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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Matteo Orsucci
abriele e i suoi sogni, Gabriele e l’università, molti libri letti, i migliori, i più belli, per fare il verso a Borges, «quelli ancora da leggere»… Eppoi Gabriele e la fuga dalla provincia che ti stritola, che non ti fa respirare; una boccata d’aria nuova in una città un po’ più grande - e d’accordo che Urbino non è metropoli ma ha il respiro ampio di tutte le cittadine invase dallo spirito eterno della gioventù studiosa. Gabriele è un ragazzo come tanti, addirittura come tutti, che si è appena lasciato il liceo alle spalle, davanti si trova una scommessa nuova, una partita di cui appena sono state impartite le regole. Come tanti, addirittura come tutti, è costretto a giocare a vista, molto a zona, nessuno marca stretto perché quella è ancora la fase della conoscenza generale. L’età più bella è finita, l’età di Arsenio come direbbe Eugenio Montale, quella in cui le nuvole non sono cifre o siNé gle «ma le belle sorelle che si incapaci guardano viaggiare». Gabriele è il protagonista di amare, né del romanzo d’esorbamboccioni. I protagonisti dio di Marco del romanzo d’esordio di Marco Apolloni, Il circolo Apolloni colpiscono per la capacità dei nichidi smarcarsi dalla retorica odierna. listi (Giraldi Ragazzi impegnati alla scoperta editore, Bologna), ed è anche il prototipo di una vita senza utile per una ricognizione valucchetti... gamente più seria sulla materia trattata. Apolloni al lettore regala una prosa affatto banale, un intreccio molto ben costruito, di pagina in pagina si scala la montagna incantata del romanzo fine a stesso per arrivare alla vetta della formazione di ogni bildunsroman che si rispetti. E non potrebbe essere che così. L’autore non lo ammette, ma il protagonista è anche un po’ il suo alter-ego e vista la carne messa al fuoco la biografia in questo caso non è affatto secondaria. Gabriele finisce con l’avere passati i 25 anni, proprio come Apolloni (che di anni ne ha 27).
G
SILLABARIO Giovani e nichilismo
DELL’ANTI-MOCCIA Parola chiave Giornali di Gennaro Malgieri Grande rentrée di Lulu alla Scala di Jacopo Pellegrini
NELLE PAGINE DI POESIA
Riflessi d’utopia in Eugenio Montale di Filippo La Porta
“Massa e potere” cinquant’anni dopo di Maurizio Ciampa Sguardo d’autore su Serge Gainsbourg di Anselma Dell’Olio
Quando il genio risiede nel dettaglio di Marco Vallora
sillabario dell’
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anti-moccia
Ma che fine avrà fatto il giovane Holden? di Pier Mario Fasanotti crivere la storia di un carabiniere, di un idraulico, di un’infermiera o di un avvocato è relativamente facile. Le variazioni di trama e di emozioni sono come sempre infinite, ma lo scrittore si trova a tratteggiare una personalità conosciuta, magari «provata» sulla propria pelle, anche se bizzarra e contorta. Scrivere di adolescenti è ben diverso. È come narrare di alieni, anche se noi lo siamo stati. Quel periodo che va tra l’infanzia e la maturità oggi si è straordinariamente allungato, anche per merito (o colpa, se si corteggia un giustificazionismo quasi sacrale) di chi ha studiato questa fase evolutiva dando a essa dignità di autonomia e originalità o elevandola a modello esistenziale. Prendiamo per esempio il libro intramontabile di J.D. Salinger, in cui il giovane Holden Caulfield esprime (in un week end del 1949) tutto il suo marasma intimo. Gli dicono che potrebbe diventare avvocato. Puah, «gli avvocati sono in gamba, ma non mi attirano». E allora? Salinger s’infila nella testa di un ragazzo, e lo fa proprio bene in questo passo: «E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo… non dovrei fare nient’altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia». Altri narratori ci hanno provato. Cogliendo però non l’insieme, ma dettagli. I quali, pur tutti insieme, non creano un clima mentale ed emozionale. Risultato? Prodotti a vendere (o a perdere), confezionati con una sorta di artigianato pubblicitario. Furbizia che fa vendere un libro o un film, ma solo per pochi anni. Da qualche lustro escono continuamente saggi sugli adolescenti che invitano a mutare parametri interpretativi. Due esempi. È inesatto oggi insistere sul freudiano senso di colpa visto che tra i giovani domina il mito comportamentale di Narciso. E ancora: il senso di colpa magari non è sparito, ma certamente è minimo rispetto alla vergogna, che è un sentimento «sociale» e riguarda generalmente la superficie del nostro io. A fare il punto, scientifico e sociologico, sulla cosiddetta «età del malessere», è appena uscito da Einaudi il saggio (intitolato
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La trama può sembrare scontata: l’adolescenza, e quindi e insomma si cresce, nascono prime incomprensioni, i genitori diventano alieni, parlano una lingua che non è la tua, si va avanti grazie alle amicizie vere, l’amico fidato, la fidanzata che pensi essere eterna, la bicicletta e lo scooter, il fuoco che brucia dentro, tutta la vita in un giorno. L’ala della giovinezza porta a volare molto in alto con frasi solenni, promesse senza fine, amori eterni perché la vita ha il sapore di una susina: un po’ aspra quando l’addenti, ma dolce e succosa all’interno e la si vive in ragione di questo contrasto palatale. La generazione di Gabriele non è quella dei lucchetti di Ponte Milvio, di Federico Moccia, non chiede scusa se ti chiama amore, bensì lo urla, quell’amore, perché è bella e terribile, si sente ovviamente immortale, ha voglia di lasciarsi tutto indietro e proiettarsi tutta avanti. Gabriele sa che dovrà percorrere le strade più diverse, mantenendo quell’andatura un po’ così, tipica dei ragazzi, la stessa che Roberto Vecchioni ha saputo rendere impareggiabilmente con l’espressione «Comici e disperati guerrieri». Comici e disperati, appunto. Ragazzi un po’ goffi nei confronti della vita, disperati come ogni amante della vita stessa, tra il dandy e il maledetto, deve essere: per certi versi estremo, guerriero senza dubbio. Questo è un romanzo d’esordio, e oggi in Italia dire «fare un romanzo» sembra quasi una sorta di pazzia letteraria. Uno pensa subito ad Alessandro Manzoni e all’alta letteratura o, peggio, ai tormentoni da classifica settimanale di Repubblica, quella anno III - numero 19 - pagina II
appunto Adolescenti) di un giovane zoologo, l’inglese David Bainbridge, che indaga sul mistero delle «creature più meravigliose, e fastidiose, del pianeta. Che succede nella testa di questi alieni, il cui cervello ha permesso all’umanità di fare «il grande passo in avanti»? Sotto la calotta cranica si verifica «una profonda ristruttuUn ritratto di J. D. Salinger, autore del “Giovane Holden” razione cerebrale che cambia sostanzialmente il modo di interagire con ciò che ci circonda». Si arriva a questa rivoluzione nervosa con fatica. Un periodo di transizione in cui i giovani «hanno pensieri disturbati e inquietanti». Alcuni di loro, scrive l’esperto, non arrivano mai a destinazione (l’equilibrio mentale), ma si perdono per strada: la schizofrenia di solito inizia nell’adolescenza. C’è «uno sfrigolante mare elettrochimico della corteccia cerebrale», e ciò deve essere tenuto in considerazione da coloro che attribuiscono tutto all’ambiente familiare, sociale e storico. Noi genitori, quindi «anziani», spesso ci irritiamo dinanzi a tanta alienità. Per i «capricci» della mente giovane, ma anche per la sua dose di creatività. Disordinata, ma esistente oltre che evidente. Quella che, pur tra sobbalzi e rischi elevatissimi, determina il cambiamento dell’intero genere umano. In ogni caso non sapremo mai se il giovane Holden sia diventato brillante avvocato o un perditempo, magari drogato.
roba che mette sempre in testa di serie i mocciosi di Moccia, i ragazzini della Roma perbene e quelli della Roma sporca, le motociclette che corrono molto, ragazzini senza voglia di fare alcunché, ragazzine molto innocenti che sognano la loro prima volta a 21 anni col voto in Senato, il principe azzurro, un castello sul mare, e ci sarebbe da chiedersi come fa una pletora di quindicenni cresciuti a pane e internet a credere in un amore di carta visto che ormai pure quello lo fanno on line, sesso 2.0…
I r a g a z z i d i A p o l l o n i sono ragazzi che con il pc hanno il sano rapporto della noncuranza, vanno alla pratica del mondo incuriositi e perplessi. Nichilisti recita il titolo. Parola forte, provocatoria, usata per nulla a caso. Nel gruppo di Gabriele di nichilista ce n’è solamente uno, e la statistica non la si sta a scomodare perché al mondo gente così esiste tra l’adolescenza e la vecchiaia. Questione di numeri. Ma gli altri, il buddista, quello con i dubbi esistenziali, l’altro che si interessa alle astrusità, beh, non sono affatto nichilisti. È così che li vedono gli occhi dei genitori, degli insegnanti, dei professori all’università, della gente per strada. E quindi perché non giocarci sopra a questo equivoco esistenziale? Perché non fondarlo un circolo dei nichilisti? L’unico posto dove assaporarlo davvero il nettare di tutto, combattendo il niente che invece sta intorno… Passano gli anni, si passano gli esami, si arriva all’Erasmus e alla dicitura «generazione Erasmus», quella che precede la laurea e le altre diciture
«generazione mille euro» e «generazione Tanguy», che detto dalle nostre parti suona come «bamboccioni». L’Erasmus porta a Londra, le vie incasinate, le ragazze baciate, gli amici nuovi, il turbinio di cosce e di seni, i libri, il Tamigi e le birre, padroni del mondo, anarchi jungeriani con riserva… Poi il ritorno, la laurea agognata. Dentro quel circolo che di nichilismo non ha un bel nulla alla fine sta il segreto dell’ultima generazione che ha saputo smarcarsi dalla retorica odierna, che non ha prodotto bulli ma belli, che proveniva dagli anni Ottanta sia pure con qualche differenza.
F i g l i d i u n ’ e t à di transizione ma non per questo incapaci di amare. Personalmente faccio parte di quel circolo o di qualcosa del genere. Cosa manca ad Apolloni, forse, è la presa di coscienza che uscendo fuori, dopo i chilometri di vita percorsi, alla fine si è come quelli da cui si scappava, anche senza chiudere lucchetti a Ponte Milvio (che sono il riflesso pavloviano del chiudersi in sé). Perché la tradizione resta pur sempre quella, ed è anzi essa che consente eccezioni alla regola, ribellismi, dannunzianesimo, roba così. O più semplicemente siamo stati gli ultimi, per anagrafe, a vivere un canovaccio di gioventù da poter ricordare con nostalgia. Ah, ai miei tempi… E siamo già tra i matusa.
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parola chiave
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GIORNALI ansia mi assale di primo mattino con l’arrivo dei quotidiani. Una volta era una gioia sfogliarli. Poi è diventato un dovere legato alla professione. Comunque ho sempre ritenuto un obbligo civile leggere i giornali: la preghiera laica, secondo un filosofo tedesco. Da tempo il piacere e la necessità si sono trasformate in un supplizio. L’enfatizzazione di ogni avvenimento, la morbosità di una cronaca spesso compilata per i voyeurs, la ricerca affannosa di ciò che sarebbe illecito pubblicare come i verbali delle intercettazioni che contribuiscono a distruggere esistenze di innocenti, il gossip esploso negli ultimi anni sulle prime pagine, lo spazio sempre più risicato all’analisi, al commento, al reportage di qualità, all’approfondimento fanno sì che il giornale ci offre briciole di eventi sicuramente interessanti e tanta paccottiglia a uso e consumo degli amanti (pochi) dei retroscena su cui imbastire la giornata politica. Si spiega anche così - ma non soltanto - il declino della carta stampata, in Italia, in Europa, in quasi tutto il mondo. Sicché a qualcuno è venuto in mente di chiedersi se i giornali dureranno ancora o si estingueranno nei prossimi cinquant’anni.
L’
L’ultima copia del «New York Times» (edito da Donzelli) è il titolo paradossale di un libro tutt’altro che fantasioso scritto da Vittorio Sabadin nel quale l’autore si è domandato se davvero è possibile che nell’arco di qualche decennio un’industria che impiega nel mondo due milioni di persone e che ha investito negli ultimi anni sei miliardi di euro in innovazione tecnologica possa scomparire. Certo, è difficile crederlo, ma a fronte dei nuovi media, carta e inchiostro non avranno vita facile e dovranno difendersi come potranno. A dire la verità c’è un solo modo per non scomparire. Il giornalismo, dice Sabadin, e io concordo, «dovrà trovare il modo di re-inventarsi, adeguarsi e sopravvivere in altre forme, perché - a distanza di secoli - è rimasto ancora la principale garanzia disponibile ai cittadini di una società civile e democratica». La parola magica sembra essere «multimedialità»: il quotidiano che si rigenera on line, che è la matrice di radio e televisione, che arriva sul telefono cellulare, che sfrutta le potenzialità dell’iPod. D’accordo. I contenuti, però, quali dovranno essere? Non è vero che il mondo non è più affamato di notizie o è alla ricerca di un’informazione veloce. La conoscenza oggi è tutto o quasi. Ma il tempo bisogna razionalizzarlo per informarsi adeguatamente. Sicché i giornali possono e devono restringere all’essenziale le news lasciandole a Internet o al sistema radiotelevisivo che le scodella in tempo reale, applicandosi invece a scavare nelle notizie, dietro di esse e fornire punti di vista (possibilmente non banali) sui grandi avvenimenti: dovrebbe essere questo il futuro dei quotidiani cosiddetti generalisti. Ma l’avvenire dell’editoria è nei giornali locali e di tendenza. Entrambi di nicchia, come si dice, svolgono funzioni non eliminabili in società complesse: i primi nel legare i cittadini al loro territorio; i secondi nell’offrire un ventaglio di opinioni tale
Leggerli è un obbligo civile ma farlo equivale spesso a un supplizio. Analisi di uno strumento che è la principale garanzia per i cittadini di una società democratica, ma che rischia di scomparire
Il futuro dietro la notizia di Gennaro Malgieri
Per sopravvivere al declino a cui non solo le nuove tecnologie li hanno condannati, gli organi di stampa si devono reinventare. Fuggendo dalle logiche televisive e rispondendo in modo diverso alle aspettative dei lettori: essere stupiti e informati da trasmettere visioni globali dei mutamenti che si producono grazie alla convergenza di bisogni e interessi planetari nelle micro-comunità, da qui il bisogno di discutere di idee che, con tutta evidenza, non possono trovare ampi spazi nei giornali «veloci» dedicati prevalentemente alla comunicazioni dei fatti del giorno. Se, dunque, la partita si gioca sul tempo che dedichiamo ai media, su come usufruiamo dell’informazione e quindi degli strumenti di cui ci serviamo, non è trascurabile la qualità dei contenuti per chi volesse farsi un’opinione e magari interagire, attraverso Internet, con quelle proposte dai giornali di orientamento. Riusciranno a convivere queste esigenze in una sopravvivenza dalla quale, per buona parte, dipenderà la democrazia nel Pianeta? È il grande interrogativo, credo, su cui la discussione dovrà essere portata. E rispondere, magari, con uno scarto di fantasia necessariamente adeguato alla do-
manda che nel 2006 si poneva l’Economist: «Chi ha ucciso il giornale?». Se nel delitto, come qualcuno sostiene, una parte non indifferente l’hanno avuta le nuove tecnologie che hanno espulso dal processo produttivo milioni di addetti e nel contempo hanno livellato la qualità del prodotto, è anche vero che coloro i quali maneggiano la notizia, che producono l’opinione, che orientano la formazione di un pensiero, ingabbiati nelle logiche del fatturato, non sempre hanno corrisposto alle esigenze di dare ai lettori ciò che da sempre si attendono: stupirsi e arricchirsi. Certo, non è un arricchimento lo stravolgimento del giornale in uno strumento di lotta tra gruppi politici e finanziari. I lettori sono costretti a sorbirsi dispute di Palazzo a cui sono estranei che non si sviluppano nei «luoghi» appropriati come sarebbero i giornali di tendenza, ma in quotidiani generalisti schierati come organi di partito.
Perciò credo che la diagnosi di Stefano Hatfield, direttore del quotidiano gratuito britannico Thelondonpaper, raccolta qualche tempo fa da The Independent sia assolutamente fondata: «Viviamo il nostro momento e ci divertiamo a fare le cose in un modo diverso.Vuol dire stare meno seduti nella torre d’avorio a predicare ai lettori, e impegnarsi invece di più nello stabilire una connessione bidirezionale con loro. Non cerchiamo di imporre i nostri punti di vista in modo didattico a un pubblico riconoscente, ma cerchiamo di creare una comunità tra lo staff editoriale e i lettori. La gente continuerà a usare i giornali, perché vuole continuare a leggere, bisogna solo riuscire a individuare gli argomenti giusti». Difficile non essere d’accordo. Ma come trovarli gli «argomenti giusti»? Ognuno, come è giusto che sia, avrà la propria ricetta e a essa si atterrà. Il risultato nessuno è in grado di prevederlo. C’è soltanto da ammettere che se i giornali, quasi tutti, continueranno a essere strutturati secondo parametri antiquati che non rispondono più alle esigenze del presente davvero c’è il rischio che scompaiano. O, nella migliore delle ipotesi, che sopravvivano come ripetitori di news televisive.
Ecco un altro inquietante aspetto della crisi: i giornali si sono «televisivizzati», rispondono cioè agli schemi propri di un mezzo che dovrebbe essere ai suoi antipodi. E questa circostanza non può che allontanare il già esiguo pubblico dei lettori. Del resto, se già la televisione sotto il profilo informativo, è ampiamente superata poiché la ricerca della popolarità si è fermata nella cucina della notizia leggera e i talk show sono per lo più irritanti pollai nei quali si beccano i soliti noti, che cosa rimane del giornalismo di qualità offerto dal piccolo schermo? Poco o nulla, a meno di non rivolgersi a emittenti di nicchia come Current di Al Gore, della quale si può criticare i contenuti che propone, ma non certo l’approccio a essi, che svolge una funzione di utile e speriamo imitabile collegamento tra la domanda e l’offerta, così come altri canali tematici che sono i veri motori della conoscenza attraverso il piccolo schermo. I giornali di qualità, generalisti quanto si vuole, ma non indigenti zibaldoni, dovrebbero suggere da questo modo televisivo di fare informazione (ripeto: di nicchia estrema) per dare al grande pubblico un’informazione non scontata e ricca di approfondimenti che non possono sempre essere affidati a signori seduti in uno studio che discettano sull’universo mondo avendo di vista soltanto il cortile della propria abitazione. I giornali non credo che collasseranno a breve. A meno di una mutazione antropologica rivoluzionaria che farà sì che ognuno di noi si porti un pc ovunque e ne diventi un’appendice organica, la stampa continuerà a esistere. Ma a patto che si rinnovi. Poiché a decretarne la fine sarebbero i lettori. La free press è un sintomo inquietante ed esaltante al tempo stesso. Se gli editori riuscissero a coglierne tutte le potenzialità e a mixare gli elementi quantitativi con le prospettive qualitative che pure si potrebbero aprire, forse la strada della salvezza sarebbe più agevole.
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Classica
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musica
zapping
Decostruttivi ironici LODE AI PRIMUS di Bruno Giurato
di Jacopo Pellegrini òlta all’ultima replica, dinanzi a una sala più piena che vuota, premiata da un’accoglienza finale entusiastica, Lulu di Alban Berg tornava alla Scala dopo un’assenza prolungata: 31 anni dalle due recite portate in tournée dall’Opéra di Parigi (al podio Boulez, Chéreau il regista), 47 dall’unico allestimento prodotto in casa (per la bacchetta di Nino Sanzogno), quando l’opera, rimasta incompiuta per la morte dell’autore, viaggiava ancora in due atti. Molto opportunamente il teatro milanese e Daniele Gatti - artefice d’una prova direttoriale davvero maiuscola, grazie alla quale ha risollevato (e di parecchio) le proprie quotazioni in loco dopo il dubbio esito del Don Carlo inaugurale del 2008 - hanno optato per la versione col sparsi a piene mani nei suoi due drammi terzo atto completato (in misura minisu Lulu e da Berg golosamente conserma) e orchestrato (in larga parte) dal vati nella loro riduzione a libretto: le pricompositore austriaco Friedrich Cerha, me parti degli Atti II e III consistono, in quella appunto tenuta a battesimo nel buona sostanza, in un pochadistico gio1979 dalla coppia Boulez-Chéreau. co di entrate e uscite da porte, di gente Stavolta lo spettacolo recava la firma di che si nasconde dietro tende e sotto divaPeter Stein (a Milano la regia è ripresa ni, di travestimenti, conversazioni spiate da Vesperini e Cantini), con scene di Wöe «a parte» comici. Stein questi trucchetgerbauer, costumi della Bickel, luci di ti li gode da matti: costruisce un oliatissiSchuler. È stato, sul piano dei gesti e dei mo meccanismo di movimenti, il trionfo azione/reazione motodella didascalia, metiria (veniva fatto di pencolosamente e amorosare al giovane Strehsamente rispettata. Si ler, regista d’una Lulu sono viste Lulu più agalla Biennale di Venegressive nel lavoro di zia 1949), organizza un scavo intorno a segni e ritmo narrativo agile e significati; nessuna meincisivo, traendo partiglio raccontata di queto anche da certi tratti sta: anche a non conodella musica che, da scere la trama, anche a non capire una parola Foto di M. Brescia di “Lulu” alla Scala dietro la proclamata ortodossia serial-dodedi tedesco, si segue tutcafonica, sbirciano con voluttà la cosidto e tutto è lampante nella condotta e nei detta musica d’uso tedesca anni Venti (il rapporti tra i personaggi, come in un film primo Hindemith), dove si mescolano (e, in effetti, gli omaggi di Stein alla peljazz e danze di sala moderne; né Berg, licola di Pabst sullo stesso argomento soviennese purosangue, può scordarsi del no palesi). valzer: fantasmi dell’amato 3/4 sgorgano Non manca alcuno dei triti espedienti qua e là, specie quand’è di scena il buoteatrali da Frank Wedekind volutamente
C
Grande rentrée di Lulu alla Scala
Jazz
ornano i Primus e menomale. Se c’è un gruppo per il quale la dicitura rock alternativo ha un senso, è proprio il terzetto capitanato - è il caso di dirlo dato il berretto militare - da Les Claypool. I Primus sono più giù, più su, essi sono più oltre. Claypool suona il basso come tre musicisti ma con l’aria di stare lì per caso, nel mentre canta con una vocina a sfottò testi bislacchi come Too many puppies (Troppi imbecilli) o Greet the sacred Cow (Ringrazia la vacca sacra) o Winona Big Brown Beaver, il grosso castoro marrone di Winona, canzone che si meritò gli insulti del fidanzato di Winona Rider, ulteriore conferma che le corna, anche metaforiche o sospette, quando spuntano fanno male. Li trovi sul palco del Lettermann vestiti da pinguini. Il loro video più bello si chiama Devil went down to Georgia, una lotta country blues tra il bene (diavolaccio chitarrista) e il male (fanciullino col violino), girato con pupazzi di plastilina. Insomma la notizia è che da quest’estate li vedranno di nuovo in tournée in Usa e in Canada, ma non da noi. Gli impresari europei sono troppo impegnati a riesumare mummie di pastasfoglia rock o «ggiovani di giro». Sono troppo postmodernamente felici per concedersi un po’ di postmodernità seria, come appunto quella dei Primus, che decostruiscono, sì, ma con umorismo e volume alto, molto alto. I detrattori sostengono che i Primus suonino sempre lo stesso pezzo, ebbene sì hanno ragione. Ma come lo suonano: sembra non abbiano bisogno di accordi tanto è l’impatto. I Primus chiudono il conto con il rock e con il pop, con i sogni dei critici musicali e con il mercato nell’unico modo possibile, standoci dentro (ma non in quello europeo, pare). Dopo l’estate arriverà anche il nuovo cd e quello almeno ce lo potremo scaricare, alla faccia degli impresari.
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no, sentimentale Alwa, anch’egli (nella finzione teatrale) compositore. Alla Lulu Stein si guarda bene da sottrarre anche il previsto apparato visivo allegorico: il circo del Prologo, l’onnipresente ritratto/doppio della protagonista; tanto più sorprende la rinuncia per costei al costume da Pierrot (Prologo e Atto I, scena I), peraltro disegnato dalla Bickel, come si evince dalla copertina del programma di sala. Un ripensamento dell’ultim’ora? Oppure ho visto male io? Per il resto, costumi, anzi abiti da favola, scene assai mal costruite ma ingegnose (il realismo degli ambienti è messo in forse dal fatto ch’essi stanno dentro una grande «scatola» scenica, arretrata rispetto al proscenio), luci espressive. Cast affiatato e preciso (l’unico realmente modesto è West), con in testa Laura Aikin, Lulu se non serpentina certo dominatrice della parte, e Thomas Piffka, forse un po’ âgé nella figura, no davvero nel canto. Spesso (non sempre) in Lulu canto e orchestra scorrono paralleli, autonomi, ma Gatti li domina entrambi portandoli a una temperatura espressiva rovente e ottenendo dagli strumentisti una pienezza e densità di suono febbrile.
Ricordo di Lena Horne dal Cotton Club a MLK
di Adriano Mazzoletti veva abbandonato le scene ormai da molti anni, ma il suo nome era rimasto vivo nella memoria di tutti coloro che l’avevano ammirata e apprezzata. Lena Horne avrebbe compiuto 93 anni il prossimo 30 giugno, ma la notizia della sua scomparsa, il 9 maggio a New York dove era nata nel 1917, è giunta immediatamente e il mondo del jazz, del cinema e dello spettacolo la stanno commemorando in tutto il mondo. Per la sua straordinaria bellezza e indiscussa bravura era stata subito notata da Owdey Madden proprietario del Cotton Club che l’aveva ingaggiata come ballerina di fila per la rivista del 1934. E fu proprio nel celebre locale di Harlem che la Horne iniziò a cantare. Noble Sissle, uno dei personaggi più celebri dello spettacolo nero fin dagli anni Ven-
A
ti, la scritturò immediatamente e con lui incise il suo primo disco con due canzoni That’s What Love Did To Me e I Take to You. Era l’11 marzo 1936. Bastarono quelle due interpretazioni e una tournée che la Horne effettuò con Sissle della cui orchestra faceva anche parte Sidney Bechet, per lanciarla definitivamente. Divenne ben presto figura di spicco nel locali della 52° strada di New York, quando la «strada» nella seconda metà degli anni Trenta, era il centro del jazz negli Stati Uniti. Celebri direttori orchestra dell’epoca, Charlie Barnet, Artie Shaw e Cab Calloway le offrirono il posto di cantante e con loro incise molti dischi, finché nel 1942 le venne offerta una piccola parte nel film Panama Hattie. I produttori di Hollywood notarono immediatamente quella splendida ragazza dalla voce così personale e l’anno successivo girò uno dopo l’altro
ben cinque film, Cabin in the Sky, Stormy Weather, I Dood It, Thousands Cheers e Swing Fever. Se gli ultimi tre non hanno superato la barriera del tempo, i primi due sono capolavori di quel genere passato alla storia del cinema per la presenza di musicisti e attori di colore. Fu infatti la prima cantante nera a firmare un contratto con una delle major di Hollywood, la Metro Goldwyn Mayer, anche se «l’unica volta in cui dissi una frase a un attore bianco fu in Show Boat del 1946», ha ricordato in una intervista di qualche anno fa. Ai quei primi film, ne seguirono molti altri , fra cui il bellissimo Due cuori nel cielo di Vincent Minelli con Louis Armstrong. Contemporaneamente iniziò a incidere copiosamente a suo nome con musicisti di grande importanza come Teddy Wilson, la tromba Gerald Wilson, che in seguito divenne l’insegnante di Eric
Dolphy, Illinois Jacquet e molti altri. Nel 1947 si sposò con Lennie Hayton, pianista, arrangiatore, compositore, direttore d’orchestra che aveva iniziato la sua carriera negli anni Venti con Joe Venuti, Bix Beiderbecke, Eddie Lang e gli altri celebri solisti di New York. Negli anni successivi, però le sue critiche all’esercito Usa per come venivano trattati i militari di colore le costarono una lunga e forzata assenza dai set hollywoodiani. Tornò al successo nel 1957, con l’album Lena Horne at the Waldorf-Astoria, che ottenne il record dell’album di un’artista donna più venduto nella storia della Rca. A cui seguì lo splendido Porgy and Bess in coppia con Harry Belafonte. Nel corso degli anni Sessanta maturò l’impegno per i diritti civili, partecipando a numerose proteste e manifestazioni, compresa la marcia su Washington dell’agosto 1963 guidata da Martin Luther King.
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arti Mostre
arrà una provocazione, ma non è: tanto per farci capire, noi saremmo pronti a regalar via, senza sacrificio, tutta l’integrale opera omnia della Transvanguardia (che poi non sarebbe sacrificio, anzi) compresa pure tutta quella sezione nostrana pesante e mancata di pittura realistico-picassiana, tra Pizzinato e Treccani, per intenderci, e poi tutt’ancora quella pitturaglia ignobile dei recenti riprendi-inmano il pennello, tipo Schnabel & C., e pure l’accozzaglia miliardaria che va di moda oggi dalla Cina e fa sfracelli in asta, proprio tutta, e in più, buon prezzo, persino quella coeva pitturetta galante e infiocchettata della Francia Settecento (ovviamente tenendoci i Watteau e gli Chardin) per preferire, ma le mille volte, queste meraviglie assolute, di colori, immaginazione, fascino, che sono le miniature, tra Sei, Sette e Ottocento, dell’India Nord-occidentale, in quelle contrade cosiddette pre-himalayane. Ricordavamo, dell’arte Rajput, una sontuosa mostra al Museo Ritberg di Zurigo, là dove Wagner tramava le sue tresche adulterine con Madama Wesendock. Ma questa non è da meno, e che invidia per i coniugi Ducrot, non tanto perché queste meraviglie le posseggono e le possono condividere in mostra, ma perché se le son pescate una a una nei loro viaggi «professionali» e qui e là, nei luoghi privilegiati, quando Indira Gandhi castigò gli aristocratici bolsi, che si videro costretti a svendere i gioielli di casa, rinvigorendo questo collezionismo così raro e raffinato. Una famiglia d’artisti, i Ducrot: con Donna Isabella e i suoi arazzi moderni, il figlio Giuseppe, scultore neo-berniniano e il padre Vicky, «cacciatore di luoghi», anche se con civetteria diminuente si definisce tour operator. Chi conosce i Viaggi dell’Elefante sa di che eleganza di itinerari e di avventure sofisticate si tratti. Ducrot racconta di un
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Archeologia
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Quando il genio risiede nel dettaglio di Marco Vallora primo viaggio ingordo, negli anni Sessanta, cercando di capire tutto, in poche ore di India, e poi la scelta di centellinare, vacanza dopo vacanza, piccole sezioni di indianità, regione per regione, per capire di più e apprezzare anche quelle minime declinazioni di corti e costumi, che si riflettono poi in queste miniature. Apparentemente così simili, ma ognuna dotata d’una propria interna vitalità separata, che bisogna saper apprezzare. Dapprima comprando pittu-
re-souvenir per il rientro, e poi diventando via via degli esperti, e selezionatori, un po’ come il sensibile pittore inglese Hodgkind. Rajput (raja=Re, putra=figlio) vuol dire Rajansthan, la grande Terra dei Re del Nord, di questi fieri principi, Unni Bianchi d’origine, che contrastano l’invasione degli islamici turco-afgani, in queste regioni volentieri occupate da predoni. Anche se i vincitori mussulmani, in India, non cercano di islamizzare eccessi-
vamente i luoghi espugnati, lasciando libere queste raffinate corti periferiche di rimaner legate ai propri costumi atavici e alle tradizioni religiose e artistiche hindi. Un’arte, dunque, che risente molto meno dell’influenza persiana, rispetto a quella Mugal, più fiorita e ornamentale, con maggior verisimiglianza naturalistica e quasi prospettica, segnata dall’interdetto iconoclasta di non poter rappresentare gli Dei. Che sono invece la sostanza di questa miniatura Rajput, ove gli Dei (in particolare Visnu, o Siva dalle molte teste) scendono travestiti (o meglio incarnati, secondo la teoria dell’avatar) sulla terra, fertile e coltivata, di questi paesaggi curatissimi, con la loro carnagione bluastra e la loro capacità di fulminare con gli occhi, di far scatenare elaboratissime nuvole monsoniche, di amoreggiare con le ninfe, diventate qui delle mandriane, tra incantamenti di serpenti e di palmizi. Non si dica quante cose si possono imparare nel fruibile catalogo Skira e che sarebbe divertente raccontare anche qui, su questi fieri principi, che difendono sino al suicidio il loro orgoglio di stirpe, volutamente leggendarizzato, di uomini di guerra, che preferiscono soccombere piuttosto che confederarsi, contro il comune pericolo Mogul. E quest’indipendenza e fierezza si risente pure in quest’arte elaboratissima della miniatura, che difende il proprio stile, a colpi d’invenzione e di soluzioni figurative: con queste figure volutamente bidimensionali e bloccate in gesti processionali, talvolta stereotipate nelle fisionomie (tranne che i possenti ritratti di signori, spesso con falcone o pronti a gettarsi in mischie musicalissime, con cinghiali e animali feroci), gli occhi bistrati e spesso sporgenti dalle sagome ritagliate, inseriti in complicatissime architetture galanti o demoniche, almanaccate in gran disprezzo della Dea Prospettiva, che spirava da Ovest. E staremmo ore qui a decantare questi geniali dettagli, più dettagli dei dettagli della stessa pittura fiamminga!
L’India dei Rajput, Torino, Museo d’Arte Orientale Mao, sino al 6 giugno
Sono indoeuropee le mummie intruse dello Xinjiang n cimitero di mummie, dove al posto delle lapidi svettano alti pali a forma di falli e di remi. Small River è il nome di questo luogo di sepoltura che si trova nella depressione desertica del Tarim, nella regione dello Xinjiang, sulla via della seta. I corpi si sono conservati grazie al clima secco e ai sali contenuti nella sabbia. Di questa antica necropoli, scoperta nel 1934 da un archeologo svedese, Folke Bergman, si erano perse le tracce. È stata rintracciata soltanto pochi anni fa da una spedizione cinese, usando il Gps. Ma la sua singolarità è un’altra: le mummie rinvenute non hanno le caratteristiche fisiche dei mongoli e dei cinesi. I corpi dei defunti sono longilinei, alti, con capelli lisci, biondi e castani, barba e nasi lunghi. Che cosa ci facevano in Asia questi europei 4 mila anni fa? Le misure e le caratteristiche delle mummie ritrovate, circa 200, sono riferibili agli Xiaohe (o proto-Tocari), un popolo occidentalecaucasico, probabilmente fra i primi indoeuropei. Gli studiosi ormai hanno pochi dubbi che gli indoeuropei abbiano vissuto in area cinese a partire da 4 mila anni fa.
U
di Rossella Fabiani Gia a metà del 1800 nel terzo libro del suo famoso Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Arthur de Gobineau, descrivendo i flussi migratori dei popoli indoeuropei in Oriente, scriveva che «verso l’anno 177 a.C. noi intravediamo numerose nazioni bianche dai capelli biondi o rossi e gli occhi azzurri, acquartierate sulle frontiere occidentali della Cina. Gli scrittori del Celeste Impero ai quali dobbiamo la conoscenza di questo fatto nominano cinque di queste nazioni... Le due più celebri sono gli Yüehchi e i Wu-suen. Questi due popoli abitavano a nord dello Hwangho, al confine col deserto del Gobi... cosicché il Celeste Impero possedeva, all’interno delle province del sud, nazioni arianeindù immigrate all’inizio della sua storia». Il de Gobineau traeva le sue informazioni dagli studi di Ritter (Erdkunde, Asien) e von Humbolt (Asie centrale), che si basavano sugli annali cinesi della dinastia Han, iniziata nel 206 a.C. Di fatto oggi sappiamo che già nel IV secolo a.C. le documentazioni storiche del Celeste Impero parlavano di
popoli biondi, dallo spirito guerriero, presenti nelle zone di confine, in quello che oggi si chiama Turkestan cinese o Xinjiang (Cina occidentale). Ma quell’area geografica, una volta attraversata dalla leggendaria via della seta, e ormai da tempo diventata in gran parte deserto, risultava quasi inaccessibile agli europei per cui erano improponibili eventuali studi archeologici seri e approfonditi. È soltanto agli inizi del secolo scorso che vi si avventurarono i primi studiosi, in particolare nella depressione di Tarim e in varie aree circostanti. Lì trovarono molti materiali, ben conservati data l’estrema aridità del clima desertico. Si trattava di testi spesso bilingui, scritti in una lingua allora sconosciuta, che però aveva adottato un alfabeto del Nord dell’India, con accanto la versione sanscrita. Il che permise agevolmente di capirla e studiarla.Tale idioma, poi chiamato, forse impropriamente, Tocario, era presente in due forme leggermente differenti, che rivelano diverse caratteristiche grammaticali che le collegano al gruppo indoeuropeo. I primi test sulle mummie di Tarim effettuati anni fa dal genetista Paolo Francalacci dell’Università di Sassari, confermano l’ipotesi della diffusione degli indoeuropei fino in Cina. Avere antenati bianchi piace agli Uiguri che spesso hanno caratteri occidentali, misti a quell asiatici; ma le autorità cinesi, che puntano sull’orgoglio nazionale, non ne gioiscono.
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MobyDICK
il paginone
UN “EBREO ERRANTE”, PARTITO DAI CONFINI ESTREMI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO, E UNA MISSIONE: CONCEPIRE I FENOMENI DEL XX SECOLO E INTERPRETARLI COME “SE NON ESISTESSE ANCORA NESSUN CONCETTO CAPACE DI SPIEGARLI”. CON QUESTA IDEA ELIAS CANETTI INTRAPRESE IL VIAGGIO DI “MASSA E POTERE”, UN’ENCICLOPEDIA GLOBALE DELLA VITA USCITA CINQUANT’ANNI FA… di Maurizio Ciampa
Il Novecento sce nel 1960 Massa e potere. Cinquant’anni fa. Un’altra epoca. Inevitabile chiedersi se il grande fascino di questo libro ha resistito al tempo e se il suo mitico autore, Elias Canetti, è tuttora «l’implacabile diagnostico del suo e del nostro tempo», come ebbe a tratteggiarlo Claudio Magris attorno alla metà degli anni Settanta. L’enciclopedia globale della vita, cui l’opera di Canetti mette capo, è andata evaporando nelle effervescenze del tempo o continua a conservare un valore conoscitivo forte? Massa e potere segue le lunghe linee dell’umano perlustrando il suo fondo e gli elementi che innervandolo lo costituiscono. Lo fa con passo fermo, tenacia, ostinazione quasi ossessiva. Ripercorre quelle linee ricomponendole, e talvolta ci si smarrisce dentro per ritrovare subito dopo il senso del proprio itinerario come può succedere a chi procede lungo il tracciato precario di un labirinto. Canetti cerca la sua strada, saggia il terreno smosso
E
pensare a «una sonda che cambia continuamente l’oggetto e la prospettiva, ma rimane sempre eguale per quanto riguarda l’intensità e il grado del proprio essere partecipe» (Peter Laemmle). La sua lingua è sì compatta, costruita secondo un ordine che potrebbe apparire geometrico, ma può scattare all’improvviso, e, seguendo i movimenti della vita, impennarsi. Anche perché Canetti crea dal nulla la propria sintassi concettuale, costruisce da solo le sue armi. È consapevole di essersi inoltrato in una regione in cui le parole conosciute non sono sufficienti, stentano a rappresentare e a identificare i fenomeni.
C o m e u s a l e m a p p e in suo possesso l’esploratore che si dispone a viaggiare in terre ancora sconosciute? Canetti è questo esploratore, ha lo stesso stupore controllato, guarda con attenzione al territorio nel quale si sposta avvertendo il peso schiacciante di una responsabilità non comune: quella di dar nome a ciò che vede per la prima volta. «Quando mi accinsi a stendere Masse e potere - dichiara pochi anni dopo la pubblicazione del libro -, ero mosso dalla precisa intenzione di escludere tutto ciò che è risultato scontato, ciò che è già stato usato concettualmente. Il mio compito era perciò quello
Una stesura lunga quasi quarant’anni che prende le mosse dall’assassinio di Walter Rathenau, nella Germania di Weimar. Tensioni, piazze in protesta e, poco dopo, l’impeto distruttivo. Un’opera in cui si sentono le grida del “secolo breve” dell’esperienza umana, e in essa cerca di aprire un varco. Massa e potere è appunto un labirinto in cui confluiscono, come le correnti di un vasto fiume, miti, osservazioni antropologiche, annotazioni psicologiche, reperti storici e altro ancora, una congerie di elementi che risultano di difficile classificazione. Ma è il libro nel suo insieme a risultare di difficile classificazione. E forse lo è ogni opera dell’intelligenza destinata a rompere inerzie mentali e consuetudini del pensiero oltre che le ossificazioni ideologiche in cui talvolta il pensiero degenera. C’è un certo tasso d’imprevedibile eccentricità in ogni libera intelligenza. Quella di Canetti si esprime in modo del tutto singolare, intrecciando disciplina e libertà. Il suo interno dinamismo fa anno III - numero 19 - pagina VIII
di concepire in modo concreto e nuovo i particolari fenomeni d cui il nostro secolo è pieno e di intenderli come se non esistesse ancora alcun concetto capace di spiegarli». Un compito dunque, quasi una missione. Anni dopo egli parlerà di coscienza delle parole. In un discorso tenuto a Monaco nel 1976, lo scrittore ormai settantenne, assegnerà alla letteratura un mandato straordinario: indagare sul nulla in cui le «umane creature» sono precipitate, vivere nella disperazione per farne uscire gli altri. Per tener fede a questo mandato, Canetti si muove ai margini del conosciuto, e, in più di un punto, ne attraversa la linea. Ma la sua prosa resta limpida, costantemente avvolta in un’atmosfera tersa. Mai
indulge ai fervori dell’impressionismo, né al suo «tormentato disordine». Il suo argomentare ha un taglio che potrà apparire perentorio, univoco. Si può dire di Canetti quello che lo stesso Canetti osservava nel suo maestro, lo scrittore viennese Karl Kraus, e cioè che la sua lingua pare risuonare allo stesso modo di una sentenza. Come Kraus, Canetti «sembra venire da quel tempo in cui le parole potevano uccidere, ma anche svegliare i morti». Sono spinte dall’urgenza le sue parole, ma non lo danno a vedere, e non rinunciano ai tratti di una composta eleganza. Correndo mirano al loro scopo, senza però dare l’impressione di farlo. Al contrario, esibiscono un certo distacco. La forma del libro è il trattato, ma solo in apparenza. In Massa e potere non c’è nulla di scientifico o comunque di oggettivo. «Voglio sentire tutto dentro di me prima di pensarlo», scrive Canetti mentre va costruendo la grandiosa architettura del suo libro, un tappeto di narrazioni dalla trama sottile e dai molteplici colori. Sentire prima di pensare, come se il pensiero si dovesse incaricare di sciogliere o stemperare i densi grumi via via accumulati dall’esperienza, i suoi nodi, le sue ferite. Come se l’ardore del sentire fosse la prima autentica apertura al mondo e il pensiero una sua appendice. Canetti «propone il modello di una mente che reagisce sempre, che registra gli choc e cerca di metterli nel sacco», osserva la scrittrice americana Susan Sontag. E lo choc compare fin dall’esordio del libro, un indimenticabile esordio, quasi uno squarcio, una rapidissima irruzione in un paesaggio di emozioni che tornerà più volte nell’opera dello scrittore: «Nulla l’uomo teme più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo». E già sul finire di quel primo paragrafo che apre il libro, compare uno dei due protagonisti della narrazione di Canetti, entra
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in scena la massa. «Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa». Può risultare assai problematico dipanare il complesso d’immagini che si annodano nel concetto di massa. Poliedrica la sua ramificazione, di cui comunque si conosce la genesi lontana, quarant’anni prima che il libro di Elias Canetti venisse alla luce. Anche qui uno choc, un’emozione forte, anzi due emozioni che si sovrappongono pur essendo relativamente distanti nel tempo: Francoforte 1922, la Germania di Weimar scossa dall’assassinio di Walter Rathenau, e Vienna cinque anni dopo. Masse in convulso movimento, piazze in protesta che accumulano tensione che, di lì a poco, diventa impeto distruttivo. Il
sta espressione, e mi chiedo se il suo autore ne fosse consapevole. Essa appartiene a quella psicologia dell’afferrare così finemente indagata là dove Canetti comincia a sviluppare la sua analisi del potere. L’afferrare, il prendere alla gola è un’originaria manifestazione del potere, un suo «organo» - dice Canetti. Evidentemente esso estende il suo dominio anche all’operare intellettuale, e arriva fin qui, intacca la lingua cristallina di un suo eminente critico. Perché ne dovrebbe essere immune? Ma è poi vero che Canetti sia «riuscito a prendere alla gola questo secolo»? Credo si possa dire che ne ha sentito il respiro, e l’affanno, talvolta le grida. Ha letto e interpretato, come pochi hanno saputo fare, le sue «pulsioni immediate». A questo proposito è bella l’annotazione che fa Claudio Magris: «Egli afferra d’improvviso la veste della sto-
o preso alla gola
Da sinistra in senso orario: un’immagine della propaganda nazista fatta circolare all’estero; la copertina dell’edizione italiana di “Massa e potere”; Elias Canetti; Vienna in fiamme nel 1927; Walter Rathenau
Don DeLillo, probabilmente il più efficace narratore della post-modernità. E la massa è quella dell’11 settembre a New York, la fuga dai grattacieli in procinto di crollare. Ancora: «L’elemento più evidente della fuga di massa è la forza della sua direzione. La massa è divenuta per così dire tutta direzione, via dal pericolo. Poiché conta sola la meta presso la quale ci si salva, il percorso che vi porta e null’altro, le distanze che prima separavano gli uomini sono or-
Accostando alcune pagine di “Massa e potere” a quelle in cui Don DeLillo descrive la fuga di massa dalle Torri gemelle in procinto di crollare, si può capire perché il libro di Canetti resta uno specchio fedele del nostro tempo giovane Canetti ci si muove dentro fino a trasformarsi in una loro parte, tanto forte è l’attrazione. Qui comincia la strada di Massa e potere. Una lunga strada: per percorrerla ci vorranno poco meno di quarant’anni. Negli ultimi due decenni, il libro occuperà il suo autore tanto da sequestrarlo, lo allontanerà dal mondo, ma non dal nucleo pulsante del suo tempo, trasformando per sempre il profilo del suo pensiero.
C a n e t t i i n v e c c h i e r à c o n q u e l l i b r o , se lo porterà appresso, come un indistruttibile cristallo mentale, fra Vienna, Berlino, Parigi, Zurigo, infine Londra, l’Europa intera attraversata da transfuga, ebreo errante partito dai confini estremi dell’Impero austro-ungarico, Rustschuk, nella parte bulgara del basso Danubio, dove «in un solo giorno si
potevano sentire sette o otto lingue». Lì Canetti è nato nei primi anni del secolo - il 1905 - da una famiglia di ebrei sefarditi. È nota l’espressione con cui definisce il grande sforzo compiuto nel libro: «Sono riuscito a prendere alla gola questo secolo». «Prendere alla gola»: c’è una qualche residua traccia di violenza in que-
ria e la rovescia, mostrandone le cuciture nascoste e i tessuti strappati, gli squarci rattoppati malamente e le lacerazioni insanabili, le pieghe dolci e tranquille. La storia e il volto dell’umanità moderna gli si rivelano nella fuggitiva scansione del gesto, nel dettaglio della realtà fisica». Qui torno a incrociare la domanda formulata all’inizio, e cioè se Massa e potere, uscito cinquant’anni fa, ma elaborato in un ben più lungo arco di anni, resta ancora uno specchio fedele del nostro tempo. D’altra parte, guardiamo al lungo tortuoso filo che si snoda fra il 1960 e questo 2010: il Mondo sembra si sia rovesciato su se stesso cambiando forma più volte, inafferrabile come un’anguilla. Le idee che lo hanno più efficacemente rappresentato o gli ideali che lo hanno animato sembrano crollati come i muri che a lungo lo hanno diviso. Dunque si sono spenti i rumori che hanno accompagnato il movimento e l’azione della massa lungo tutto il corso del Novecento? Si sono modificate fino a risultare irriconoscibili le figure del potere? Si è dissolta come neve al sole la geometria mentale dell’analisi di Canetti? Non saprei dire, per capirlo posso accostare reperti e storie assai diversi fra loro. Qualche volta per capire bisogna azzardare, ma, per azzardare, qualche volta, basta accostare elementi diversi. Proviamo: «Cominciarono a scendere, a migliaia, e lui era in mezzo a loro. Camminò come immerso in un lungo sonno, prima un passo e poi quello successivo… A tratti dovevano aspettare, lunghi momenti di stallo, e lui continuava a guardare dritto davanti a sé. Quando la fila riprendeva a muoversi faceva prima un passo e poi l’altro… Uscirono in strada, si voltarono indietro, videro entrambi le torri in fiamme… e ripresero a correre». Questo non è Massa e potere di Elias Canetti, ma L’uomo che cade di
mai irrilevanti. Le più strane e contrastanti creature che non si erano mai avvicinate le une alle altre, ora d’improvviso possono ritrovarsi insieme».
Q u e s t o n o n è L’uomo che cade di Don DeLillo, ma Massa e potere di Elias Canetti. I due testi non sarebbero di per sé accostabili, qualche anno-luce li divide. Eppure c’è, e la si sente inconfondibilmente, una sotterranea, ma reale rispondenza fra le due masse in fuga, come se le creature braccate dal pericolo ripercorressero, in una sorta di girone infernale, gli stessi gesti, come se loro residua umanità, messa alla prova dalla minaccia che incombe, si condensasse tutta in qualche essenziale punto di convergenza. Lì, in quegli snodi dove l’umanità si applica alla propria sopravvivenza o al proprio senso, lì possiamo ritrovare la voce e le molti voci che confluiscono nel libro di Elias Canetti. Cinquanta anni non sono bastati per smorzare il loro forte timbro. Certo non tutto ci potrà servire per capire l’oggi come d’altra parte accade per qualsiasi altro libro. Sopravvive, resiste alla rovina del tempo, solo il libro capace di contenere la maggiore quantità di vita, come Canetti dice di Stendhal. Posso aggiungere che la nostra gratitudine verso questi libri «è gratitudine per la vita stessa».
Narrativa
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he cosa colpisce di più del nuovo romanzo di Marta Morazzoni, uscito per Longanesi, La nota segreta? Un romanzo a base storica con un lavoro sostanzioso di invenzione narrativa che, scritto in terza persona, sfoggia un io-narrante che travalica persino le più conosciute funzioni di onniscienza. Il narratore, l’io-narrante, come gli ampi studi di narratologia hanno cercato di dimostrare, è un punto centrale della finzione narrativa, determina timbro, voce e stile di una storia, ma soprattutto svela il rapporto tra voce narrante e protagonisti. Un rapporto indagato come prioritario anche in un recente saggio di divulgazione letteraria dell’americano James Wood dal titolo Come funzionano i romanzi (Mondadori). Come funziona dunque questa voce narrante della Morazzoni? Tutto il romanzo è come puntellato dal narratore che interviene opportunamente per raccontare, raccordare la storia ma anche per sottolineare gli stati d’animo e infine per dare un giudizio sui comportamenti dei personaggi. Ora niente di male nel ripristinare un codice classico e codificato dalla tradizione letteraria, certo che a volte la voce si fa insinuate e sbatte contro di quelli che in parte sono i fatti storici narrati. La nota segreta è la vicenda, ripetiamo di base storica, di una giovinetta della nobiltà milanese che nel 1736 viene rinchiusa nel convento benedettino di Santa Radegonda a Milano (per la cronaca un monastero che oggi non esiste più, rimpiazzato dai grandi magazzini della Rinascente). Pietra Paola viene accolta dalle suore, e dagli spazi conventuali, come di rito, con freddezza e quel tanto di pietà che si deve alle vittime. Ma viene invece immediatamente cooptata nel coro dalla responsabile del canto, Suor Rosalba Guenzani, che riconosce immediatamente nella giovane una fine voce di contralto, che sgorga mirabile sulle note dello Stabat Mater di Pergolesi. Sarà la stessa suor Rosalba a determinare le sorti della novizia, affrontando e cancellando d’un colpo le regole conventuali. Ora questo romanzo, che per stessa ammissione dell’autrice deve la fonte storica a un altro testo narrativo e cioè a Cent’anni di Giuseppe Rovani, è un romanzo d’avventura che sfrutta la storia d’amore. Si tratta in-
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libri
Marta Morazzoni LA NOTA SEGRETA Longanesi, 278 pagine, 16,60 euro
Galeotto fu
fatti di articolare quella che è la vera sorpresa in un’epoca storica come quella di metà Settecento dove una monaca, rinchiusa a dovere in clausura (che significa di fatto l’abbandono da parte della famiglia), trovi il coraggio di fuggire con un uomo straniero (e sposato) e di accettare la maternità fuori dal matrimonio. Amore sì ma prima di tutto spirito d’avventura, spinta forte e imponderabile verso la conoscenza del mondo, visto da una ragazza che di mondo ne ha visto così poco da far fatica a distinguere gli abiti, i costumi e il modo di viaggiare delle persone normali (le pagine più belle sono quelle del viaggio per mare di Paola). E così accade, e a questo punto non sarà stato un caso che la voce narrante si sia affievolita, che le peripezie dei due innamorati (ma in particolare di suor Paola) si accavallino fino al parossismo fino a prevedere un periglioso viaggio in mare con assalto di pirati, un oscuro e tentacolare approdo a Marsiglia, l’inseguimento da parte delle spie del Doge in combutta con gli sgherri papali, l’arrivo in Inghilterra e la richiesta di divorzio da parte del diplomatico inglese Durant Breval, l’uomo che, colpito dalla voce di Paola Pietra, sfida il carcere e i buoni costumi sociali per sposarla. La storia, com’è giusto che sia a onore di un tortuoso plot e della tradizione narrativa, prevede un lieto fine, ma è ricca di colpi di scena e mutazioni in corso. Sul fondo, a scenario, campeggia la storia italiana dibattuta tra poteri frammentati, una piccola storia in rapporto a quella ben più grande d’ardimento dei personaggi, in questo caso uomini e donne, che combattono per una vita indipendente, verrebbe da dire, persino in barba al loro stesso narratore.
lo Stabat Mater
Riletture
Milano 1736, monastero di clausura di Santa Radegonda, le note di Pergolesi... È lì che prende le mosse il nuovo romanzo della Morazzoni di Maria Pia Ammirati
Felicità: se Epicuro è più umano di Spinoza
aruch Spinoza non è più da tanto tempo trattato come un «cane morto» secondo la battuta di Schelling. La sua filosofia - lo spinozismo - conosce nei nostri tempi una divulgazione e un apprezzamento che lasciano pensare a una conoscenza del pensiero dell’autore dell’Etica. Sarà così? È lecito avere qualche dubbio. I filosofi spesso, soprattutto quando sono grandi filosofi, sono più citati che conosciuti. È probabile che sia così anche con il fenomeno odierno di Spinoza. Del quale, però, oggi abbiamo la possibilità di avere in un solo volume - e che volume: circa 3000 pagine di testo tutta la sua opera: dall’Etica e il celebre Trattato teologico-politico fino ai Pensieri metafisici e all’Epistolario passando per il Trattato sull’emendazione dell’intelletto e i Principi della filosofia di Cartesio e finanche il Compendio di grammatica ebraica offerto per la prima volta in traduzione italiana in questo completissimo libro della Bompiani: Tutte le opere di Spinoza nella collana «Il Pensiero Occidentale» che offre anche i testi originali delle opere. Dunque, qui si può effettivamente rileggere Spinoza. Ma perché? Dovendo indicare il
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di Giancristiano Desiderio cuore della sua filosofia dove lo si sentirebbe battere? Lo si può dire con una sola parola: letizia. La parola più semplice sarebbe quella classica: felicità. Ma con «letizia» non siamo lontani dalla verità e lo stesso filosofo usa questa parola per esprimere il senso verso cui può tendere l’esistenza umana: il potenziamento della gioia di vivere che non reprime ma esprime i desideri. La massima espressione della vita umana per Spinoza è l’amor Dei intellectualis in cui la conoscenza della razionalità del Tutto ci offre una via di salvezza dai pregiudizi, dalle illusioni, dall’errore e dal potere degli altri, e dalla paura e dalla speranza. Sarà mai possibile realizzare qualcosa di simile? Ciò che conta, direbbe Spinoza, è la tensione verso la verità. Una posizione «classica» che in lui trova però una maggiore realizzazione attraverso il razionalismo geometrico di ascendenza cartesiana. Sembra tutto molto astratto e severo, eppure il fine del pensiero di Spinoza è soprattutto la liberazione delle passioni umane. In cima ai suoi pensieri ci sono la letizia (Etica) e la libertà
In tremila pagine l’opera omnia del filosofo olandese (e altri testi correlati)
(Trattato teologicopolitico). Se il gran libro di Spinoza conta tremila pagine, la classica Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità di Epicuro ne conta appena trenta e la rilettura in questo caso è agevolata.Vi suggerisco l’edizione della casa editrice La vita felice con una bella introduzione di Maurizio Schoepflin. Anche in Epicuro la felicità è in cima ai pensieri del filosofo e seguendo i suoi consigli sembra che la «cosa» sia più a portata di mano. Il filosofo del Giardino distingue i piaceri felici in tre categorie: i naturali e necessari; i naturali ma non del tutto necessari; i non naturali e non necessari. Seguendo la sua lettera si raggiungerà la felicità? Seneca nella Vita felice - edito ancora da La vita felice - dice: «non sum sapiens nec ero», non sono un saggio, né lo sarò. Ma perché non provare almeno a essere felici?
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poesia
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Montale, la nostra utopia di Filippo La Porta
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uando sui banchi del liceo studiavo la lirica novecentesca diffidavo un po’ della eloquenza declamatoria di Ungaretti, ero indifferente alla mitologia algida di Quasimodo (allora elemento stabile della Triade Poetica), non capivo interamente la scandalosa (apparente) semplicità di Saba. Sentivo invece che Montale, benché spesso per me impervio, era straordinariamente vicino alla mia (nostra?) sensibilità. Per quale ragione? Direi soprattutto per la sua antiretorica, per quella continua eliminazione del falso e del superfluo nei suoi versi, per la sua ontologia negativa («Codesto solo oggi possiamo dirti:/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», da Non chiederci la parola in Ossi di seppia, 1925), per il suo laicissimo, disincantato rifiuto di consolazioni, e infine per un suo umanesimo tragico e paradossale, ben consapevole della non-unità dell’individuo ma non del tutto disperante (su questo tornerò dopo). Come una volta ha scritto Geno Pampaloni lì si può trovare un punto di vista laico che non coincide con l’angustia dello storicismo crociano e che anzi custodisce il senso del mistero e si apre alla «nozione di un valore che supera il tempo». Montale, a dispetto della sua asprezza, dei suoi versi così scabri e «petrosi», mi parlava nell’intimità, ed era involontariamente un tramite di quella koinè filosofica esistenzialista che dovette diventare il nostro primo dizionario interiore, pur accanto ai doveri incombenti dell’impegno politico-civile. Inoltre proprio negli Ossi di seppia contrapponeva al sublime dei «poeti laureati» una realtà più modesta, più tangibile, dove si sente l’odore dei limoni e dove in un silenzio sospeso possiamo penetrare nella verità di una natura indifferente (I limoni).
Le ascendenze poetiche sono molteplici e costituiscono, già da sole, un settore cospicuo della bibliografia critica montaliana. In genere si parte dal simbolismo e dalla tradizione ligure, poi da D’Annunzio e Pascoli, mediato da Gozzano e crepuscolari (più in là ancora da Leopardi, e infine da Petrarca e Dante), e costeggiando il filone ermetico, ma probabilmente la prossimità maggiore è con la poesia di area anglosassone, e in specie con Browning, con Eliot e la sua teoria del correlativo oggettivo (oggetti assunti come equivalenti ed emblemi di una disposizione soggettiva). E qui già si incrina il mito di un Montale tutto ermetico. Perché se la sua impenetrabilità è diventata proverbiale (si pensi soprattutto alle Occasioni, del 1939), lui stesso osservò una volta che proprio con i poeti inglesi come Eliot e Auden, capaci di dare spazio alla cronaca e all’humour, tramonta il sogno della poesia pura coltivato dai Mallarmé e Valery e da noi
il club di calliope
innestato sul tronco petrarchesco. Nella sua opera poetica mi ha sempre colpito infatti il mix di solipsismo e vocazione colloquiale, di linguaggio cifrato e attitudine discorsiva, di autoisolamento e attenzione al mondo esterno, di codice privatissimo e dialogo con il proprio tempo (benché a una storia salvifica non credeva, ancora prima del suo esplicito procedere verso la prosa con il sorprendente Satura, nel quale semplifica se stesso fino a divenire autotrasparente - 1971). E, anche sul piano metrico, oscillerà sempre tra estrema libertà sperimentale (verso libero, spesso prosastico-narrativo, lingua analogica, ritmi franti) e classicismo, fedeltà alla tradizione (uso massiccio della rima, endecasillabi, più o meno regolari, e settenari, e poi martelliano o doppio settenario).
Di tutte le sue opere credo che la Bufera (1956, ma raccoglie anche le poesie di Finisterre, scritte tra il ‘40 e il ‘42), segni il momento espressivo più alto. Sullo sfondo dell’orrore irredimibile della guerra, di una follia e bufera fragorosa, grandinante, che tutto travolge, i lampi illuminano le cose «in quella eternità d’istante» che pure contiene una religiosità immanente (così come prima le «occasioni» rappresentavano stati di grazia, epifanie di una possibile, non garantita salvezza). Quando lessi questi versi si viveva in tempi perlopiù pacifici, appena minacciati da lontani bagliori nucleari, eppure condividevo quel senso di apprensione e insieme quell’apertura a un senso ulteriore. E poi mi piaceva il rigore morale di Montale (ricordo che le sue affilate prose critico-saggistiche Auto da fè, del 1966, sono il nostro Minima moralia!), il suo rifiutare la ingannevole felicità del quotidiano: «Per un formicolio d’albe, per pochi/ fili su cui s’impigli/ il fiocco della vita…» (Per una lettera non scritta). Ma in particolare ho sempre amato molto la poesia scelta per questa pagina, Serenata indiana. In questi purissimi endecasillabi, nella malia di una serenata dalla musica esotica e modernissima («Ma non è/non è così»), irrompe senza troppi convenevoli l’Altro, qualcosa cioè di informe che minaccia dall’interno l’identità sigillata del borghesissimo Montale. Attraverso il suo alter ego femminile (ma in tutto il canzoniere montaliano una donnaangelo, variamente declinata - spesso chiamata Clizia -, ha un misterioso potere di rivelazione) ci fa sapere che tutti noi siamo «lui», che tutti apparteniamo a quel «polipo» tentacolare e inafferrabile (una alterità da intendersi in senso metafisico - forse buddhista - ancora prima che sociale e psicologico). No, non possediamo neanche la nostra vita, anche se fingiamo il contrario. Qui torno all’umanesimo cui accennavo all’inizio. L’intermittenza degli oggetti rinvia sempre a una intermit-
SERENATA INDIANA È pur nostro il disfarsi delle sere. E per noi è la stria che dal mare sale al parco e ferisce gli aloè. Puoi condurmi per mano, se tu fingi di crederti con me, se ho la follia di seguirti lontano e ciò che stringi, ciò che dici, m’appare in tuo potere. Fosse tua vita quella che mi tiene sulle soglie – e potrei prestarti un volto, vaneggiarti figura. Ma non è, non è così. Il polipo che insinua tentacoli d’inchiostro tra gli scogli può servirsi di te. Tu gli appartieni e non lo sai. Sei lui, ti credi te Eugenio Montale (Dalla Bufera)
tenza dell’io individuale, a una storia che balena per occasioni, di qui il «paradosso umanistico» del poeta, che si ostina a scommettere su una storia individuale continuamente frammentaria ma dotata di continuità (vedi Pier Vincenzo Mengaldo, nella Tradizione del Novecento). Nella Bufera incontriamo una prosa, Visita a Fadin, in cui Montale va a trovare l’amico morente, «sempre vissuto in modo umano, cioè semplice e silenzioso», e ne sottolinea la «decenza quotidiana», la più difficile delle virtù. Ricordo che negli anni Settanta anche chi ammirava la sapienza metrica di Montale, il suo canto così limpido (aveva studiato da baritono), la sua «eccezionale sensibilità fonica e visiva» (Fortini), aggiungeva che però gli mancava una vera consapevolezza del conflitto politico-sociale, una visione storica più matura. Ovviamente Montale resta uno scrittore borghese, molto conservatore, spesso sulla difensiva, spaventato dalla bufera della storia (e dell’esperienza stessa), certamente lucido e onesto. Ma infine: ora che il secolo breve si è chiuso già da un po’, con il suo crepuscolo degli idoli e delle utopie politiche, potremmo anche chiederci se quella «decenza» o umana dignità, se quella vita semplice e silenziosa non costituiscano la nostra utopia più preziosa.
AL CROCEVIA DELLA MEMORIA COMUNE in libreria
GLI OCCHI, LE MANI Gli occhi, certo, di più di tutto quando offrono e prendono sguardo, quando del loro colore ti vestono. Di tutti i sensi il vedere ha più festa. Ma hanno le mani riconoscenza per quello che immensamente vorrebbero prendere e sempre perdono in ogni carezza. Gian Mario Villalta
di Loretto Rafanelli ella limitata produzione saggistico-poetica, il libro di Adriano Napoli (Le api dell’invisibile. Poeti italiani 1968-2008, Medusa, 200 pagine, 14,50 euro), rappresenta una piacevole notizia. Il giovane autore, con uno studio attento e circostanziato, esamina il percorso di 16 poeti italiani (si va da Bandini a Piersanti, da Mussapi a Cucchi, ecc.), tenendo in particolare considerazione quegli scrittori che si sono espressi con un registro lirico. L’impostazione teorica che è alla base del saggio è senz’altro da condividere, Napoli, infatti, aborrendo quelle scritture che si sono delineate attraverso artifizi linguistici (in particolare i Novissimi), sostiene che solo la poesia lirica può ricercare «il crocevia di una memoria comune che continua a illuminare valori per noi tutti riconoscibili e partecipabili…». La rosa dei poeti inseriti è in larga parte da sottoscrivere (non riproponiamo la solita polemica su chi c’è e chi è escluso), ma soprattutto del volume vogliamo segnalare l’approfondita analisi, la serietà della ricerca e il rispetto della storia letteraria di questi anni.
N
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di Pier Mario Fasanotti idea che sorregge il nuovo programma Fenomenal, su Italia 1 in prima serata, non è malvagia. Ma solo in teoria. E tenendo conto del basso voltaggio inventivo dei prodotti di questo decennio. Si basa sulla commistione tra la Settimana enigmistica - vedi alla voce «Strano ma vero» o «Lo sapevate che?» - e lo spettacolo simil-cabarettistico, con ospiti, battute, quiz un po’ alla buona, sfilata di ragazze procaci. Quelle ormai non devono mancare in una televisione che sbandiera come stemma il lato B, le scollature e gli accavallamenti di cosce. Chi lo conduce è tra i più volgarotti della compagnia di giro.Teo Mammuccari. Lo spilungone con la fronte bassa ha alcune caratteristiche. È sveglio, ma usa i suoi neutroni in una sola direzione: la presa in giro o di una donna grassa e vistosamente bruttina in mezzo al pubblico o di un uomo dall’aria candidamente smarrita, quindi fuori dal gioco del «ridi a tutti i costi» e del «oh quanto mi diverto» (ricordiamo Totò). Mammuccari si è già fatto conoscere per la sua grevità romanesca: è uno di quelli che fanno dire a un milanese o a un siciliano «ah, Roma è una città splendida, peccato che i romani…». «Arieccolo», dunque. Magnifica il suo programma con un azzardo narcististico: «Oggi vediamo la stessa tv, questa che faccio io è assolutamente nuova». Una bella faccia tosta. Il suo essere monocorde poggia sul reiterato ammiccamento in materia sessuale. Ed ecco gli ospiti-gareggianti, tra cui il mago Forrest (spiritoso), Adriano Panatta (imbarazzato all’inizio, poi in sobrio recupero), Lele Mora - «arieccolo» anche lui, a dimostrazione che gli ex indagati sono ormai il prezzemolo dell’etere - e due soubrette tipo brunacce piacione, Giuliana e Veronica (ex Grande Fratello: oramai curriculum d’eccellenza). Il delicato Teo nota subito, sbirciandola da dietro, che una delle due scosciate «stavolta porta le mutandine». Azzurre. Di Giuliana racconta i suoi gorgheggi quando fa l’amore. Non basta: l’oxfordiano show-man riferisce
L’
Teatro
Televisione
MobyDICK
spettacoli DVD
Fenomenal
Schieriamoci contro la volgarità
che le ragazze si sono cambiate nello stesso camerino. Una delle due ammette ridendo di non essersi manco girata. È il via libera a un bacio saffico in diretta. Il maturo tennista dissimula disagio. Lele Mora si sente a casa, ammesso che abbia mai frequentato altri spazi fisici e mentali. Fenomenal prevede una gara tra chi indovina quesiti bizzarri. Accanto a ognuno c’è il disegno di un cervello che muta dimensioni a seconda delle risposte.
Esempio: perché certe pecore americane hanno reazioni strane se si apre davanti a loro un ombrello? Qualcuno s’avvicina alla spiegazione zoologica. Finito? No. Teo si chiede quale reazione potrebbero avere gli animali se Veronica «spalancasse improvvisamente la sua ombrella». Ci sono poi intervalli «scientifici». Un «tecnico» mostra un cetriolo infilzato da due elettrodi. Scatta pulsante, il cetriolo s’illumina. Commento del conduttore con sinapsi in stretta relazione con ossessioni ormonali: «Questo cetriolo sembra il “cosino” del direttore di Italia 1». Poi domanda a un ospite: «Ma anche a te s’illumina di notte?». Sfiora il sublime quando, dopo un’altra battuta di marca genitale, ammonisce se stesso: «Andiamoci piano, siamo in una fascia protetta!». Pur consapevole che il pessimo gusto non può avere una museruola normativa, mi appello a molte parlamentari, quelle capaci di indignarsi. Facciano baccano. Non basta un’interrogazione. Ci vuole la protesta. Contro i «cetrioli», le «ombrelle» e chi li fa giocare nel suo Luna-Park.
NELLE TERRE SELVAGGE DEL LAVORO NERO ai minatori che strisciano nella miniera ucraina di Donbass, ai fantasmi indonesiani di Kawah Ijen che trasportano centinaia di libbre di zolfo per chilometri. Dai macellai di Port Harcourt che ammucchiano carcasse a cielo aperto, agli smantellatori di petroliere del Belucistan. Quando Workingman’s Death fu presentato a Venezia nel 2005, ebbe l’impatto di un pugno nello stomaco, che Fandango ripropone in tutta la sua drammatica veemenza. Michael Glawogger indaga senza remore una civiltà del lavoro ancora lontana dall’essere compiuta. Davvero il lavoro e il progresso ci hanno reso tutti liberi? Prezioso.
D
PERSONAGGI
ESSERE PAOLO CONTE, STORIA DI UN’ICONA iù che un nome, uno stile. Fatto di nebbie, donne e miraggi. Di swing incessante cullato in sincopi sarcastiche. A ottant’anni suonati, tutti benissimo, Paolo Conte è un’icona, che Paolo Giovanazzi esplora con perizia in Il maestro è nell’anima (Aliberti, 256 pagine,17,00 euro). Ne ha fatta di strada l’avvocato astigiano, che nel 1967 divenne celebre per La coppia più bella del mondo. Di lì vennero hit a cascata, e prima all’estero che in patria, a dire il vero, tutti capirono di aver di fronte un artista inimitabile. Pagine vivaci, quelle di questa biografia, intessute di fascino e aneddoti. Vieni via con me, recitava nel 1981 uno dei suoi maggiori successi. Da allora, Paolo Conte, ne ha portati con sé moltissimi.
P
di Francesco Lo Dico
Quattro buone ragioni per riparlare di “Copenaghen” l Teatro Eliseo una coda di stagione da non perdere: Copenaghen di Michael Frayn tradotto da Filippo Ottoni e Teresa Petruzzi nell’allestimento congiunto di Css Teatro Stabile di Innovazione del Fvg ed Emilia Romagna Teatro Fondazione. Soldi ben spesi vista la tenuta eccezionale della pièce - siamo alla quinta tournée nell’arco di un decennio. Perché occuparsi ancora di uno spettacolo che ha debuttato in Italia il 9 novembre 1999? Perché nonostante il presidente Obama promuova la denuclearizzazione nel mondo, gli armamenti atomici segreti sono ancora notizia da prima pagina. Perché in Svizzera dagli anni Sessanta per ogni nuovo edificio viene costruito obbligatoriamente l’annesso rifugio antiatomico, come da noi i posti auto. Perché il suo autore, noto al grande pubblico per Rumori fuori scena - praticamente un classico con le sue pluridecennali repliche - costruisce un testo sostanzioso come un trattato
A
di Enrica Rosso scientifico, ma avvincente come un thriller. Perché rimane a tutt’oggi un’imperdibile esperienza per gli spettatori grazie ai tre stratosferici interpreti affinati dalle repliche e quindi da rivedere, con lo stesso spirito con cui si rilegge un bel libro alla luce di nuove esperienze visto che il testo è denso e impegnativo e necessita di una partecipazione attenta da parte di chi vi assiste. In uno spazio-luogo atemporale, una specie di bunker del sapere, un emiciclo nero opaco circondato da lavagne con lavori in corso (pensato da Giacomo Andrico ed egregiamente illuminato da Giancarlo Salvatori) si ipotizza l’incontro degli spiriti del fisico ebreo danese Niels Bohr, padre della meccanica quantistica, e il suo un tempo allievo, il tedesco Werner Heisenberg, scopritore del principio dell’indeterminazione. Due menti eccelse che si devono confrontare su svariati piani immagi-
nativi in un castello prospettico perennemente in bilico. Alla presenza vigile di Margrethe Bohr, moglie del primo, i due premi Nobel daranno vita a un’appassionante schermaglia. Dal colloquio, realmente avvenuto a Copenaghen nel settembre del 1941, mentre la seconda guerra mondiale impazzava, non trapelò mai nulla delle vere motivazioni che spinsero Heisenberg all’incontro. Mauro Avogadro calibra sapientemente l’eccellenza degli interpreti e impone un rigore formale che fa risplendere un testo di per sé abbacinante per argomento trattato, ritmi, intensità, salti epocali e improvvise virate di pensiero. Umberto Orsini, che ha a suo tempo importato il testo (immediatamente dopo il debutto mondiale al Royal National Theatre di Londra) cogliendone l’assoluta importanza, è Bohr: lungimirante, asciutto, elegante, compreso e
fiero, un uomo votato alla conoscenza: «… prima che possiamo affermare qualcosa, la nostra vita è finita… sepolti da tutta la polvere che abbiamo sollevato». Giuliana Lojodice è sua moglie Margrethe, intrisa di orgoglio ebraico, una regina intransigente di grande autorevolezza: «... ci sono domande che sopravvivono a chi è morto, che si aggirano come fantasmi, che cercano le risposte che non hanno avuto in vita…». Massimo Populizio, Heisenberg travolgente nelle sue disquisizioni, insaziabile e fremente, lascia aperti fino all’ultimo gli interrogativi che gli stanno a cuore: «… un fisico ha il diritto morale di lavorare allo sfruttamento pratico dell’energia nucleare?». In platea ogni sera una poltrona a disposizione del ministro Bondi, per riflettere sui tagli alla cultura.
Copenaghen, Roma, Teatro Eliseo, fino al 23 maggio, Info 06/4882114 www.teatroeliseo.it
Cinema
MobyDICK
contro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, è l’opera prima di Isotta Toso, tratta dal romanzo di Lakhous Amara, un algerino-romano. È un giallo brillante sulla difficile convivenza tra etnie diverse in un palazzo della zona più multietnica della capitale. È noto che il corretto uso dell’ascensore è tradizionale fonte di discussioni tra condomini. Un giorno, un uomo è trovato cadavere nel pomo di tanta discordia, e con l’arrivo di un commissario, si avvia la caccia all’assassino. È una trama geniale che si snoda tra la portiera napoletana e i diversi personaggi italiani e stranieri che convivono nel quartiere Esquilino: si scontrano per ragioni futili e si accusano a vicenda del delitto, svelando caratteri, pregiudizi, tic e bizzarrie. C’è un ottimo cast, con molti attori di livello: Francesco Pannofino, Serra Yilmaz, Kasia Smutniak, Milena Vukotich, sono solo alcuni degli attori di un film corale in cui ognuno ha lo spazio per farsi conoscere. I produttori sono quelli del meraviglioso Notturno bus, e la poliedrica Maura Vespini (produttrice, sceneggiatrice, adattatrice, direttrice di doppiaggio) ha collaborato allo script dei due film. La Emme produzioni ha avuto l’accortezza di adattare due eccellenti gialli, tra i pochi libri italiani a meritarsi l’attenzione e le lodi dello stimato settimanale New Yorker. La regista non ha esitato di scegliere una storia complicata per il suo debutto, con tanti attori da gestire. La trentenne Toso, invece di girare il solito film ombelicale «d’autore», si è cimentata con un ambizioso affresco dell’Italia d’oggi, alle prese con l’immigrazione e una difficile integrazione tra culture millenarie, complessa, accidentata, tragicomica.Valori produttivi alti, con una sola riserva: è assente la personalità della regista, forse troppo impegnata a non sbagliare la prima prova per dare un’impronta più personale. Da vedere.
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Piacere, sono un po’ incinta segna il ritorno alla commedia romantica di Jennifer Lopez, ex fidanzata di Ben Affleck. La carriera (e il sodalizio) dei due è stata messa k.o. dal flop di Gigli, ma mentre lui ha ripreso quota con il succés d’estime per la prova d’attore in Hollywoodland, e per la regia del thriller Gone, Baby, Gone, lei stenta a ri-decollare, con passi falsi madornali come Quel mostro di suocera con una ultra volgare Jane Fonda, o melodrammi insipidi come Il vento del perdono con Robert Redford. Il nuovo film è puro chick-flick: una storia che riverbera quasi esclusivamente con le donne, in questo caso specie se hanno fatto l’esperienza del parto. Lopez è Zoe, una quarantenne senza principe azzurro e l’orologio biologico in pieno allarme «figli, ora o mai più». Tonica e tirata a lucido come una Barbie latina, Zoe ha abbandonato la carriera da manager per comprare un
Sguardo d’autore
su Serge
Gainsbourg di Anselma Dell’Olio
negozio di animali domestici; ha un bull- mai visto in un film dark: aiuta a soppordog francese con un traino attaccato alle tare la crescente tensione per la risoluziozampe posteriori paralizzate, e non riesce ne del mistero. a trovare uno straccio di maschio disposto a donarle il seme, perciò sceglie la gravi- Gainsbourg, Je t’aime… Moi non Plus, danza assistita. Più politicamente corretti è un originale film biografico sull’affascidi così è difficile, ma il film non demorde. nante cantautore francese Serge. Il regista Dopo l’inseminazione in clinica, Zoe litiga Joann Sfar, un disegnatore di fumetti al per un tassì con Stan, un giovanotto pale- debutto nella regia, adatta per lo schermo strato come lei (Alex O’Loughlin). S’in- la sua graphic novel, una carrellata cronocontrano e s’insultano continuamente: in logica e selettiva intorno alla vita dell’emetropolitana, per strada e in un mercato breo-russo Serge, con un’impronta immaall’aperto dove il giovanotto vende for- ginifica e incisiva. Eric Elmosnino brilla con il foglio di via, Lou inizia un torrido maggi di capra biologicamente corretti, nel ruolo dell’affascinante protagonista, rapporto sadomasoschista con la ragazza prodotti da lui medesimo nella sua fatto- in un tour de force di rara bravura che lo di vita. Sarebbe stato più giusto invertire i ria. L’aspirante mamma resta incinta al impone come star. Un po’ lento nella pri- ruoli di Amy e Joyce: Hudson ha un’aria primo colpo, e lo spasimante deve fare i ma parte, dopo il film prende ritmo e non più navigata, usurata; la Alba è troppo raconti con una fidanzata incinta di gemelli molla più. Tra gli amori della movimenta- diosa, levigata e fresca per la parte. Forse il regista voleva un (oh, yes) di padre ignoto. Il resto è da copione viso d’angelo incor“Scontro in Italia esce l’apprezzabile Mentre rom-com: si prendono, rotto per intensificadi civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” si lasciano, si perdonare lo choc dell’orripino, con tutte le goffaggilante pestaggio, il e un più fiacco “chick-flick” con Jennifer Lopez, ni e gli incidenti di perprimo di due in cui tre film stranieri si segnalano all’attenzione corso di una gravidanza Lou riduce letteraldei distributori di casa nostra. Tra questi la “graphic mente a polpette i doppia con pancione mongolfiera. C’è pure novel” di Joann Sfar dedicata al cantautore francese connotati delle sue un parto in acqua con ossessioni libidiche. urla raccapriccianti: il Killer arriva da Sunpubblico femminile ride fino a sentirsi ta vita sentimentale di Gainsbourg, sono dance e Berlino con la fama di film sconmale; i maschi si sentono male e basta. notevoli la Brigitte Bardot di una voluttuo- cio ultra violento e misogino; solleva in sa Laetitia Casta, con parecchie ciccia in molti/e una rancorosa ostilità per il ben Nel bilancio post Tribeca Film Festival, più dell’originale, e la Jane Birkin della congegnato e diretto, a tratti inguardabile ci sono altri film che meritano l’attenzione sfortunata Lucy Gordon, che si è suicidata splatter inflitto ai personaggi femminili. di distributori italiani. La commediografa alla fine delle riprese. Lunga vita a Sfar, La lenta percezione che il laconico Lou è irlandese Carmel Winters debutta nella per uno sguardo d’autore unico e splen- un serial killer di mostruosa brutalità, auregia con Snap, un insolito dramma psico- dente; riempie un vuoto di cui non si so- menta invece di diminuire la forte tensiologico su tre generazioni di una famiglia spettava l’esistenza. ne del film. In quanto alla scorrettezza poferita dagli errori del passato e a rischio di litica, la storia adattata dal romanzo di ripeterli. Un quindicenne (Stephan Mo- The Killer Inside Me, del prolifico e do- Jim Thompson è un ritratto fosco e brutalran) rapisce un bambino che tiene seque- tato regista Michael Winterbottom, è un mente comico di un patologico cittadino strato in una casa vuota, con motivazioni noir con scene più spaventose di tanti film al di sopra di ogni sospetto, e non un edisconosciute e inquietanti. La storia si horror. L’ammaliante Casey Affleck è Lou, ficante trattato femminista. È pornografia muove avanti e indietro, prima e dopo il un vice sceriffo fidanzato con Amy (Kate del dolore o straziante fotografia del semrapimento, dominata da Moran e da Ai- Hudson) mandato dal capo a cacciare dal preverde uso maschile di infierire sul corsling O’Sullivan, un’attrice formidabile, e paesino texano la prostituta Joyce (Jessi- po della propria amata? Da vedere con dal bambino più sereno, felice e amabile ca Alba). Invece di spedirla alla stazione giudizio.
I misteri dell’universo
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MobyDICK
ai confini della realtà
di Emilio Spedicato hi scrive si laureò nel 1969 in fisica con una tesi proposta da quello che poi si sarebbe rivelato uno dei maggiori fisici-matematici degli ultimi decenni, Carlo Cercignani, scomparso da pochi mesi. Partito dalla fisica, ho lavorato prima in un centro di ricerche nucleari, poi all’università, in matematica computazionale sia teorica che applicata a problemi energetici e alle discontinuità nel sistema solare e nella civiltà a memoria di uomo. Non tentai una carriera in fisica anche per una difficoltà ad accettare alcuni aspetti «filosofici» della fisica moderna, nonché per le mie perplessità davanti a tante teorie apparentemente prive di collegamento con la realtà. Qui dirò brevemente del lavoro di John S. Bell, considerato fra i più importanti del dopoguerra. Ma restano nella fisica teorica tanti problemi aperti, accanto agli straordinari risultati ottenuti dalla fisica applicata. E anche il lavoro di Bell è sottoposto a revisione…
C
La fisica classica, le cui basi sono i Principia di Newton (per la meccanica e ottica) e le equazioni di Maxwell (per l’elettromagnetismo) era andata in crisi a fine Ottocento, a causa di scoperte che non poteva spiegare. Fra queste lo spettro della luce e la radioattività. Ai primi del Novecento nacque la fisica quantistica, partendo dall’idea che l’energia elettromagnetica sia emessa dagli atomi in modo discreto, secondo quanti di luce. Una tesi di Einstein che gli procurò il Nobel (ma l’idea era già presente in Avicenna…). Accanto a Einstein giganteggiò Erwin Schrödinger, con la sua equazione per i livelli energetici degli elettroni, che permise di derivare gli spettri luminosi, e quindi risalire dagli spettri agli atomi che hanno emesso la luce, risultato fondamentale in astrofisica. Negli anni seguenti si trovarono vari metodi di calcolo (matrici di Heisenberg, approccio di Von Neumann, diagrammi di Feynman…), e il mondo subatomico presentò molte nuove particelle, generalmente di vita brevissima, generate dai raggi cosmici o da collisioni negli acceleratori. Nacquero nuovi concetti per classificare le particelle (colore, sapore, stranezza) ma una teoria unificata è ancora in fieri. Alcuni pensano che possa seguire dalla scoperta attesa del cosiddetto Bosone di Higgs, o God Particle come l’ha chiamata il Nobel Lederman. O potrebbe venire dalla teoria dei filamenti, strutture vagamente simili alle stringhe che hanno portato a risultati da molti ritenuti insensati; la teoria dei filamenti è opera in corso del fisico Giancarlo Cavalleri, già all’Università Cattolica di Brescia. Subito nacque un problema interpretativo, che oppose Einstein alla scuola di Copenhagen, di Niels Bohr. All’origine alcuni fatti che differenziano la fisica quantistica da quella classica. Ad esempio, nel mondo quantistico la luce può avere carattere sia particellare che ondulatorio. Una particella, come un elettrone, non ha una posizione ben definita nello spazio, ma può essere localizzata solo secondo una certa probabilità. Certe quantità «duali» non possono essere calcolate entrambe con precisione arbitraria, perché, per il principio di indeterminazione di Heisenberg, maggio-
Aspettando…
il quantum computing re è l’accuratezza con cui se ne calcola una, minore è quella con cui si può calcolare l’altra. Per non dire poi dei problemi connessi alla possibile esistenza di particelle con velocità superiore a quella della luce (i tachioni proposti da Erasmo Recami, o i processi di superluminalità la cui validità è ora accertata). Gravi problemi concettuali, da confrontare con la messe di risultati sperimentali, che ha portato alla straordinaria fi-
brale, era un irlandese che lavorò al centro di ricerche nucleari di Harwell in Gran Bretagna (simile al Cise di Milano dove ho lavorato per sette anni) e poi al Cern, il grande centro vicino a Ginevra dove esiste un acceleratore costruito sotto terra, in parte sotto le montagne del Jura. Durante un sabbatico alla Stanford University formulò quella che divenne nota come la diseguaglianza di Bell, sul
Principi diversi apriranno la strada a calcoli di un genere del tutto nuovo. Forse si realizzerà il desiderio di Einstein di una fisica quantistica comprensibile. Ma nella complessità dell’universo teorie e confutazioni si susseguono, così come le scoperte inattese. Il caso di John S. Bell sica dei materiali e porterà forse al quantum computing e a una tecnologia per spostamenti superluminali.
Se in futuro il desiderio di Einstein di una fisica quantistica deterministica e comprensibile (secondo Feynman nessun fisico quantistico capisce cosa studi, ma le equazioni funzionano…) si realizzerà, è impossibile dire; l’universo potrebbe essere infinitamente complesso e scoperte inattese continuano a farsi, come la non costanza della costante di Planck, se l’universo si espande. Veniamo ora al contributo di Bell. John Stewart Bell, nato nel 1928 e morto a soli 62 anni di emorragia cere-
cui contenuto sorvoliamo in quanto strettamente tecnico. Bell scrisse poi un libro dal titolo Dicibile e indicibile nella fisica quantistica, pubblicato ora, dopo una ventina di anni, da Adelphi.Vent’anni è un certo ritardo, ma se pensiamo che la maggior parte degli scritti di Newton non sono ancora pubblicati… Il libro è una raccolta di suoi articoli e discorsi su vari temi della fisica quantistica, in cui Bell prende le distanze da tesi diffuse fra i fisici, ad esempio che la materia non possa esistere senza la mente e che tutti gli universi possibili esistano. Una metà del libro è matematica comprensibile solo ai (pochi) addetti ai lavori,
un’altra parte è discussione di concetti di fisica quantistica che l’autore suppone noti al lettore; solo una piccola parte è comprensibile alla persona di media cultura universitaria. Interessante per chi scrive la discussione delle idee di Bohm sulle cosiddette funzioni pilota e sulle variabili nascoste.
Fra i critici del risultato di Bell ricordiamo Robert Bass. È un fisico convertitosi al cattolicesimo da qualche anno. Fu lui a valorizzare Rudolf Kalman, il matematico che con i suoi filtri di Kalman ha creato uno strumento fondamentale per l’analisi dei dati, e lui stesso è autore di risultati quali la giustifica della legge di Titius-Bode sul posizionamento dei pianeti e la scoperta che la costante di Planck dipende dalla densità dell’universo. Nell’articolo The irrelevance of Bell’s inequalities, Bass afferma che Bell fa ipotesi implicite statistiche non giustificate: Bell’s Inequality is a «category mistake» like trying to measure the mean lifetime of 100-watt electric bulbs using the same bulb! («La diseguaglianza di Bell appartiene a una categoria errata, come provare a misurare la vita media di 100 lampadine usando sempre la stessa lampadina»).