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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

ATTRAZIONE FATALE di Pier Mario Fasanotti

La critica lo snobba ma non i lettori. Che si narri di Roma antica, dell’Africa di fine Ottocento o della Firenze di Lorenzo de’ Medici, è un genere letterario in continua ascesa. A colpi di migliaia di copie vendute...

Parola chiave Cattedrali di Sergio Valzania

9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

Il boom del romanzo storico

Le nove vite di Steve Winwood di Stefano Bianchi

splorare le inclinazioni e le passioni dei narratori è operazione quasi indebita. È certo però che non passa inosservata la propensione di molti di loro a buttarsi, oggi, sul romanzo storico. Le ragioni possono essere due. La prima: a occuparsi dei battibecchi della coppia ambientati nel presente sono rimasti i giovanissimi, coerenti a quel continuo parlottio attorno a vicende privatissime, spesso banali, che è tipico della nuova generazione. Non hanno grande successo di pubblico, eppure molti editori pare che scelgano spesso in base a criteri anagrafici. Salvo rare eccezioni, non raggiungono le tremila copie. Eppure si continua ad ammiccare a un pubblico ventenne, che forse non c’è o, se

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NELLE PAGINE DI POESIA

Walt Whitman, l’America e la fede come premessa di Filippo La Porta

c’è, si rivolge ad altri prodotti data anche una forte concorrenza televisiva sui temi giovanili o giovanilistici. A chi interessa più se Caterina spasima per Giacomo e Giacomo la tradisce via sms con Valeria? La seconda: da oltre dieci anni gli italiani hanno scoperto il fascino del giallo. Questo genere, logorato anche in questo caso dalla tv, offre più cloni che altro. Ed ecco che si affaccia la tentazione del romanzo storico. Carlo Lucarelli, l’autore che ha rinnovato il thriller italiano, ha appena pubblicato L’ottava vibrazione (Einaudi Stile Libero, 456 pagine, 19 euro).

Il pianto antico di Lorenzo Viani di Mario Bernardi Guardi Cinema: “In Bruges” e “Certamente, forse” di Anselma Dell’Olio

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Guido Reni e il ritmo del segno di Olga Melasecchi


attrazione

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segue dalla prima Titolo brutto (si riferisce all’ottava vibrazione dell’arcobaleno, il nero invisibile) secondo alcuni critici. Le vendite sono comunque strepitose. Lucarelli non rinuncia alla trama gialla, ma la colloca nell’Africa Orientale della fine Ottocento.Tutti i personaggi, compresa la sensuale Aicha detta «la cagna nera», si muovono nella sfibrante attesa di quella che sarà la più grande tragedia delle truppe italiane in Africa: la sconfitta di Adua marzo 1896, quando i soldati del generale Baratieri furono massacrati dalle forze di Menelik. Non è la prima volta che Lucarelli guarda all’indietro. I suoi primi successi son dovuti infatti ai tre polizieschi ambientati durante il Ventennio (editi da Sellerio e diventati recentemente fiction tv con Il commissario De Luca). L’autore parmigiano si documenta scrupolosamente, e con un ritmo incalzante descrive una Massaia torbida e ambigua.

Senza soste è il successo diValerio Massimo Manfredi, lo scrittore-archeologo che punta su un tema - il mondo antico - che pare intramontabile e avvinghia con il suo fascino i lettori, un po’ meno la critica. Che piacciano le storie, ma solo se ben costruite, con il peplum e con il gladium è arcinoto: il film Il gladiatore di Ridley Scott è un segnale vistosissimo, il più forte dopo Ben Hur. L’ultima legione di Manfredi (Mondadori, come tutte le altre sue opere) è stato per molto tempo in cima alle classifiche (invece il film tratto dal libro è stata una delusione). Manfredi è tradotto in tutto il mondo. Milioni di copie. Ogni anno i suoi libri in edizione economica superano le 350 mila copie. «Non è una questione da best-seller americano - dice il narratore modenese - di quelli che vengono mangiati e sputati, alla Dan Brown, il quale non potrà ripetere il successo del Codice da Vinci. Io vengo letto nelle scuole». In autunno uscirà l’ultima sua fatica, intitolata Idi di marzo: «Una metafora del tirannicidio in tutte le sue forme, una parabola del potere». A proposito del 15 marzo del 44 a.C., Idi di marzo ossia la morte di Giulio Cesare, non si può dimenticare Ventitre colpi di pugnale (Piemme editore) scritto dal latinista Luca Canali. È il diario segreto degli ultimi giorni del dictator, che rievoca la sua grandezza di condottiero, ricorda gli amici, donne come Cornelia (moglie) e Giulia (figlia). Si tratta di un Cesare sensibile e commosso, che intravede la sua sorte e trascorre un’intera giornata nell’accampamento delle Rocce Rosse, a poche miglia da Roma. Lì sono stanziati i veterani «che hanno rifiutato il congedo

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Carlo Lucarelli, Susana Fortes e alcune copertine di libri di successo preferendo restare in armi per affezione» al generalissimo. Cesare passa in rassegna migliaia di volti della decima legione, «la migliore dell’intero esercito», quello più potente del mondo di allora. Una Roma fosca, che somiglia quasi a una Londra in chiave noir, fa da sfondo alla prova narrativa di Davide Mosca. Il suo romanzo s’intitola Congiura (Mursia editore). È la più celebre congiura del mondo, quella di Catilina. Un uomo, Mamerco Mamilio, indaga per conto di Cicerone. Raccoglie voci al Foro, incontra la misteriosa Marzia, bussa alle ville dei senatori più illustri, gli «intoccabili» della capitale del mondo: Pompeo, Cesare, Crasso e lo stesso Catilina. Un’altra penna italiana, Maria Grazia Siliato si è sperimentata abilmente sui temi romani. Nel 2005 ha pubblicato Caligula, dedicato al discusso imperatore e alle sue misteriose navi, le più grandi dell’antichità. È andata in vetta alle classifiche l’anno scorso con Masada (Rizzoli). È l’appassionante storia di una fortezza mediorientale che la Decima Legio Romana (ancora

prio così noto, ma che vende migliaia di copie e viene tradotto in molti paesi. È Guido Cervo. L’ultimo suo romanzo, 200 mila copie vendute, (Piemme, come altri sei) s’intitola L’aquila sul Nilo. Storia di un centurione della Guardia Pretoriana che guida una spedizione verso la misteriosa Nubia. Il compito è trovare le sorgenti del Nilo, «il grande fiume», scoprire il segreto del suo fertile limo e allargare le conoscenze sull’Africa nera. Ma quali sono le reali ambizioni di conquista che hanno indotto Nerone a dare il via all’impresa? Nella favolosa città di Meroe, s’intrecciano trame omicide, alleanze, passioni impossibili e tradimenti destinati a cambiare il corso di molte esistenze.

Un altro abilissimo narratore della Roma antica è Giulio Castelli, in questi giorni in libreria con Imperator (Newton Compton editore). Siamo al tramonto dell’Impero. Il tempo in cui le aquile della città eterna sfidavano il mondo è ormai alle spalle. È la disgregazione. Giulio Vale-

Da Manfredi alla Siliato, da Cervo a Castelli, molti narratori si dedicano, oggi, al romanzo storico. Forse perché la contemporaneità annoia e il giallo è logorato dalla tv. Così, anche Carlo Lucarelli guarda all’indietro: alla sconfitta di Adua nel 1896… quella macchina da guerra!) prese dopo sette anni di resistenza e di rivolta. I milites gloriosi trovarono finalmente una via, e all’alba fu strage. La Siliato tocca temi di grande appeal: il deserto di Qumram dove furono trovati i famosi rotoli, gli asceti Esseni, il vigliacco Pilato in combutta con il «collaborazionista» gran sacerdote Qajafa. Calzari, vessilli, grida di guerra, ma anche tanto mistero attorno alla vita e alla morte di Gesù. C’è poi uno scrittore che non è pro-

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rio Maggiorano, imperatore per acclamazione e quasi contro la sua volontà, cerca di salvare quanto può (poco), con i barbari che premono. Impresa non facile visto che attorno a lui ci sono nemici o cospiratori. Non mancano personaggi noti del V secolo d.C.: l’ambigua Galla Placidia, il coraggioso Ezio, lo spietato Attila, l’astuto Genserico, il potente papa Leone Magno. Quella di Castelli è un’ottima coniugazione tra rigore storico e passo narrativo.

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fatale

Altri scrittori che normalmente si occupano del presente, per esempio Antonio Scurati, sono stati attratti dalla storia. Sul solco tracciato agli inizi degli anni Novanta da Sebastiano Vassalli che si è imposto al grande pubblico (e ai premi Campiello e Strega) con La chimera (Einaudi). Scurati è un autore della Bompiani, noto per Il sopravvissuto. Poi ha cambiato registro sul finire dell’anno scorso. Con Una storia romantica è entrato nei meandri di quel 1848 che infiammò l’Europa. Nel plot di Scurati non mancano amori, tradimenti, terrorismo anarchico, nichilismo. Si riflettono le suggestioni dei vari Tolstoj e Hugo, nel tentativo di avvicinarsi a una sorta di arte popolare, mischiando il tono elegante a quello prepotentemente diretto. Una storia romantica non ha avuto un enorme riscontro di vendite. Peccato. L’ambiente risorgimentale ha ispirato ora anche un raffinatissimo narratore come Luigi Guarnieri, autore dei Sentieri del cielo (Rizzoli). La sua è la storia della guerra civile dell’Italia immediatamente post-unitaria, nella Calabria dei banditi, delle superstizioni di gente «barbara» che rifiuta le leggi sabaude. Anche il romanzo di Guarnieri è stato letto e apprezzato dai «lettori forti», ma non ha forato la spessa coltre dietro la quale si riuniscono i volubili, gli imbambolati dalle mode e condizionati dai personaggi dello spettacolo televisivo. Insomma coloro che continuano a pensare che Giorgio Faletti sia un maestro del thriller: ma lui è arcinoto come attore e cantante, quindi il marketing spinge su un acceleratore molle. Innegabile comunque che gli italiani si siano messi in forte concorrenza con gli autori stranieri anche nel romanzo storico. Il paese per noi più temibile è la Spagna. Clamoroso è il successo di Ildefonso Falcones, autore della Cattedrale del mare (Longanesi): milioni di copie vendute tanto da paragonarlo al Ken Follett dei Pilastri della terra. La vicenda si snoda nella Barcellona del XIV secolo, dove traballa la già non facile convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani. La più recente (e ottima) sorpresa è Susana Fortes, che esamina la Firenze del 1478 nei giorni che seguono il fallimento della congiura dei Pazzi. Il romanzo, Quattrocento (edizioni Nord), è costruito bene, più serrato nello stile rispetto a quello di Falcones (a volte piatto.) La città medicea della Fortes respira il clima della tragedia e dell’insidia politica. Lorenzo risulta credibilissimo, asserragliato nel suo palazzo mentre vengono gettati nell’Arno decine di cadaveri.Tutta colpa della famiglia Pazzi oppure le lame del golpe sono state affilate ben più in alto?

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parola chiave

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CATTEDRALI abitudine a incontrare edifici monumentali ha ridotto la nostra capacità di percepire la grandezza del fenomeno architettonico, culturale, economico e mediatico rappresentato in Europa dalla costruzione delle cattedrali. L’immaginario degli uomini della seconda parte del Novecento e dei primi anni del Duemila è segnato meno dalle architetture che dall’esperienza televisiva. È questo il mezzo di comunicazione che distribuisce in ogni casa il panorama iconografico e linguistico condiviso che funge da ambito collettivo per la comprensione del mondo e consente lo scambio di informazioni in un contesto comune. La televisione ha compiuto da poco cinquant’anni, vive in concorrenza con altri media più vecchi e più giovani, dai giornali al web, e nella sua forma generalista viene già considerata obsoleta. Nonostante questo percepiamo come invadente la sua pressione nei confronti del nostro immaginario e alcuni giudicano persino soffocante la sua ormai logora capacità di rivolgersi in contemporanea a milioni di spettatori con un messaggio di puro intrattenimento, dalla natura più abitudinaria che condizionante.

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Per alcuni secoli le grandi cattedrali, nel loro processo di edificazione, rappresentarono per l’immaginario collettivo un media ben più potente di quello che è la televisione oggi. La loro costruzione avvenne in un contesto iconografico poverissimo, nel quale solo pochi edifici in pietra cominciavano a levarsi in mezzo a città formate da abitazioni quasi tutte in legno. Non esistevano giornali, né libri e la stessa pittura era riservata a un’élite ridottissima, anche la pratica della scrittura cominciava appena ad affermarsi nelle classi mercantili. L’unico canale di comunicazione era il sistema stradale, peraltro dissestato. Era attraverso di esso che circolavano merci e notizie, gusti e conoscenze, mode e dicerie, devozioni e superstizioni. Lo scambio era lento, l’informazione si muoveva a piedi e si trasferiva di bocca in bocca. Nelle città andava a depositarsi, come in strati successivi, sulle pareti e nelle decorazioni delle cattedrali. I cantieri di questi edifici grandiosi, sproporzionati per le dimensioni rispetto a ogni altra costruzione dell’epoca, persino a quelle militari, venivano aperti da persone che erano consapevoli del fatto che non li avrebbero mai visti finiti e che di solito non avevano neppure ben chiaro quale sarebbe stato l’assetto definitivo del complesso. In un’epoca nella quale l’età media non superava i trent’anni e i sessantenni erano pochi, fiorivano in tutto il continente progetti con l’ambizione di proiettarsi nel futuro per secoli e destinati a essere realizzati dal lavoro di dieci generazioni. In quei cantieri aperti per un tempo più lungo dell’esistenza dell’Italia come Stato nazionale, si andava condensando l’immaginario condiviso della comunità, l’insieme di credenze e di valori, di consapevolezze e di paure, di senso identitario e di

Hanno rappresentato, per l’immaginario collettivo, un media più potente di quello che invade le nostre case. Una rete di comunicazione in pietra, capace di collegare senso estetico, visione del mondo e sensibilità religiosa

La televisione del Medioevo di Sergio Valzania

In cantieri aperti per un tempo più lungo dell’esistenza dell’Italia come Stato nazionale, si andava condensando un insieme di credenze e di valori a disposizione di tutti. Fino all’invenzione di Gutenberg, che aprì altri canali più rapidi ed economici, mentre le forme dell’architettura furono impiegate per affermare lo splendore dei sovrani... desiderio di apertura sull’ignoto che procedeva attraverso le strade e si condensava nelle pietra, per essere a disposizione di tutti. Il cantiere della cattedrale era la mole che il viaggiatore o il mercante scorgeva da lontano e che lo avvisava di essere vicino alla meta, era il luogo da andare a visitare, nel quale riconoscere il procedere dei lavori. Da confrontare con le opere analoghe in corso di realizzazione nelle città vicine, rispetto alle quali era attivo un dialo-

go a distanza, fatto di schizzi ma soprattutto di impressioni, di racconti, di sorprese e di compiacimenti. La stagione del gotico, durante la quale sorsero gli edifici più ambizioni, viene fatta iniziare con la costruzione del coro di Saint Denis a Parigi, consacrato nel 1144. Anche se la facciata del Duomo di Milano venne completata nel 1813, lo strumento iconografico in pietra aveva ceduto il campo al libro stampato a caratteri mobili già all’inizio del Cinque-

cento. La cattedrale di Chartres, ritenuta uno degli esempi più puri di stile gotico, fu costruita a partire dal 1196, anno nel quale venne distrutto da un incendio l’edificio preesistente, e fu ultimata nel 1513, con il completamento della torre campanaria di nord-est, le Clocher Neuf. Le date della sua costruzione sono esemplari anche per circoscrivere gli anni di pieno fervore costruttivo. In seguito, con l’invenzione di Gutenberg, la comunicazione aveva trovato un altro canale, più rapido ed economico, attraverso il quale circolare, mentre l’affermazione di poteri centrali forti trasformava le forme architettoniche e spingeva alla costruzione di grandiose residenze reali per affermare lo splendore dei sovrani piuttosto che cattedrali nelle quali il popolo tutto celebrava la gloria di Dio.

Oggi non siamo più in grado di leggere nella pietra lavorata e nelle forme slanciate delle architetture gotiche il complesso simbolismo in base al quale le cattedrali sono state costruite. Spesso ci sfugge anche la lenta stratificazione delle iconografie, che emergono dal pacifico romanico, con i suoi grandi occhioni sognanti per arrivare alle forme mostruose del gotico fiammeggiante, che avverte le tensioni presenti nella Chiesa e presagisce i duri contrasti che porteranno allo scisma protestante. Capita anche che le architetture moderne, in acciaio e cemento armato, che assediano gli edifici medievali ci impediscano di cogliere la grandiosità dell’impresa realizzata. Neppure la possibilità di spostarsi in macchina e visitare in sequenza più cattedrali in un solo giorno ci permette di renderci conto delle dimensioni fisiche del fenomeno, che in un tempo molto inferiore a quello occorso per la costruzione delle piramidi d’Egitto movimentò in forme ben più ardite una quantità maggiore di materiale edilizio, disponendo di una tecnologia non molto superiore. Non ci deve però sfuggire, da raffinati conoscitori delle comunicazioni di massa quali pretendiamo di essere, che il nostro sistema elettronico e televisivo, a tempo di trasmissione dati pari a zero, non è affatto l’unica forma possibile di creazione di un sentire comune condiviso. Nel corso del Medioevo venne costruita in pietra una rete di comunicazione almeno altrettanto potente e sensibile, capace di collegare senso estetico, visione del mondo e sensibilità religiosa di tutti gli europei. Allo stesso modo val la pena riflettere sulla bassa consapevolezza degli uomini di allora per quello che stava avvenendo, paragonabile appieno all’ignoranza di oggi nei confronti del fenomeno televisivo, considerato dalla politica terreno di conquista mentre non si tratta che del campo di gioco. Il luogo dove dimostrare le proprie capacità, come fecero nell’Europa di quasi mille anni fa gli uomini che raccolsero le risorse economiche e i saperi per edificare le cattedrali a maggior gloria di Dio, inconsapevoli creatori di un sentire comune che un’ingiustizia cronologica ha relegato alla banconota da 20 euro nella nuova iconografia monetaria.


musica Le nove vite di Steve Winwood MobyDICK

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ROCK

di Stefano Bianchi a messa in scena di nove vite. Che si rincorrono nelle nove canzoni del suo ottavo disco da solista: Nine Lives. Steve Winwood, sessantenne da una manciata di giorni (è nato a Birmingham il 12 maggio 1948), incornicia al meglio la carriera di cantautore e polistrumentista folgorato sulla via della black music. Nove vite artistiche. Ma parecchie di più, in realtà.Winwood, infatti, bazzica nella musica da quando, di anni, ne aveva quindici. Un mucchio di vite fa, discograficamente parlando. Nel ’63, paragonano la sua voce a quella di Ray Charles. Lui, monello del blue-eyed soul, ha già rodato ugola, dita (per accarezzare i tasti dell’organo Hammond) e plettro (per pizzicare le corde della chitarra elettrica) al fianco di bluesmen e rocker americani.

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Chuck Berry, B.B. King, Muddy Waters, John Lee Hooker sbarcavano in Gran Bretagna, salivano sul palco, se lo trovavano accanto e caspita se ci dava dentro, il ragazzino. Con Muff, suo fratello maggiore, Little Stevie prende a esibirsi nello Spencer Davis Group, asso nella manica del rhythm and blues revival inglese. E intona quell’autentico miracolo di Gimme Some Lovin’, trasformandolo in evergreen. Poi, dal ’67 al ‘74, mescola col batterista Jim Capaldi progressive rock, jazz, folk, briciole di psichedelìa e frammenti di R&B nei Traffic. Altra band epocale. Da gratitudine eterna. Lo testimoniano dischi come Mr. Fantasy, John Barleycorn Must Die, Welcome To The Canteen. E fra un gioiello e l’altro, nel ’69 trova il tempo d’agganciarsi all’avventura-lampo dei Blind Faith, il supergruppo col chitarrista Eric Slowhand Clapton, il batterista Ginger Baker e il bassista/violinista Ric Grech. Senza dimenticare le cose egregie che combina da sessionman in sala d’incisione per Jimi Hendrix (Electric Ladyland), Joe Cocker (With A Little Help From My Friends), Lou Reed (Berlin), George Harrison (Dark Horse), David Gilmour (About Face), Billy Joel (The Bridge) e altri notabili del pentagramma. Dal ‘77, si dà alla carriera solista con album più marcatamente pop, di sopraffina fattura, come Arc Of A Diver, Back In The High Life, Roll With It. Senza rinunciare, peraltro, a quelle radici «nere» fatte di soul, jazzismi sparsi, melodie. Sbriciolate ad arte, disco dopo disco, fino a confluire nel 2003 nell’apoteosi ritmica di About Time. Che aveva l’aria dell’happy end di un curriculum invidiabile. E invece. Nine Lives si spinge persino più in là, riacciuffando le vite di Winwood: blues verace (I’m Not Drowning), rhythm & blues intrecciato a conversazioni jazz (Secrets; At Times We Do Forget) o increspato dall’inconfondibile suono dell’Hammond, soul (Other Shore), un po’ di funky che ricorda Shoot Out At The Fantasy Factory dei Traffic, qualche virata nella world music (Fly; Hungry Man). E un ritrovato feeling, in Dirty City, fra l’ex enfant prodige e l’inossidabile Clapton. Hammond e chitarra elettrica. Che da solo vale il cd. Steve Winwood, Nine Lives, Columbia/Sony Bmg, 21,50 euro

radio

mondo

riviste

ADDIO ALLA FM IN GRANDE STILE

MUSICA DIGITALE: TORNA QTRAX

LA ROTTURA DEI NINE INCH NAILS

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er l’addio definitivo, previsto il 31 maggio 2008, hanno previsto una passerella tutta italiana e in grande stile. E’ infatti ufficiale la chiusura delle frequenze di Rock Fm, la storica emittente milanese nata nel 1990 e che da allora si occupa principalmente di genere rock. I conduttori radiofonici hanno fatto sapere che tra i prossimi 26 e 30 maggio, una vasta schiera di artisti italiani,

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opo i primi rumors, le dichiarazioni frettolose e le secche smentite a suon di conferenze e comunicati stampa che si sono affannosamente rincorse per tutto lo scorso mese di aprile, è finalmente arrivata la conferma ufficiale: Qtrax, la piattaforma di download gratuito finanziato dalla pubblicità ha raggiunto un accordo di collaborazione con la major leader di mercato, Univer-

isponibile in download gratuito in diversi formati audio, The Slip, ultimo lavoro dei Nine Inch Nails, rock band collocata da Rolling Stones tra le migliori cento della storia, viene presentato da Rockshock it come un album di rottura. Sulla scia del precedente successo di Ghosts, doppio cd strumentale che poteva essere parzialmente scaricato dai fan, il gruppo capitanato da Trent Reznor prosegue il progressivo distac-

Dopo il 31 maggio, rimarrà comunque attivo il sito internet www.rockfamily.it

Questa volta l’accordo con la Universal è ufficiale e la major sarà affiancata anche da Emi

“Rockshock it” presenta il nuovo cd del gruppo americano disponibile in download gratuito

«che per anni hanno occupato i nostri palinsesti», si alterneranno davanti ai microfoni come ospiti in studio. Stando alle prime indiscrezioni, interverranno tra gli altri: 3 allegri ragazzi morti, Baustelle, Negramaro, Afterhours, Pfm, Giuliano Palma & The Bluebeaters, Bugo, Casino Royale, Cristina Donà, Piero Pelù, Ritmo Tribale, Sud Sound System, Pino Scotto, Vallanzaska, Paolo Benvegnù, Zen Circus e molti altri. Dopo il 31 maggio, rimarrà attivo il sito www.rockfamily.it, che terrà aggiornati gli ascoltatori sulle attività del post Rock Fm e dei dj.

sal Music, e con la collegata società di edizioni musicali Universal Music Publishing. In cambio di una quota dei proventi pagati da sponsor e inserzionisti, entrambe le aziende hanno accettato di mettere a disposizione del servizio il loro intero catalogo, affiancandosi anche alle etichette indie Beggars Group e Tvt Records, più un’altra serie di major dell’editoria come ad esempio Emi Music Publishing e Sony/Atv, che rappresentano gli autori di canzoni e i loro eredi, ma di fatto non hanno piena facoltà di concedere l’uso delle registrazioni fonografiche.

co dalle major discografiche, intrapreso da qualche anno. L’elevato prezzo imposto sui cd musicali, i balzelli applicati sotto la voce diritti di prevendita per i concerti, e alcune speculazioni su mercati particolarmente floridi come quello australiano, hanno a tal punto indisposto la band statunitense, da incitare il proprio pubblico a rubare la loro musica dalla rete. In controtendenza rispetto alle abituali strategie di vendita, The Slip sarà perciò disponibile su cd e vinili solamente a luglio, e i fan più creativi si potranno giovare anche di versioni multitrack dei brani, che consentiranno loro di remixarle a piacimento.

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zapping

UN CONSIGLIO AI LABURISTI Madonna al posto di Brown di Bruno Giurato al nostro osservatorio musicale nulla facciamo mancare a chi ha bisogno di noi. Per esempio ai laburisti inglesi così disorientati. Cari amici del New Labour, fate una scelta davvero innovativa, proseguite l’opera iniziata anni fa, quando avete buttato via le fole sulla nazionalizzazione delle aziende, mettete in piedi un Newest Labour o meglio un New Labour 2.0, come direbbe Lapo. In breve dismettete Gordon Brown. E pigliatevi come leader Madonna. Non stiamo scherzando, signori laburisti. Pensateci seriamente. Madonna è plausibile in tutto. Da quando ha sposato Guy Ritchie ha il passaporto britannico, parla americano come quasi tutti gli inglesi (l’aforisma di Oscar Wilde sugli inglesi e gli americani che hanno ormai tutto in comune tranne la lingua va aggiornato) è un genio del marketing (ovverosia della «politica 2.0», come direbbe Lapo). Da pochissimi giorni è stato pubblicato il suo disco, orribile a partire dal titolo: Hard candy, Caramella dura, eppure va via più del Cheddar in Scozia. La campagna promozionale di Madonna è una raffica di colpi geniali, nati da una mente che ha capito meglio di chiunque le rotte e i trampolini del mercato globale (pensate cari amici che qui in Italia ci infradiciamo con le polemiche sul colbertismo, ci mancano solo i cravattini e la tassa sul macinato). Mentre le major discografiche boccheggiano, Madonna usa Starbucks per farsi distribuire i cd, le agenzie di intermediazione per farsi vendere i biglietti. A cercarla su Google viene fuori prima lei della mamma di Gesù. Signori laburisti, una sola parola: accattativilla. Voi sì batterete i cinesi. E farete dimenticare la Thatcher.

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TEATRO

Storie di carusi tra denuncia e poesia di Enrica Rosso ugni di zolfo è semplicemente una storia, una fiaba che porta dentro di sé la rabbia di un’infanzia negata». A dircelo è l’autore regista e interprete Maurizio Lombardi, toscano di nascita e formazione artistica, ma con una lunga frequentazione fisica ed emotiva con la Sicilia. Ed effettivamente da subito siamo chiamati in causa a condividere la delusione, la fatica, la paura di Vincenzo Barrisi, pugile colto nello spogliatoio al ritorno dal ring dove ha subito una schiacciante sconfitta infertagli da un avversario coriaceo e grande incassatore; e nella assoluta semplicità della scena - Barrisi che si confronta col suo allenatore - già cogliamo i primi indizi di un’infanzia difficile non priva d’allegria, ne sia conferma il luccichio degli occhi di Vincenzo quando ricorda i sacchi per allenarsi con su le foto dei compagni, o quando adagiandosi sul lettone della nonna nella frescura delle lenzuola tese, odorose di lavanda, il corpo del giovane uomo ridiventa bimbo arreso al sonno. Sonno ristoratore e ingannatore al tempo stesso che prendendo spunto dalle prime esplorazioni di autoerotismo si tramuterà in incubo premonitore della morte del cugino. Ed è proprio questa zona centrale dello spettacolo, sognante e maledetta, nella quale viene rivissuta l’esperienza dei carusi, cioè dei bambini che venivano sfruttati nelle zolfatare siciliane di fine Ottocento, che ci regala una descrizione del mare di rara bellezza fatta dallo zio che l’ha già visto al nipotino che lo immagina solo, ma che da grande desidera fare il pescatore, anche se grande non diventerà mai perché non uscirà vivo da quel buco nero. «Lo vedesti il cielo di notte? Ecco, portalo giù, levaci le stelle, fallo blu e c’hai il mare». Al risveglio l’immagine della nonna ferma, sola, immobile, muta contro il dolore, fa maturare la scelta di lasciare il paese portandosi dietro il sacco per gli allenamenti, gli occhi neri della mamma e le speranze della nonna per un futuro migliore. Da qui è un soffio, o meglio un battito di tamburi mahori che dettano il ritmo dell’incontro-scontro, il combattimento dell’inizio col nero fortissimo, contro cui perderà Barrisi. Fine della fiaba, inizio della storia perché Pugni di zolfo è uno spettacolo di denuncia, forte ed efficace quando è necessario, ma delicatissimo e sofisticato per le qualità inter-

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pretative di Maurizio Lombardi che, solo in scena, ci scorta in questa avventura non risparmiandoci nulla ma facendoci sentire protetti perché consci che sarà lui a scontare il suo destino di lottatore. E non a caso l’ultima immagine prima del buio, con la sagoma del corpo seminudo in controluce, ci riporta alla mente certe crocifissioni. Una scrittura godibilissima che suggerisce sonorità siciliane e profumo di gelsi ispirata dalle poesie di Ignazio Buttitta e messa al servizio di un argomento spinoso e sempre attuale, lo sfruttamento minorile.

Pugni di zolfo. Storia di un caruso, scritto, diretto e interpretato da Maurizio Lombardi, Teatro Vascello, Roma, fino al 25 maggio, www.teatrovascello.it info: 06 5881021

JAZZ

Il sound brasiliano di Bollani & Veloso

di Adriano Mazzoletti Perugia l’11 luglio per dieci giorni avranno luogo i festeggiamenti del 35° anniversario di Umbria Jazz. Era l’estate del 1973 quando a Perugia e in molte altre città umbre giunsero i più grandi nomi del jazz mondiale. Un evento straordinario la cui idea era nata sedici anni prima quando il Jazz Club Perugia aveva proposto all’Azienda di Soggiorno e Turismo un grande festival itinerante nelle più importanti città umbre i cui centri storici si prestavano magnificamente a quell’iniziativa. Perugia era ed è una città di grandi tradizioni culturali. Nel 1921 era stata istituita una Università per Stranieri, era nata anche la Sagra Musicale Umbra e gli Amici della Musica che avevano in Luisa Spagnoli una straordinaria mecenate, presentavano concerti con grandi interpreti, Arturo Benedetti Michelangeli, Pablo Casals, Mitislav Rostoprovich. E a Spoleto Giancarlo Menotti aveva fondato il Festival dei due Mondi. Quan-

A

do negli anni Cinquanta, venne aperto il Circolo del Jazz che aveva lo scopo di far conoscere la grande musica americana in una regione dove il jazz era quasi sconosciuto, l’interesse del pubblico fu immediato. Giunsero Louis Armstrong che diede due memorabili concerti al Teatro Morlacchi che per la prima volta apriva le porte al Jazz. Chet Baker che fece ascoltare il suono della sua tromba sotto le volte medievali della Sala dei Notari e altri, noti e meno noti, che si esibirono per la prima volta in molti di quei luoghi dove oggi hanno luogo i concerti di Umbria Jazz. Poi il Circolo del Jazz

languì e nel 1973, un socio del Circolo, Carlo Pagnotta, recuperò la vecchia idea del festival itinerante e creò Umbria Jazz, oggi giunto al traguardo invidiabile dei trentacinque anni. L’importanza di Umbria Jazz è ormai planetaria e questo successo è dovuto quasi unicamente a Carlo Pagnotta, uno dei più capaci e intelligenti organizzatori nel mondo del jazz europeo e non solo. Per l’anniversario sono state fatte le cose in grande. Fra l’11 e il 20 luglio avremo la possibilità di assistere a una serie di eventi importanti. La palma spetterà a Sonny Rollins che suonerà la sera del 13 luglio all’Arena Santa Giuliana. Non meno interessanti dovrebbero essere quelli di Carla Bley l’11, di Charles Lloyd il 13, di Herbie Hancock il 16, di Gary Burton e Pat Metheny il 17, già ascoltati a Roma qualche settimana fa, di Maria Schneider il 19 e quello, assai

atteso, dell’Orchestra di Gil Evans diretta da Lew Soloff e Miles Evans, figlio del celebre direttore e arrangiatore. Da non perdere il ritorno dei chitarristi Pat Martino e Bill Frisell e del sassofonista Harry Allen. E poi gli italiani, quest’anno assai numerosi. Da Renato Sellani e Gianni Basso, ospiti fissi del festival, il giovane e assai brillante pianista Riccardo Arrighini che presenterà le più celebri arie pucciniane in veste jazzistica. È ben noto il fatto che Puccini, scomparso nel 1924, fosse un estimatore del nascente jazz. Celebre altresì il suo interesse per una delle prime orchestre italiane, la Imperial Jazz Band che il pianista marchigiano Amedeo Escobar dirigeva a Viareggio proprio nell’anno della sua scomparsa. Anche la musica brasiliana sarà come sempre presente. Quest’anno, il cantante Caetano Veloso sarà ospite di Stefano Bollani nel suo Carioca. Infine soul music, rhythm’n’blues, blues, boogie woogie, zydeco, rock’n’roll e rock in concerti più o meno gratuiti a corollario di questa trentacinquesima edizione.


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NARRATIVA

libri

di Francesco Napoli

L’adultera e il potere salvifico della

scrittura

e la storia dell’arte ci ha tramandato nel tempo più prove sulla figura dell’adultera, non altrettanto ha fatto quella letteraria. Giuseppe Conte in quest’ultimo suo romanzo è partito da questa figura femminile così discussa del racconto evangelico di Giovanni riuscendo con grande equilibrio a dar vita a un’opera di ragguardevole spessore tematico. Sgombrato il campo da una limitante categorizzazione dell’opera sotto l’etichetta di romanzo storico, decisamente stretta, si parte da una saggia decisione dell’autore: la protagonista non ha nome nel testo giovanneo e non lo ha neppure in Conte. Salvata da una sicura morte dal Maestro - e anche questa figura l’autore sa tenerla bene sullo sfondo -, vivrà tutta la sua vita in preda a passioni sincere quanto violente. La vicenda, raccontata in prima persona, vede l’adultera muoversi dalla Palestina a Cipro a Roma capitale dell’impero e passare dallo stato di donna libera a quello di schiava. I personaggi che via via incroceranno sguardo e vita con lei rappresentano altrettante tappe di un percorso ben costruito nella finzione romanzesca: l’amato fratello minore, Joram, che si unisce agli Zeloti nel combattimento sanguinoso contro gli odiati occupanti romani (richiamo all’attualità della guerra israelo-palestinese?); il ricco mercante Yakub, cui il padre la darà in sposa (richiamo alla condizione di tante donne ancora oggetto?); il centurione romano Lucio, uomo solo e sensuale (l’isolamento del potere?); il saggio greco Fedro, al servizio nella biblioteca di Seneca, ultimo padrone dell’adultera (la forza inesauribile dei grandi classici e, tout court, della poesia?). Ed è proprio l’anziano filosofo a raccogliere il racconto della donna in fuga da una Roma neroniana in fiamme e alla ricerca di pace e salvezza che, ancora una

S

volta, ritroverà sulle rive del mare. Seneca rinviene la sua schiava mentre sta abbozzando con le dita quegli stessi segni che aveva visto tracciare dal Maestro sulla spianata del Tempio di Salomone, di fronte ai Farisei che la volevano lapidare. Nelle pagine di Conte matura un racconto al femminile sapientemente disposto, capace di entrare con accortezza nella psiche di una protagonista del tutto particolare. La ricostruzione qui non è tanto storica, se non nel contorno, quanto dosata con pennellate di riuscita narrativa. I nuclei tematici? I più forti sono tutti di estrazione evangelica, se si vuole, ma Conte li fa suoi e, in qualche misura, li spoglia di una esclusività religiosa, li laicizza quasi, lasciando però un forte alone di sacro. Iniziamo dal perdono. Nell’episodio giovanneo dell’adultera dal quale Conte è voluto partire si vuol dare di Cristo un’immagine profondamente morale. Infatti, a differenza degli scribi e dei farisei, egli dimostra di saper distinguere fra «peccato» e «peccatore» e di perdonare la donna senza per questo giustificare l’adulterio. La relatività della colpa se, proprio tra le righe del testo giovanneo, s’intuisce come ci sia uno stato naturale, per l’uomo, della colpa stessa. Ma su tutto la forza dell’amore. Giuseppe Conte l’aveva già riscoperta, ricantandola in versi in Ferite e rifioriture, ma è il propellente di questo romanzo che romba con energia. Infine: il mistero e la forza della poesia e della letteratura. Quei segni, mai decifrati da alcun biblista in maniera definitiva, che il Maestro traccia mentre salva l’adultera e la invita a non peccare più simboleggiano certo il privilegio della scrittura di poter (e dover) essere interpretata da altri ma hanno un che di salvifico, per chi li traccia e per chi li legge. Giuseppe Conte, L’adultera, Longanesi, 286 pagine, 16,60 euro

riletture

Riflessioni su Maria raccolte in un “libro d’ore” di Leone Piccioni Annunciazione è un libro (lo chiameremo «libro d’ore») di Laura Bosio che è uscito da Longanesi nel 1997, e ora la ristampa può trovarsi nei banchi delle librerie. Laura Bosio è una narratrice di successo: l’altro anno con Le stagioni dell’acqua fu premiata in varie occasioni. (Ricordo ad esempio la bella edizione del Basilicata 2007 da lei vinto in una cornice molto cordiale e luminosa). In Annunciazione sono raccolte, anche con approcci di natura personale, tante indicazioni sul mistero dell’Annunciazione. Ce ne sono tante positive, ce ne sono tante negative. Scritto dalla Bosio «senza intenzioni dissacratorie», e aggiungerei «senza intenzioni catechistiche». Come clausola iniziale si legge: «Maria, il nome della Vergine. Maria, il nome di

L’

mia madre. L’ho profanato per gioco e per paura: l’ho sentito affiorare, irruzione misteriosa e terribile, nei vari momenti di abbandono. “Hai detto le preghiere alla Madonna?”, chiedeva mia nonna imperiosa. E io recitavo la preghiera, sempre la stessa, l’unica della mia vita di laica immaginaria: Ave Maria, gratia plena». Non mancano nel «libro d’ore» le citazioni fondamentali del Vangelo: l’Annunciazione, ovviamente, la nascita di Gesù, le nozze di Cana. «Silenzio di e su Maria, gli evangelisti tacciono sulla sua nascita, sulla morte, sull’aspetto, sull’età». E le tre citazioni sulla presenza di Maria nel Vangelo sono quelle riferite. Manca però - lo sa bene la Bosio - il Vangelo di Giovanni che vede Maria con l’Apostolo ai piedi della Croce mentre Gesù morente dice: «Madre, questo è tuo figlio. Figlio, questa è tua madre». L’aspetto negativo delle cita-

zioni si può facilmente individuare: non si crede nella verginità della Madonna, si dice - anche prendendo spunti dalla sacra Scrittura - che Maria e Giuseppe ebbero molti figli, fratelli e sorelle dunque di Gesù. Un’affermazione come tante altre che i teologi rifiutano seccamente. Dove scava la Bosio? Naturalmente tra i libri ma anche con molta ampiezza tra i musei e le gallerie d’arte di molte città italiane sempre ribadendo quel concetto di non essere né religiosa né laica. Un esempio di incredulità: «Fragile, apprensiva, lacrimosa - scrive la Bosio - la Madonna dell’immaginazione popolare. Nessuna traccia del coraggio, dell’intelligenza della lungimiranza che traspaiono dalle sue apparizioni evangeliche. Scomparsa la donna cui si rivolge Gesù. Il volto di madre trepidante, lo sguardo velato di pianto, una Maria sentimentale e ricattatoria trionfa

nelle visioni odierne». Ma si cita anche Bulgakov: in «Maria si è attuata l’idea della Sapienza nella creazione del mondo; ella è la Sapienza nel mondo creato; è in lei che la Sapienza è stata giustificata e perciò la venerazione della Vergine si confonde con quella della speranza». E Bernanos insiste: «Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo veramente “infantile”, il solo vero sguardo di bambino che si sia mai elevato sulla nostra vergogna e sulla nostra infelicità». Verso la fine del libro (stando sempre alla parte a mio parere positiva delle citazioni) si intona il Magnificat, uno dei testi valutati, anche esteticamente, di maggior pregio nella nostra civiltà: «L’anima mia magnifica il Signore - e il Mio spirito esulta in Dio, mio salvatore - perché ha guardato l’umanità della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata».


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FILOSOFIA

L’uomo e il divino secondo María Zambrano di Renato Cristin a riflessione di María Zambrano sul rapporto fra esistenza storica e senso del divino si può condensare in una proposizione formulata da Vincenzo Vitiello nell’introduzione a questo libro, uno dei più significativi per comprendere la filosofa allieva di Ortega: «se l’oblio del sacro conduce nel nichilismo della “morte di Dio”, la separazione del sacro dal divino conclude nel nichilismo dell’autodistruzione». Tuttavia sacro e divino non vanno contrapposti, bensì compresi come le due dimensioni fondamentali del senso umano della trascendenza. Al divino inerisce la pietà, al sacro l’invidia. Sulla scia della definizione platonica, Zambrano concepisce la pietà come quella virtù che, permettendo il giusto rapporto dell’uomo con il divino, ci insegna a «trattare adeguatamente l’altro»: pietà è espressione dell’amore. L’invidia, «male sacro» che si manifesta con la comparsa degli dèi greci, scaturisce dal rapporto con l’altro (sarebbe la «prima forma di parentela»), ma

L

in verità nasce dalla relazione dell’io con se stesso: «nessuno prova invidia se non - attraverso l’altro - di se stesso». Il nodo è dunque quello dell’i-

dentità: «vivere nell’identità significa essere al riparo dall’inferno», ma la vita umana «non riesce a raggiungere tale sicurezza, perché «il vivere umano è

alterità», esposizione ai cambiamenti e riconoscimento dell’altro. L’identità mai pienamente conseguita è «l’ombra» che ci accompagna sempre e nella quale si riversa il divino: «nei due punti estremi che segnano l’orizzonte umano, il passato perduto e il futuro da creare, risplendono la sete e l’ansia di una vita che sia divina senza cessare di essere umana». L’orma del sacro e quella del divino si allacciano nella «traccia del paradiso», ma l’uomo non può restare nella nostalgia di quel paradiso ridotto a segno, nobilissimo, trascendente ma pur sempre irraggiungibile. Egli deve vivere nella sua inevitabile libertà, in quello «spazio vitale» dove «si vede e si è visti, si giudica e si è giudicati». È dunque nello spazio concettuale, linguistico ed etico del giudizio che l’uomo deve ritrovare il senso del sacro e quello del divino, congiungendo entrambi e pensandoli in base alla finitezza dell’esistenza. María Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, 403 pagine, 26,00 euro

SAGGI

Elogio della lontananza di Giancristiano Desiderio elefonino, televisione, telematica. E si potrebbe continuare per un bel po’. Quel «tele» iniziale è parolina greca che significa «lontano». Ma oggi il suo senso originario si è capovolto: ciò che è lontano è vicino. Tu sei a Milano e io a Napoli ma ci sentiamo ogni giorno. C’è chi si vede ogni giorno con il video-tele-fono e chi ogni tanto con la video-tele-conferenza. La lontananza si è accorciata, fino ad annullarsi nella sua virtualità domestica. «La tecnica del nostro tempo, la tecnica oggi trionfante, è infatti la tecnica del lontano». Antonio Prete, docente all’Università di Siena dove insegna Letterature comparate, ha scritto un Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri) per dire in modo semplice e chiaro come lo spazio e il tempo si siano contratti nelle telecomunicazioni e ciò che è lontano è vicino una volta che è diventato suono, visione, schermo, superficie. Come diceva Nunzio Filogamo: «Cari amici, vicini e lontani, buonasera». La nostra è l’epoca della lontananza vicina e della vicinanza lontana. Siamo contemporanei dei newyorkesi e dei californiani, o crediamo di esserlo, ma siamo stranieri in casa nostra. I telegiornali, a ogni ora del giorno, ci portano il mondo in casa, ma non sappiamo bene come muoverci nel mondo sotto casa. Il mondo lontano e virtuale è abitato da noi attraverso le telecomunicazioni, mentre il mondo vicino e reale è disabitato e per abitarlo facciamo ricorso

T

ancora una volta alla telecomunicazione. Le televisioni di quartiere sono il paradosso nel paradosso: se la televisione è la visione delle cose lontane che si fanno vicine, la televisione di quartiere è la visione delle cose vicine che si fanno lontane. La lingua greca - osserva Antonio Prete - declinava la lontananza «dando figura, movimento, gesto alla rappresentazione di quel che era lontano». La lingua greca dava senso alla lontananza che restando lontananza dava senso alla condizione umana. Le telecomunicazioni raccogliendo il mondo lontano come in un punto geometrico, annullano la lontananza: la durata diventa rapidità, il luogo diventa spazio, il tempo diventa simultaneo. Il luogo diventa talmente spaziale da diventare astratto e il tempo diventa talmente reale da diventare irreale. Il mondo, che è ricco, è più povero. Qual è lo scopo di un «trattato della lontananza» o sulla lontananza? Lascio la parola all’autore: «Si tratta di mostrare che compito del linguaggio - anche del linguaggio che è proprio della tecnica - è non ridurre lo spessore della lontananza, la ricchezza delle sue varianti, la profondità delle sue figure, i territori incommensurabili del suo spazio». La lontananza non va soppressa: ecco «un proposito all’altezza della nostra epoca». Tutto ciò che è extra-metodico (per rievocare Gadamer e quelle che un tempo si chiamavano «scienze dello spirito») tiene aperto lo spazio

della lontananza. La poesia, la narrazione, le arti rappresentano la lontananza come lontananza e non l’annullano in quella che Heidegger definì «l’epoca dell’immagine del mondo». Per vivere con pienezza la vita dobbiamo vivere poeticamente che, senza retorica, significa imparare a vivere anche senza telefonino, televisione, teletutto. Antonio Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri, 208 pagine, 15,00 euro

altre letture C’è chi salutò l’avvento di Internet come una nuova rivoluzione epocale, la più radicale di tutte, più ancora della rivoluzione industriale, più ancora del salto dal paleolitico al neolitico. Al netto dell’eccesso retorico che una dichiarazione del genere si porta dietro nessuno nega che sia proprio così. Solo che le rivoluzioni non hanno sempre una valenza positiva e oggi internet mostra il suo lato inquietante più delle sue virtù. A confutare questa visione pessimistica è un saggio di Carlo Formenti appena uscito per i tipi di Raffaello Cortina editore: Cybersoviet (279 pagine, 23,00 euro) dove si racconta del tramonto di un’illusione che tra le molte internet aveva acceso, e cioè l’estensione della democrazia attraverso l’agorà telematica. Quell’illusione è bella che morta dice Formenti, che racconta la deriva della rete tra consumismo, soprattutto pornografico, e massicce limitazioni della libertà. Il cristianesimo

non è un’ideologia, una dottrina o una filosofia. Per i cristiani è piuttosto un fatto, un avvenimento che si ripete e che ha prodotto conseguenze decisive sulla vita degli uomini. Nella serie dei quaderni di Flensburg l’editore Novalis ha pubblicato Resurrezione. Cristo nel presente (165 pagine, 18,00 euro), un’opera collettanea dove la resurrezione del Cristo viene presentata come l’evento centrale dell’evoluzione della terra e dell’umanità. «Il mistero dell’incarnazione del Cristo nell’uomo Gesù e la sua vittoria sulla morte irraggia tutta la sua potenza su ogni uomo».

Razzismo e antisemitismo sono state le piaghe più dolorose del Novecento. Marco Rossi, storico di formazione defeliciana e già collaboratore di Storia contemporanea, la rivista dello studioso reatino, ha affrontato questo argomento da un’ottica molto particolare: quella della cultura spiritualista ed esoterica del Novecento. Il suo Esoterismo e razzismo spirituale (Name edizioni, 282 pagine, 23,00 euro) racconta le controverse vicende dei più importanti autori della cultura politica del ’900. Personalità come René Guenon, Julius Evola, Elena Blavatsky, Fernando Pessoa, David Herbert Lawrence e altri vengono ricostruite in tutta la loro complessità, in relazione al cattolicesimo, al fascismo, al nazismo, alla liberaldemocrazia e ai problemi dEll’ebraismo e della cultura del complotto politico.


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LORENZO VIANI “VISITANDO L’OPERA MIA, È NECESSARIO SAPERE L’IDENTITÀ EFFETTIVA DI ANIMA CHE SENTO DI AVERE COI VAGABONDI E COI DÉPLACÉS”. UN AVVERTIMENTO, QUESTO DEL PITTORE, ANARCHICO E FASCISTA INSIEME, UTILE A RILEGGERE I SUOI QUADRI ESPOSTI ALLA GALLERIA D’ARTE MODERNA DELLA SUA VIAREGGIO

Il pianto antico di Lorenzaccio di Mario Bernardi Guardi suoi quadri inquietano e anche i suoi libri. Ti senti turbato, ti addentri in un universo sovraccarico di umori ignoti. Sboccia l’interrogativo: chi è Lorenzo Viani? Perché è «così»? Lui, una risposta ce l’ha, da sempre: «Visitando l’opera mia, per meglio penetrarne l’intimo spirito, è necessario sapere l’identità effettiva di anima che io sento di avere coi vagabondi e coi déplacés; la comunanza di vita che io ho col popolo, il quale mi espresse dalle sue viscere e da cui non mi sono mai, mai staccato: perché col popolo e in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi». Sono questo, dice Viani, e in quel «mai, mai» c’è un attestato di identità, pronunciato quasi con affanno: nessuno si attenti, invoca, a strapparmi dalla mia Viareggio e dalla mia gente. Quel volgo «disperso», fiaccato, dalla fatica di vivere, ma che ha un «nome» e un volto. Davvero cuore carne anima, e senza una virgola d’enfasi. Non c’è enfasi in Lorenzaccio, ma c’è, per dirla col Carducci che fa parte dei suoi «lari», l’emozione/ condivisione di un «pianto antico», che arroventa gli occhi e riempie lo sguardo di pietà forte. Lo vedi bene che Viani è vero. La sua commozione la senti, bagna ognuna delle figure, non è molle, non è dolciastra, è ispida, dura, ma così intimamente cristiana che ti sembra di avere di fronte non un pittore/scrittore, ma un predicatore, di quelli robusti del Medioevo profondo.

I

Le immagini ti balzano addosso, cazzotti e carezze insieme, epica povera e dolorante: marinai e madri, bimbi e mendicanti, ubriachi e carcerati, contadini e soldati, ciechi e filosofi di paese, suonatori ambulanti e cavatori, anarchici e

ossessioni, abita l’avventura. Certo,Viani vive, prima di tutto, nei e dei suoi quadri: e più di cento te ne squaderna la neonata Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Viareggio (Gamc), vantando, e giustamente, la sua bella collezione, prima in Italia, un omaggio e un onore permanenti. A Lorenzaccio quel che è suo, e non è ancora abbastanza. Comunque, ti metti a ripassare. Un Viani dopo l’altro. China e matita su carta, olio su cartone, carboncino, acquarello e pastello su cartone avorio, tempera su carta, tempera e olio su tela, olio su tela, sanguigna su carta avorio, pastello su cartone, matita, china e tempera su compensato, tecnica mista su tela, tecnica mista su legno… Linguaggi. Viani li parla tutti. La quotidianità elementare che è archetipo. La cronaca, umile, umilissima, che è volo visionario, e propone un’epica povera, ma, a suo modo, grandiosa. Un codice irto di suggestioni. Alfabeti di provincia, Toscana,Versilia,Viareggio, scenari ancora non dòmi a inizio Novecento, barbari quasi, comunque non toccati dallo sperpero vacanziero: un universo. L’arte è una febbre e lui brucia.Tutto lo fa bruciare. A partire dal nudo e crudo della vita, che addirittura scotta. E poi… I maiores in cui intinge il pennello, gli incontri/scoperte/scontri, l’urgenza di una lin-

Era uno sperimentatore e scriveva a Mussolini che la rivoluzione deve avere come avanguardia gli artisti, non gli intellettuali, né i tecnici, traditori della materia. E il Duce si convinceva che la cultura della rivoluzione nasceva proprio sulla riva del socialismo libertario... morti del mare, pazzi e derelitti, vecchi e vàgeri. Già, vàgeri. Lui, che attinge le parole dal suo popolo, ma le conia anche, e ci lavora su, spiega l’origine: «Da“navàgero”: uomo di bordo rotto a tutti i perigli e a tutte le navigazioni: uomo d’onore e di rispetto. Da “vagàtio”, il vagare, e da “vage”, sparsamente; qua e là dei latini? Perché si dice vàgero anche al vagabondo terrazzano». E cioè che abita in un paese, in un villaggio, e ne vive la povertà quotidiana, ma prende ugualmente il mare con la fantasia, e tra fantasmi, allucinazioni e

gua originalissima, plebea ed eccentrica, i sodalizi amicali che hanno i suoni dell’onda docile o tempestosa, le corrispondenze d’amorosi sensi che diventano storie d’amore e di rissa. La verifica d’obbligo circa le «influenze» ti dice le plurali fraternità d’armi: i macchiaioli e i divisionisti, Fattori e Nomellini, le sapienti calligrafie dannunziane e le furenti esplosioni marinettiane, i fauves e gli espressionisti, i realisti e i simbolisti e un precipizio visionario dove ti assaltano Goya e Daumier, Gericault, Van Gogh, Lautrec, Nolde,

ritratti


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Kirchner, Munch, Corinth, Bonnard, Soutine, Picasso… I «cattivi pensieri» di Bakunin, Kropotkin, Stirner, Prodhon, Nietzsche… Le suggestioni di De Sanctis, di Oriani, delle riviste fiorentine. Viani ingoia e macina tutto, ma non pone alcun sigillo: la materia continua a ribollire, fermentando provocazioni. E il pittore e lo scrittore sono della medesima razza: gemelli di cuore e di nervi, «rappresentano» qualcosa che è «umano, troppo umano» in modo struggente, un di più che sa di delirio. L’apocalissi di Viani irrompe nella quotidianità, tutto palpita e sanguina, o è come prosciugato dalla vita. Forme, scenari sono plasmati dalla visceralità: una sorta di sovversione «pura», sia che Lorenzaccio racconti gente di casa sua, appropriandosi del dialetto viareggino e del gergo marinaro, ma rimpastandoli con gusto espressionistico (si leggano le Storie di Vàgeri, a cura di Nicoletta Mainardi, con un saggio introduttivo di Marco Marchi,Vallecchi, 1988), sia che (e anche in questo caso estremizzando il sermo cotidianus e facendone una lingua stravolta, curiosa, bizzarra, che pare ritagliarsi con precisione quasi filologica sul mostruoso, il deformato, il grottesco), evochi la propria esperienza bohémienne sotto i cieli parigini. In una corte dei miracoli cenciosa, affamata, maleodorante, tra artisti poveri e pazzi, aspiranti dinamitardi, avventurieri dell’utopia, gente piovuta da ogni dove a tastare il cuore della civiltà, tuffata in un’esistenza infernale, disgraziati pieni di idee che non avranno

re; e che si è nazione e popolo quando si riconosce questa verità elementare.Viani lo diceva con la sua consueta franchezza: «In questa mole di pietre schematiche e nude, dove il pensiero può ascendere libero, non troverete ingombro di lauri o di querce, non epigrafi.Viareggio ai suoi Caduti. L’ancora e la scure romana. La figura italica di un Seminatore, spropositato di dimensione, apre col gesto la germinazione. I morti, sollevandosi, con l’estremo anelito offrono l’oro delle loro anime. Un urlo biblico pare che echeggi in Piazza Garibaldi: Popolo d’Italia, risorgi, cammina!». Osteggiato dai più perché «faceva paura», perché vi regnava l’immagine della morte, perché c’erano un contadino, e un fante morto, e un soldato moribondo, il Monumento celebrava «la moltitudine oscura che compie l’eroico olocausto alla maestà della Patria e raggiunge d’improvviso la gloria e l’ignoto». Non erano parole d’occasione: Viani «ci credeva». Libertario di formazione, nelle piazze interventiste aveva conosciuto tanti anarchici, sindacalisti e socialisti rivoluzionari, che volevano la guerra perché volevano un’altra Italia. Così, anche lui «era tornato alla Patria» ed era andato in trincea. Poi, la collaborazione al Popolo d’Italia, l’amicizia con Mussolini, l’adesione al Fascismo (si veda Lorenzo Viani e il Duce. Lettere 1928-1936, Archinto,1996). Lui, «il pittore della plebe italica», come lo definì Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, compagno in fervori mistico-rivoluzionari di Giuseppe Ungaretti ed Enrico Pea nel nome del-

Guardò a Fattori e a Nomellini, alle esplosioni marinettiane e ai fauves, agli espressionisti e ai simbolisti, a Picasso, a Van Gogh e a Nietzsche, in quel suo modo di rappresentare il troppo umano. Macinò tutto nei suoi molti linguaggi... a china, a matita, a tecnica mista storia e sopravvivono in alveari enormi, buchi senza aria e senza sole, che dovrebbero essere a un tempo case e atelier (Parigi, a cura di Marcello Ciccuto, Mondadori, 1980). Ma «da dove» viene questo «sperimentatore» che, come ha ben visto Barberi Squarotti, fa sembrare «prudente e moderato» lo stesso Gadda? Da impervie contrade dello spirito, vien voglia di dire: e chi ci si inoltra con la solita provvista di luoghi comuni rischia di non capirci nulla. A partire dal Viani, anarchico e fascista insieme, che tanto sconcerta per l’appunto chi ragiona per schemi. Bene, gli schemi li fa saltare subito Mussolini che così confida a De Begnac: «Lorenzo Viani, fascista rimasto libertario, o libertario divenuto fascista, mi scrive spesso dal suo studio viareggino di Fossa all’Abate. Mi parla del suo Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che mi fu presentato a Milano da Corridoni e da Marinetti, durante i mesi della battaglia per l’intervento, nel 1915. Mi parla della sua, ancora non licenziata o avviata al congedo, Armata dei Vàgeri. Mi dice che la rivoluzione deve avere come avanguardia gli artisti, non gli intellettuali, i pensatori, i filosofi. E nemmeno i tecnici che, per lui, sarebbero i traditori della sincerità della materia. Difende un mondo di indubbia suggestività, ma inesistente, o quasi. Mi ha inviato un piccolo disegno riproducente il volto di Amilcare Cipriani che io portai deputato nel 1913 al VI Collegio di Milano, e che lungamente mi onorò della sua amicizia. E ho capito, una volta di più, come e quanto la cultura della rivoluzione nasca proprio su quella riva del socialismo libertario, completamente avulsa da pratiche poetiche di tradizionale mediocrità» (Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino,1990, pp.428-429).

Facciamo una forzatura dicendo che «questo» Mussolini, che pure è duce, capo del governo, dittatore, conversando con De Begnac, dichiara una simpatia non solo umana, ma anche politico-culturale per Viani e il suo socialismo libertario? Non simpatizzavano davvero per Viani, invece, quei fascisti moderati, nazionalisti, benpensanti che, nell’estate del 1927, si scandalizzarono dinnanzi al Monumento ai Caduti in Piazza Garibaldi, a Viareggio, ideato da Lorenzaccio e modellato da Domenico Rambelli. E per forza, visto che si trattava di un’opera «sovversiva», che non faceva pensare a fanfare patriottiche, a discorsi altisonanti, a squillanti appelli nazionalisti. Nessuna retorica, ma consapevolezza che la guerra è sacrificio e sofferenza, dovere e dolo-

la «Repubblica d’Apua» e del mondo liberato dal militarismo e dalle burocrazie; lui era un «traditore»? No, perché i «compagni» lo avevano seguito sui campi di battaglia e poi sulle piazze. No, perché era restato sempre fedele alle radici familiari: babbo e mamma discendenti da antenati pastori e contadini, lavoro duro al servizio di Don Carlos di Borbone nella Villa Reale della pineta viareggina, tra l’azzurro, il verde e l’oro. Bei colori, ma c’era anche il nero della fame. Della morte, delle vesti delle vedove, della malattia, della miseria, del buio che inghiottiva tante vite. Non dimenticava nulla,Viani. Non dimenticava il suo maestro, Giovanni Fattori; e rievocava volentieri i tempi in cui, a Viareggio, aveva lavorato come garzone di barbiere e gli era capitato di far la barba a Bissolati, a Costa, a Puccini, e l’anarchico Pietro Gori gli aveva fatto crescere dentro l’istinto ribelle e la passione per la giustizia. Per l’umanità dei disperati. E degli artisti. A Parigi, tra il 1908 e il 1909, e tra il 1911 e il 1912, ne conobbe tanti; e fissò appunto ansie, deliri, attese, un maremoto di sogni e follie, anche qui nel nero più nero della miseria, inchiodandoli alla prosa di Parigi, che davvero non sai che cosa sia, se una tavolozza di colori pescati chissà dove o un vortice di incubi o un catalogo di mostruosità tinte e ritinte con iperrealismo barocco.Viani, o l’avanguardia che si scatena.Viani, che parla tutte le lingue e le accoglie e supera nella sua, facendone cifra di terribile, solitario splendore.Viani, che collabora al Corriere della Sera e vince il Premio Viareggio nel 1930 con Ritorno alla Patria, e che è sposato, ha una famiglia, ma che continua a rovistare tra il furore, la follia, la morte. Ma al Duce ci crede, e disegna un suo ritratto «psicografico», e fa altri quadri militanti: «giovane fascista», «camicia nera», «quadro di gruppo della famiglia fascista». C’è ancora tanta pena irrisolta in lui, ma anche fede. Nella memoria dei suoi avi poveri e perbene, nell’Italia che vede viva e vitale, nel Dio che ha ritrovato e che dà un senso alla fatica e al dolore. Il senso, poi… Tanti segni: e come fai a decifrarli, povero Lorenzaccio? Ma una ragione ci deve essere anche in quella tua morte fuori casa, al Lido di Ostia. Ti hanno chiamato nell’autunno del ‘36 per affrescare il Collegio IV Novembre degli Orfani dei Marinai, e tu, che soffri d’asma, lavori, lavori. Poi un attacco e la morte. Il 2 novembre, per la ricorrenza dei Morti: e proprio il giorno prima hai compiuto gli anni. A suo modo, uno scherzo di Carnevale, fuori stagione, lontano da Viareggio.


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TV

video

di Pier Mario Fasanotti

Da Sgarbi a Travaglio I a Dimmi la verità… trash di casa nostra

mbarazzo del telespettatore, almeno di chi vorrebbe evitare quel che una volta si chiamava trash e ora, vista l’attualità partenopea, converrebbe ribattezzare «monnezza». I vari Blob, compreso quello di Striscia la notizia (Canale 5) ripresentano l’ira scomposta di Vittorio Sgarbi, ex assessore alla cultura a Milano. Il pallido furente s’è scagliato contro Marco Travaglio: «Faccia di m.», «Faccia da tonto». Con un Santoro (Anno zero) più divertito che correttamente indignato: la tv come circo Orfei di periferia. Sgarbi non va d’accordo con nessuno, salvo che con se stesso (ma siamo davvero sicuri?). L’offesa ce l’ha in bocca come la saliva, del resto è la carta che ha sempre giocato per mettersi in mostra o per rafforzare il mito della sua (creduta) genialità: il sindaco Letizia Moratti, che una volta lui diceva di stimare, è diventata un’ignorante e bigotta «Suor Letizia». Anche un laureando in psicologia potrebbe interpretare in chiave infantile quanto Sgarbi ha dichiarato: «E io vado a Roma a parlare con Silvio…». Come dire: lo dico alla mamma. Mica è finita qui. L’offeso Travaglio, il Buster Keaton del commento politico, ha voluto riprendersi il palcoscenico. Con una pugnalata alle spalle del presidente del Senato (Che tempo fa, Rai 3).Travaglio ha l’ambizione di essere il guru dell’informazione negata a tutti noi. Ma, come annota Filippo Facci (ben più documentato del Marco dalla subdola cortesia sabauda) fa il gioco delle tre carte (giudiziarie), «mischia il vero e il falso» pur di condire un piattino avvelenato, e quando è a corto di argomenti dice che Giuliano Ferrara è grasso. Che eleganza. Le grida sguaiate e i sussurri insinuanti alzano l’audience? Se si segue il criterio dei biglietti in platea, tanto vale mandare in onda in prima serata un film porno.A proposito: pornografiche in senso lato (spudorata esibizione dell’intimo), sono alcune trasmissioni d’evasione. Mi riferisco a Dimmi la verità, su Rai Uno, sabato ore 21,15. Un personaggio famoso si sottopone all’esame della macchina della verità, con tanto di elettrodi che misurano sudorazione e battito cardiaco per rispondere alle domande formulate in precedenza dalla compagna o moglie. L’attore Andrea Roncato, dinanzi allo sguardo preoccupato della sua giovane partner, è stato giudicato veritiero quando ha detto d’essersi pentito d’aver fatto uso di droghe. Menzognero invece quando ha detto di non pensare ad altre donne mentre fa l’amore con lei. Poi è stato il turno di Marco Columbro. Ho spento.Vergognandomi per loro.

web

CURRENT TV COME YOUTUBE

games

IL PRINCIPE STA PER TORNARE

dvd

IL VIAGGIO INFINITO DI COPPOLA

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opo la presentazione dello scorso marzo alla Casa del cinema di Roma, ha da pochi giorni aperto i battenti Current tv. Televisione visibile sul web e nel bouquet Sky, il canale interattivo promosso tra gli altri da Al Gore è vocato alla stretta partecipazione degli utenti, chiamati a produrre filmati di interesse giornalistico selezionati dalla redazione e mandati in onda in base alla loro qua-

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arà pronto per Natale, l’ultimo attesissimo capitolo della saga Prince of Persia, iniziata quasi vent’anni fa, nel 1989, durante gloriosa era dei computer e delle console a 16bit (anche se il gioco originale fu addirittura convertito per un home computer a 8bit come il Sinclair Zx Spectrum). Dopo due decenni, la Ubisoft, che ha acquisito i diritti della serie qualche anno fa, ha de-

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opo averci restituito un magnifico ritratto del marito Francis Ford, con il documentario Viaggio all’inferno (1978), Eleanor Coppola ripete l’operazione che le fruttò grande interesse ai tempi di Apocalypse Now con un documentario che racconta la lavorazione del recente film capolavoro del filmaker del Padrino. Intitolato Coda, in omaggio agli ultimi metri della pellicola, il lavoro di Eleanor riparte dal set

Canale interattivo online ospita inchieste e lavori di denuncia di professionisti e dilettanti

A Natale l’ultimo capitolo di “Prince of Persia” Assassin’s Creed si trasforma in un manga

La moglie Eleanor dedica un nuovo documentario all’attività del regista italo-americano: “Coda”

lità. Contraltare di YouTube, Current tv ospita inchieste, reportage, lavori di denuncia ma anche servizi di arte e spettacolo prodotti da professionisti e dilettanti. In base al loro gradimento, i video più apprezzati si guadagnano inoltre il passaggio nella tv satellitare e un compenso che oscilla fra i 500 e i 100 euro. L’obiettivo è creare uno staff di circa 50 membri cui affidare temi e inchieste da svolgere in video. Al momento risultano tra i più popolari in home page (Current.com) un video sui call center, un’inchiesta su Portella della Ginestra e un mini documentario sui disagi dei pendolari.

ciso di imboccare con decisione la strada della next-gen e puntare al mercato di PlayStation 3, Xbox 360 e personal computer. Il gioco, scrivono le riviste specializzate che hanno avuto la possibilità di sperimentarlo in anteprima, sarà basato sul motore grafico (riveduto e corretto) di Assassin’s Creed, ma l’utilizzo della tecnica del cell shading conferisce al tutto un aspetto molto più “cool” con spiccate influenze jap-style. In più, promettono alla Ubisoft, ci sarà una struttura di gioco totalmente aperta, sul modello GTA4. Tremi la concorrenza, il Principe sta per tornare.

di trent’anni prima, in cui Francis Ford incitava i suoi attori all’urlo di powaba powaba!, per raccontarci man mano di un regista mutato insieme al mondo in cui è immerso. Più riflessivo e conciliante, il cineasta italo-americano svela la profonda passione maturata per il linguaggio metafilmico, che ha trovato in Youth without youth picchi di inusitata bellezza. Sospeso tra inferno e paradiso, il viaggio del filmaker americano, continua ancora dopo quarant’anni, immortalato dallo sguardo di Eleanor. Le ultime riprese di Coda, che ritraggono i primi fotogrammi di Un’altra giovinezza, chiariscono che non è mai finito.


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Esiliati a Bruges s’ispirano a Bosh di Anselma Dell’Olio n Bruges è un thriller sui generis che ruota intorno a due killer di professione irlandesi, in vacanza obbligata nella splendida città belga. È Natale, e sono stati mandati nella celebre località medievale nel periodo di massima affluenza dal capobanda dopo una missione andata storta. Dovranno attendere una fatidica telefonata del boss. L’espatrio, il trovarsi in un luogo altro, destabilizzante per i protagonisti, è un classico stilema del cinema che può dare ottimi frutti, come s’è visto di recente con il gratificante film israeliano La banda. Se in quella storia un’orchestra egiziana si trova smarrita per un incidente di percorso in un territorio storicamente avversario, senza conseguenze fatali se non per il loro orgoglio, lo stesso non si può dire per Ken e Ray. Bruges è terreno neutro per i due hit men, ma non sarà tenero con loro. Il più anziano, Ken (Brendan Gleeson), è pronto a godersi le meraviglie della città medievale meglio conservata d’Europa, con le sue cattedrali, musei, canali e vicoli lastricati di ciottoli. Ray (Colin Farrell) più giovane e irrequieto, è contrariato di brutto. La ragione prima del suo scontento è trovarsi in un paese straniero di cui non parla la lingua e non nella sua amata Dublino; la seconda, grazie all’affollamento natalizio, è che sarà costretto a dividere l’unica camera d’albergo disponibile con Ken.

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Uno dei piaceri di questo insolito, coinvolgente noir è proprio Colin Farrell, attore che spesso ha deluso le attese. Nell’onirico Mondo nuovo di Terrence Malick, era la sola nota stonata, una specie di carciofo totalmente non credibile nel ruolo di uno storico padre pellegrino. Persino in un’epica involontariamente comico-grottesca

come Alexander di Oliver Stone, sembrava smarrito nel ruolo del grande condottiero macedone. Come Ray, invece, un malavitoso alle prime armi, è di sorprendente efficacia. Il merito è da dividere tra la geniale sceneggiatura di Martin McDonagh, commediografo irlandese alla sua opera prima cinematografica, e il supporto di colleghi come Gleeson e Ralph Fiennes nel ruolo di Harry, il temuto capo criminale dei due. Ken, più navigato e saggio del suo impaziente compare, è deciso a sfruttare al meglio il soggiorno obbligato in un luogo stracolmo di cultura. Vuole vedere tutto e procede con metodo, esaminando i dépliant forniti dall’albergo. Quando decanta le glorie di Bruges al ragazzotto,

Six Shooter e le sue commedie hanno raccolto premi importanti troppo numerosi da elencare, sia a Londra sia a New York. L’irlandese, figlio di un manovale e di una cameriera, appartiene a una corrente teatrale denominata in your face theater: aggressiva, scioccante, brutale, scorretta al cubo.Tutto questo è presente nel film, e si ha modo di constatare la sua non gratuità: battute su nani, donne grasse e turisti americani tengono sveglia la platea a fin di bene. Non è un caso se McDonagh è l’unico commediografo dai tempi di Shakespeare ad avere ben quattro commedie in scena contemporaneamente nel West End di Londra. Si elude la trama perché sarebbe un peccato mortale rivelarla, zeppa

Guarda a Scorsese, Lynch, Malick e Tarantino il film di Martin McDonagh che ha per protagonisti due killer professionisti spediti nella città delle Fiandre per far perdere le loro tracce. Da non mancare, come “Certamente, forse”, commedia romantica di Adam Brooks Ray gli risponde indispettito: «Se fossi un cerebroleso cresciuto in campagna, forse Bruges mi farebbe un grande effetto. Ma non lo sono e non me lo fa». Ma forse è il ruolo che s’addice a Farrell: un giovane irlandese spaesato, al fondo un tipo decente, incolto, di non superba intelligenza, che ha fatto pessime scelte; per noia, per voglia di sensazioni forti, per uscire da una mediocrità senza prospettive. L’enorme talento di McDonagh è testimoniato da ogni scena di In Bruges, scritta con mirabile finezza, acume psicologico e dialoghi effervescenti e mai scontati. Ha vinto un Oscar per il suo cortometraggio

com’è di sviluppi travolgenti. Basti rinviare al Giudizio universale di Hieronymous Bosch, che i due killer rimirano con interesse per i devastanti tormenti raffigurati: piccole figure scuoiate, infilzate, annegate, un presagio del finale violento del film, intessuto di crisi di coscienza e battute ironiche. McDonagh cita solo cineasti come fonte d’ispirazione. Si può dire che da Martin Scorsese ha preso l’affetto lucido per i criminali, da David Lynch l’abilità nell’evocare atmosfere sospese e inquietanti, da Quentin Tarantino l’agilità nel defamiliarizzare lo splatter, da Terrence Malick il coraggio di affidarsi anche a imma-

gini e silenzi. Il risultato è un film emozionante, originale, con qualche difetto, ma che sarebbe una scemenza perdere. ***

Certamente, forse è una commedia romantica di Adam Brooks, il regista di Wimbledon, Che pasticcio Bridget Jones e French Kiss. Will (il blando e simpatico Ryan Reynolds) è un divorziando alle prese con la figlia Maya (la pugnace Abigail Breslin di Little Miss Sunshine), tornata da scuola con molte domande dopo la prima, spiazzante lezione di «educazione sessuale». È piena di curiosità, la principale delle quali è la voglia di sapere come si sono incontrati e amati i genitori. Will trasforma la domanda in un rebus: le racconterà le sue avventure amorose con le tre donne della sua vita, cambiandone i nomi, e alla fine Maya dovrà indovinare quale delle tre è diventata sua madre. Nei lunghi flashback siamo nella prima campagna presidenziale di Bill Clinton, dove Will inizia la sua futura carriera di consulente politico ai livelli più bassi. Emily (Elizabeth Banks) è la fidanzata degli anni universitari in Minnesota, Summer (Rachel Weisz) è l’amica che Emily gli dice di cercare a New York, e April (Isla Fisher) una collega (pagata, però) nel quartier generale della campagna Clinton dove Will fa il volontario. Lo script è buono ma non eccelso, le battute carine ma non folgoranti, ma il film resta godibile grazie a tre attrici di rango: la piccola e sotto utilizzata Breslin, la Weisz che mostra doti comiche insospettabili e superiori a quelli dei suoi ruoli drammatici, e in cima l’incantevole Fisher (Due single a nozze) superba comédienne, minuta di taglia e di immenso talento, fidanzata nella vita con Sasha Baron Cohen (Borat).Vale il prezzo del biglietto.


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Walt Whitman, l’

IL CANTO DI ME STESSO (…) Attraverso di me molte lunghe voci mute, voci di interminabili generazioni di prigionieri e di schiavi, voci di malati, di disperati, di ladri, di nani, voci dei cicli di preparazione e accrescimento, e del filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterni, e dei diritti di quelli che altri sottomettono, dei deformi, dei rozzi, dei depressi, degli sciocchi, dei disprezzati, nebbia nell’aria, scarafaggi che rotolano i loro grumi di sterco. Attraverso di me le voci proibite, voci di sesso e lussurie, voci velate cui io rimuovo il velo, voci indecenti che io rendo chiare e trasfiguro (…) WALT WHITMAN da Foglie d’erba (traduzione di Giuseppe Conte, Oscar Mondadori)

poesia

di Filippo La Porta alt Whitman, sempre entusiasta, generoso, eccitato, ottimista, gioiosamente celebrativo, è la quintessenza dell’America. Non so quale altro paese, nella modernità possa vantare un poeta nazionale a esso così intimamente congeniale. Cosa celebra? Si potrebbe dire, per parafrasarlo, che dà il benvenuto a ogni cosa. Celebra se stesso - in cui poi si riverbera il cosmo -, e poi la comunità, la folla, la natura, il corpo («quello del maschio è perfetto, perfetto quello della/femmina»), l’eros e l’autoerotismo, l’individuo, la democrazia americana. Si fa portatore e medium di una immensa collettività di vivi e di morti, di donne e di uomini, di fratelli e sorelle, di umiliati e offesi, di bianchi e di neri e di pellerossa. Riscatta i «disprezzati» perché trasfigura in canto la loro voce muta, stravolta, piagata dal dolore. La sua è una poesia corale, fatta da un io che vuole espandersi, da una persona ostinata e umile, «non uno che si sente superiore agli uomini e alle donne». Il maestro Emerson gli disse, con una precisione forse svalutativa, che i suoi versi erano a metà tra la Baghavadgita e il New York Herald Tribune, tra tradizione alta, sa-

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il club di calliope

pienziale (Whitman conosce bene la Bibbia, i Veda, il Corano, i miti), e gerghi e retoriche delle gazzette (è stato giornalista e inviato speciale negli Stati del Sud, e poi infermiere durante la guerra di Secessione). E anche questo è l’America: mescolare liberamente i linguaggi, riusare e divulgare la tradizione culturale a uso della massa, così come - poniamo - Gershwin copiava genialmente Debussy e perfino Ridley Scott nel Gladiatore prova a rifare i dialoghi delle tragedie storiche di Shakespeare. Del resto lo stesso Whitman ha conosciuto recentemente un momento di grande popolarità con il film L’attimo fuggente dove l’insegnante libertario e anticonformista impersonato da Robin Williams recita agli studenti sul prato «O Capitano, mio capitano…». La poesia moderna nasce con i due grandi modelli contrapposti - entrambi rivoluzionari - delle Foglie d’erba (1955) e dei Fiori del male (1857) di Baudelaire. Da una parte la poesia pura, assoluta, solipsistica, dall’altra, con Whitman, una poesia prosastica, comunitaria, vicina all’apologo, alla satira, all’epopea (la mia è ovviamente una contrapposizione schematica: per certi versi lo schema si

LA PRIMA VOLTA DI PAUL MULDOON in libreria

di Loretto Rafanelli aul Muldoon, poeta irlandese, come il grande Nobel Seamus Heaney, del quale si può ritenere allievo, nato nel 1951, viene pubblicato per la prima volta in Italia (Poesie, Mondadori, 424 pagine, 15,00 euro), per la traduzione e la cura dell’ottimo anglista Luca Guerneri. Muldoon è considerato uno dei maggiori poeti inglesi, e ha il grande merito di aver innovato la poesia del suo paese, portando, come dice il critico Roberto Galaverni, «atteggiamenti espressivi, relazioni con la lingua fino a quel punto inespresse». Egli è oggi il punto di riferimento per le ultime generazioni dei poeti d’oltremanica, molti dei quali, ben inteso, assai conosciuti a

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profumo d’aria s’alza dai cippi girovaga in turbini e in vertigini di muro spalma umori uomini penzolanti a spalliera ergono mattoni scheggiati schiumando di calce e cemento l’aria che frizza è settembre barbaglio di sole calante brezza impiccata ai loculi memorie inumate sogni filiali stagnanti in passioni di ostico idioma lemmari di vita sigillati con chiavistelli ruvidi in grembi d’attesa la speranza era - incenerita ora vive nell’orfica lingua del pianto Andrea Manzi da (D)io@parole.com (Poiesis)

Paul Muldoon, poeta irlandese allievo di Seamus Heaney, ora tradotto in Italia, è una voce carica di novità espressive livello internazionale (McKendrick, Armitage, Hofmann, ecc.). La poesia di Muldoon, come quella di alcuni suoi connazionali, appare dotata di una forte originalità. Pensiamo all’attenzione che egli mostra per gli aspetti materiali e per gli oggetti che ci circondano. Pensiamo all’uso del linguaggio che a volte è quello comune della gente (con i vocaboli provenienti anche dai più diversi «settori» sociali). Quindi il suo interesse per gli antichi miti. Infine il sapiente uso della forma prosastica. Novità espressive che si avvertono in modo particolare se si confrontano con la consuetudine poetica italiana, quasi sempre lirica, ermetica e intimistica, poco propensa a rinnovarsi (senza con questo voler denigrare l’importante mondo poetico italiano). Un’altra caratteristica di Muldoon da segnalare è che egli, pur essendo un radicato irlandese (ma vive negli Stati Uniti dal 1987), pare essere in viaggio per le strade del globo. Non esiste per lui solo il green country. E nonostante che nei suoi versi vi siano i ricordi e le suggestioni di una nazione, egli è un poeta aperto alle mille voci e ai mille colori del mondo.


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’America e la fede come premessa potrebbe perfino ribaltare!)… Nella poesia che ho scelto, tratta dal Canto di me stesso, probabilmente la sezione più rappresentativa delle Foglie d’erba, si ricorre all’anafora, per sottolinearne l’aspetto declamatorio («Attraverso di me…») e poi l’uso magistrale della tecnica dell’enumerazione, proprio per indicare un gusto metamorfico dell’eterogeneo e dell’innumerevole. Ed enumerazione ritroviamo negli altri versi famosi dello stesso canto: «Credi che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di/lavoro delle stelle,/ e ugualmente è perfetta la formica, e un grano di sabbia,/ e l’uovo dello scricciolo, / e una raganella è un capolavoro dei più alti/(…)». Whitman crede a differenza dell’omologo Baudelaire che la città moderna, di cui pure entrambi furono cantori, non sia l’ultima parola. In lui la natura, con i suoi cicli, i suoi tempi e spazi incommensurabili, sempre rispunta dietro l’artificiale. A Whitman piace far vibrare i nomi delle cose, dei luoghi. Si pensi a un altro elenco, di nomi pellerossa che ricordano i richiami degli uccelli, e che poi quasi sciogliendosi diventano nomi di città e regioni «Okonee, Koosa, Ottawa, Moncogahela, Sauk, Natchez,/Chattahoochee, Kaqueta,Oronoco, /(…)». Poesia di apparente, estrema sempli-

cità, ma anche in qualche modo sfuggente. Questa sua inafferrabilità ed ermeticità è legata, secondo il grande critico Harold Bloom, alla natura idiosincratica, demoniaca del real me, che sottende il my self, e cioè l’io empirico, psicologico, sessuato, sociale, etc. Questo real me è il mistero attorno a cui ruota il suo canzoniere, ma è anche la memoria oscura di una colpa se è vero che quel real me immagina la libertà come «intima perfezione di solitudine» (Bloom), come utopia estatica di autosufficienza, come paradossale pienezza autistica… Ma ci sarà nella sua illimitata filantropia, nella sua euforica apologia del tutto («il potente spettacolo continua»: the powerful play goes on), nel suo commosso, incontenibile amore cosmico (perfino morire è bellissimo: «tutto continua e si estende, niente si annulla»), una nota negativa, l’incombere di una tenebra, il riconoscimento tragico - di una disarmonia e contraddizione non sanabile? Solo apparentemente vi è assente. La tragedia non è legata solo alla percezione di un dolore universale, di una felicità perduta, come ha detto in queste pagine Roberto Mussapi commentando in modo suggestivo i versi dedicati da Whitman al canto di un uccello all’alba. Potrebbe forse nascere dalla felicità stessa, per quanto ha di

smisurato, oceanico e straziante: saremo davvero capaci di rispondere, con il nostro corpo separato, limitato, a questo appello panico di fusione universale, alla certezza della «sovrabbondanza di tutto, che non ci sono confini»? Ma anche dalla incapacità di credere.Tale è la natura dell’ottimismo americano. Questo è il segreto di quel popolo e di quel paese. Chi vi aderisce, perlopiù da emigrato e transfuga, sceglie di condividere non una etnia ma una idea, e anzi una fede (fede laica e intrisa di motivi religiosi, fede nella democrazia ma anche nel reciproco rispecchiarsi di ogni cosa, nell’energia allo stato puro, nella uguaglianza creaturale e nella vita eterna), come sapevano bene Hemingway e Ginsberg. Una fede indispensabile per poter «vivere d’ora innanzi una vita come un poema di /nuove gioie». Guai a non avere nessuna fede (premessa della democrazia e della poesia)! In questo senso il male coincide con la disperazione e lo scoramento degli scettici, con il loro «male di tormento». Se, come spiega il padre alla bambina piangente su una spiaggia, quelle «nuvole depredanti non saranno più a lungo vittoriose», non divoreranno il cielo intero, ancora una volta la possibilità che una stella delicata e luminosa riaffiori dipende solo dalla nostra fede.

UN POPOLO DI POETI < Precipitai, con te, nel coro delle vite dimezzate, nell’ora grigia, io temevo, tu temevi, tornammo infine sapienze sterminate, occhi spodestati dalla verità, sapevo solo il nome che portavi, la data che tenevi nella mano, l’ora precisa che ti divise in due: di notte il frutto della morte li sfamava, di giorno loro morirono per noi. Massimo Baldi

< Ora che i pascoli sono dietro le sbarre di plastica nella campagna industriale resta muto il camino della Posta dirupi negli androni qualche ciuffo di peli al vento sui portoni sfondati delle stalle doveva arrivare l’eclissi di luna per vedere l’abruzzese con il passo più antico del west sbattere la porta nera dietro la fatica nel rimestare caglio tutto il pomeriggio voltarsi verso il chiavistello girare le mandate sulle volpi e sul futuro. Fantasmi 2 Enrico Fraccacreta

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Sei qui da solo a scrivere nel vento per la vergogna di saper cantare (non si usa, non si usa più) tra quel passato che non ha spessore e un futuro già morto e sepolto ti rimane questo scheletrico presente da rimpolpare con la voce. Ma qual è allora il senso delle mani, di una bocca che conosce il mondo? Ascolta e racconta il pane quotidiano i passi attoniti sulla pietra, la terra sorda e gli occhi che cercano radici sentiranno il suono blu del mare scrivi nel vento scrivi sulla sabbia per questo sei nato, è questo che ti tocca. Di fronte a te Patrizia Villani

«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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MOSTRE

arti

Guido Reni, il ritmo del segno di Olga Melasecchi l mistero della creazione di un’opera d’arte è racchiuso nella mente dell’artista, e quando ci si riferisce a un’opera di epoche passate rimane sempre il rimpianto di non poter comprenderne il complesso processo creativo, il percorso mentale del suo artefice, i suoi modelli di riferimento. A volte le fonti documentarie aiutano gli storici a ricostruire la genesi di un’opera d’arte, ma la soddisfazione maggiore viene data dalla scoperta del progetto concreto su cui è stata costruita la composizione finale dell’opera stessa, e cioè il disegno preparatorio. Nel disegno l’artista rivela in modo chiaro il suo pensiero, lo studio che precede l’esecuzione pittorica o scultorea, spesso anzi nel disegno percepiamo l’ispirazione immediata, la spontaneità della creazione. Ci sono stati artisti che hanno disegnato poco o che non hanno disegnato affatto, come ad esempio Caravaggio, del quale si sa che progettava i suoi dipinti direttamente sulla tela, e ci sono stati artisti che invece hanno disegnato molto, e che hanno lasciato al godimento dei posteri una gran quantità di materiale grafico. Tra questi uno dei più prolifici è stato il pittore bolognese Guido Reni (1575-1642) i cui disegni sono conservati nelle maggiori collezioni grafiche internazionali, e tra queste anche il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi che ne possiede un abbondante corpus e da cui ha in questi mesi selezionato una gran quantità di importanti e anche inediti esemplari per esporli nella bella mostra Le «stanze» di Guido Reni. Disegni del maestro e della scuola, affidata alla cura della studiosa di grafica reniana Babette Bohn.

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Come dichiara il titolo sono in mostra non solo disegni del grande maestro bolognese, ma anche dei suoi allievi che frequentavano in gran numero lo studio del Reni, cioè le sue «stanze», così definite dal biografo, il canonico Carlo Cesare Malvasia che ci ha lasciato tante e ricche informazioni sulla complessa personaltà del pittore. La Bohn ha operato una scelta delle opere seguendo proprio lo scritto del Malvasia, dunque dai disegni giovanili della formazione bolognese presso la scuola dei Carracci e soprattutto presso lo studio del pittore fiammingo Denys Calvaert, che ha avuto una grossa influenza sull’arte del Reni, fino alle opere della maturità e infine all’eredità lasciata ai suoi allievi. Scelta cronologica di fogli attraverso i quali è possibile ripercorrere gli spostamenti del pittore, i suoi orientamenti stilistici, le sue scelte iconografiche, le sue inclinazioni, anche le sue manie, che non erano poche. Una personalità che oggi potremmo definire ossessiva, ma forse sarebbe meglio dire di una sensibilità estrema, che aveva assorbito profondamente lo spirito religioso del suo tempo e di cui è diventato testimone mediante un linguaggio artistico altamente estetizzante: la ricerca maniacale del bello assoluto, dove la bellezza è manifestazione di Dio in terra, e dove dunque etica ed

estetica coincidono. Come un alchimista in cerca della formula segreta per creare l’oro, così Guido Reni lavorava intorno a ogni sua opera, alla ricerca della perfezione. «Vorrei haver havuto pennello Angelico, o forme di Paradiso», scrisse a a proposito del San Michele Arcangelo dipinto a olio su seta e ora nella chiesa romana di S. Maria della Concezione, «per formar l’Arcangelo o vederlo in ciel, ma io non ho potuto salir tant’alto, e invano l’ho cercate in terra. Sicché ho riguardato in quella forma, che nell’idea mi sono stabilita...». E la forma di quell’idea, come insegnavano nelle Accademie i teorici dell’arte, veni-

va espressa nel disegno. Guido Reni fu un disegnatore ossessivo, realizzò instancabilmente migliaia di disegni, di cui, come viene evidenziato da Charles Dempsey nel bel catalogo edito da Leo S. Olschki in una nuova ed elegante veste editoriale, «solamente una porzione si è salvata a causa sia del loro riuso e del ripetuto ricalco da parte di allievi e seguaci... i suoi disegni testimoniano in modo eloquente l’intenso impegno che Reni destinò alla propria arte e ai dipinti finiti». I disegni in mostra testimoniano le fatiche dedicate alla sua arte, che dai pittori suoi avversari,

come Annibale Carracci, venivano invece minimizzate e attribuite a un dono di natura. Il Malvasia scriveva che Guido «studiava più che mai s’avesse fatto, riducendosi ogni sera, mentre gli scolari attorno al nudo, o a’ rilievi a concorrenza si travagliavano, a disegnare per tre, o quattro ore intere, teste in varie vedute, e d’ogni sesso, d’ogni età, mani, piedi, pensieri di storie», con la stessa tenacia di quando, bambino, veniva sgridato dai genitori per il troppo studio «e quelle battiture ricevute per amore della virtù», raccontava l’artista, «mi erano care punture, e dolci stimoli a maggiormente cercarla... Mi privavano della carta, ed io segnava ogni muro... mi levavano il lume perché dormissi, ed io ingegnosamente provedevamene d’uno ascoso sotto il letto...». Lo studio preparatorio per ogni opera implicava diverse fasi, dallo schizzo della prima idea, allo studio meticoloso dei particolari, al disegno rifinito da riportare sulla tela o da presentare al committente per l’approvazione. Se apprezziamo questi ultimi per la sensualità delle forme e per la loro classica bellezza, non possiamo non rimanere incantati dai primi abbozzi più familiari al nostro gusto moderno, per la rapidità del tratto, per l’essenzialità del segno che in un apparente groviglio di linee scarabocchiate nasconde la velocità dell’idea, la purezza della creazione.

È questo il caso del noto foglio con l’abbozzo per l’Assunzione della Vergine dipinta da Reni tra il 1599 e il1600 per l’altar maggiore della chiesa di S. Biagio a Pieve di Cento, o dell’altro con lo Schizzo per l’affresco del Padre Eterno con gli angeli musicanti nell’Oratorio di Santa Silvia a Roma del 1609, con un ritmo e una purezza di segno da spartito musicale, come se Guido disegnando gli angeli musicanti ne scrivesse la loro stessa musica. Divino Guido, come è stato ben presto chiamato dai suoi biografi, il Raffaello del Barocco ai disegni del Sanzio certamente si richiamava, nel comune tratto breve e circolare, così come si era conformato ai dettami della Controriforma in materia di produzione delle immagini, realizzando, specialmente durante il soggiorno romano, tra il 1608 e il 1614, disegni preparatori che testimoniano lo studio delle opere paleocristiane, di cui si lodava la chiarezza e semplicità di espressione. Disegni a carboncino, a sanguigna, con rialzi di biacca, a volte acquarellati, disegni di santi, teste con gli occhi rivolti al cielo, rarissimi ritratti, eseguiti con uno stile inconfondibile a cui si erano conformati schiere di allievi, come Giovanni Andrea Sirani, Pier Francesco Cittadini, Guido Cagnacci, Simone Cantarini, per ricordare i più famosi, la mostra fiorentina apre in tal modo una finestra sulla produzione grafica di una tra le più famose botteghe della pittura italiana. Le «stanze» di Guido Reni. Disegni del maestro e della scuola, Firenze, Galleria degli Uffizi fino al 1° giugno


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ARCHITETTURA

Cerchio e cupola visti da Hautecoeur di Marzia Marandola

el 1954 il grande storico dell’arte Louis Hautecoeur (1884-1973), esimio funzionario del Louvre, celebre per l’infaticabile impegno nello studio e nella conservazione del patrimonio artistico, pubblica a Parigi Mystique et architecture, un testo divenuto immediatamente imprescindibile per gli studiosi della storia del pensiero e delle arti. Il volume, per la prima volta tradotto integralmente in italiano da Guglielmo Bilancioni, professore di storia dell’architettura all’Università di Genova, è articolato in due parti che analizzano i legami tra una forma geometrica primaria - cerchio e cupola - e le sue valenze simboliche. Tali relazioni sono inseguite attraverso una minuziosa e coltissima ricerca che prende le mosse all’alba della storia, nel 3000 a.C., dal culto dei morti e dalle sepolture ctonie neolitiche, per giungere fino a edifici del XVII e XVIII secolo. La prima parte, Dal cerchio ctonio alla cupola celeste, ricostruisce l’origine della pianta centrale a partire dagli edifici ctoni circolari, dagli antri divini e dalle volte rupestri, passando ai templi, alle tombe e ai ninfei romani e pagani, fino ai martyria cristiani, ai battisteri, ai cibori e alle absidi. L’autore, interrogandosi sulle ragioni dell’impianto circolare negli edifici sepolcrali, avanza numerose ipotesi: una prima, definita meccanica, che riconduce la forma circolare, o meglio conica, all’assetto naturale in cui si dispone un cumulo di terra, di pietre o, nella fattispecie, un cumulo di cenere. La forma circolare delle sepolture avrebbe anche un’origine mimetica, derivando direttamente dalla capanna: la forma primigenia dell’abitazione umana sarebbe rotonda, in quanto risulta più immediato tracciare un contorno curvilineo che ortogonale. Nella seconda parte Hautecoeur allarga lo sguardo e il campo alla dimensione tridimensionale, e dal cerchio passa agli edifici voltati e a quelli che, a imitazione del cielo, sono coperti da cupole, ripercorrendo di questi ultimi la simbologia assunta di volta in volta nel mondo cristiano, nell’Islam e nell’estremo Oriente. Nella colta prefazione intitolata Trionfo della sfera cosmica, Bilancioni sa ripercorrere con eleganza critica la mirabolante molteplicità dei riferimenti messi in campo da

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Hautecoeur, sottolineando che nel libro, «sono sempre legate, in un prezioso tessuto, ammirazione e costruzione; contemplazione e religio. E architettura è imago mundi». Il curatore si destreggia abilmente in un testo torrenziale, carico di dottrina, straordinariamente denso di riferimenti, citazioni, storie, miti e opere, dispiegati in uno spaziotempo smisurato, guidando il lettore in una fantasmagoria di immagini e di segni che esige un’attenta dedizione, pur facilitata dalla traduzione fluente e godibile del testo. La centralità storiografica del volume è ribadita dalla re-

centissima pubblicazione della biografia critica del grande storico francese, Du dessein historique à l’action publique. Louis Hautecoeur et l’architecture en France, (A. et J. Picard) di Antonio Brucculeri, un giovane e promettente studioso italiano, curatore anche di una mostra parigina dedicata a Hautecoeur.

Louis Hautecoeur, Mistica e architettura. Il simbolismo del cerchio e della cupola, a cura di Guglielmo Bilancioni, Bollati Boringhieri, 444 pagine, 55,00 euro

autostorie

La tormentata autostrada verso il Sud di Paolo Malagodi ncora oggi può venire da chiedersi perché, dopo aver lasciata Milano, quella che si percorre come «Autostrada del Sole» si fermi a Napoli e quasi rinunciando ad attraversare la zona d’Italia dove il sole è più alto. Per capirne, almeno in parte, le ragioni serve riandare al maggio 1955 quando Giuseppe Romita, allora ministro dei Lavori pubblici, varò il piano di una rete autostradale coerente con i grandi itinerari internazionali disegnati, nel 1950, dall’apposita Convenzione di Ginevra per una serie di infrastrutture a scala europea. La proposta italiana, presto detta «piano Romita», considerava il raddoppio delle autostrade «di prima generazione» e il completamento della trasversale dalla Liguria a Trieste,

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oltre a una serie di nuove opere: la dorsale Nord-Sud con termine a Reggio Calabria, quella adriatica fino al Salento, la Napoli-Bari e la CataniaPalermo. Interventi limitati, tuttavia, dalle disponibilità finanziarie tanto che per la generalità delle tratte meridionali si provvedeva, in pratica, alla mera copertura dei progetti di massima. Come avvenne per la stessa Autostrada del Sole, la cui concessione fu data nell’aprile 1956 a una società appositamente creata dall’Iri, ma soltanto per i quasi 754 chilometri da Milano a Napoli; a circa due ore di auto dopo Roma, con la successiva prosecuzione verso Reggio Calabria rimandata a un ipotetico tracciato in fregio alla costa tirrenica. Aperta al traffico nel 1959 da Milano a Bologna e da Capua a Napoli, l’Autosole raggiunse Firenze nel 1960 per

essere finita nel 1964, in anni di boom economico e di rapida diffusione dell’automobile. Sul non risolto attraversamento della parte più meridionale della penisola si stava intanto cercando una soluzione, preceduta nel marzo 1961 dal riordino dell’Anas che, oltre alle competenze sulla rete statale, si vide attribuire anche la funzione di costruire e gestire autostrade a totale carico pubblico. Nel luglio di quell’anno fu, perciò, conferita all’Anas l’esecuzione della Salerno-Reggio Calabria quale autostrada senza pedaggio e, rispetto alla tirrenica, vennero avanzate due alternative: una più lunga di circa 40 chilometri seguendo la dorsale appenninica dell’interno, l’altra sulla costa ionica ma di ancora maggior percorrenza. L’Anas preferì il tracciato mediano e sul perché della scelta «la risposta più

ovvia è che ciò sia avvenuto per inglobare nel percorso la città di Cosenza, dietro l’influente pressione del socialista Giacomo Mancini e del democristiano Riccardo Misasi, entrambi cosentini». Questa almeno è la tesi che Leandra D’Antone sostiene nell’analisi (Senza pedaggio, storia dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, Donzelli editore, 122 pagine, 14,50 euro) sull’opera costruita dal 1964 al 1974, con enormi difficoltà e su un percorso di oltre 440 chilometri ma con standard inferiori ad altre autostrade e senza corsie di emergenza. Limiti che hanno reso indispensabili lavori di ammodernamento, in corso ormai da anni in terreni per lo più montani e che permettono lenti progressi, con ripetuti incolonnamenti ancora a lungo causati dagli innumerevoli cantieri aperti.


pagina 16 • 17 maggio 2008

er quale motivo per tutto il Novecento non si sono quasi scritte utopie, mentre invece hanno abbondato le antiutopie o distopie? La risposta a un fatto acclarato come questo è che probabilmente essendosi concretizzato il (teorico) «migliore dei mondi possibili», in primis quello comunista della società senza classi, della proprietà comune dei beni eccetera, sognato da tutte le utopie letterarie a partire da Tommaso Moro, e poi teorizzato dal «socialismo utopico» e quindi da Marx (che pur lo criticava duramente), si è immediatamente constatata in corpore vili la differenza fra teoria e pratica: come reazione sono iniziate a uscire, praticamente da subito, le antiutopie che ne smascheravano la velleita e la brutalittà. E così è stato per tutto il secolo appena trascorso. Le utopie che nel Novecento descrivevano un mondo migliore, ideale, magari ecologista, si contano sulle dita di una mano. Le antiutopie che mettono in guardia o denunciano il «peggiore dei mondi possibili» abbondano.

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Ma oggi, all’inizio del XXI secolo, perché ancora mancano all’appello? Perché le «straordinarie sorti e progressive» non sollecitano più l’inventiva degli scrittori dell’alta letteratura o della narrativa popolare? Forse perché esiste una disillusione, un disinganno generalizzati che non inducono all’ottimismo. Ecco quel che non ha capito, in fondo, il professor Fredric Jameson, noto docente americano di letteratura, marxista non pentito (che quindi fa il paio con lo storico inglese Eric Hobsbawn, quello del Secolo breve), il quale ha scritto un paio d’anni fa Il desiderio chiamato utopia, ora tradotto da Feltrinelli. La sua griglia interpretativa, infatti, gli impedisce di capire il motivo per cui l’utopia non attira più gli scrittori, perché da oltre un secolo non escano più capolavori di questo genere letterario tra il filofosico, l’ideologico e il narrativo. Al punto da teorizzare un paradosso: il fatto che l’utopia, come genere letterario, non sia più appetibile, dimostra la sua utilità… E

MobyDICK

ai confini della realtà

L’handicap dell’utopia di Gianfranco de Turris infatti, cosa si sta stampando o ristampando di recente in Italia? Soltanto antiutopie che mettono in guardia nei confronti di quelli che - evidentemente - sono considerati ancora dei pericoli: ad esempio la Liberilibri di Macerata ha ripresentato dopo moltissimi anni di assenza il piccolo capolavoro di Ayn Rand Antifona (1938), la cui vicenda è ambientata in una società arri-

tragico: la sua totale inapplicabilità per aver essa pensato un modello di società astratto, esclusivamente scientista e razionale, avendo tagliato fuori ogni altra caratteristica umana. E poiché l’uomo non è fatto di sola razionalità pura, ma anche di un coté irrazionale, sentimentale, mitico, ecco che le utopie falliscono sempre miseramente. Lo stesso cervello umano, do-

La sua totale inapplicabilità per aver pensato un modello di società astratto ha cancellato ogni suo appeal. Così, invece di sollecitare l’inventiva degli scrittori, viene sopraffatta dall’antiutopia, di cui si ripubblicano infiniti testi… vata a tale egualitarismo da aver abolito il pronome «io» e che si rifà evidentemente a Noi (1924) di Eugenio Zamjatin, la prima antiutopia contro il bolscevismo instauratosi in Russia; e Giustizia facciale (1960) dell’inglese L.P.Hartley, satira grottesca e terribile di una Gran Bretagna dominata da un governo di soffocante maternalismo, buonismo e politicamente corretto ante litteram di tipo laburista. È recente, poi, la ripubblicazione da parte della Jaca Book di Milano del Padrone del mondo (1907) di Robert Hugh Benson, vescovo inglese prima protestante e poi cattolico, che descrive come l’Anticristo cerchi di conquistare il pianeta grazie al socialismo e all’«umanesimo». L’handicap che l’utopia deve scontare è un destino

vrebbe ammonirlo: i due emisferi di cui è composto, il destro e il sinistro, governano esattamente questa duplice caratteristica dell’essere umano.

I razionalisti a oltranza, i fondamentalisti della scienza, gli integralisti tecnocratici certe cose dovrebbero conoscerle benissimo, eppure non se ne curano e teorizzano come se fossimo solo ed esclusivamente pura ragione. E per far ciò le utopie «realizzate» non hanno guardato il numero di morti che costava il metterle in pratica: cosa è stato il tentativo di comunismo integrale in Cambogia da parte di Pol Pot con milioni di morti se non cercare di mettere in pratica una utopia agraria, anti-intellettuale, anti-borghese, anti-capitalista?

È costata la fine terribile di quasi metà della popolazione del Paese asiatico. Sicché si può capire lo scrittore spagnolo Javier Cercas quando su La Stampa (28 marzo 2008) scrive, parafrando un noto detto variamente attribuito: «Quando sento la parola utopia mi viene voglia di prendere un bazooka e di sparare su tutto ciò che si muove». Avendo compreso questo punto essenziale i più aggiornati teorici dell’utopia, in specie italiani, hanno posto dei paletti ben chiari nella sua definizione, sfumando l’accento su ragione e scienza, e facendo riferimento anche ai diritti umani della persona. Perché, non ci sono dubbi, che se viene atrofizzata la spinta al cambiamento una società si atrofizza e muore. Bisogna solo capire cosa si intende per «cambiamento». Anche un ritorno a valori del passato può essere un significatrivo cambiamento in una società che ha perso di vista certe radici o punti di riferimento. Anche la cosiddetta «rivoluzione conservatrice» presuppone un cambiamento. Cercas ha così torto e ragione insieme: non si può impedire di sognare società migliori di quella in cui si vive; nello stesso tempo bisogna vedere se questa società va contro l’uomo o in suo favore, se è un’arida costruzione intellettuale da «ingegneri sociali», oppure prende in considerazione le qualità innate e intrinseche dell’uomo e cerca di modellare, in base a queste, un mondo alternativo, meno artitificiale e artificioso. Qualcosa in tal senso ha cercato di fare uno scrittore americano dell’ultima generazione, James Patrick Kelley, che con il suo breve romanzo L’utopia di Walden (2005), edito da Delos Book di Milano, vincitore del Premio Nebula, immagina un pianeta che segue i precetti di Thoreau, ma poi si scontra con alcune contraddizioni interne ed è costretto ad adottare le odiate «macchine», almeno entro certi limiti non pervasivi e invasivi. Insomma, una via di mezzo fra utopia bucolica e realismo, fra l’agognato «ritorno alla natura» e una tecnologia ecocompatibile, come si dice oggi soft.


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