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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
LUCHETTI “La nostra vita” nelle sale dopo Cannes
EQUO E SOLIDALE di Anselma Dell’Olio
l cinema italiano è al 63esimo Festival di Cannes con il film di Daniele Lula Ragonese): due figli maschi alle elementari e un altro in arrivo, lui con un tachetti La nostra vita, uscito nelle sale italiane ieri, in contemporanea tuaggio proletario sulla schiena, lei con uno diverso al polso. Ascoltano le canzoni di Vasco Rossi, e le cantano con trasporto. Si amano, fanno con il passaggio sulla Croisette. È la seconda volta che il regista è Apprezzabile sesso nelle posizioni consentite da una gravidanza al nono mese, invitato nel concorso principale, dopo Il portaborse (1991). e discutibile l’unico portano i figlioletti a fare shopping e a svagarsi al centro Luchetti lavora spesso con gli stessi attori, e il nuovo film vefilm italiano in concorso commerciale, mangiando gelati, chiacchierando, diverde di nuovo in scena Elio Germano (Accio in Mio fratendosi. Elena sogna di andare in Sardegna con la tello è figlio unico, 2008) nel ruolo di Claudio, un alla Croisette. Eccellente dal punto famiglia l’estate; i cognati Piero (Raoul Bova), operaio edile trentenne. La scrittura, i dialodi vista tecnico-artistico, desta perplessità Loredana (Stefania Montorsi) e suo marito Vitghi, la colonna sonora, il montaggio, la fotograper la morale socio-politica sui mali torio (Emiliano Campagnola) prontamente la sfottofia, il cast, la direzione degli attori, i valori di fondo, no per la voglia di spassarsela nel parco giochi dei ricchi. lo rendono un film da vedere, da apprezzare e da discutedei nostri tempi. Un tocco (Per antonomasia, e senza nemmeno bisogno di nominarla, la re. Si resta con qualche perplessità non per ragioni tecnico-aralla Nanni Moretti Sardegna tutta intera è la Costa Smeralda). Loredana è in cassa intistiche, davvero eccellenti, ma per qualcosa nell’impianto socioloma “light” tegrazione,Vittorio ha lo stipendio ridotto e il fratello scapolo Piero, imgico e nell’intento didattico che impedisce di esserne pienamente entupacciato con le donne, è poliziotto municipale. siasti. L’inizio del film illustra il matrimonio felice di Claudio ed Elena (Isabel-
I
Parola chiave Teatro di Franco Ricordi Courtney Love vestita di nuovo di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
La musica in versi di Torquato Tasso di Francesco Napoli
Il gigante fuggitivo, Tolstoj cent'anni dopo di Gabriella Mecucci Il più bel “giallo” risolto da Maigret di Leone Piccioni
Una Biblioteca per Mnemosine di Marco Vallora
luchetti equo e
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di prospettiva provocata dal ritmo convulso - si sta così addosso ai personaggi che non si riesce a vedere oltre - comunica qualcosa d’evasivo. Che tempi pazzoidi erano! Sì, ma questo si sapeva già. Ci racconti qualcosa di nuovo, o almeno cerchi di convincerci che, quarant’anni dopo, ci deve importare qualcosa». La nostra vita non parla di politica in senso stretto. Ma sta «addosso» ai personaggi con la macchina a mano nervosa. E anche se non si nomina mai il capo del governo, l’ombra della «bestia nera» della sinistra incombe sulla repentina trasformazione (secondo esternazioni di Luchetti «naturale», visti i tempi e i governanti) dell’operaio in un piccolo imprenditore avido, amorale, criminale e dedito allo shopping selvaggio. Lucchetti ha lavorato più volte con l’autore di Il caimano, e nel Portaborse Nanni Moretti era Botero, il politico corrotto e corruttore. La nostra vita, però, correda il messaggio di una curvatura femminista. In un’intervista Luchetti afferma: «Quando c’è la sottrazione dell’elemento femminile, che media i sentimenti in famiglia, l’uomo oltrepassa i limiti e si affida a una prassi poco limpida che poi è quella di un paese intero, e che io ho messo in scena senza criticarla né assolverla.Volevo solo sottolinearne la naturalezza». Invece la critica eccome, e assolve l’operaio «vittima» della «prassi» contagiosa.
Claudio lavora nel cantiere fuori regola dell’imprenditore Porcari (Giorgio Colangeli) che impiega operai italiani e stranieri irregolari pagati in nero; il nome del personaggio non è casuale. Il protagonista nota che il buco predisposto per l’ascensore è pericolosamente scoperto: bisogna coprirlo con travi protettive. Di lì a poco Claudio trova in fondo a quel buco un uomo morto, quasi sepolto dai calcinacci. Una morte bianca, un sans papier rumeno. Porcari lo avvisa che se denunciano l’accaduto il cantiere sarà chiuso, lui passerà dei guai e addio stipendio. Seppelliscono il morto sotto un piazzale. Poco dopo Elena ha le contrazioni, Claudio la porta in ospedale e intrattiene i due figli nella sala d’aspetto; tutti e tre vestono la maglietta giallorossa da romanisti. È il terzo parto, niente paura. Poi l’attesa si fa lunga e il marito si agita; finalmente arriva l’ostetrica e chiede alla caposala di allontanarsi con i bambini per un gelato. Elena è morta; il bambino Vasco è vivo. Non sentiamo le parole del medico: vediamo la faccia di Germano, stordito, incredulo. Lo choc di questa morte improvvisa provoca una scossa madornale in Claudio, che sfocia in mania materialista (è un colpo di perplessità per lo spettatore: è così raro oggi morire di parto, che invece di emozionarci quando la donna muore senza spiegazioni, ci «risvegliamo» dal film. Forse è poca cosa, ma conoscere il perché di un evento insolito ai nostri tempi aiuterebbe a restare incollati alla storia). Il vedovo non trova altro modo per elaborare il lutto che dedicarsi senza scrupoli all’accumulo di tutto il denaro possibile, per potersi permettere ogni lusso. Non è facile digerire che sia automatico riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa di una persona amata con il più sfrenato consumismo. L’unica premessa a questa svolta è la gita al centro commerciale (visto come orrido non-luogo, sostituto degenerato della piazza di paese, causa della deriva consumista e del degrado morale delle periferie) e la voglia dei lidi sardi desiderati dalla moglie. Lo script è (con Luchetti) di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, tra i migliori all’opera in Italia. Hanno scritto tanti film di qualità per la tv e per il cinema: Perlasca, un eroe italiano di Antonio Negrin, Romanzo criminale di Michele Placido, Mio fratello è figlio unico (scritto con Luchetti) e il nostro preferito, La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana; quattro puntate di sei ore complessive, prodotte dalla Rai. Al Festival di Cannes, allora, era il miglior film della sezione Un certain regard. È il film italiano che ha avuto più successo all’estero negli ultimi vent’anni (salvo per La vita è bella, la cui reputazione, però, non ha resistito alla prova del tempo). È rimasto in cartellone in un cinema d’essai di New York per ben sei mesi, proiettato in due sale in due tempi di tre ore ciascuno. C’era sempre la coda al botteghino e A.O. Scott del New York Times lo ha incluso nella lista dei dieci film migliori dell’anno. Nella recensione di Mio fratello è figlio unico, Scott lo paragona a La meglio gioventù: sono entrambi fraternal films italiani con al centro due fratelli che attraversano in modo diverso la recente storia del nostro paese, con i forti contrasti ideologici di un’epoca iper politicizzata, prima, durante e dopo gli anni di piombo. Ecco il critico newyorkese sul penultimo film di Luchetti, pertinente alle nostre impressioni sul nuovo: «Il problema è che lo sforzo del regista di insufflare immediatezza e urgenza nelle storie di un’epoca movimentata dà a Mio fratello è figlio unico un’inevitabile aria di nostalgia. L’assenza anno III - numero 20 - pagina II
solidale
LA NOSTRA VITA GENERE DRAMMATICO DURATA 95 MINUTI PRODUZIONE ITALIA 2010 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION
REGIA DANIELE LUCHETTI INTERPRETI ELIO GERMANO, ISABELLA RAGONESE, RAOUL BOVA, LUCA ZINGARETTI, STEFANIA MONTORSI, GIORGIO COLANGELI
Non nominare mai Berlusconi, o la politica in senso stretto, non cambia la morale del film. Luchetti in questo film è un Moretti light, perché offre al reprobo il riscatto di una famiglia oleografica, tutta amore e generosità, che come una rete di protezione lo salva quando si caccia nei guai. Claudio ha come vicini Ari (Luca Zingaretti, piercing, parrucca lunga e unta), un ex ladro diventato spacciatore dopo un incidente che lo inchioda alla sedia a rotelle, e sua moglie Celeste (Awa Ly), ex prostituta senegalese e cattolica osservante. Subito dopo la morte di Elena, è la sorella Loredana che si prende cura dei tre nipoti orfani, ma quando ritorna al lavoro, Claudio li affida all’amica africana. («Mi raccomando - dice Claudio ad Ari venditore di droghe - date al bambino il latte in polvere, capito, il latte in polvere, intesi?». Luchetti intende mostrare «alla pari» i proletari, secondo lui solitamente trattati nei film dall’alto in basso, come macchiette comiche e ignoranti, o strumentalizzati per motivi politici. Per rafforzare le sue intenzioni eque e solidali, ha disegnato spacciatori (anche Celeste lavora in ditta) «dal volto umano». Presentando la coppia come amici stretti di Claudio, invita a vederli come persone complesse, e non in maniera manichea. La nostra vita ha una sottotrama, un’ottima cosa rara in un film italiano, che coinvolge la famiglia rumena del morto. Gabriela (Alina Madalina Berzunteanu) è una bella donna con un figlio, Andrei (Marius Ignat), che arriva sul cantiere in cerca del padre del ragazzo, sparito da tempo. Erano separati, ma adesso Andrei ha bisogno di lavorare e lei vuole un aiuto. (Lo avrà da chi si sente in colpa per averne occultato il cadavere). È messa in bocca alla rumena integrata (gestisce un bar-ristorante sulla spiaggia) la lagnosa tesi del film: «Voi italiani pensate solo a soldi, soldi, soldi. Il resto non conta». È giusto schivare lo stereotipo della donna dell’Est avida e interessata, ma rovesciare il luogo comune ha un effetto comico involontario. Preparate i fazzoletti, però. Luchetti prende la scorciatoia della canzonetta per far piangere, e non è il solo (vedi Paolo Virzì e La prima cosa bella): qui è Anima fragile di Vasco Rossi. La commozione è assicurata. Da vedere.
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parola chiave
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TEATRO eatro è sicuramente una «parola chiave», da sempre, in Europa e nell’Occidente: per il semplice motivo che il teatro è «la Parola», il luogo, lo spazio in cui la Parola prende corpo e, pur rimanendo Parola scritta, assume anche la straordinaria veste di Parola pronunciata. Nel teatro, scrive Pasolini, la parola è «doppiamente glorificata»; è scritta, come nelle pagine di Omero, ma è anche parlata come al mercato o nella vita di tutti i giorni: «Non c’è niente di più bello», scrive sempre il poeta. Tale peculiarità della Parola teatrale non ci esime peraltro da una riflessione sul suo senso ultimo, senza dubbio una chiave per comprendere anche la situazione socio-esistenziale in cui viviamo. Il teatro è infatti un’arte eminentemente europea, le cui origini e ulteriori sedimentazioni riguardano tutti i paesi del Vecchio Continente: in epoche diverse essi hanno vissuto un momento d’oro del teatro e della drammaturgia; a cominciare dalla Grecia, dove tutto nasce, poi nell’Italia di Plauto e Seneca e della modernità; quindi nella Spagna del Siglo de Oro, con Calderon e Lope de Vega anzitutto. Poi la grande epoca elisabettiana in Inghilterra, la fioritura della Comédie Française in Francia, il grande teatro illuminista e romantico in Germania; ma poi anche il dramma borghese soprattutto in area scandinava e russa, e il teatro dell’Est europeo tra il XIX e il XX secolo che apre alle moderne avanguardie.
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Un patrimonio davvero sublime, inestimabile, non solo dal punto di vista estetico ma anche etico: la storia del teatro, si può dire, è tutt’uno con la storia dell’Europa, in certo modo anche lo specchio del suo secolare conflitto interno, e nel momento in cui prendiamo in considerazione la drammaturgia occidentale - anche con i suoi risvolti nel melodramma e naturalmente nel teatro americano e di tutto il mondo - è evidente che ci apriamo al senso culturale del Vecchio Continente: per questo motivo il grande Giorgio Strehler, fondatore del Teatro d’Europa, era tanto interessato alle lingue straniere: «Vogliamo farla l’Europa?», disse un giorno. «Allora magari cominciamo a impararcele un po’ queste lingue europee!». Era evidente in Strehler il riferimento alla «Parola» europea, una Parola in tal senso babelica, divisa in almeno 25 idiomi, ma pur sempre una Parola, anzi la Parola chiave per il nostro Continente, se un giorno avrà l’aspirazione a chiamarsi davvero Europa e non soltanto Eurolandia. Il teatro, come noto, non si doppia, si ascolta sempre in lingua originale: e così l’incontro con la Parola delle altre nazioni rappresenta l’impatto linguistico e culturale con l’effettiva alterità del nostro Continente. Tuttavia, proprio nel secolo XX, la drammaturgia occidentale ha subito diverse aggressioni, sul piano politico anzitutto, poi su quello tecnologico e mediatico; con il risultato che la stessa parola «teatro» ha conseguito un notevole e ingiusto declassamento su vari fronti:
È un’arte sempre più svilita, considerata una succursale del cinema o della tv. Al di sopra di ogni parte politica, è il luogo per eccellenza della “libertà di parola” nel quale rifondare la vera unione europea
Il linguaggio della democrazia di Franco Ricordi
Sarebbe una grande conquista se l’annunciata legge-quadro per il settore teatrale fosse approvata grazie a una larga intesa e divenisse legge dello Stato. Riconoscerne il valore culturale di spettacolo dal vivo sarebbe il segnale di un nuovo corso, di un’inversione di tendenza per la rinascita del XXI secolo si parla di teatro come puro disimpegno o finzione, e si attribuisce l’aggettivo «teatrale» soltanto all’esagerazione ovvero ai detentori del doppiogioco. Alcuni pensano che il teatro sia una succursale del cinema o addirittura della televisione. In tutta Europa (anche se in Italia in maniera un po’ particolare), la parola teatro è stata ed è sempre più svilita, anche per la scarsissima attenzione dei giornali, della stessa critica teatrale (che non ha ormai quasi più spazi, e cer-
to non si può paragonare alla prosa critica di un tempo), degli intellettuali (che raramente ne sono interessati, se non esclusivamente nei confronti di certe fasce avanguardistiche, sempre vicine a precisi interessi di parte); e infine per la considerazione della politica che spesso, con la sua smania spettacolare (che è propria di tutti gli schieramenti, dall’estrema destra all’estrema sinistra), tende quasi a sostituirsi allo spettacolo, pensando forse che l’attore-politico so-
stituisca l’attore teatrale, che è invece una entità completamente diversa. È sfuggito, e senza dubbio anche per colpa dell’investimento politico della sinistra storica, il senso più autenticamente democratico dell’arte teatrale. E in questo purtroppo anche il suddetto grande regista Strehler, allievo diretto e ideologo italiano del teatro di Brecht, ha avuto una sua responsabilità: il teatro si è sempre più racchiuso in un vicolo cieco di polemica politica, e non può fare a meno di scagliarsi oggi contro una sola parte delle forze in campo (in Italia ormai una sola persona, sappiamo chi è…), senza avere il coraggio di ricercare la sua quintessenza politica e democratica che sta assolutamente al di sopra di una parte o dell’altra (il dramma, scriveva il genio di Aristotele, è «più elevato e più filosofico della storia»).
Tutto questo non toglie che non si possa sperare in una ripresa del teatro e della cultura teatrale per il XXI secolo. Ci sono infatti dati molto incoraggianti dal punto di vista del pubblico, e siamo certi che i giovani siano assolutamente interessati a tale spettacolo dal vivo, e ne comprendano bene la differenza con lo spettacolo mediatico. I ragazzi che vanno a teatro si rendono conto di trovarsi in un luogo in un certo senso rivoluzionario: la possibilità del «qui e ora» fra attori e spettatori pur nell’epoca dell’invasione mediaticobarbarica. E in questa maniera la forza del teatro occidentale - che ha resistito nella sua storia di 2500 anni agli attacchi più terribili, prima da parte del Platonismo, poi dei Padri della Chiesa e infine dell’Illuminismo - sta tornando a riemergere con tutte le sue forze: per il semplice motivo che esso rappresenta il linguaggio dell’uomo nella sua libertà più autentica, la sua più vera e disincantata «libertà di parola». E così possiamo ritornare all’Europa e al nostro paese: teatro è una parola chiave dell’Unione europea, e ogni singola nazione è tenuta a incrementarne la rinascita per il secolo XXI. E in tal senso siamo più che mai interessati alla vicenda italiana della legge per il settore, che si attende da ormai sessant’anni. Sarebbe una grande conquista per tutti se l’annunciata legge-quadro, che sembrerebbe in corso di approvazione anche grazie a una larga intesa tra Pdl, Idv, Pd, Lega e Udc, fosse definitivamente approvata dal Parlamento e divenisse legge dello Stato. Si tratterebbe senza dubbio del primo passo per un suo riconoscimento, così come recita il primo articolo di tale disegno, che appunto denota come la Repubblica riconosca il teatro nella sua quintessenza culturale di spettacolo dal vivo. Sarebbe certamente il segnale di un nuovo corso, di una possibile inversione di tendenza, rispetto a quanto sopra. E ancor più interessante proprio il fatto che ci si arrivi, necessariamente, attraverso le larghe intese. Teatro potrebbe divenire davvero una «parola chiave», per la comprensione della stessa cultura italiana ed europea; quindi, in ultima analisi, di noi stessi.
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Pop
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coi suoi adrenalinici rimandi agli Stooges di Iggy Pop e ad Alice Cooper; e nell’azzeccata, supersonica Loser Dust (inno contro l’abuso di cocaina) che paga pegno all’anarchica sacralità del punk. Tutto il resto, fra le urla e i bisbigli della (riabilitata?) signora dispensa ballate come le struggenti, mi verrebbe da dire «dylaniane» Someone Else’s Bed e Letter To God, nonché la folkeggiante Never Go Hungry; dà il via libera al pop ispido di Pacific Coast Highway e Samantha (con quel verseggiare, people like you fuck people like me, senza peli sulla lingua); elabora l’elettricità post Grunge e il buon indice d’orecchiabilità di No-
di Stefano Bianchi vrei scommesso che come al solito avrebbe preso tutti per i fondelli sfoggiando uno dei suoi proverbiali, succinti «baby doll» tolti all’ultimo istante dalla naftalina. E invece, in occasione dell’unico concerto italiano (a Milano, infilato in un breve tour europeo) non solo s’è presentata puntuale come un orologio svizzero ma si è addirittura guadagnata un bel po’ di applausi. Sul palco, anziché la furba derelitta che si era costruita uno straccio di notorietà sul matrimonio tossico e spettegolante con Kurt Cobain, c’era una Courtney Love vestita (fisicamente e musicalmente) di nuovo. Così mi sono detto: prova ad ascoltarlo il nuovo disco di questa sgarrupata «figlia di nessuno» (Nobody’s Daughter) che ogni volta non fa che rinfacciarci la sua vita grama (padre e madre latitanti, adolescenza in riformatorio e poi caccia alle rockstar nei panni di famelica groupie) tentando invano di redimersi. Dopo un album solista senza infamia e senza lode (America’s Sweetheart del 2004) e l’obbligo a trascorrere sei mesi in un centro di riabilitazione per disintossicarsi una volta per tutte dalla droga, la quarantacinquenne di San Francisco ha pensato bene di riesumare le Hole a dodici anni dal poppettaro, californiano Celebrity Skin. Ritroviamo, così, lo strepitante copyright delle sue ossessioni che almeno un paio di buoni dischi li aveva azzeccati: Pretty On The Inside (’91) e Live Through This (’94). Più che il gruppo, infatti, a sopravvivere è il marchio: agrodolce sinonimo, a suo modo, di garanzia. Al posto delle Hole originali (tre femmine più un maschio), a supportare (sopportare?) la Love madre e padrona ora ci sono Micko Larkin (chitarra), Shawn Dai-
A
Classica
musica
Courtney Love vestita di nuovo
ley (basso) e Stuart Fisher (batteria) con la preziosa collaborazione, qua e là negli undici pezzi, del batterista Jack Irons (ex Pearl Jam e Red Hot Chili Peppers), del cantante e chitarrista Billy Corgan (Smashing Pumpkins) e della vocalist Linda Perry (ex 4 Non Blondes). Non è che ci dia dentro come un’invasata, Courtney. Tutt’altro. Nobody’s Daughter, fatti i dovuti conti, mostra un’evidente durezza solo nel rock nerboruto e nell’efficace linea di basso che scandiscono Skinny Little Bitch,
body’s Daughter; fa in modo che il canto febbricitante della Love, in Honey, faccia a pugni con le chitarre acustiche per poi «camuffarsi» da Patti Smith e Marianne Faithfull nella melodicamente corposa For Once In Your Life, e infine sbavarsi sulle labbra il rossetto di PJ Harvey nell’acustica How Dirty Girls Get Clean (in soldoni: anche le ragazzacce, prima o poi, mettono la testa a posto) che all’improvviso si trasforma in un coriaceo rock & roll. Alla fine, esausta ma felice, Courtney Love canta che «è lunga la strada del ritorno da dove ero caduta». E suona sincera. Davvero. Hole, Nobody’s Daughter, Cherry Forever Records/Idj, 19,50 euro
zapping
CORSI DI ZAPPA e zampogna per tutti di Bruno Giurato
on ce l’abbiamo con nessuno, noi, anzi stavolta seguiamo la massima cristiana: si dice il peccato non il peccatore. Ma non ci va di arrivare al paradosso di amare il peccatore fino ad amare il peccato, quindi lo diciamo forte. Ce l’avete fatto piatto come le bambole. Perché va bene la contaminazione, va bene il popolo, va bene il patchanka e tutto, ma ci sono cose che non si possono fare. Basta con i Balcani e basta con il Sudamerica. Siamo colonizzati e va bene, ma anche basta. Già ci dobbiamo sorbire i critici che vanno a scovare certi cantautori del Midwest o certe etichette indipendenti di New York e si presentano ogni settimana con copie farlocche di Sufjan Stevens come cani giuggioloni. Ma non si regge che dall’altra parte, presso i no global e il sempre meno variegato gruppettarismo musicale (tornassero i tempi del punk e del Male di Vincino…) qualsiasi richiamo alla musica popolare si risolva in Balcani e Sudamerica. Sono con il popolo festaiolo, io, e via con uno zumpà forsennato alla Bregovic. Oppure: sono con il popolo oppresso, e sotto con gli accordi minori da tànghero (l’accento è sulla prima a non a caso). Non c’è concorso, festival anche jazz, riunione quasi informale che non veda qualche disgraziato di musicista imbarcarsi per questi lidi, senza approdo visto che siamo globalizzati e che in qualche minuto posso procurarmi gli originali. Dunque quelle degli italiani balcanizzanti e sudamericanti sono gioie e tristezze tutte private, relative al fallimento della propria cultura, romanticismi «ddu camere e cucina». E frustrazione per frustrazione se avessimo i famosi cinque minuti di potere, oltre a proibire gli accordi minori a tutti i gruppi rock, organizzeremmo corsi di alfabetizzazione forzati e coatti per tutti i malati di esotismo vongoloide. Corsi di zappa (non Frank) e zampogna per tutti.
N
Gossett e il do della “pira” che descrive Manrico n’autobiografia intellettuale vivida e sapiente, tessuta con brio e verve polemica, alimentata da una dottrina a tutta prova e insaporita da un’onestà intellettuale inconsueta; un vademecum storico-criticopratico destinato a chi ama l’opera italiana dell’Ottocento e abbia gli strumenti per decifrarla. Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena (il Saggiatore, 4,00 euro), di Philip Gossett, musicologo trasvolatore di oceani (tiene cattedra a Chicago e a Roma), è tutto questo, ma qui da noi rischia purtroppo di restare lettera (quasi) morta. Poiché, a differenza che nella più parte d’Europa, in Italia l’alfabetizzazione musicale è molto, troppo scarsa; mentre il sostanzioso volume dello studioso americano, ragguardevole esempio di alta divulgazione in stile anglosassone, presup-
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di Jacopo Pellegrini pone nozioni tecniche di base, che i melomani nostrani raramente possiedono (il glossario in appendice può offrire un primo valido aiuto). Per gli addetti ai lavori, invece, immergersi in queste righe è come ripercorrere le tappe d’una bella solida formativa amicizia: è merito precipuo delle ricerche pluridecennali condotte da Gossett e da altri «pionieri» (Celletti sulla vocalità, Rosselli sull’impresariato, ecc.: i nomi figurano tutti in bibliografia) l’aver impratichito musicologia e critica nei temi portanti di questo libro: l’organizzazione della vita operistica nell’Italia del XIX secolo, i metodi produttivi seguiti da librettisti e compositori, la trasmissione della musica (manoscritta o a stampa), le questioni relative alla critica testuale, essenziali per chi debba
approntare un’edizione critica (un campo in cui Gossett ha segnato una via maestra), i problemi concreti sollevati dalle produzioni teatrali (scelta della versione musicale o linguistica, tagli e trasposizioni dei pezzi, abbellimenti e variazioni canore, organico orchestrale, allestimento scenico). Come s’intuisce anche da questo nudo elenco, la carne al fuoco è tanta; il sapere formidabile; la chiarezza d’esposizione agevolata da rimandi e incroci interni (peccato l’edizione italiana un po’ troppo incline ai refusi e alle imprecisioni, a cominciare dal titolo, che nell’originale recita Divas and Scholars, dive e studiosi, dive e dotti). Il percorso narrativo, volentieri in prima persona e all’insegna d’un entusiasmo contagioso, offre esche abbon-
danti all’ironia: di solito improntato a un giusto buon senso, il tono di Gossett s’impenna quando vuole smontare tradizioni e convenzioni recepite acriticamente (abbreviazioni varie, note cambiate o aggiunte - i famigerati acuti non scritti: mi spiace per lui, e per Muti, ma i due do della «pira», se introdotti in un’esecuzione integrale del Trovatore, risultano indispensabili non per irretire il loggione, ma per completare il carattere di Manrico), o quando difende a spada tratta iniziative che lo hanno visto coinvolto in prima persona. D’un tratto, egli diventa l’eroe castigamatti, che annienta l’avversario e debella l’oscurantismo melodrammatico. Per questo credo poco alle sue battute autoironiche: pure concessioni retoriche d’uno spirito cosciente di sé, orgoglioso e suscettibile; insomma, specialista sapientissimo e anche un po’divo…
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arti Mostre
on soltanto la critica è talvolta anche una questione di memoria (ricordarsi di un nome perduto nel buio dell’oblio o della vecchiaia precoce, riaccendere le sinapsi su un’opera, una tela, che vedi benissimo, che ti è presentissima, negli occhi della tua memoria visiva, ma di cui non ricordi più titolo o autore, e in questo Wikipedia non può sovvenire a nulla) ma la critica è comunque in dialogo perpetuo, con questa terribile divinità, Mnemosine, a cui Warburg ha dedicato tutta la sua vita e la salute. Anche per motivi ben più banali. Per esempio: uno vorrebbe parlare ai suoi lettori d’una mostra, che ha tanto amato, ma come spesso succede (quelle bruttissime e inutili durano sempiterne) questa, su cui proprio vorresti buttarti, scopri, mannaggia, che è già finita. Che fare, rinunzi alla tua voluttà? Parlare d’una mostra che non c’è più - sì, terribile, è proprio finita nel nulla - in effetti non è così cortese farlo, nei confronti di chi non può recuperarsela, c’è da infuriarsi davvero. E poi ci sono sempre i caposervizi in agguato, a sgridarti e castrare i tuoi desideri, giustamente. Premessa stupida, per giustificare il fatto che parlerò d’una mostra che non c’è più, ma credo d’esserne assolto, questa volta. Una mostra ch’è durata un attimo, il fuoco d’un cerino, peccato davvero, nello spazio di quel lietissimo e interessante bailamme che è il Salone dei libri di Torino, sempre più iper-ricco, ma bailamme comunque, fin troppo denso di proposte incrociate, di spropositi di libri e tavolate di niente, di intellettuali che si parlavano addosso, nel doppio senso del termine, visto che le salette di conversazioni sono addossate una all’altra, come dita artritiche e non capisci più nulla, ti scoppia il cervello e su tutto, tutte quelle truppe cammellate e disorientate di miriadi di visitatori e carrozzine (ma se sono tanti così, i patiti dei libri, ma perché l’editoria lamenta e langue in una crisi, che è davve-
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Architettura
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Una Biblioteca per Mnemosine di Marco Vallora ro reale? Non sarà ch’è più forte qui la lusinga dell’evento in sé e basta, dell’esserci stati, del comprare un libro, che non si leggerà mai, soltanto per farlo firmare dal Divo? Che ne sarà della memoria vera di quel libro mai letto? Ne ha parlato magnificamente anche don Ravasi, forando il bailamme): di un salone che era appunto dedicato al tema della memoria, oggi. Ma mi domando quanti, in quel bailamme, che invitava soltanto alla fuga e al silenzio, abbiano messo il naso dentro quel piccolo antro nero, meraviglioso, di cui voglio parlarvi. Certo, durato i quattro o cinque giorni della manifestazione, ma dato il tema, quello della mnemotecnica, appunto, credo sia giusto e doveroso parlarne, lasciarne una memoria, comunque, una traccia e fornire però un’ulteriore ap-
piglio giustificante, al lettore. Perché questo squisito assaggio di pochi volumi preziosissimi annunzia al mondo l’avvenuto, finalmente, assestamento della Biblioteca della Memoria, auspice Umberto Eco, in quel sito curioso, di finte memorie antiche, che è San Marino (in Contrada delle Mura 6). Eco, che suggerì di comprare sul mercato quella rarissima collezione Young, che proveniva dall’America, da un oftalmologo malato del virus dei libri, e che oggi ha trovato la giusta «casa», in questo originalissimo museo di volumi storici sulla memoria. (La vostra gentile memoria prenda nota che il 28 e 29 maggio lo stesso Eco presidierà una sorta di corso sull’argomento). S’è detto «casa», con virgolette, proprio per richiamare il tema-chiave di questi
magnifici e fantasiosi volumi sulla mnemotecnica, la scienza antica del ricordare, che da Cicerone allo pseudo-Herennio, da Giulio Camillo a Spangerberg, da Raimondo Lullo a Giordano Bruno, a Cornelio Agrippa, e li mettiamo così alla rinfusa, hanno sempre ricorso agli elementi architettonici, alla struttura dell’abitazione stanze, sale, chiostri, abbaini - per sostenere la memoria retorica e visualizzar concetti astratti, in quegli affollati cervelli che non potevano ricorrere ad altri supporti mmemonici, cartacei oppure ai nostri computer. E così le idee platoniche diventavano scale, colonne, solai o ripostigli, corrodoi e trabocchetti, peggio che in un romanzo gotico, alla Melmoth. Una fantasia quasi morbosa e visionaria, nera, che rende meravigliosi, anche graficamente e cioè scenograficamente, questi «teatri della memoria» pre-surreali, questi piccoli volumi, dominati come da insetti, fra le pagine e i frontespizi, di scheletri che pensano e ricordano, di palombari frenologici, che mostrano le anse del nostro immaginare e almanaccare: mani, occhi, pinnacoli, piramidi, coccodrilli, campanellini e piedi demonici, che sostengono le nostre idee e il terrore atavico di dimenticare.
Dialoghi con il paesaggio in Portogallo
isolamento culturale del Portogallo negli anni del lungo regime totalitario viene finalmente interrotto nell’aprile del 1974 dai moti popolari, chiamati Rivoluzione dei garofani. A essi segue un periodo fecondo, pur nell’instabilità politica e nell’ambiguità culturale, che spinge le forze più vivaci della nazione al confronto, fino ad allora negato, con i movimenti artistici e culturali europei e internazionali. Un confronto che non stravolge la cultura architettonica lusitana, che durante gli anni del regime aveva coltivato ossessivamente il tema dell’identità nazionale nell’ottica della costruzione di un’architettura identitaria. La costruzione di un’architettura specificamente portoghese ha impegnato a lungo gli architetti in dibattiti e riflessioni, focalizzati in particolare sul tema della casa portoghese. Da un lato ci sono progettisti che, ispirati da uno stringente conservatorismo, ossequioso delle indicazioni del regime, propagandano la necessità di impiegare materiali e tecniche costruttive desunti dalla tradizione locale, perseguendo esiti pittoreschi; dal-
L’
di Marzia Marandola l’altro c’è chi guarda al linguaggio moderno e internazionale capace di declinarsi nei diversi contesti storici e geografici. Il primo esponente di un’importante e solida scuola di architetti portoghesi è Fernando Tavora (1923-2005), maestro di riferimento per tutti i progettisti lusitani, fino alla generazione più giovane. Con elegante semplicità, senza contrastare la tradizione architettonica nazionale, Tavora e i suoi seguaci fanno uso di materiali locali, coniugati con geometrie elementari e con la spiccata sensibilità al contesto orografico, producendo manufatti che dialogano armoniosamente con il paesaggio, spesso aspro e selvaggio del Portogallo, che viene interpretato da architetture che non ricorrono mai a gesti eclatanti o trovate strabilianti. Il bel volume di Carlotta Tonon dà conto dei risultati conseguiti da questa «scuola» nell’architettura delle ville unifamiliari. Si tratta di un repertorio estremamente godibile che individua, sostanzialmente, due
tipi distributivi e morfologici. Se nelle terre portoghesi settentrionali, dove il terreno è impervio, le ville si sviluppano in senso longitudinale, allineando tutti gli ambienti della casa che è contrassegnata da un unico affaccio, generalmente vetrato, nelle spiagge calde del sud le ville organizzano un saldo impianto centrico, con le stanze intorno a un patio centrale che diffonde la luce e assicura la ventilazione naturale. Osservando le suadenti immagini del volume si evince che esiste tra i progettisti portoghesi un rapporto attivo di scambio e un comune sentire che lega le diverse generazioni di progettisti, creando una catena virtuosa di qualità e di comunanza che arricchisce il patrimonio architettonico della contemporaneità. Il volume, contraddistinto da una elegante veste grafica, non fornisce un ragguaglio generico e indiscriminato delle ville portoghesi, ma è circoscritto a 18 esempi di ville costruite tra il 2000 e il 2010. Opere famose e di magistrale virtuosismo distributivo e volumetrico, come la Casa do Pego a Sintra di Alvaro Siza, dalla zigzagante volumetria o quella ad Alenquer dei fratelli Mateus che esalta i resti murari di una diruta preesistenza, sistemandovi un poetico patio metafisico. Carlotta Tonon, Ville in Portogallo, Electa, 240 pagine, 60,00 euro
MobyDICK
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LONTANO DA JASNAJA POLJANA, LA CASA DELLA VITA. LONTANO DALLA MOGLIE SOF'JA, DA UN MATRIMONIO OPPRESSIVO, DAI FIGLI INTERESSATI ALLA SUA EREDITÀ. LONTANO DA SE STESSO. TRENI, STAZIONI, VAGONI DI TERZA CLASSE, LOCANDE, NEVE E IL SUD - IL CAUCASO - COME META. NEL CENTENARIO DELLA MORTE, UN LIBRO (E UN FILM) TORNA A RACCONTARCI GLI ULTIMI DIECI GIORNI DI VITA DI LEV TOLSTOJ
il paginone
Il gigante
di Gabriella Mecucci el centenario della sua morte, Lev Tolstoj torna a farci visita. Per la verità, non ci ha mai abbandonati, nemmeno per una breve parentesi: il «gigante della letteratura russa» (definizione di Lenin) non ha mai cessato di fare compagnia agli uomini e al mondo. E se la sua «filosofia» cristianoanarchico-comunista è tramontata, resta incancellabile la sua ricerca dell’uomo e di Dio. Eppure, gli anniversari si prestano sempre a qualche ritorno. Lo vedremo al cinema (dal 28 maggio in Italia), nell’Ultima stazione (tratto dall’omonimo romanzo di Jay Parini, pubblicato da Bompiani), lo leggeremo in uno splendido racconto, La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari, ripubblicato, dopo 24 anni, da Skira e che dal 26 maggio in libreria. Entrambi si ispirano al medesimo episodio, quando, a 82 anni, il grande scrittore scappa dalla sua vecchia casa di campagna di Jasnaja Poljana e intraprende un lungo viaggio, interrotto solo dalla morte. Fugge «il gigante», fugge da un matrimonio-prigione, da una moglie e da una famiglia diventanti asfissianti e fugge - come chiunque se ne vada senza meta - anche da se stesso. E non è un caso che sia un grande inviato (poi anche direttore del Corriere) come Alberto Cavallari, un uomo dunque con la passione del viaggio, a raccontare in modo magistrale gli ultimi dieci giorni di vita di Tolstoj.
N
La notte fra il 27 e il 28 ottobre, Lev vede la moglie Sof’ja che fruga fra le sue carte per leggere, per controllare, per spiare: un nuovo, insopportabile gesto invasivo della propria vita da parte di quella donna, più giovane di lui - 68 anni - ingrassata, ma ancora bella, che lo tormenta. È stata una sposa che lo ha compreso e amorevolmente assistito sino a quando non è arrivata la conversione di Tolstoj alle teorie anarco-cristiane che lo hanno portato a rinnegare la Chiesa (ortodossa), il potere, la proprietà privata. Sof’ja non l’ha accompagnato oltre quella soglia: la donna che l’aveva aiutato
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nella scrittura di Anna Karenina, è diventata isterica, depressa sino a tentare il suicidio, e lui, che l’aveva amata appassionatamente, ha preso a non sopportarla più. Anche con i figli fatta eccezione per Aleksandra - il dialogo si è interrotto e hanno preso corpo la sfiducia e il sospetto. Ed è in questa temperie che Tolstoj ha avvertito l’invincibile impulso di andarsene da Jasnaja Poljana, la casa dell’infanzia in cui era tornato per scrivere e per coltivare la sua utopia mistica di una vita in comune coi contadini poveri. Fugge, dunque, dalla «prigione matrimoniale», il «gigante».
Scrive Cavallari: «Sonata a Kreutzer (la più dostojeskiana delle sue opere, che prende spunto dalla composizione di Beethoven) era stata “profezia”
Da esperto inviato, Alberto Cavallari descrive magistralmente la fine del grande narratore. E spiega come “Sonata a Kreutzer” sia un’allegoria del suo legame con la compagna di sempre: lui il pianoforte, lei il violino in perenne inseguimento e non autobiografia. Tuttavia se non si legge questo racconto solo come storia di un uomo tradito che uccide la moglie, ma come storia dell’odio - amore globale che trasforma (secondo Pozdicev) marito e moglie in due galeotti che si odiano l’un l’altro, legati alla stessa catena, avvelenandosi la vita l’un l’altro, sforzandosi di non accorgersene, era da Jasnaja Poljana che proveniva il suono straziante di quella musica. Essa infatti significa violino e pianoforte incapaci di suonare da soli. Il violino lancia il tema, il pianoforte lo riprende, gli strumenti si inseguono nel “presto”, si strappano la nota l’un l’altro, con energia ritmica e brutale in una fuga impetuosa. Poi il pianoforte si fa sommesso nei bassi, lo segue il violino nella calma, la calma stessa diviene antagonismo che riprende, sale, con note che lampeggiano in vertiginose rotazioni. Poi è il violino che s’inabissa, e lo segue il pianoforte, risalgono insieme in conflitto, di nuovo si scontrano, ridiscendono, ritornano a un altro “presto”. Proprio come a Jasnaja Poijana, dove Lev e Sof’ja si sono inseguiti per decenni, prima di Mosca dopo Mosca, in un crescendo possessivo e distruttivo, in un groviglio d’odio-amore». Citazione troppo lunga, ma la scrittura di Cavallari è così bella e
penetrante da far desiderare di lasciarla fluire. Non si poteva raccontare meglio da che cosa fuggisse in primo luogo Tolstoj. E, poi, scappava dai figli che volevano un testamento a loro favore mentre lo scrittore intendeva lasciare tutto ai contadini. Scappava dal suo passato e dal suo presente, dal lusso della sua vita di cui si vergognava. Scappava per andare alla ricerca di un futuro. Scappava per vivere, non per morire.
Lasciata la vecchia casa in carrozza, arriva alla stazione e inizia un lungo viaggio in treno: diverse le destinazioni scelte. Lev giunge in un posto per abbandonarlo subito dopo. Non ha tregua, sa di essere braccato dalla famiglia, dalla moglie. È in compagnia del suo medico e più avanti lo raggiungerà anche la figlia Aleksandra. Finisce in un monastero. Da lì la fuga verso il Sud: la voglia di raggiungere il Caucaso dove poter ritrovare la prima giovinezza, la caccia a cavallo, la vita selvaggia. Un susseguirsi di stazioni, di locande, di vagoni ferroviari di terza classe con la gente che lo riconosce e lo omaggia. Al centro di quei giorni inquieti c’è il treno: un simbolo di modernità e di morte per Tolstoj. La Karenina si suicida buttandovisi sotto, e vede per la prima volta il conte Vronskij, uscendo dallo scompartimento, appena arrivata a San Pietroburgo; quando lo reincontra e cede alla sua passione, lo scenario è una ferrovia innevata. Levin dichiara che per lui è tempo di morire mentre una locomotiva sferraglia sui binari e Nikolaj muore in una locanda nei pressi di una stazione. Sono molteplici le occasioni drammatiche che il grande scrittore ambienta intorno al treno. E, ironia della
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fuggitivo sorte, la sua fine inizia in un treno: il continuo spostarsi per giorni e giorni lo ha affaticato, il viaggio nel gelo della grande madre Russia lo ha fatto ammalare. È seduto ancora su di un vagone e sta sognando il Sud, quando viene scosso da violenti brividi di freddo: ha la febbre quasi a 39. Il giorno prima aveva scritto una lettera alla moglie, che non cessava di minacciare il suicidio, per spiegarle perché non sarebbe rientrato a casa. «Tornare con te - sosteneva - mentre perdura il tuo stato significherebbe per me rinunciare alla vita: e io non mi considero in diritto di farlo. Addio cara Sonja, Dio ti aiuti… La vita non è uno scherzo, e non abbiamo il diritto di abbandonarla così. È anche irragionevole misurarla secondo la durata del tempo, forse i mesi che ci rimangono da vivere sono i più importanti di tutti gli anni vissuti: bisogna viverli bene». A Tolstoj, quando scrisse queste parole restavano solo pochi giorni. La malattia mortale sarebbe arrivata da lì a 24 ore. Prima dello scoppio della febbre dettò ad Aleksandra un’ultima riflessione: «Dio è il tutto senza limiti, di cui l’uomo ha coscienza di essere una parte limitata. Solo Dio esiste veramente. L’uomo è la sua manifestazione nella materia, nel tempo, nello spazio. Più la manifestazione di Dio nell’uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (le vite) degli altri esseri, più l’uomo esiste. L’unione della sua vita con la vita degli altri esseri si realizza con l’amore, Dio non è l’amore, ma più l’uomo è amore più manifesta Dio, più esiste veramente».
A questo pensava l’ottantaduenne scrittore a pochi giorni dalla morte, quando ormai fiaccato da una febbre da cavallo, dovette scendere dal treno in una stazioncina periferica. Anche lì lo riconobbero: saluti, sorrisi ossequi, ma Lev non ce la faceva più a rispondere. Il capostazione gli mise a disposizione la più bella camera di casa sua. E lì per sei giorni, il grande Tolstoj visse la sua lenta agonia, punteggiata da momenti di incoscienza: delirò, si sveglio, spedì telegrammi, svenne, si riprese. Più volte mormorò questa frase: «Andrò in qualche posto, che nessuno me lo impedisca». La pagina in cui Cavallari descrive le sue ultime ore è di rara bellezza e dice qualcosa su di noi, parla a
famigliare che si ostina a negare la realtà «scandalosa» della morte. Ma lui solo quando è arrivato al capolinea afferra il senso vero di tutto: proprio mentre il trapasso è vicino diventa davvero vivo attraverso una dolorosa introspezione. E così riscatta un’esistenza mediocre, e si salva.
O forse nella mente di Lev è passata come un lampo la morte di Anna Karenina. Il salto, il buio, le rotaie, il treno e quella luce improvvisa che rischiara le tenebre, una luce il cui segreto scompare con la donna. C’è la salvezza in quel chiarore? Tolstoj non giudica. La sua eroina è doppia: la creatura provocante, astiosa, vendicativa vive dentro quella solare e bellissima. In Anna c’è un fondo oscuro, imperscrutabile che la condanna al castigo finale. Dostoevskij scrisse: «Questo romanzo contiene una parola di non piccolo peso sul problema della responsabilità umana. Il male preesiste ai personaggi; presi nel vortice della menzogna essi giungono a uno scioglimento delittuoso…». Tolstoj non giudica, ma quella tenue luce che squarcia le tenebre non può bastare per riscattare Anna. O forse il grande scrittore nei momenti finali della sua agonia ha visto passargli davanti quella lunga schiera di uomini umili, semplici, poveri che formano il grande esercito russo di Guerra e pace? Ha rivisto, a una a una, le loro morti, dietro le quali c’è la salvezza. Una morte breve e un riscatto certo è possibile solo per i diseredati, che per Tolstoj sono i veri protagonisti della storia. Sono loro, e non i principi e i generali, a difendere, sacrificando la loro vita, la grande madre Russia. Quelle forze anonime compongono una complessa individualità popolare. Ed è solo questa individualità che trionfa su Napoleone. O forse tutte queste morti e tante altre sono riapparse fulmineamente e contemporaneamente a Lev proprio mentre esalava l’ultimo respiro. Sul tavolo accanto al letto, teneva I fratelli Karamazov, il capolavoro di Do-
Dettò alla figlia Aleksandra un’ultima riflessione: «Dio è il tutto senza limiti... Più la manifestazione di Dio nell’uomo si unisce alle manifestazioni degli altri esseri, più l’uomo esiste... Più l’uomo è amore più manifesta Dio» ciascuno di noi. «Vennero tutti a vederlo morire; vennero i figli, i medici celebri, gli amici, gli inviati del governo, gli arcipreti, i giornalisti per descriverlo, i mugiki per vegliarlo accendendo sulle colline intorno miriadi di falò. Ma a Tolstoj non importava più niente di tutto questo. Giorni e notti erano treni che passavano, carrozze a cavalli che iniziavano la corsa dove i treni si fermavano, e il tempo era solo un passaggio di movimento, alberi, cieli, neve, campi che correvano via. Soltanto l’interessava la continuazione della sua fuga, ormai diventata diversa, non più allontanamento furtivo e precipitoso dagli altri e da se stessi, ma viaggio senza fine, corsa libera nel mondo, avventura di Ulisse che non cessa, che nessuno vorrebbe cessata, malgrado la vecchiaia e la morte». Siamo arrivati alla fine. Chissà quale idea di morte sarà balenata davanti agli occhi di Lev fra le tante che aveva magistralmente raccontate? Forse quella di Ivan Il’ic, il più bello e compiuto dei suoi racconti, quando il protagonista scopre l’essenza vera della vita proprio dentro il tunnel della malattia. L’ambizione, la carriera, la ricchezza: tutte le cose in cui aveva creduto sono solo menzogna. Intorno a lui passa l’intero microcsmo
stoevskij. Come lui Tolstoj si era battuto - anche se in modo del tutto diverso - contro il nichilismo. Quello scontro titanico, raccontato nel romanzo, e che vede il vitalismo ingenuo (Dimitri) e la fede (Aliosha) battersi contro chi vuol distruggere ogni forma di religiosità (Ivan), perché - come scrive Dostoevskij - «se Dio non esiste, tutto è permesso». Accanto a Tolstoj c’erano tutti, poco prima che morisse: c’erano i figli, le persone che lo avevano amato, i correligionari e c’era persino l’altro grande romanziere russo. E poi c’erano i suoi sogni, le sue utopie, i suoi deliri, le sue creature letterarie. A due ore dalla fine arrivò anche la moglie, il violino della Sonata a Kreutezer. Lev era incosciente e non la riconobbe. Qualcuno però giurò di sentirlo biascicare: «Fuggire… Fuggire». Da chi? Da lei? O nella sua mente obnubilata, balenò l’estrema volontà di scappare dalla morte? Chissà? Ma questo non era possibile nemmeno per lui. Nemmeno per il «gigante» di tutte le letterature. Idee, sentimenti, utopie, parole finirono in un tenebroso gorgo. Coperti dal silenzio. Il viaggio era finito. Per Tolstoj non ci sarebbe stato ritorno. Ma le sue creazioni vivono un eterno, meraviglioso ritorno.
Nella pagina a fianco, Lev Tolstoj in una foto di Prokudin-Gorskij e in un ritratto del pittore russo Repin. In alto, la copertina del libro di Alberto Cavallari e alcune immagini dello scrittore: a cavallo, in convalescenza, con i bambini, mentre gioca a scacchi. A fianco e sopra, Christopher Plummer e Helen Mirren in “L’ultima stazione”
Narrativa
MobyDICK
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a prosa di Tagore, premio Nobel nel 1913, è una come una leggera tunica di lino bianca, lavata e stirata prima di essere offerta al lettore. La stessa che alcuni suoi personaggi indossano dopo ore di fatica. Intrisa di aromi, rimanda subito all’India del Gange, ai monsoni, al caldo torrido, alle colline, ai pascoli e ai villaggi dove la gente vive in concordia quasi fanciullesca. Un paese dove, al di là di ogni retorica, conta molto la virtù; una zona del mondo in cui, malgrado l’esistenza di soffocanti caste sociali, si bada al tratto gentile e alla bellezza della singola persona.Tagore (1861-1941), noto anche per la poesia, il teatro e l’impegno in campo filosofico e politico, prese le distanze da Gandhi preferendo al radicale nazionalismo indiano il tentativo di conciliare Oriente e Occidente, anche sul piano religioso con la ricerca d’un punto d’incontro tra monoteismo cristiano e politeismo induista. L’editore Guanda ci propone una sua raccolta di racconti. Inediti in Italia. Come sovente accade, il racconto d’un grande scrittore contiene la tematica della sua intera opera o perlomeno dà una segnaletica importante del suo cielo narrativo. La prima novella, che dà il titolo all’antologia (13 testi, tutti abbastanza brevi), è una sorta di specchio dell’autore. Il «Vagabondo» è lui stesso, o meglio quello che avrebbe desiderato essere, costretto come fu a occuparsi dell’amministrazione dei beni della famiglia e a sposarsi con una donna che non desiderava. È la vicenda del giovane Tara, di modesta famiglia, che asseconda la propria vocazione: vivere libero da qualsiasi costrizione, o geografica o personale, mai intralciato da abitudini e nemmeno da rapporti fortemente affettivi. Ed è così che si allontana dal nucleo originario, col quale mai è in naturale contrasto, e si aggrega a giramondo, acrobati, musicanti, artigiani, attori. Assorbe tutto velocemente, rispetta gli altri, si mostra gentile e disponibile. Comprende, giorno dopo giorno, che la vita di errabondo è ciò che è più in sintonia col suo carattere. Così come lo è l’ascoltare il crepitare delle pesanti piogge estive sul fogliame degli alberi: «Tutto questo gli dava gioia… tutto lo agitava fin nelle profondità della sua anima». Capita che Tara incontri un potente e garbato «signore», l’uomo più potente di Katalia, cittadina verso la
L
libri
Rabindranath Tagore IL VAGABONDO Guanda, 167 pagine, 14,00 euro
Sotto il cielo di Tagore Una raccolta di racconti inediti dello scrittore indiano che tentò di conciliare Oriente e Occidente
Riletture
di Pier Mario Fasanotti
quale sta per far ritorno a bordo di un battello. Tara accetta l’invito e a poco a poco si fa ben volere, a eccezione della figlia del suo ospite, la bambina Charu, che si dimostra invidiosa e capricciosa. Tara, silenzioso, educatissimo e frugale, osserva il paesaggio che sfila davanti ai suoi occhi di viaggiatore su un battello: «tutto passava e si allontanava». Il suo ospite-benefattore intuisce la sua natura gentile e non lo tempesta di domande.Tara ha una purezza che pare eternamente angelica: «Aveva visto e compreso molte cose volgari, ma in lui non c’era posto per la volgarità…. s’allontanava dai flutti fangosi del mondo come un cigno…». Sì, lui s’allontana sempre. Con occhi e spirito sempre all’erta e una gran voglia di apprendere. Il viaggio dura due anni. A Katalia, Tara conquista l’affetto e la cordialità della gente e così facendo gonfia la stizza e l’invidia di Charu che, secondo il costume indiano, è già pronta per un matrimonio.Tara studia la lingua inglese, Charu lo vuole imitare. Tra i due ci sono scontri scherzosi, come tra fratello maggiore e sorella viziata. La famiglia del «signore» di Katalia comincia a guardarsi attorno per la scelta del futuro sposo della ragazzina. Ma lei disdegna qualsiasi incontro. Ed è a questo punto che il padre comincia ad accarezzare l’ipotesi di darla in sposa a Tara. Ovviamente invia messi nella sua città natale per saperne di più. Alla fine, appurata l’onestà della famiglia del giovane, cominciano i preparativi per il fidanzamento, che coincidono con l’arrivo delle piogge impetuose su una terra arida e su fiumi ridotti a misere pozzanghere. Ma Tara se ne va «prima che quella cospirazione di amore e tenerezza fosse riuscita ad accerchiarlo completamente». Il ragazzo bramino fugge in una notte di pioggia, diretto verso «la Madre Natura, tranquilla nella sua serena indifferenza». Particolarmente toccante è un altro racconto di Tagore, intitolato «Una notte speciale»: è la breve e intensa avventura di un modesto insegnante che per poche ore si trova ad avere accanto la donna, splendida e sposata a un uomo ricchissimo, che lo aveva respinto anni prima. Non si dicono una parola. Nella mente dell’uomo rimarrà l’indelebile traccia dell’unica notte felice della sua vita.
Simenon, il passatempo preferito anche da Ungaretti on ho mai scritto di Georges Simenon: non c’era certo bisogno del mio parere dopo che tutto il mondo per tanti anni ha parlato di lui e delle sue opere. Ma due circostanze mi spingono a scrivere queste poche righe su un autore tanto importante. Prima di tutto il ricordo di un episodio che riguarda Giuseppe Ungaretti: nella confidenza che avevo con lui gli chiesi più volte quali erano le sue letture, diciamo così, di passatempo (non dunque di studio). Mi rispose più di una volta che il suo autore preferito era Simenon, il che mi lascò lì per lì interdetto pensando solo ai gialli di Maigret. Ma Ungaretti si riferiva anche ai romanzi veri e propri di Simenon. È accaduto in questo periodo che siano usciti quasi contemporaneamente due titoli di Simenon: uno della serie Maigret e l’altro un suo romanzo del ’48. Sulle inchieste di Maigret, Simenon ha scritto almeno 75 romanzi: l’editore Adelphi ne ha stampati almeno 64, molti dei quali in varie edizioni. Credo di averli già letti tutti o quasi tutti. Il più recente si intitola Maigret e il caso Nahour, in assoluto uno dei più belli della serie. Si gioca tutto intorno a quattro
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di Leone Piccioni personaggi: uno assassinato e gli altri tre sospettati. Il lettore entra, come sempre, nel giro degli indizi, delle testimonianze, delle riflessioni che Maigret conduce con molta attenzione e con qualche perplessità per arrivare alla soluzione dell’enigma. Una soluzione non facile alla quale il lettore più che mai partecipa con piena collaborazione. Una donna di grande bellezza, il marito assassinato, gran giocatore che studia i calcoli della probabilità, l’amante della donna, un segretario del marito defunto, che non ammetterà mai la sua colpa: ecco i personaggi. Il romanzo Il ranch della giumenta perduta, uscito qualche tempo prima (già recensito su Mobydick da Pier Mario Fasanotti il 6 marzo scorso, ndr), si svolge in un iniziale ambiente western, un ambiente che sarebbe piaciuto a Sergio Leone. Ma nella seconda parte si insinua una vera e propria ricerca che ricorda il mestiere dell’indagatore dei gialli. Non credo che sia tra i più belli che Simenon ci ha lasciato (Adelphi ne ha tradotti più di una qua-
“Maigret e il caso Nahour” è in assoluto uno dei più bei gialli risolti dal mitico Commissario
rantina, anche questi quasi tutti letti da me). Il protagonista del romanzo ha subìto tanti anni prima un attentato. A distanza di tempo, gli nasce l’imperiosa volontà di saperne il perché e di conoscere il nome del mandante (un killer, infatti, sparò e fu ucciso dal protagonista). Il ritrovamento di vecchie carte, incomplete e non tutte leggibili, riferisce solo l’iniziale del mandante: un’H che potrebbe anche leggersi come una N o una R o una A. Ma con il passare del tempo e con l’atteggiamento deciso preso da amici e parenti del protagonista, il mistero si chiarisce e va in una direzione tutta diversa da quella subito pensata dal protagonista. Ma avendo toccato il tema dei romanzi di Simenon non posso non citarne per lo meno tre che sono veri capolavori: per lo stile, per la figura dei protagonisti, per l’intrecciarsi degli eventi, per le pagine anche di amore, di tristezza sul passare del tempo e degli avvenimenti. Sono, secondo il mio parere, Tre camere a Manhattan, Il presidente e Il treno. Questa volta non ci sarà bisogno di invocare o di chiedere delle ristampe, perché questi grandi romanzi sono già stati ristampati e sono dunque a disposizione dei lettori che non li conoscono.
Maestri
MobyDICK
runo Zanardi, studioso, restauratore e critico, docente universitario, è stato allievo di Giovanni Urbani e ha intrattenuto rapporti di familiarità con Cesare Brandi. Ha restaurato, tra l’altro, la Colonna Traiana, gli affreschi e i mosaici della Basilica di Santa Maria Maggiore e del Sancta Sanctorum a Roma, i rilievi di Antelami al Battistero di Parma, parte degli affreschi della Basilica di Assisi, gli affreschi di Correggio nella chiesa di San Giovanni a Parma, gli affreschi di Tiepolo a Palazzo Labia a Venezia. Ha pubblicato per Skira importanti saggi tra storia dell’arte e storia delle tecniche artistiche: Il cantiere di Giotto e Giotto e Pietro Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco; e di storia della tutela, Conservazione, restauro e tutela. Unico studioso italiano, è stato chiamato dalla Cambridge University a far parte del gruppo internazionale di esperti che ha lavorato al Companion to Giotto. Zanardi mette ora a confronto, nel volume Il restauro (Skira, 230 pagine, 32,00 euro), le teorie dei suoi «maestri», Giovanni Urbani e Cesare Brandi, analizzando anche quanto c’è di complementare e quanto di distante tra questi due studiosi. Tutto di complementare e molto di distante, si scopre nel libro. Infatti, secondo l’autore, se il lavoro di Urbani presuppone il contributo fondativo dato da Cesare Brandi al restauro, è anche vero che Urbani si è ben presto mosso verso una storicizzazione del lavoro di Brandi. Più in dettaglio, si può dire che per Brandi il restauro è un problema critico ed estetico da valutare caso per caso. Per Urbani il tema del restauro va invece spostato al patrimonio artistico inteso come insieme. Da qui il passaggio che Urbani compie dal restauro alla conservazione. La conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente.
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Il libro è molto documentato e preciso. E l’autore è stato spinto da una chiara motivazione in questa impresa editoriale che - come si scopre leggendo il volume è quella di voler conservare la memoria dell’impegno civile e culturale sotteso al lavoro di Brandi e di Urbani. Una memoria che, in particolare per Urbani, rischiava di perdersi insieme al profondissimo fondamento teorico del suo pensiero (Urbani fu uno dei primi lettori in Italia, già negli anni Cinquanta, di Heidegger, che leggeva in francese non essendo ancora tradotto da noi e non conoscendo il tedesco). Una memoria che rischiava di perdersi insieme al decisivo contributo tecnico-scientifico e organizzativo dato da Urbani alla conservazione del patrimonio artistico, intesa come attività di prevenzione dai rischi ambientali (sismici e idrogeologici ad esempio). E ancora, perdersi insieme all’enorme portata innovativa - tuttavia del tutto misconosciuta anche oggi - del suo intendere il patrimonio artistico come componente ambientale antropica altrettanto necessaria, per il benessere dell’uomo, delle componenti ambientali naturali: arrivando così a concepire una speciale «ecologia culturale» mai fondata, va sottolineato, su temi demagogici o ideologici, «verdi» per intenderci, bensì sulla consapevolezza dell’inevitabilità delle
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ALTRE LETTURE
UN SOGNO “EUROPEO” PER MIGLIORARE L’ITALIA di Riccardo Paradisi
ognando l’Europeo (Rubbettino, 175 pagine, 14,00 euro) è una raccolta di saggi brevi dove Emilio Tarditi tratta argomenti che vanno dalla storia all’economia, dalla letteratura alla sociologia, dalla politica al giornalismo. Il titolo vuole essere un omaggio allo storico settimanale che, negli anni della prima formazione intellettuale dell’autore, contribuì a migliorare lo stile e i contenuti della sua scrittura. Oggi, il significato della parola «europeo» nella sensibilità interpretativa dell’autore non corrisponde più a un sogno di scrittura di fine gusto letterario, bensì a un augurabile cambiamento del costume e della mentalità degli italiani, su cui pesa ancora il giudizio di Giacomo Leopardi che li ritiene non capaci di veri costumi (cioè di vera moralità), ma solo di abitudini.
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A lezione
di restauro da Brandi e Urbani Bruno Zanardi mette a confronto le teorie dei due principali artefici della conservazione del patrimonio artistico in Italia, complementari e distanti. E mette all’indice la politica ministeriale degli ultimi quarant’anni, troppo sensibile al particolare e troppo poco all’insieme di Rossella Fabiani trasformazioni territoriali (urbanistiche e infrastrutturali) di qualsiasi paese moderno sotto la spinta di dinamiche socio-economiche. Trasformazioni da sfruttare come occasioni di sviluppo compatibile, cioè di una composizione razionalmente programmata, perciò armonica, di azioni tra loro apparentemente antinomiche quali conservazione e sviluppo. E facendo di quella composizione la premessa per un progresso della società civile. Di Brandi e Urbani, Zanardi ricorda il rapporto di stima e di affetto che li ha sempre legati. E anche la capacità di Brandi di restituire in parole le emozioni estetiche destate da un’opera d’arte e la straordinaria acutezza del pensiero di Urbani a cui si univano doti altrettanto straordinarie e tra loro opposte: da una parte, un leggendario uso di mondo, che ne faceva uomo di grandissima eleganza e simpatia, dall’altra una completa riservatezza sul suo lavoro di studioso.
In questo momento di crisi che sta attraversando l’Italia, sono tanti i tagli alle spese: alcuni giusti, altri invece sono colpi mortali alla cultura e al nostro patrimonio artistico. Secondo Zanardi i tagli alle spese sono un argomento troppo spesso usato in senso demagogico a conferma del generale dilettantismo del settore ministeriale, ma anche di chi ne parla. L’autore, infatti, evidenzia come il Ministe-
ro dei Beni Culturali dal 1974 a oggi ha accumulato decine, se non centinaia di milioni di residui passivi, cioè denari accreditati e non spesi. E allora lo studioso si chiede a che cosa servirebbero altri soldi in questo settore: per continuare a eseguire restauri estetici di singole opere, la cui necessità si basa su soggettivi giudizi estetici formulati all’impronta, come dimostra il sempre più frequente intervenire su opere già restaurate più volte? Restauri che colgono risultati conservativi che nel migliore dei casi lasciano inalterate le condizioni di partenza del manufatto su cui s’interviene. Oppure quei soldi servirebbero per una radicale inversione di tendenza delle politiche di tutela? Vale a dire per l’attuazione di politiche che finalmente non vedano più nel patrimonio storico e artistico una somma di singole opere da restaurare una per una, bensì una totalità indissolubile dal suo contesto storico, ambientale, naturale, paesistico e urbano? Una totalità, perché - secondo Zanardi - è soltanto sul piano dell’insieme che la scienza (economica, chimico-fisica, storico-artistica) può venirci incontro, essendo quello il terreno su cui già si muove per suo conto. Il rapporto indissolubile con l’ambiente, tanto da esserne divenuto una fondamentale componente qualitativa, è la caratteristica peculiare del nostro patrimonio storico e artistico. È per questo che la principale forma per valorizzarlo è conservarne o ripristinarne, dove ciò sia ancora possibile, la sua caratteristica ambientale, non certo organizzare istericamente mostre o simili caduchi ripetitivi eventi.
PICCOLI TIRANNI CRESCONO COLPA NOSTRA? *****
ambini che al supermercato si gettano a terra urlando; che scoppiano a piangere e non la smettono più appena gli si dice di «no»; che sputano agli insegnanti; che sgridano i genitori… Questi e altri comportamenti dispotici o prevaricatori dipendono, secondo Michael Winterhoff - uno psichiatra tedesco di fama internazionale - dal fatto che i bambini vengono spesso trattati come individui alla pari. Le conseguenze di questo atteggiamento, come spiega Winterhoff in Figli o tiranni? (Tea edizioni, 176 pagine, 9,00 euro) possono essere disastrose, perché portano alla progressiva caduta dei confini tra bambini e adulti, di quelle strutture forti - regole e punti fermi - che garantiscono un sano sviluppo della psiche dei piccoli. Soltanto trattando i bambini come tali - questa la tesi centrale del libro - è possibile garantire loro una crescita positiva.
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VERRÀ L’APOCALISSE E AVRÀ I TUOI OCCHI *****
a visione apocalittica della storia di Gioacchino da Fiore (1135-1202) affonda le proprie radici nella tradizione cristiana, fino all’Apocalisse di Giovanni, il libro che Gioacchino considera la chiave per decifrare l’intera Bibbia. Benché numerose opere abbiano trattato dell’influsso dell’abate calabrese, poche hanno tentato di determinarne la posizione nella storia del pensiero come L’abate calabrese, lo studio di Bernard McGinn su Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale (Marietti 1820, 264 pagine, 23,00 euro). McGinn colloca questa straordinaria figura sullo sfondo dell’ambiente storico e dei precedenti dottrinali per poi intraprendere un’accurata analisi della sua teologia simbolica attraverso lo studio dei principi esegetici, della dottrina trinitaria e della teologia della storia.
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di Enrica Rosso on erano sufficienti i quattrocento testimoni che hanno assistito la scorsa primavera alla rappresentazione avvenuta a San Pancrazio, la sua casa fucina in Umbria, a liquidare I Demoni, ultima monumentale creazione del Maestro Peter Stein. Dodici ore di maratona teatrale a replica (dalle11 alle 23), scandite da tre pause brevi, più il pranzo e la cena da consumare insieme spettatori e attori «a dar luogo a una vera comunità teatrale». Venticinque attori in scena, tutti italiani, oltre allo stesso regista nel ruolo di Padre Tichon. Il musicista Arturo Annechino che firma le musiche originali e le esegue dal vivo al pianoforte con Giovanni Vitaletti e Massimigliano Gagliardi. Dodici spazi teatrali, spesso inediti, per un massimo di cinquecento spettatori a rappresentazione «perché ci vuole intimità», allestiti appositamente. Venticinquemila chilometri da percorrere per raggiungere le dodici città che ospiteranno l’evento, di cui sette italiane e cinque internazionali. Un’operazione titanica che ha richiesto una mole di lavoro notevolissima e altrettanta pazienza, dopo la rottura con il Teatro Stabile di Torino, per misurarsi con una forma compiuta e la realtà di un tour mondiale che debutta in grande stile oggi, a Milano, nel ventre dell’Hangar Bicocca. Riaperto dopo un periodo di restauro, l’ex spazio industriale, ora luogo di sperimentazione artistica multidisciplinare, si sviluppa su quindicimila metri quadrati dipinti di blu scuro e protetti da un argenteo guscio. Dietro i numeri, le realtà produttive di Teatro Stabile di Innovazione di Milano, in collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia, oltre a Wallenstein Betriebs-GmbH Berlin dello stesso regista. Già incoronato dal Premio Ubu come miglior spettacolo del 2009, il testo è stato adattato per il teatro dal pluripremiato regista berlinese partendo dai precedenti di Camus, Casdorf, Dodin e Wajda rielaborati e arricchiti dai molti dialoghi presenti nell’originale dostoevskijano ripensati per la scena. Una scenografia essenziale e la recitazione di ispirazione cinematogra-
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Televisione
Teatro
MobyDICK
spettacoli DVD
I Demoni
secondo Peter Stein
LE MILLE E UNA STORIA DEI BIMBI DEPORTATI ove mesi prima che la seconda guerra mondiale deflagrasse in tutta la sua drammaticità, diecimila bambini, in prevalenza ebrei, furono messi in viaggio dalla Germania verso l’Austria, la Cecoslovacchia e l’Inghilterra dai loro genitori. Una diaspora, nota come kindertransport, che è passata sotto silenzio per molti anni. Mark Jonathan Harris rievoca le commoventi pagine di quel trasloco forzato nel suo La fuga degli angeli, documentario che racconta le mille e una storia di questi bambini e le tristi costanti: le famiglie affidatarie, i tentativi di ricongiungimento coi propri cari, l’eco delle persecuzioni naziste. Tenero e inquietante.
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CONCERTI
FABIO CONCATO CANTA PER IL KENIA fica vicina alla scuola russa, sono le due cifre fondamentali della messa in scena. La scelta del testo - «il romanzo più politico di Fëdor Dostoevskij» - è guidata dal desiderio di focalizzare il male del secolo attraverso il confronto di due generazioni profondamente diverse. I padri, colti ma perdenti perché poco combattivi, accomodati nelle loro convinzioni, e i figli, assestati ognuno a suo modo nell’indifferenza di un presente ideologicamente svuotato. Un evolversi inquieto, che perde consistenza e memoria, disintegrando le vecchie certezze per sostituirle con una realtà sradicata. Un atteggiamento molto vicino al vissuto odierno. Tutt’intorno un turbinio di incontri, amori, mondanità, insomma la vita in tutte le sue infinite sfaccettature. Dopo le date di
Vienna e Amsterdam, il 19 e il 20 giugno la compagnia si trasferirà alla Ex Birreria Miano di Napoli, il 26 e 27 sarà al Palazzetto dello Sport di Ravenna, proseguirà per Atene e New York (dove è stato fatto registrare il sold out nel giro di tre ore) per poi tornare in settembre a Parigi e il 2 e 3 ottobre all’Auditorium di Roma (a cui seguirà dal 4 all’8 - iniziate ad appuntarvelo - Faust-Fantasia, melologo da concerto con Peter Stein protagonista assoluto del palco) e poi ancora Pordenone, Reggio Emilia e a fine ottobre, nonostante tutto, al Teatro Astra di Torino indicato per il debutto dell’anno precedente.
I Demoni di Peter Stein, prima tappa 22-23 e 29-30 maggio a Milano, Hangar Bicocca, Info 02.36592544 www.idemoni.org
er iniziativa di Popi Fabrizio, nasceva tre anni fa Karibuvillage, progetto umanitario nato per aiutare gli abitanti del villaggio keniota di Chakama. Oggi, il piccolo paese africano vicino all’oasi di Malindi, ha già un asilo, insegnanti di supporto e luce elettrica. Merito di molti musicisti italiani che si sono dedicati alla causa. In primis Fabio Concato. E proprio il cantautore milanese inaugura nella sua città Africa, parole e musica, kermesse di beneficenza al via a piazza Cantore martedì 25 maggio, con un recital che lo vedrà accompagnato da Ornella D’Urbano alle tastiere e Larry Tommasini alle chitarre.
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di Francesco Lo Dico
Pupe e secchioni, il peggio della rete “giovanile” hi ha la pazienza o la curiosità di seguire questi commenti o segnalazioni sui programmi televisivi, sa che chi scrive - come milioni e milioni di italiani - è nauseato dal tono trash che impera oggi. Lo ascrivo alla mancanza di fantasia, alla caduta verticale del buon gusto, al serpeggiare nella società italiana del voyeurismo, all’imposizione da parte della pubblicità e delle cosiddette tv commerciali (Canale 5 come spiegazione e insieme origine di tanta ottusità sociale?), alla non cultura dilagante, alla cultura pensata come palcoscenico della noia, al mancato stimolo degli insegnanti nell’affrontare quella materia grezza, e già inquinata dall’ambiente urbano o suburbano, che è l’adolescenza. Solo adolescenza? Quanto dura questa età del vuoto che immediatamente diventa griffe o del suono che stenta a diventare frase compiuta? A osservare la televisione, direi fino a quarant’anni. I cinquantenni e gli ultra-
C
di Pier Mario Fasanotti sessantenni probabilmente si sentono gratificati in quanto guardoni. O, più teneramente, ricordano o rimpiangono un passato, vero o immaginario. Italia 1 (rete «giovanile» di Mediaset) manda in onda lo spettacolino La pupa e il secchione. Un confronto tra maschi imbranati (ci sono o ci fanno? Più probabile la seconda ipotesi) e ragazze disinibite con tanta voglia di coniugare la libertà ideologica con il togliersi il reggipetto. Le «pupe» sono, in tutto il loro splendore corporale, il metronomo del fallimento del femminismo più intelligente e meno radicale. Qualcuno pensa ancora che siano «oggetti». Ma via! Sono solo felici di diventare soggetti, e pure dominanti. Le armi? L’abbondanza della carne, l’armonia delle forme, la seduzione intesa sempre come malizia, la consapevolezza di essere finalmente «regine». Su Italia 1 va in onda, verso mezzanotte, La pupa hot - Il ritorno. In
pratica, la sintesi filmistica degli scherzi e delle «punizioni» inflitte agli uni e alle altre. Procediamo con l’avvertenza di non fare commenti (oggi scansiamo il superfluo). Sullo sfondo c’è una bella casa in stile Novecento con bellissimo parco. Potrebbe essere in Toscana o in Lazio. Apprendiamo il nocciolo della «punizione»: tornare tutte a casa in mutande. No, non si può fare. In coro: «Ma noi le mutandine non le portiamo mai!». Il rimedio è dietro l’angolo: via il reggiseno. Una mulatta sudamericana alza le braccia al cielo e lancia gridolini liberatori. Dalla regia tale Pasqualina commenta con gravità: «I secchioni hanno pensato bene di farci camminare con le tette all’aria». Rivolta al secchione-commentatore, un chimico «che non ha mai fatto l’amore», aggiunge: «A me star nuda piace». Inespressiva riprovazione di lui. Reazione di lei: «Ma se mi vedi sempre senza vestiti! Mi dici
che ormai mi conosci a memoria!». Lui, nel forzoso ruolo dell’imbarazzo, dice la cretinata para-poetica: «Ma io ti immagino…». Altra scena-punizione: un ragazzo steso sul letto. Ha solo i boxer. Quella di turno scrive frasi e disegna cuoricini con la panna spray sull’intero corpo della vittima. Entra poi un’altra «pupa» che ha il compito di pulirlo con la lingua. La stessa, in regia, fa poi la sua confessione: «Mi è piaciuto molto, adoro la panna e il cioccolato, non sono mai sazia. E poi a me leccare piace». Marysthell Garcia, 27 anni («sono giovane dentro»), è attorniata da cinquesei ragazzi. Inchiesta sulla sua vita. Quale? Ma che domanda! Le misure, i fidanzati, il sesso. La «pupa» sdraiata sulla chaise-long pronuncia una frase che probabilmente ha studiato a lungo: «Meglio cento giorni da pecora che uno da leone». Chi vuol capire capisca (sic). Breve annotazione: gli stacchi pubblicitari erano molto interessanti.
MobyDICK
poesia
22 maggio 2010 • pagina 21
La musica in versi del Tasso amerata Cornello è un paesino di 630 abitanti dell’alta Val Brembana che dall’Unità a oggi non ha mai contato più di 1200 abitanti e che puoi raggiungere solo a piedi. Lì ebbe origine una famiglia che dal XIII secolo in avanti acquisì il monopolio dei servizi di corrieri postali. La loro abilità nel recapitare la corrispondenza tra Venezia e le principali città d’Italia, in particolar modo con Milano e Roma, non fece che accrescere la loro fama, tanto da essere investiti quali corrieri ufficiali della corrispondenza del Papa. E fu un tal Giovan Battista de Tassis a recare a Carlo V la notizia dell’avvenuta elezione a imperatore. Andar lì, in quel piccolo borgo, significa poter visitare le rovine del Castello dei Tassi o il Museo della famiglia Tasso o pensare che Torquato Tasso possa esser nato là. Ma il grande poeta della Controriforma, figlio di Bernardo e di Porzia de’ Rossi, nobildonna toscana, è nato a Sorrento nel 1544, essendo allora il padre al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino. Da ragazzo Torquato viaggiò molto con l’amatissimo genitore: Urbino, Venezia, ma soprattutto Napoli dove i gesuiti lo educarono e dove cercherà, molto avanti negli anni, un rifugio alla sua insania mentale. E poi le aristoteliche Padova e Bologna tra il 1560 e il 1565, fino ad approdare a Ferrara in occasione delle nozze di Alfonso II d’Este e al seguito dell’immancabile fratello cardinale, Luigi. Il periodo alla corte degli Estensi è stato certo quello biograficamente più felice, poi il tormento si è impadronito del suo animo arrivando a consumarlo inesorabilmente giorno dopo giorno fino al 25 aprile 1595 quando si spense a Roma, poco prima di ricevere l’agognato alloro di poeta in Campidoglio per volere del pontefice.
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di Francesco Napoli
Soavissimo bacio, del mio lungo servir con tanta fede dolcissima mercede! Felicissimo ardire de la man che vi tocca tutta tremante il delicato seno, mentre di bocca in bocca l’anima per dolcezza allor vien meno! Torquato Tasso dalle Rime
Ma se queste sono le tracce più lampanti del poema, sottotraccia si addensano un nugolo di ulteriori significati sotterranei: eroismo, religiosità e magia si dispongono al di sotto dei singoli canti e delle ottave fondate su uno stile e un linguaggio del tutto originale. Con l’intreccio tra disgiunzione e ripetizione («parlar disgiunto» diceva a riguardo Della Casa) Tasso crea una ricca gamma di effetti, svela tutte le capacità foniche e visive del linguaggio a cui attribuisce echi e baleni che si spingono in ogni direzione. Nel corso della sua esistenza Torquato Tasso fu prodigo, tra l’altro, anche nella composizione, di liriche per quasi ogni circostanza, ma nelle sue Rime ci si avvede come sia assente un centro. I componimenti, infatti, ruotano intorno a un’unica esperienza presa a modello ma di fatto seguono indirizzi molteplici, come ci segnala anche la distinzione voluta dall’autore stesso tra rime d’amore, rime encomiastiche e rime religiose. La novità più interessante della sua produzione lirica è la musicalità - ai suoi versi si accompagna la musica di tanti compositori coevi, come Gesualdo da Venosa spesso originata da situazione sentimentali elementari o da figure naturali semplicissime dalle quali ricava echi dolci e leggeri, movimenti percorsi da una sognante affettività. E tra i madrigali d’amore forse quello qui riportato «Soavissimo bacio», di ispirazione dantesca se si vuole, è l’emblema del continuo intreccio di quelle sonorità diffuse per le quali «se la poesia è fattura di ritmi e di accordi, il Tasso ha toccato i limiti della civiltà letteraria» (Battaglia).
Le vicende umane di Torquato Tasso hanno dato spunto a un vero e proprio «mito biografico» trattato da Goldoni in una sua commedia a Donizzetti in un’opera lirica, ma pure da Goethe in un dramma in cinque atti dalle tinte forti come da Giacomo Leopardi in una delle più esemplari Operette morali («Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio famigliare») e da George Byron nel Lamento del Tasso. Un mito forse originato anche dalla stessa concezione tassiana della letteratura. Infatti, egli assegnò all’attività letteraria un valore assoluto facendone il luogo del supremo riconoscimento di sé. In Tasso la creazione poetica si connette strettamente alla riflessione critica e teorica: la sua scrittura cerca sempre di confrontarsi con schemi programmatici e norme generali, così come possiamo già leggere nelle giovanili carte del Discorso dell’arte poetica sopra il poema eroico, pagine molto legate alle prime fasi della costruzione della Gerusalemme liberata. L’autore sembra avere una sua fissazione a riguardo: il passaggio del romanzo cavalleresco della tradizione ferrarese, Orlando innamorato di Boiardo e Orlando
il club di calliope
furioso dell’Ariosto, a poema eroico moderno fondato sui canoni dell’epica classica. Parte allora da un presupposto di poetica e cioè che la poesia è «imitazione» delle azioni umane e affronta il nodo della scelta della materia del poema sulla base di uno stretto rapporto tra poesia e storia, tra vero, verisimile e meraviglioso. Resta per lui al fondo, però, almeno nella prima parte della sua attività, l’idea che il fine intrinseco della poesia sia comunque il «diletto» e quindi al vero e al verisimile va aggiunto un bel po’ di meraviglioso. Un meraviglioso a cui Tasso associa un aggettivo molto significativo per gli anni della composizione della sua Liberata, e quindi tra 1559 e 1575 e fino alla pubblicazione del 1581: «cristiano», un attributo sintonico con l’era della Controriforma pienamente in atto. Molteplici i temi che si possono ricavare dalla lettura di questa magistrale opera: quello della Crociata, la centralità della città santa, l’opposizione rigida e contrapposta di mondi e valori, il tutto immerso in uno schema sostanzialmente tragico del divenire e con un disegno psicologico dei personaggi, maschili e femminili, di sorprendente modernità, oltre che nitore. Goffredo di Buglione, Rinaldo, Tancredi e gli eroi, a modo loro, pagani; e poi Clorinda, Armida ed Erminia.
L’INNOCENZA COME REGOLA DI VITA in libreria
MEMORIA
di Loretto Rafanelli
Chissà se i miei gesti nella casa - aprire la porta del bagno per buttare i tuoi vestiti nella cesta, riaccendere la luce della cucina e poi spegnerla di nuovo dopo aver innaffiato i fiori sul balcone chissà se questo che tu ascolti prima di dormire sarà un giorno la tua memoria favolosa come lo è per me lo scorrere dell'acqua nella cucina fredda all'alba - quando mio padre si alzava per andare a lavorare e quelle voci che pianissimo si articolavano nel silenzio. Alba Donati
an Twardowski (1915-2006) è oggi il poeta più letto e amato della Polonia, straordinario continuatore della tradizione polacca di poeti-sacerdoti. Ora, per la prima volta è tradotto in Italia con l’antologia Affrettiamoci ad amare (Marietti, 120 pagine,14,00 euro). La sua scrittura è alimentata dallo stupore, quello stupore che caratterizza anche la sua profonda fede. Egli ci dice che bisogna credere e vivere «come un bambino», e fare della semplicità e della trasparenza la propria linea di vita. Sia nella poesia che nella fede; così che lirica e amore divino siano una unica cosa. La sua poesia diviene un messaggio sulla pienezza della vita, sulla gioia delle mille elementari offerte che la natura ci regala, sul superamento dell’ossessione del tempo e della morte, «momento di speranza massima». Una poesia che dialoga con Dio, con Cristo e con la gente comune, quasi a voler essere un tramite tra questi. E nella francescana forza dell’amore la sua voce ci dice: «piccole e grandi infelicità indispensabili per la felicità/ tu dalle cose semplici impara la serenità».
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Fantascienza
pagina 22 • 22 maggio 2010
e le vie della Provvidenza sono infinte, quelle dell’editoria nondimeno, in più sono del tutto impreviste. E così capita che due romanzi scritti tempo fa a diversi anni uno dall’altro, escano invece adesso quasi contemporaneamente: una bella soddisfazione per un autore che ha all’improvviso una doppia ribalta e due pubblici diversi per farsi apprezzare, dopo venticinque anni di carriera iniziata pian piano, senza forse i clamorosi prosceni amati da altri, ma al motto nullo die sine linea accumulando una esperienza di narratore e critico invidiabile, dove la quantità non sta a scapito della qualità.
S
Errico Passaro, questo il suo nome, è stato un appassionato di narrativa non-mimetica sin da ragazzo: infatti nel 1985, ad appena 19 anni, giunse in finale al Premio Tolkien con il breve romanzo orrorifico-dannunziano Il delirio, pubblicato poi in un volume collettaneo dall’editore Solfanelli. È quindi apparso con articoli e racconti un po’ dappertutto, ha curato per una decina d’anni una pagina domenicale sul fantastico per il Secolo d’Italia, ha partecipato a molti altri concorsi piazzandosi ai posti d’onore, ha pubblicato una serie di romanzi: Nel solstizio del tempo (con R. Genovesi, Keltia, 1992), tra mito e fantasia; Gli anni dell’Aquila (Settimno Sigillo, 1996), una ucronia che meriterebbe dopo un quindicennio di essere rivista e ampliata; Le maschere del potere (Nord, 1999), romanzo fantastico edito, tagliatissimo, dall’editore, che anch’esso meriterebbe di essere ripreso; Il regno nascosto (con G. Marconi, Dario Flaccovio, 2008), una lunga storia dedicata alla stirpe dei nani inserita nel filone tolkieniano. Insomma, una rivisitazione di quasi tutti i generi che si comprendono sotto la definizione di «Immaginario». E ora è la volta di questa doppietta: Zodiac, una storia di fantascienza uscita sul numero di aprile di Urania; e Inferni, un romanzo tra orrore e religione appena pubblicato da Bietti, una casa editrice che sta dimostrando un interesse piacevolmente sospetto per la narrativa non-realistica. I due titoli permettono un esame per così dire comparato di come Errico Passaro si muova nella science fiction e nel fantasy/horror, e di quali siano le linee di tendenza della sua narrativa. E questo diciamolo subito, anche se Zodiac dà l’impressione immediata di essere un testo abbondantemente sforbiciato per poter entrare nelle pagine standard di una collana da edicola, per di più abbinato a un altro, che lo ha nella sostanza ridotto a un ro-
MobyDICK
ai confini della realtà
Prigionieri
delle stelle
(e altri Inferni) di Gianfranco de Turris manzo quasi di pura azione, da romanzo di idee quale doveva essere inizialmente.
Che idee? Niente di più e niente di meno, se vi pare poco, una lunga elaborazione in forma di fantascienza sul libero arbitrio e la libertà individuale degli esseri umani sottoposti a una dittatura… deterministica. Sì, perché a Errico Passaro non mancano affatto le idee originali e coraggiose immaginando nel suo romanzo che in un futuro lontanissi-
prio segno zodiacale e vive in quartieri appositi: il protagonista si chiama Florian G. che sta per Gemelli, ad esempio. Non solo, i bioritmi, per così dire, sono cambiati: si vive di notte sotto l’influenza delle stelle, e si dorme di giorno; non si sa nulla del passato e della esplorazione dello spazio: le stelle sono simboli astrologici, non corpi reali; e così via di stranezza in stranezza. Ma a un certo punto succede qualcosa, vale a dire che Florian, nientemeno che il capo della polizia politica, si
Età dell’Acquario: l’umanità è sotto il giogo del Consiglio dello Zodiaco che nega il libero arbitrio e regola la vita dei cittadini secondo gli oroscopi. Ma un giorno Florian... È lo scenario di un racconto di Errico Passaro, autore anche di un romanzo il cui eroe agisce in un Aldilà Molteplice mo - quello dell’Età dell’Acquario l’umanità sia sotto il giogo del Consiglio dello Zodiaco che niente altro è se non l’espressione umana di un megacomputer che ogni santo giorno elabora gli oroscopi dei cittadini e a ognuno di essi fa pervenire a casa un bollettino con le indicazioni per le prossime 24 ore. La popolazione è suddivisa a seconda del pro-
rende conto che in lui si agita qualcosa di nuovo, scopre di essere un «tipo puro» dei Gemelli e di potersi sottrarre all’influsso del Consiglio; si unisce a un gruppo di ribelli e, nonostante questi siano stati messi in scacco, riesce a raggiungere il megacomputer che in sostanza è lo Zodiaco e, sacrificandosi, a distruggerlo. Un eroe che si accorge di essere
«diverso» e che combatte «uno contro tutti», alla fine raggiungendo il suo scopo e modificando in meglio la storia dell’umanità. Non di meno, anche se con altre particolarità, è Corrado Marziali di Inferni, il quale a differenza di Florian è però un eroe morto! Infatti, defunge la notte di Capodanno del 1995 per ritrovarsi in un aldilà a tutti inimmaginabile: scopre ad esempio che non esiste un solo Inferno ma tanti inferni quante sono le religioni, le sette e le eresie dell’umanità; e che in questo Aldilà Molteplice ci sono i «cacciatori di anime» che si contendono quelle dei defunti: non tutte però, non quelle dei credenti che vanno subito alle loro destinazioni, ma quelle degli agnostici che in nulla credevano in vita, proprio come lui.
Ma, in questa nuova via, se così si può dire senza cadere in contraddizione, il vecchio Marziali, quasi a voler riscattare i lati negativi della precedente, si scopre diverso e dopo aver attraversato le brutture dell’Inferno di Dio che sono una replica di quelle terrene con i suoi topoi (il Grattacielo, l’Ospedale, la Megacasa, la Discoteca «summa dell’Inferno» ecc.), s’impone al suo «cacciatore» che gli fa da guida e capovolge la situazione: come Lucifero è andato all’assalto del Paradiso rimanendone sconfitto e precipitando nell’Abisso, così Marziali (nomen omen) va all’assalto di Satana, questa volta avendo la meglio sulle sue schiere grazie all’appoggio degli altri Inferni, ma con il dubbio prima, e poi la consapevolezza di «essere stato utilizzato» dall’Onnipotente e poi «messo da parte» con i propri rimorsi. Governerà l’Inferno di Dio, ma proprio questa sarà la pena cui è stato destinato in eterno per l’ignavia della sua vita terrena. Passaro si è dunque immaginato due protagonisti che affrontano con il medesimo scopo - ancorché in maniere diverse e con risultati diversi - entità enormemente più grandi di loro alla fine sconfiggendole, Davide contro Golia: Florian G., manovrato insieme ai «dissidenti» ma non oltre un certo punto, muore dando il via a un nuovo inizio per la collettività umana governata dallo Zodiaco e senza libero arbitrio; il vecchio Corrado Marziali, anche lui manovrato ma sino alla fine, regnerà sull’Inferno cristiano credendo di poter far qualcosa di nuovo ma dovendo arrendersi a un «Dio che si distingue così poco dai modi del Maligno» rientrando nell’eterna routine. Entrambi, però, nel futuro e nell’aldilà hanno le stesse caratteristiche: il coraggio, la determinazione, il disinteresse personale.