmistico, con stile asciutto ed essenziale, cui si sono ispirati in tanti, compreso (io credo) Gianrico Carofiglio, il magistratoscrittore, inventore del legal-thriller italiano imperniato sulla figura dell’avvocato Guerrieri. I «creativi» della tv leggono i libri? Frequentano le librerie, magari solo per dare un’occhiata alle copertine? Per esempio: dei gialli di Giorgio Scerbanenco qualcuno s’è mai accorto? La terza: affascina, e non da ora, l’ambientazione anni Quaranta. Con De Luca vediamo uno Stato che funziona nei suoi apparati investigativi, malgrado certe interferenze dei poteri più o meno paralleli, di stampo fortemente politico (a volte deviato). Gli uomini portavano il cappello, fumavano molto, si alzavano quando si avvicinava una signora. E le donne facevano le languide, seducevano senza le esibite volgarità di oggi. Certe spacconate - divisa, machismo e retorica - erano proprie di quei gerarchi diventati caricature del Duce. De Luca indaga sempre in ambienti nei quali prova un certo disagio. Ricchezza, titoli nobiliari preceduti dal doveroso «sua eccellenza», protettori a Roma (a Palazzo Venezia, nei ministeri), tennis e champagne in abbondanza e poi, con il vento della disfatta alle porte, anche droga. Gli intoccabili. Se De Luca è il potere statale, altri sono il potere politico: un intralcio reciproco, che ora appare ancora di grande attualità.

È

Montalbano del Ventennio

web

PER JONATHAN INDAGINI ON LINE

video

games

IL FENOMENO GRAND THEFT AUTO 4

dvd

SOPHIA, ICONA DEL RISCATTO ITALIANO

S

ulla scorta della Germania, anche la Francia ricorre al popolo della rete per raccogliere indizi e testimonianze utili alle indagini penali. Creato dalle forze di polizia transalpina, il sito www.dossierjonathan.fr è nato nel tentativo di fare luce sul caso del piccolo Jonathan Coulom, di undici anni, che la notte del 6 o del 7 aprile di quattro anni fa sparì nel corso di una gita di classe al mare, per poi essere ritrovato senza vita a trenta chilometri di di-

A

ppassionati in fila fuori dai negozi già dalla notte prima dell’uscita ufficiale. Scene di isteria che neppure le “boy band”riescono a suscitare nelle adolescenti d’oggi. Il lancio, in contemporanea mondiale, di “Grand Theft Auto 4”è stato un evento che trascende il mondo dei videogiochi propriamente inteso per sfiorare il fenomeno di costume. Il seguito della forunatissima e violen-

«N

on ho mai cercato di rimuovere i miei ricordi, neppure quelli più tristi. Non capisco le persone che si nascondono dal loro passato: ogni evento che hai vissuto ti aiuta a essere la persona che sei oggi». Anima e carne del secolo appena trascorso, Sofia Scicolone in arte Loren ha attraversato la storia italiana con un’insostenibile leggerezza di quelle che condannano le eroine a un eterno ritorno. Da Pozzuoli a Hollywood, Cercando

Anche in Francia nasce un sito aperto al popolo della rete per far luce su casi irrisolti

“Il Padrino” dei videogiochi è destinato a essere il miglior titolo della storia?

Viaggio da Pozzuoli a Hollywood sulle orme della Loren e della storia patria che lei ha attraversato

stanza. Finanziato dal ministero della Giustizia francese, e avallato dal giudice istruttore dopo una lunga trafila burocratica, il progetto web cercherà di ricostruire con maggiore precisione il contesto della sparizione con il sussidio di mappe e fotografie del luogo del rapimento. «È possibile che alcuni degli elementi che mettiamo on line possano risvegliare la memoria delle persone che si trovavano nella zona al momento dell’accaduto - spiega il Capitano del Servizio di informazioni e relazioni pubbliche delle forze armate». La collaborazione telematica dei cittadini, ha finora prodotto buoni risultati negli Usa, dove alcune collaborazioni sono risultate decisive.

tissima serie prodotta da Rockstar Studio è già stato accolto con molto favore dalla critica, con recensioni che lo definiscono un «capolavoro brutale e di satira». Qualche rivista specializzata si spinge addirittura ad azzardare la possibilità che “Grand Theft Auto 4” possa diventare il «miglior gioco di sempre”, in grado di «consolidare il concetto del videogioco come forma artistica». Ora, non sappiamo con esattezza quanto possa essere “artistico” rubare automobili, sparare ai poliziotti e intrattenersi con prostitute. Una cosa è certa, però: è dannatamente divertente.

Sophia ripercorre le tappe di un viaggio abilmente riassunto dalla regia di Roberto Olla e Danila Satta. Un puzzle di memorie e clip ormai entrate a far parte dell’immaginario di tutti, impreziosito dai contributi di Omar Sharif, Robert Altman ed Ettore Scola. Scorrono via via negli ottantacinque minuti di montato l’era fascista, il cinema anni Trenta, le bombe, la fame e l’Italia del dopoguerra, illusa e tormentata che Sophia rappresentò nella Ciociara. Seducente e grintosa, favolosa e popolana, la Loren è stata la tragica icona di un riscatto, che ha espiato nei suoi occhi e la sua bocca il peccato tragicomico di essere italiani.


cinema

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3 maggio 2008 • pagina 11

In un mondo di sosia

pensando a Fellini di Anselma Dell’Olio l Tribeca Film Festival è nato sette anni fa come risposta all’undici settembre 2001. I residenti dei quartieri intorno a Ground Zero erano devastati moralmente ed economicamente dopo gli attacchi alle Due Torri: negozi chiusi, ristoranti vuoti, molte aziende fallite e altre in crisi. Robert De Niro, che ha investito molto in Tribeca, e la sua socia Jane Rosenthal, hanno creato un festival del cinema per ridare fiducia e vitalità alla zona. Ci sono riusciti fin dal primo anno. Ormai TFF ha un posto d’onore nella vita culturale newyorchese. Programmato nella seconda metà di aprile, il più lontano possibile dal prestigioso New York Film Festival,Tribeca inizia pochi giorni prima di quello celeberrimo di Cannes. A questo svantaggio gli organizzatori hanno risposto creando diverse sezioni e una molteplicità di eventi collaterali per famiglie, serate speciali, un drive-in, un concorso per documentari e Spotlight, una raccolta di film provenienti da altri festival.

I

Se il concorso principale, la World Narrative Competition, non è ancora riuscito a imporsi per la qualità delle pellicole, dovendo accontentarsi di quel che avanza altrove, Spotlight si rivela una miniera di chicche gustose. Mister Lonely di Harmony Korine è una di queste. L’autore dichiara di essersi ispirato all’omonima ballata pop di Bobby Vinton (autore anche di Blue Velvet, titolo che David Lynch scelse per il film che lo ha reso famoso). Infatti il film inizia con l’indimenticabile canzone di struggente malinconia: Lonely, I’m Mr. Lonely\Wish I had someone to call on the phone\Letters\Never

a letter\I get no letters in the mail\I’ve been forgotten, yes, forgotten\Oh how I wonder, how it is I failed. Sono le parole di un soldato, lontano da casa e dimenticato da tutti. Il protagonista del film non fa la naja, ma porta l’uniforme in stile Sergeant Pepper e milita nei ranghi degli artisti di strada a Parigi; sopravvive ballando sui marciapiedi come sosia di Michael Jackson. È lontano da casa, non parla francese e non conosce nessuno. Non sappiamo nulla della vita precedente di Michael, nemmeno il suo vero nome. Il suo agente gli trova un ingaggio in un centro per anziani, luogo tristissimo che ravviva con canti e balli. Un nonagenario, mentre gli altri cantano o s’ad-

immortali come il Papa, Madonna, la Regina d’Inghilterra, Cappucetto Rosso, Sammy Davis Jr., Abramo Lincoln e così via. C’è una grande festa di benvenuto. Si beve, si mangia, si gioca a ping pong: la vita è bella. Un po’ alla volta la realtà dura s’insinua nell’accogliente tenuta. Le pecore s’ammalano e devono essere abbattute; Marilina, di carnagione bianchissima come l’originale, s’addormenta al sole e prende una brutta scottatura. Il marito innamorato si rivela anche brutale, tra l’altro pretendendo di smaneggiare la sua carne dolorante. «Sai Charlie - gli sussurra la moglie - a volte, quando ti guardo, più che Charlot vedo Adolf Hitler». In parallelo scorrono le avventu-

La sezione “Spotlight” del Tribeca Film Festival si rivela una miniera di chicche gustose. Lo testimoniano “Mister Lonely”, un film sulla vita e le sue illusioni dell’autore-culto Harmony Korine, e “Savage Grace”, intensa tragedia edipica con una strepitosa Julianne Moore dormentano, batte il tempo sulla fronte con un martello. Una sosia di Marilyn Monroe (Samantha Morton) vede l’anziano dalla finestra e con delicatezza gli toglie il martello dalla mano. Michael e Marilyn fanno subito amicizia e lei lo invita a seguirla nelle alture della Scozia, in una comune di sosia: «Dove tutti sono famosi e nessuno invecchia». Là conosce il marito di Marilyn, Charlot (Denis Lavant) la loro bambina Shirley Temple (Esme Creed-Miles, che non può che essere figlia della Morton, tanto è identica) e altre «star»

re di un misterioso gruppo di suore missionarie e un capo sacerdote (il regista Werner Herzog) che le porta in giro per la foresta tropicale su un piccolo aeroplano da turismo. Mentre gettano balle di viveri sui villaggi sottostanti, una suora cade dall’aereo, ma tanto è forte la sua fede che atterra senza conseguenze. Un’altra suora pedala su una bicicletta in aria (una specie di E.T., le monache sono per molti non cattolici degli extraterrestri), abito e velo svolazzanti di un azzurro cielo. Korine non cita Fellini tra le sue fonti d’ispirazione, ma è a lui che si pensa.

Le immagini sono di un incanto surreale, mai leziose. S’inizia a guardare Mister Lonely con rassegnazione: è un film da festival, non c’è una linea narrativa tradizionale; ci si aspetta una sottile noia molto estetica. Invece no, scena dopo scena, immagine dopo immagine, il film penetra sotto pelle e seduce, alternando sogni e sofferenze. Più che una riflessione sul desiderio di cambiare identità, o la voglia di essere famosi per interposta persona, è un film sulla vita e le sue illusioni, sulla difficoltà di amare e di essere amati e sugli infiniti, inevitabili incidenti di percorso infimi o tragici sui quali, prima o poi, tutti inciampano. Korine è un ex enfant prodige che a 22 anni ha scritto la sceneggiatura di Kids di Larry Clarke (1995) e di Ken Park dello stesso autore. È autore di due film di culto, Gummo (1997) e Julien Donkey Boy (1999). Con Mister Lonely ha raggiunto la maturità artistica: è un film che resta a lungo nella memoria. *****

Savage Grace è un film della stessa sezione, più tradizionale nella forma e altrettanto memorabile. L’ascesa e caduta di una famiglia vera avviene sullo sfondo di New York, Parigi, Cadaques, Mallorca e Londra, tra il 1946 e il 1972. La storia ruota intorno a Barbara Daly Baekeland, (Julianne Moore in stato di grazia), ex commessa, sposata con Brooks, l’erede immensamente ricco dell’inventore della Bakelite plastics, materia che ha rivoluzionato il mondo moderno. Con il suo splendore da rossa capricciosa e carismatica, Barbara tiene testa al marito colto e crudele (Stephen Dillane) non solo sessualmente, fino alla tarda adolescenza del loro unico figlio Tony, l’emergente Eddie Redmayne (L’altra donna del re). Quando il ragazzo porta a casa Blanca, la prima fidanzatina («Come un gattino che ha cacciato il primo topo e lo deposita ai nostri piedi» dice Barbara) la situazione degenera. Brooks se ne va con Blanca, innescando una spirale di decadenza incestuosa che risucchierà madre e figlio nel baratro di una tragedia edipica indimenticabile.


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Walt Whitman, i se

Al mattino, in Alabama, camminando ho visto l’uccello motteggiatore femmina seduto sul nido tra i rovi a covare la sua prole. E ho visto il maschio, mi sono fermato accanto ad ascoltarlo mentre gonfiava la gola e cantava pieno di gioia. E in quella pausa all’improvviso ho capito che non era lì, tutto in quel luogo il fine e l’obbiettivo del suo canto, che non cantava solo per lei o per se stesso, e che non tutto era ripercosso dagli echi, ma clandestino, sottile, eternamente oltre un avviso lanciasse e un dono occulto a tutti quelli che nascevano allora. WALT WHITMAN da Foglie d’erba (traduzione di Roberto Mussapi)

poesia

di Roberto Mussapi na situazione albare, elementare e primordiale quella che appare subito in questi versi del grande poeta americano Walt Whitman (West Hill, Long Island 1819-Camden 1892), cantore della natura e della sua anima, della voce del mare e dei fiumi, ma soprattutto del misterioso ed esaltante legame che unisce queste voci agli uomini. Whitman celebra la realtà cosmologica dell’anima dell’uomo e quella pensante della natura, degli elementi. Ci introduce a un altro pensiero, completo e complesso, da cui non possono essere esclusi i canti degli uccelli, i flussi della marea. Qui, l’incontro con un uccello, femmina, che cova la sua prole. E il maschio di lei, accanto: due esemplari di un uccello noto per la voce, detto uccellomimo o uccello motteggiatore. E nella situazione primordiale e albare, al mattino, in cammino, terra vergine come l’Alabama, non grande città (Whitman saprà cantare anche l’anima creante e atomistica delle città popolose, il brivido della folla accanto a quello dell’individuo in solitudine), la scoperta, la folgorazione del poeta: quell’uccello non sta cantando solo per la

U

il club di calliope

sua donna o per sé, ma sta lanciando un segnale, occulto, ma evidente come la musica, e a me, prosegue l’autore-ascoltatore, di colpo chiaro, in quanto poeta: il segreto dell’unione universale, di un risveglio che l’uccello sta annunciando in quell’istante al mattino di tutto il mondo. Gli incontri tra poeti e uccelli potrebbero costituire un capitolo di una storia della letteratura per archetipi: l’uccello, l’essere sospeso tra terra e cielo, di valenza angelica o comunque medianica, collega il regno della terra a quello dell’aria, lo spazio conoscibile a quello ove si perde lo sguardo, il territorio storico al mistero dell’universo. Nel mito e nella fiaba l’uccello è emblema di metamorfosi, come nei cigni selvatici della mitologia irlandese, negli infiniti corvi parlanti, nelle tortore e nelle bianche colombe delle fiabe italiane, nelle gru e nei grandi migratori che volano sui tetti delle città scandinave o arabe, e ritrova la sua piena valenza simbolica, naturale e misteriosa, quando incontra i poeti, forse gli unici che rispettino sia il mistero della natura sia gli enigmi e il senso oscuro quanto vitale del mito. Limitiamoci a pochi esempi: un

LE OMBRE DI ALESSANDRO PARRONCHI in libreria

di Giovanni Piccioni poco a poco ho dovuto rendermi conto che la poesia era la costante segreta d’ogni mia attività. E in quanto segreta, in quanto nascosta, confinata nei momenti di ozio, negli intervalli, nelle pause, ma perciò stesso presente dovunque». Queste parole di Alessandro Parrochi, poeta appartato ma riconosciuto e amato autore di poche, celebri raccolte che attraversano la storia della poesia italiana del Novecento, rappresentano una introduzione possibile alla lettura della sua ultima raccolta, Quaderno in ombra (viennepierre edizioni), che esce a poco più di un anno dalla sua scomparsa, con una prefazione chiarificatrice di Giovanna Ioli. Più in generale, quelle parole sotto-

«A

«Tu l’hai visto come lei può passare destando moto e soffio e io lasciare l'antica consuetudine, far morto il foglio del disperare: signore, tutto rimane vero, esatto il conto eppure per rispetto al tuo chiamare io mi alzo ancora, agghiaccio, provo freddo cerco nei quadrilateri una traccia. Poi ritorno a distendere trattati...» Tutto questo lo dice certo uno che stamattina ha preso pane e latte è sceso nelle sotterranee buie e nel giorno non ha ragione alcuna che non sia il balenare di quel lume.

Daniele Piccini

A poco più di un anno dalla sua scomparsa, l’ultima raccolta a cura di Giovanna Ioli: versi antichi e nuovi, tutti inediti lineano il senso di riscatto dall’abitudine nella visione nuova e nell’impegno linguistico propri della poesia. Le ragioni di questo libro e del suo titolo sembrano essere due: la prima è di natura filologica e si ricava dalle Note a Le poesie, là dove Parrochi riporta alcuni testi lasciati dietro di sé come un’ombra, non ancora pronti a comporre una raccolta organica. La seconda è di ordine storico: molte composizioni di questo Quaderno emersero da una lunga intervista della Ioli a Parronchi, nel corso della quale lo aiutò a riordinare il faldone conservato nell’ombra del suo studio, per scegliere versi antichi e nuovi, tutti inediti.Tali versi, che nascevano da occasioni e avevano dato esito a temi e toni inattesi, apparvero alla Ioli proprio come un «quaderno in ombra». Fu così che Parrochi iniziò a sistemarli sotto questo titolo. Compaiono strade di campagna e di città, paesaggi, vecchi amici, il coraggio di vivere nel tempo della frattura del nostro presente. E l’atto percettivo isola le cose su cui si posa, per renderle non più caduche. Per Parrochi, che fu anche studioso di ogni aspetto della visione, la bellezza è un momento che può essere prodotto così dalla luce come dall’ombra: «O frammenti rimasti a me di vita /a cui è tanto difficile afferrarsi /quante volte cogliendola nel buio /svegliatomi che era già fuggita /l’occasione che subito vapora /avrei potuto essere vivo ancora».


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3 maggio 2008 • pagina 13

egreti del cosmo e il compito del poeta corvo, penetrato non si sa come nel vasto salone di una casa in lutto, di notte, tra gli ampi tendaggi di pesanti e scuri tessuti. Un uomo piange la donna che gli è morta, Lenore, e la voce del corvo ripete un verso monotono quanto inesorabile, di forza intraducibile: nevermore, «mai più». A ogni domanda il nevermore del nero uccello, parlante nelle fiabe profezie e misteri, sancisce l’irrefutabilità della morte e del destino. L’uccello, qui, nella sua veste scura e luttuosa, è l’essere medianico che afferma la realtà disperata del buio e della morte. Lasciamo Edgar Allan Poe e cambiamo scena, dalle ombre cupe del salone, dai fruscianti tendaggi, da quel cupo interno notturno, passiamo alla tolda di una nave in viaggio verso i Mari del Sud. Dopo tempeste sconvolgenti la comparsa di un grande, bianco albatro coincide con l’arrivo di venti propizi e con un nuovo corso, fortunato e filante, della navigazione. Ogni sera il bianco messaggero angelico, l’uccello che reca buoni venti alla nave in viaggio, alla comunità umana che attraversa l’oceano, scende a salutare l’equipaggio. Finché un giorno, senza alcuna ragione, un marinaio con un colpo di balestra stende l’albatro che volteggiava felice. L’angelico uccello

sacrificato era il tramite fra la natura divina e gli uomini. Uccidendolo, l’equipaggio si danna alla separazione dal soffio divino e animante della natura, e sulla nave piomba una condanna atroce, una perdurante bonaccia che fa a uno a uno cadere stecchiti e disidratati i corpi dei marinai. Il colpevole però, all’improvviso, troverà la via della salvezza, provando compassione, in quella tolda disanimata, per i piccoli esseri anguiformi striscianti sul pelo dell’acqua. L’uomo che per cieca superbia aveva ucciso un grande alato benefico, si commuove per la vita più elementare e miserabile di esseri informi e invertebrati. Da quel momento ha inizio il pentimento e la redenzione finale. Dai Mari del Sud, dalle vorticose tempeste e paralizzanti bonacce a un altro mare, l’oceano delle coste americane. A riva un giovane cammina ed entra nell’acqua, prosegue tra le spume e sente che quell’ingresso nel mare battezza in lui il poeta. Da bambino, spiando curioso tra i cespugli, aveva preso a osservare ogni giorno una coppia di uccelli-mimo, i loro voli, il loro ritorno al nido, il loro amore, i loro canti di gioia. Finché un giorno la femmina non era tornata, forse uccisa da un cacciatore o preda di

qualche animale. E da quel momento il canto dell’uccello divenne una musica straziante intonata al dolore universale, all’armonia spezzata, all’unità e alla felicità perdute. E quel canto, pur animato dal dolore, era bello, pur ferito, era melodia; così pensava il bambino meravigliato di come potesse nascere melodia dal dolore, bellezza dalla perdita dell’armonia e dalla separazione. Il bambino, che era sempre stato curioso, che cercava, osservava, spiava la natura per carpirne i segreti, capì che il segreto di quel canto era il suo destino, e il suo nome era «poesia». Eccolo, ora, adolescente, Walt Whitman (Dalla culla che oscilla eternamente) entrare a piedi nudi nel mare per il battesimo della natura atomica e creaturale, ecco il ragazzo che viene iniziato alla poesia, al segreto dell’uccello disperato, al canto del dolore universale, del desiderio e della nostalgia del perduto e dell’infinito. A questo stesso uccello si riferisce la poesia che appare in questa pagina: qui, nella lunga storia in versi brevemente parafrasata, l’avventura di un’iniziazione alla poesia, sopra, in quelle poche laceranti parole, la scoperta, l’intuizione del segreto del cosmo e del compito del poeta.

UN POPOLO DI POETI All’alba il giovane ufficiale si congeda da Costa San Giorgio. Una ragazza pedala nella nebbia del primo mattino, il suo sorriso offre rare possibilità di sopravvivenza, alternative di memoria al ringhio del futuro.

torrido fiore della notte, tulipano dai petali scarlatti, forma di donna dalle folte chiome demone succube o incubo,

di Paolo Lisi

mi compari innanzi come in sogno, mi accendi i sensi di desideri, riscaldi col tuo fuoco i miei pensieri, ravvivi dal profondo la mia anima

***

di Dante Goffetti

Comprimere la vita di quindici giorni. Stretta fra camicie e cinture, impolverata di un vagone che divora i binari.

***

di Francesco Gualdi

Ho la parola amore per te, la spingo lungo lo scivolo della mia giovinezza, sussurrandotela, sibillina margherita che non so sfogliare. di Giulia Pelone

«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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PITTURA

arti

Lawrence Carroll

i colori del sogno e del silenzio di Marco Vallora ome in trance. Così si racconta, meglio racconta la sua opera curiosa, eccentrica, spalmata di silenzio: «Uno dei momenti più magici è quando sto uscendo dallo studio, ci sono giorni in cui mi fermo sulla porta a guardare, poi riaccendo la luce per dare un ultimo sguardo. Sono attimi di intimità, bellissimi. Semplicemente non ho voglia di andar via. Quando spengo nuovamente la luce vedo i miei quadri ritornare nell’ombra, nell’oscurità. Li penso spesso durante la notte, penso a cosa succede loro di notte, al buio. Mi piace pensare che stanno aspettando, che dormono, pronti a sveglarsi da un momento all’altro e comparire come qualsiasi altra cosa, con nuove possibilità». Certo, nel mondo esagitato e mercantile dei Cattelan, dei Kooons, dei Matthew Barney, «suona» un po’ curioso e impalpabile, come una nevicata di polvere contaminata, questo quieto ritmo addormentato, sentimentale, ch’è il pedale silente e incerato dell’arte inconsueta e meravigliosamente demodé di Lawrence Carrol, nato australiano, a Melbourne, nel 1954, ma di fatto tutto americano e ora persino veneziano. Lontanissimo però dalle esasperazioni drammaturgiche dell’espressionistica e vulnerabile depressione action painting (anche se lui pure usa un dripping silenzioso e lappato al vinavil, come dalla lingua rasposa d’un docile pennello-cane san bernardo). Lontano anni luce dal chiasso colorato e stereotipo della pop art (anche se qualche aggancio con Rauschenberg si potrebbe imbastire. E di fatto, quando Carroll, fiondato nella New York warholiana, come da un attutito tunnel archeologico, troppo timido per proferire parola, osa spedire una letterina di ammirazione al maestro pop, ne riceve una commovente risposta, che non dimenticherà. E le sue opere piegate e incanutite, come vecchie missive, o lenzuola canforate, ritrovate nell’armadio forforoso della propria memoria, qualcosa di quella commozione antica, puberale, potrebbero trattenere). Lontano pure da quella tradizione tutta americana e minimal, di artisti «freddi» come Carl Andre o

C

Judd, cui Carrol dice d’aver guardato. Ma a modo suo: girandoci intorno, guardando sotto le forme ove nessuno pensa di guardare, con l’allarme dei custodi e le ginocchia faticosamente piegate e soprattutto consumandosi le scarpe del pensiero (scarpe pesantemente yankee, che sono un suo topos, inserite direttamente dentro la tela. Ma non come un ready made strafottente, semmai come un contrappeso estetico alla fatica e alla felicità del vivere e del muovere, impiastricciate anche loro di quel cerato color sogno e silenzio, che domina la sua estroflessa pittura incantata, incinta. Cocciutamente fatta a mano, con cuciture, foderature, graffe, ridipinture, incerottamenti. Ma in modo meno disperato e chirurgico di Burri). No, non il silenzio ribelle, risentito di Cage: semmai quello innevato e sfiancato, vibratile e sommesso di Morandi, che lui ammette d’aver amato polemicamente alla follia, contro l’ottusità della prosopopea avanguardistica. E d’aver «bevuto» religiosamente, un’intera giornata, a Bologna, sfuggendo via alla farandola di Kassel (anche se a scoprirlo è stato Szeemann, ad Amburgo, nell’89). Non è tipo da neon alla Flavin, Carroll: è rimasto ancora alla vecchia lampadina, dipinta, oscurata, imburrata di bianco preso a pedate, meglio anzi se folgorata, così da parere un sepolto fiore di vetro. O magari si riaccende, per miracolo e «mi piaceva il modo in cui il quadro appariva allora sveglio e attivo, mentre in altri momenti mi sembrava immerso nell’oscurità, quasi dormiente e forse mi sognava». Come in un apologo zen alla Lao Tze. La poetica mostra curata da Angela Vettese e Laura Mattioli, più che una mostra è un viaggio trasognato, attraverso queste opere-intervallo, accucciate a terra come cani fintamente assopiti, calendari ciechi placcati alle pareti e ormai insfogliabili, cassette riempite di memoria e spalancate sul vuoto d’un attesa senza più tempo e parola. Inscatolate nel rumore dell’oggi.

Lawrence Carrol, Venezia, Museo Correr, fino al 25 maggio

autostorie

Con Barzini da Pechino a Parigi cent’anni dopo di Paolo Malagodi enché stia per compiere cent’anni, da quando il libro fu pubblicato nel dicembre 1908, non vi sono dubbi che in un ipotetico gioco della torre per la migliore vicenda letteraria sull’automobile, a non essere buttato sarebbe il reportage sul raid Pechino-Parigi. Subito accolto da enorme successo internazionale e come, nel presentare l’uscita italiana, sottolineava l’editore Ulrico Hoepli per un libro «tradotto in undici lingue diverse». Best seller dal debutto e riedito sino al 1929, oltre a una ristampa anastatica nel 1998 della prima uscita, il volume era tuttavia limitato alle rarità per bibliofili. Sino a che il Touring Club Italiano non ha deciso di riprenderlo, in una edizione (La metà del mondo vista

B

da un’automobile, da Pechino a Parigi in 60 giorni,Touring editore, 416 pagine, 15,00 euro) il cui unico torto è di aver rinunciato alle illustrazioni originarie, tratte dalle foto scattate da Luigi Barzini lungo il viaggio; mantenendo, però, in controcopertina la riproduzione della carta ripiegata in allegato al volume del 1908, quale chiaro riassunto topografico del complesso itinerario. Svoltosi per quasi 16 mila chilometri, di cui 12 mila in lande impervie e senza strade, con un pionieristico collaudo sulle qualità automobilistiche dell’epoca. Per una disfida, che nel marzo 1907 il quotidiano francese Le Matin aveva lanciato in prima pagina e sotto il cubitale titolo: «C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi?». Nonostante l’apparente impossibilità, le adesioni arrivarono a venti-

cinque, compresa quella del principe Scipione Borghese, esponente di una casata toscana trapiantata nel ‘600 a Roma e già noto come avventuroso viaggiatore. Alle 7,30 del 10 giugno 1907 il meccanico Ettore Guizzardi, un ventiseienne bolognese di Budrio, darà così a Pechino i primi colpi di manovella alla «Itala 35/45 HP» del principe Borghese, a fianco di tre auto francesi più una olandese; essendosi ridotte a cinque le vetture che, dopo la Cina e la steppa russa, dirigeranno su Parigi. Rispetto alle meno potenti ma più leggere concorrenti, la grossa Itala pare svantaggiata dal peso, aumentato sia dalle scorte di benzina e olio sia dalle provviste di acqua e viveri, oltre che da un terzo passeggero: il giornalista Luigi Barzini, un trentaduenne di Orvieto che come inviato del Corriere

della Sera trasmetterà - grazie alle postazioni telegrafiche sul percorso - al quotidiano milanese e al londinese Daily Telegraph dispacci sull’avventura. Che vede la vettura italiana prendere la testa nell’attraversamento desertico del Gobi, in Mongolia, per aumentarlo nella poltiglia siberiana e sino all’accoglienza trionfale del 27 luglio a Mosca, con oltre due settimane di vantaggio sugli inseguitori. Per vie finalmente battute e sino alla sede del giornale organizzatore, l’apoteosi parigina del 10 agosto chiude il raid, ma resta immutabile il fascino di una vicenda che la magistrale scrittura di Barzini, fatta di periodi brevi e ritmati, incentra su un’automobile fornita di «un suo amor proprio e che pare ci senta, ci comprenda: regolare e obbediente, nutrendosi di benzina e olio».


MobyDICK

3 maggio 2008 • pagina 15

ARCHITETTURA

In un Atlante le sorprese del Barocco a Firenze di Marzia Marandola del Duecento e il Quattrocento si sono impresse nell’immaginario collettivo, fondendosi con l’idea stessa di città e di paesaggio toscano e relegando nell’ombra gli apporti artistici che i secoli successivi vi hanno depositato. Il volume di Bevilacqua e Romby ribalta questa tradizione critica: attraverso i saggi introduttivi dell’Atlante e le dettagliatissime schede degli edifici sei-settecenteschi, raggruppati per sezioni geografiche, emerge un’architettura elegante e compassata, arricchita da esplosioni di leggiadria decorativa che arabescano gli interni dei palazzi, delle ville e delle chiese, dove dominano le scintillanti policromie delle pietre dure e le aeree vedute prospettiche di vertiginose quadrature, che affrescano le sale, dissolvendone le scatole murarie. Palazzo Pitti illustra esemplarmente il doppio registro dell’architettura del cosiddetto barocco toscano. A un involucro esterno aspro e scarno, quale risulta dagli

alvolta la storia fa affiorare contraddizioni e rovesciamenti: se ne ha conferma dalla lettura dei dodici saggi che introducono il volume dedicato a Firenze e alla Toscana granducale della serie Atlante del Barocco in Italia, promossa da Marcello Fagiolo e dal Centro di Studi sulla cultura e l’immagine di Roma. Curato da Mario Bevilacqua e da Carla G. Romby, il libro illustra e documenta l’architettura e le arti toscane tra Sei e Settecento. Un periodo della produzione artistica toscana, oscurato da un pregiudizio critico di origine risorgimentale, che lo etichetta come irrimediabile declino della regione da cui partì, nei secoli precedenti, la rinascita artistica e culturale che illuminò il mondo e dalla quale è derivata l’intima specularità che lega Firenze e la Toscana alle sue rappresentazioni rinascimentali. Infatti se Siena è indissolubilmente trasfigurata nella città del Buon Governo dipinta da Ambrogio Lorenzetti nel palazzo Pubblico, il sembiante di Firenze è fissato dalle nitide prospettive urbane che assecondano le narrazioni pittoriche di Masaccio, di Domenico Veneziano e del Ghirlandaio. Le portentose figurazioni architettoniche distillate all’ombra del giglio tra la fine

T

MODA

ampliamenti secenteschi del nucleo quattrocentesco, si oppone una strepitosa opulenza decorativa delle sale, dove trionfano gli affreschi e gli stucchi di Pietro da Cortona, di Michele Colonna e di Agostino Mitelli. Analoghe considerazioni valgono per l’ampliamento secentesco di palazzo Medici, realizzato dai Riccardi, i nuovi proprietari che chiamano Luca Giordano ad affrescare la sfarzosa galleria con la Gloria dei Medici o per palazzo Guadagni di San Clemente decorato dal Volterrano. Fa eccezione palazzo Corsini in Parione, rifigurato alla metà del Seicento dall’architetto romano Francesco Nave e dal fiorentino Alfonso Parigi il Giovane, il cui fronte, coronato di statue, si articola scenograficamente sull’Arno e anticipa i fasti decorativi degli interni. Forse ancora maggiori sorprese vengono dalle località di provincia, da Pistoia a Fucecchio, da Prato a Siena, che l’Atlante rivela ricche di apporti secenteschi, spesso nascosti all’interno di chiese e cappelle, che rimandano al gusto teatrale delle prove romane.

Atlante del Barocco in Italia. Firenze e il Granducato, a cura di Mario Bevilacqua e Carla G. Romby, De Luca, 668 pagine, 105,00 euro

Grace e Audrey, il revival continua di Roselina Salemi

a moda è malata di revival, al punto che le citazioni si moltiplicano e si accavallano. Quest’estate gonne hippy e occhi truccatissimi dichiaratamente anni Settanta, ma in autunno si scivolerà dolcemente verso i Sessanta, verso la swinging London di Marianne Faithfull e dei Rolling Stones. Mentre per la sera, ritornano i Cinquanta con gli abiti-peplo che fanno molto Cinecittà e si riaffacciano le solite icone: Jackie (Kennedy), Audrey (Hepburn), Grace (Kelly). Le altre, quelle che potevano sostituirle, Caroline Bessette , moglie di John-John Kennedy e lady Diana, sono morte, tutte e due tragicamente. Ed è come se il mondo della moda, un po’ orfano, non potesse far altro che dichiarare la sua nostalgia per quegli anni d’oro con mostre e rievocazioni del nascente prêt-à-porter, con tentativi di ricreare antiche atmosfere. Anni Sessanta, anni felici di un altro secolo, quando il made in Italy era ancora un’idea, ma le firme c’erano già: Fernanda Gattinoni, Roberta di Ca-

L

merino (la prima a inaugurare il logo sulle borse tanto amate da Joan Crawford e Gina Lollobrigida), Sorelle Fontana, Emilio Pucci, Irene Galitzine, Roberto Capucci e un giovanissimo Valentino. Quando l’onda lunga di «Hollywood sul Tevere» si faceva sentire ancora: liti, amori, paparazzi e abiti da sposa con strati di pizzo, tulle e perle, come torte nuziali viventi e gonne cucite con scandaloso spreco di seta. Quando le signore snob (Ford, Rothschild, Agnelli, Crespi) che viaggiavano tra New York, Parigi, Montecarlo, Roma, Capri e Sankt Moritz, si conoscevano tutte, si scambiavano gli indirizzi degli atelier e si copiavano i vestiti. Andavano molto gli abiti di chiffon drappeggiato alla Lana Turner (l’indecisa che chiedeva lo stesso modello in trenta colori) o tagliati a V sotto il seno (leggendario quello in mikado di seta indossato da Liz Taylor all’inaugurazione del teatro dell’Opera di Roma), ma il sogno proibito era il capolavoro di seta verde con strascico e gran scollatura sulla schiena creato dalle Sorelle Fontana per Grace di Monaco. Controcorrente, Anna Magnani sceglieva un vestito nero, sempre

quello, di Gattinoni, abbinato a un cappottino di taffettà. Mentre Silvana Mangano era una Capucci-addict. E lui, in cambio, la considerava «la donna più elegante mai incontrata», più di Jackie Kennedy, «colpevole», da vera trendsetter, di aver lanciato il pigiama palazzo, invenzione geniale della principessa Irene Galitzine. L’aveva visto nei costumi del musical The King and I e le era sembrato una fantastica alternativa al noioso tubino nero con le perle. Irene, diventata amica di Jackie, le aveva presentato Valentino. E sarebbe stato lui a disegnare il famoso abito di pizzo color avorio per le nozze con Ari Onassis, nel ‘67. Per uno strano destino, Liz Taylor incontra Richard Burton, il suo più grande amore, in Valentino, e l’imperatrice Farah Diba, sempre in Valentino, fugge in lacrime dal regno perduto del Pavone. E la moda continua guardare indietro. Dopo i Settanta, si profila il revival degli Ottanta. Sempre con Jackie, Audrey e Grace. Ci tocca sperare in Carla Bruni.


MobyDICK

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I MISTERI DELL’UNIVERSO

acia Maraini, nota come una delle maggiori scrittrici italiane di novelle, saggi e altro, in possesso di una rara cultura in parte ereditata dalla madre principessa Topazia Alliata e dal padre Fosco, fra i massimi antropologi, esploratori e scrittori d’ Italia, morto da poco, scrive articoli-interviste su temi vari anche tecnologici sul Corriere della Sera. In un recente articolo ha considerato il problema del nucleare come fonte di energia elettrica, utilizzando anche il parere di un esperto, e giungendo alla conclusione che ancora molti sono i problemi aperti, soprattutto per il trattamento delle scorie. Chi scrive non è ingegnere nucleare ma ha lavorato per sette anni presso il più prestigioso centro di ricerche nucleari in Italia, il Cise, localizzato a Segrate presso Milano, occupandosi di modellistica nucleare (in collaborazione con il professor Schrock della Ucla Berkeley, che passò un anno al Cise), in particolare del calcolo della temperatura interna del reattore. Il Cise nacque negli anni Cinquanta, quando Mattei iniziò una politica del petrolio diversa da quella delle società tradizionali occidentali, pagando con la vita le maggiori aperture fatte.

D

Fu creato da una Dc allora lungimirante con lo scopo di produrre un reattore di concezione italiana, sicuro ed efficiente. Vi lavoravano alcuni dei migliori ingegneri nucleari, come Bonalumi e Giancarlo Pierini, con il quale iniziai la mia carriera lavorativa e al quale sono per sempre grato per i preziosi insegnamenti e l’esempio di assoluta onestà intellettuale e professionale. Vi lavoravano anche fisici del calibro di Arecchi, Sona,Vendramini… Il Cise giunse a produrre un progetto, descritto

ai confini della realtà

Nucleare è bello di Emilio Spedicato

anticipato e parte presso altri enti dell’Enel più o meno in stato comatoso. Il materiale scientifico, raccolto in duemila casse, è stato da poco mandato al macero. Così procede l’Italia e così siamo finiti all’ultimo posto in Europa. Bonalumi e altri andarono in Canada, dove essenzialmente lo stesso modello venne realizzato e venduto come reattore Candu in tanti paesi del terzo mondo, dove mai ha dato problemi.

Ora affrontiamo alcune

dal famoso codice Procella, di un reattore assai migliore di quelli americani allora in vendita e alquanto costosi. Ma arrivato il centro sinistra dagli americani giunse l’indicazione di bloccare un progetto sfavorevole ai loro interessi. Questo avvenne circa al tempo del mio ingresso al Cise nel 1969. Il prototipo non fu mai realizzato, si inventarono pseudoricerche ecologiche sostitutive, e infine il Cise venne chiuso, mandando parte del personale in pensionamento

Quattro smentite ad altrettante classiche obiezioni mosse alla fonte energetica più criticata. Anche se la soluzione ai nostri problemi risiede altrove: nella fusione fredda, che significa energia pulita a bassissimo costo. Ma forse proprio per questo a qualcuno non piace...

classiche obiezioni al nucleare: l’uranio fra un po’ sarà finito: falso, si trova in quantità immense nel granito anche se non con la concentrazione della pecblenda e certamente tecniche di estrazioni dal granito potranno essere realizzate; le centrali costano molto: vero, ma se si usa un modello standard i costi si abbattono; è pericoloso: falso, migliaia di persone sono morte per il crollo di dighe o il semplice superamento del livello alto delle dighe da parte dell’acqua come nel caso Vajont; probabilmente milioni di persone sono morte causa del CO2 e degli altri inquinanti prodotti dalle centrali termiche (e bruciare il petrolio resta comunque uno dei maggiori crimini contro l’umanità, dato che è il materiale migliore per produzioni chimiche, farmaceutiche e anche alimentari); le scorie non si sa come trattarle: discutibile perché se immagazzinate in profonde gallerie i rischi sono virtualmente pari allo zero, inoltre ormai si sa che con la fusione fredda applicata alle scorie queste possono essere ridotte a materiali non radioattivi. Certamente la soluzione finale per il nostro rifornimento energetico non è né il nucleare, né il vento o il sole (a meno di porre nello spazio immensi ricettore di energia solare da cui inviarla sulla terra con radioonde; cosa certo possibile) ma la fusione fredda, la cui realizzabilità è stata dimostrata ad esempio dal fisico Preparata, che superò la risposta negativa data da un trattamento locale della equazione di Schroedinger, usando il trattamento globale su tutto il reticolo. Fusione fredda significa energia pulita a bassissimo costo, e questo non piace a chi fa i superguadagni con i mezzi di oggi.


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