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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

STORIE Breve viaggio nei “feuilleton” del Terzo Millennio

DELL'ALTRO MONDO di Pier Mario Fasanotti

ormai famosissimo romanziere spagnolo Carlos Ruiz Zafòn (succesEnnio Flaiano e Tonino Guerra, il cinema si rivolge spesso ai romanzi. Il teatro so internazionale con L’ombra del vento, oltre 10 milioni di copie praticamente li ignora e per questo rimane o nel cortile delle memorie Personaggi (reiterate) o in quello delle rimasticature sperimentali. Occorre dire vendute) dice una grande verità: «Molti autori classici, se del passato, alieni, che le fonti narrative oggi sono enormi. A parte gli autori o i befossero vivi, si farebbero coinvolgere in sceneggiature st-seller di estrema qualità, c’è una vasta produzione che va per la televisione, che nel bene e nel male è il grande palmisteri raccontati con i criteri ascritta alla voce «intrattenimento». coscenico del nostro tempo». E magari le case produtdell’investigazione moderna e con ritmo Vasta offerta, dicevo. Così straripante, e nemmetrici insistessero in questa ricerca. Il risultato sacinematografico. Sono i cardini dell’odierna no di basso livello, da ricordare quella splenrebbe quello di alzare la qualità. Come del redida abitudine dell’Ottocento (durata fino ai sto è avvenuto nella televisione italiana negli letteratura d’intrattenimento che sforna primi del Novecento) che si chiamava feuilleton. anni Sessanta e Settanta con i grandi sceneggiati senza sosta ponderosi volumi. tratti da Dickens,Tolstoj, Manzoni, Hugo e tanti altri. La Romanzi a puntate, su quotidiani e periodici. Oggi chi ricetta è buona in sé, occorre però valutare il tipo di «entrapromuove la lettura dimentica spesso l’uovo di Colombo, coCibo per la fantasia ture» (parola-chiave del marketing di oggi, leggi anche raccomanme se ce ne dovessimo vergognare. Ossia che la lettura è diverti(e per gli editori) dazione, presentazione, corteggiamento dei potenti, fortuna, eccetera) mento. Il vecchio feuilleton è, nell’epoca attuale, il «romanzone» che si che possono avere certi autori. Finito il tempo dei soggettisti geniali come ispira al mistero e alle vicende storiche.

L’

Parola chiave Passato di Sergio Valzania La grande bouffe dei Rolling Stones di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Rapimenti notturni da Omero a Ugo Foscolo di Roberto Mussapi

Fratture dell'anima a Buenos Aires di Marco Ferrari Lev, Sof'ja, un cane e l’apocalisse di Anselma Dell'Olio

Alla riscoperta del Novecento romano di Marco Vallora


storie dell’altro

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mondo

Le stelle del firmamento new gothic na valanga di romanzi sui vampiri. Come mai l’inquietante e terribile (dread in inglese) figura del conte Dracula, letterariamente nato nel 1897, ha spazzato via la moda delle streghe e dei maghi e si è posto in questi ultimi anni al centro della suggestione fantastica? Il primo vampiro è stato creato dall’irlandese Bram Stocker. Si possono scomodare concetti filosofici, ma sarebbe scorretto dimenticare un particolare biografico: lo scrittore si documentò per dieci anni sul misterioso principe ungherese Vlad Topes Dracul. Non solo. Stocker fino all’età di otto anni, per una malattia non ben diagnosticata, fu incapace di alzarsi dal letto. Non è un caso che nel suo Dracula ci siano due temi dominanti: il sonno senza fine e la resurrezione dei morti. Il vampiro lega poi a sé il conflitto tra bene e male, eterno motore di storie. A riprendere le avventure delle creature smorte è stata Stephenie Meyer con Twilight (tradotto da Fazi): un successo strepitoso, continuato e ampliato dall’omonimo film. Le tormentate vicende di Bella ed Edward non si srotolano più nei foschi Balcani, ma in una cittadina dello Stato di Washington. Rimane il quesito sull’attrazione verso i nuovi vampiri. Le risposte sono tante. Si possono scomodare Freud, Platone, Hobbes e perfino la Bibbia che proibiva agli ebrei di nutrirsi di carne sanguinolenta. Il docente di filosofia William Irwin si è impegnato ad analizzare i tanti aspetti di un fenomeno con il saggio La filosofia di Twilight (Fazi). Tra i passi più originali, c’è questa osservazione: «La Meyer, con Edward, ha dato vita alla quintessenza delle fantasie femminili: un “ragazzo” che in realtà è molto più grande e maturo di quanto non sembri; che ama Bella per quella che è e non per il suo aspetto; che vuole dormire con Bella ma senza farci sesso; che è protettivo e

U

Due elementi che di solito vanno infilati in quel frullatore chiamato suspence. Non più, o non solo più, il libro giallo, ma enigmi e personaggi della storia immersi nella pentola del liquido giallo. Le vendite confortano gli editori, i successi di vendite varcano velocemente i confini bypassando anacronistici controlli doganali, in altre parole scavalcando certe resistenze del nazionalismo letterario (forte ancora oggi in America, per esempio). La fame di storie è davanti agli occhi di tutti, anche dei meno esperti a scegliere tra gli scaffali di librerie che per l’abbondanza delle offerte sono luoghi di vertigine e smarrimento. Ma davanti a tutti il cibo per la fantasia non manca proprio.

Ricordo quel che diceva un tale (George Dawson) verso la fine degli anni Trenta dinanzi a una commissione parlamentare inglese: «In questo paese suscitiamo nella gente il desiderio di leggere, ma non le forniamo il materiale. Per un uomo è una disgrazia aver tanto interesse per la lettura se non ha la possibilità di soddisfarla». Che fecero i britannici di quel tempo? Alcuni editori misero in vendita a prezzi assai contenuti romanzi a puntate di media qualità. Elevata tiratura, fascicoli mensili. La carta vincente era il tema della paura. Ed ecco che nacque la collana penny dreadful. Insomma, tanti Stephen King.Tra il 1845 e il ’47 apparve (autore anonimo) Varney il vampiro. Novecento pagine con testo su due colonne in ogni pagina. Narrativa popolare sanguinolenta, che in questi ultimi anni è riapparsa vistosamente, trainata da film come Twilight e da serie televisive come True Blood (vedi articolo in alto). Ma lasciando da parte denti aguzzi e avventure sotto la luna, c’è un gran proliferare di trame di puro intrattenimento. Gli esempi che facciamo qui di seguito non sono esaustivi, né possono esserlo, visto la gran quantità di libri di questo genere. Tutti, bisogna riconoscerlo, sono come vagoni ferroviari che portano nitidamente, almeno anno III - numero 21 - pagina II

molto ricco, con una famiglia affettuosa e solidale che accetta Bella nonostante le evidenti differenze culturali ed economiche. Onestamente, come non amarlo? Ecco perché ragazze e donne dagli otto ai quarantotto anni impazziscono per Edward». Bella vorrebbe essere trasformata in vampiro. Ha paura della mortalità, che considera garanzia di fallimento e viatico verso un’esistenza senza senso. Irwin ricorda La confessione di Lev Tolstoj, in cui il grande russo rifletteva sull’assurdità della vita in assenza di un aldilà. Ma a questo punto ci viene un dubbio: che siano più profonde le analisi e le ipotesi degli studiosi rispetto al testo collocato sotto il vetrino dell’interpretazione? Non è da escludere. In ogni caso il vampirismo è come l’edera, oggi: s’allunga e figlia. C’è posto per tutti. Anche per Charlaine Harris, con la sua miscela di umorismo, erotismo, horror e romance. C’è il Club dei Morti, c’è l’élite dei vampiri. Da qui il serial televisivo True Blood. Ancora sangue, dunque. Un successo dopo l’altro sono i romanzi «sanguigni» editi dalla Newton Compton. Lisa Jane Smith è un’autrice di punta. Ha inaugurato una saga, ora nota in tutto il mondo e utilizzata dalla televisione. Tra i suoi maggiori successi: Il diario del vampiro, Dark Visions e La setta dei vampiri (Il segreto, Le figlie dell’oscurità, L’incantesimo e L’angelo nero). La Smith è considerata l’ultima stella del firmamento new gothic. Basta scorrere il catalogo di questo genere della Newton Compton: libri che van via come il pane, come si diceva una volta. E l’editore Longanesi ripropone oggi un classico: Intervista col Vampiro della famosissima Anne Rice, raffinata maestra del genere. Frase chiave: «Il male è sempre possibile, il bene è eternamente difficile». Torna così l’antenato nobile di Edward. Si (p.m.f.) chiama Lestat, con il dono, o la maledizione, della vita eterna.

per chi sa leggere bene, la scritta «viaggio in terre lontane». Dan Brown ha insegnato a scovare misteri dappertutto. Con il rischio di precipitare nel ridicolo o nell’inverosimile. In ogni caso quelli del marketing o comunque gli editori che hanno più sensibilità commerciale sanno bene che il lettore di oggi apprezza molto una storia che abbia un aggancio con eventi del passato. Basta saperla raccontare con criteri dell’investigazione moderna. E con un ritmo televisivo o cinematografico. L’esempio più vistoso di questi ultimi anni è un signore che si chiama Glenn Cooper, americano che ha scommesso di sfidare mister Brown. Con la sua prima prova, La biblioteca dei morti (Nord editore) è partito come se fosse in un Gran Premio. Milioni di copie vendute in ogni parte del mondo. In questi giorni è uscito il suo sequel, Il libro delle anime (stesso editore), dove un detective dell’Fbi mostra di conoscere l’«Area 51», il nascondiglio dove il governo Usa occulta le prove dell’esistenza degli alieni. Cooper riprende il tema della biblioteca medievale dove sono stati scritti i destini della gente fino al 2027. Cooper dice di avere come modello Umberto Eco. Già impegnato nella stesura del terzo romanzo, si limita ad anticipare che affronterà il tema religioso, con un’ambientazione al presente. Il cardine è il mistero, la sonda che cattura gli interrogativi eterni dell’uomo. Sempre l’editore Nord sta mandando in libreria Il fuoco segreto di Martin Langfield (già noto per Lo scrigno del male). Ovviamente c’è un manoscritto, addirittura di Isaac Newton, contenente ricerche alchemiche e tonalità mistiche. C’è pure Heinrich Himmler, capo delle SS, alle prese con un progetto diabolicamente rivoluzionario (appunto «il fuoco segreto») che altro non è, né poteva essere altrimenti, l’arma più micidiale mai con-

cepita dall’uomo. Salto temporale: siamo nel 2007 a New York, dove una donna trova una ricetrasmittente della nonna, che risale alla seconda guerra mondiale. Il meccanismo riprende a funzionare e… Non riveliamo lo sviluppo, ovviamente.

Dicevamo poco prima del fascino di certi personaggi storici. La Newton Compton (oggi ha una linea editoriale nuova e di notevole impatto sul pubblico) farà uscire la prossima settimana La regina eretica. Il romanzo di Nefertari, di Michelle Moran (oltre 10 mila copie vendute con La regina dell’eternità. Il romanzo di Nefertiti). Nefertari, nipote della fascinosissima Nefertiti, è l’unica superstite dell’incendio che ha devastato il palazzo reale di Tebe. Scattano gli intrighi di corte quando il principe Ramses (futuro re) s’innamora di lei, e la sposa. Storia d’amore tra mille avversità, sullo sfondo della migrazione degli ebrei liberati dalla schiavitù egiziana. Ora «viaggiamo» nel centro-Europa. L’americano Kenneth Wishnia viene tradotto da Longanesi. Il suo romanzo, Il quinto servitore, ci porta nella Praga del 1592. Il tema è storicamente delicato visto che parte dal ritrovamento di una bambina cristiana trovata sgozzata in una bottega ebraica. Come si sa, gli ebrei furono accusati (ingiustamente) di efferati crimini contro i seguaci di Cristo. Gli inquisitori sollevano lo spettro della stregoneria, il popolo vomita la sua furia vendicativa contro i giudei. Interviene anche l’imperatore Rodolfo. In ogni caso si deve risolvere il caso del bottegaio ebreo in soli tre giorni: sarà possibile con il ricorso all’arte del ragionamento e alla millenaria sapienza rabbinica. Non che questo sia sufficiente a spegnere la rancorosa brace antisemita che trova alimento (l’«invenzione» del nemico è di vecchia data, come si sa) in tutta l’Europa. E così via: i romanzi toccano molti angoli della Storia, dalla corte dei Medici alle imprese dei legionari romani. Minimo comune denominatore: l’avventura, il gusto del feuilleton.


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parola chiave

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PASSATO ome funamboli sul filo siamo in bilico fra passato e futuro. Scrutiamo il primo per sapere come comportarci in vista del secondo, mentre il presente ci scivola sulla pelle. La storia ci interessa in tutte le sue forme, da quella immensa dell’universo a quella discreta del pianeta su cui viviamo, fino a quella piccola dell’umanità e a quella infinitesimale, ma per noi decisiva, legata alla nostra propria persona. Ogni volta che ci interroghiamo sul passato scopriamo qualche fatto nuovo, persino imprevisto, in un intreccio cangiante di persone, eventi e situazioni. Il passato non è un deserto roccioso e immobile, piuttosto ha i caratteri di una foresta lussureggiante e vitale, da esplorare con curiosità. La attraversano autostrade piene di traffico, carrozzabili battute con frequenza, ma anche un intreccio di sentieri appena visibili lungo i quali ci si avventura solitari e a fatica, alla scoperta di particolari solo in apparenza secondari. E di punti di vista sorprendenti. L’attività degli storici non consiste solo nella ricerca di documenti nascosti. Importantissimo è anche il lavoro di interpretazione, di collegamento, di ricostruzione del senso di quello che è avvenuto e delle personalità dei protagonisti del passato. Per ottenere buoni risultati in questo campo occorre sapersi liberare del nostro modo di pensare, delle nostre abitudini culturali, evitare il grande rischio della storia, l’anacronismo, ossia l’imposizione a uomini diversi da noi di modelli di comportamento che sono nostri.

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Il passato non è una festa in maschera, alla quale partecipano nostri contemporanei con indosso abiti bizzarri. Quando vediamo affreschi e arazzi raffiguranti personaggi dell’antichità rappresentati in abiti cinque o seicenteschi sorridiamo, eppure capita di frequente che le azioni dei nostri avi vengano raccontate e valutate considerandoli nostri simili per abitudini e mentalità. In modo diverso lo stesso vale per le altre forme del passato. Da quello più remoto della Terra e dei suoi abitanti, che troppo spesso è riletto solo come un’anticipazione di quello che ne è seguito, al nostro personale, relativo agli ultimissimi anni, agli accadimenti dei quali siamo stati protagonisti o testimoni. Riflettere su di essi e confrontare le memorie dirette che se ne sono conservate produce molte sorprese. Oltre che allargare la mente. È raro che quello che accade sia del tutto esplicito, che ogni volontà coinvolta in un evento sia del tutto chiara ed espressa. Di solito le intenzioni, anche quando i fatti sono definiti, rimangono in parte celate, o non si presta sufficiente attenzione a esse. Con i più piccoli, con i bambini, accade di frequente che le motivazioni di quello che fanno non vengano colte, in particolare quando la fretta impedisce agli adulti di prestare loro l’attenzione di cui avrebbero diritto. Il condizionamento culturale dei più giovani è, per fortuna, ancora imperfetto: come uti-

Non è un deserto immobile, ma una foresta vitale da esplorare con curiosità. Per farlo, per comprendere il senso di ciò che è avvenuto, occorre liberarsi del nostro modo di pensare, delle nostre abitudini culturali

Quelle impronte sulla sabbia di Sergio Valzania

Mentre il presente ci scivola sulla pelle, la storia ci interessa in tutte le sue forme, da quella immensa dell’universo a quella infinitesimale legata alla nostra persona. In più, per i credenti, è lo spazio dove si è già realizzato l’incontro con Dio e dove se ne prepara uno nuovo, nel futuro lizzano la lingua in forme creative e imprevedibili allo stesso modo saggiano i limiti degli usi relazionali attraverso tentativi arrischiati. Oppure richiamano l’attenzione degli adulti con tecniche che questi ultimi hanno dichiarato vincenti a volte senza volerlo. Possibili letture alternative di identici avvenimenti derivano dalle circostanze più diverse, anche se su tutte domina la difficoltà a rinunciare al proprio pensiero, al proprio punto di vista, per considerare che ne esistono in ogni oc-

casione altri, a volte migliori. Alcuni studiosi del comportamento hanno rivolto la loro attenzione alle modalità di punteggiatura che persone diverse impongono allo svolgersi degli avvenimenti, ossia a quando vengono poste le cesure temporali dei fatti che accadono. In particolare in relazione ai momenti conflittuali. Quand’è che comincia un litigio? Fino a che punto vengono fatte risalire nel tempo le motivazioni per le quali è scoppiato? Quasi tutti coloro che si trovano coinvolti in un

dissapore ritengono di essere vittime di una prevaricazione o oggetto di una provocazione alla quale si sono limitati a rispondere. Le radici della questione sono spostate a volte molto indietro nel tempo. Il gesto più innocuo di una persona, anche cara, può essere letto come la ripresa di un conflitto sorto nel passato. La locuzione «lei, o lui a scelta, sa bene che facendo così mi irrita» è comune e spesso non supportata da una base reale. Il presunto aggressore ignora di aver messo in atto un comportamento tale da suscitare una reazione indispettita e pensa di essere lui l’aggredito. Riportata su scala ben maggiore è questa la ragione per la quale è difficile risalire alle cause di una guerra, che rarissimamente sono quelle dichiarate dai contendenti prima e dopo il conflitto, le motivazioni del quale sono complesse, intricate e affondano le proprie radici in contrasti anche molto lontani nel tempo.

Per i credenti in questo corpo vivente del passato si va in cerca delle tracce della propria storia d’amore con Dio. Se si crede o ci si sforza di credere nella sua esistenza si fa affidamento sulla sua presenza caritatevole e misteriosa nel corso di tutta la vita. Il Dio dei cristiani non è una figura assente, un creatore che si disinteressa di ciò che ha creato. Al contrario, se la cifra che lo caratterizza è quella dell’amore, come ha ricordato Benedetto XVI nella sua prima enciclica, si può far conto sulla sua costante attenzione premurosa per ciascuna delle sue creature. Non possiamo pensare che Dio sia un amante distratto, che si ricorda appena di mandare i fiori il giorno dell’anniversario. Perciò il passato, la storia, la nostra vita o anche solo la giornata di ieri rappresentano lo spazio fisico e temporale dove un incontro si è già realizzato e se ne prepara uno nuovo, proiettato nel futuro. Questo non significa che tutto vada sempre per il meglio secondo il metro della nostra comprensione umana. Il progetto divino non ha le forme, i caratteri, le progressioni di quelli degli uomini. I suoi criteri e le sue modalità ci sfuggono, soprattutto nei momenti tristi e dolorosi. Allora può essere di conforto ricordare che nell’Apocalisse di Giovanni è scritto «io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo» (3,19). Le concordanze della Bibbia di Gerusalemme ci avvertono che l’ammonizione è già presente nei Proverbi: «Il Signore corregge chi ama come il padre il figlio prediletto» (3,12) e trova un’espressione chiara nella lettera agli Ebrei: «ogni correzione, al momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia» (12,11). Certo, tutto questo non avviene in maniera meccanica, il mondo è più complesso e misterioso di quanto appare, ce lo insegna perfino la scienza con le scoperte della fisica, ma credere in Dio significa far conto sul suo agire. Il passato è la sabbia sulla quale possiamo andare in cerca delle sue impronte.


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Rock

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musica

Con Cloud computing DI MALE IN PEGGIO di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi a Grande Abbuffata del rock si consuma nell’estate 1971. Dopo aver chiuso gli anni Sessanta con Beggar’s Banquet e Let It Bleed, i Rolling Stones incassano il successo planetario di Sticky Fingers. Da un anno sono concentrati su un pugno di canzoni, ma Londra per loro è off-limits.Tartassati dal fisco, volano in esilio (dorato) in Costa Azzurra. A Villefranche-sur-Mer, Keith Richards affitta Villa Nellcôte. Il nuovo disco prende forma qui, fra gli stucchi e le cantine, con gli Stones indecisi se continuare a fare i ribelli o darsi una regolata; atteggiarsi a eterni adolescenti, o assumersi responsabilità da adulti. Keith sa quel che vuole: farsi d’eroina con la sua donna Anita Pallenberg, bere come una spugna e concepire grande musica. Mick Taylor, l’altro chitarrista, lo segue viziosamente a ruota mentre Mick Jagger si coccola Bianca sposata a Saint Tropez e in attesa di Jade. Bill Wyman (basso) e Charlie Watts (batteria) vanno e vengono mal sopportando quel carosello di spacciatori, groupies, intrusi e scrocconi che infesta la villa. Eppure, nella Grande Abbuffata Keith suona da dio, Mick canta da straordinario tarantolato e alle Pietre Rotolanti si aggiungono Nicky Hopkins e Ian Stewart (piano), Billy Preston (organo), Bobby Keys (sax), Jim Price (tromba) e una pattuglia di coriste. Nasce, grezzo, il doppio album Exile On Main Street che viene rifinito a Los Angeles all’inizio del ’72 per poi uscire a maggio apostrofato così da Jagger: «Un disco fottutamente pazzo e molto amatoriale». Diciotto pezzi snobbati. Il tempo, però, ha dato ragione a Richards: «l’album di Keith», come hanno riconosciuto fans e critici, s’è trasformato nel capolavoro degli Stones. Ovvio, quindi, che riveda la luce rimasterizzato e rim-

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Jazz

zapping

n giorno del sottoscritto penserete «quel fesso aveva ragione». Perché c’è in giro una subdola strategia elitista, esclusivista: una strategia contro la coscienza estetica (quindi etica) del popolo. La tecnologia in studio presso le lorde cucine dell’informatica mondiale si chiama Cloud computing. Ci sta lavorando Google e ci sta lavorando Apple, che però è ancora indietro nello sviluppo. L’idea consiste in questo: invece di tenere i nostri file musicali dentro al disco del computer è meglio averli in rete, e potervi accedere in qualunque momento, via internet, con computer e telefonino. Non dovremo più spostare i file delle canzoni dal computer all’iPod, o dal computer al telefonino, basterà collegarsi da qualsiasi luogo (tranne gallerie autostradali, metro, treno e tutti quei luoghi dove non c’è rete, compresa la vostra grotta preferita sui monti Sibillini, piccolo inconveniente di non facile soluzione per ora) e ascoltare la nostra libreria musicale in streaming. Pratico, comodo, veloce. Anzi democratico e quasi solidale, dato che password permettendo potremmo ascoltare musica della libreria altrui. Una volta a una bella donna si poteva regalare un bel disco, ora magari le lascerai la password della tua collezione on line. E vabbè. Ma c’è un ma. La qualità dell’ascolto dello streaming è molto peggio di quella degli mp3, che è a sua volta peggiore di quella della musica non compressa, cioè del formato standard digitale. E non di poco. Lo streaming in tempo reale da Internet ammazza la qualità, è un bel passo indietro, trasforma i timpani in padelle, il basso in un rutto, gli acuti in vetri rotti. Riusciranno a sfiancarci, a farci stufare dell’emozione sonora. Resteranno forse i quattro appassionati alle prese con un oggetto ormai da Nonna Speranza: l’impianto stereo. Vedrete vedrete, e un giorno penserete: «quel fesso aveva ragione».

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La grande bouffe dei

Rolling Stones

polpato da dieci brani inediti. «Gran parte dei nostri riferimenti musicali sono americani», ha dichiarato Jagger. «Arrivo perfino a dire che siamo stati una band a stelle e strisce con un minuscolo tocco inglese». Ne è prova lampante Exile On Main Street, che fila alla radice del blues e lo sbianca. Che distilla rhythm & blues, country e gospel per poi filtrarli con un rock al vetriolo, «stoniano». Solo loro sono riusciti a mettere in fila un piano honky tonk e i fiati rhythm & blues di Rocks Off; un country speziato dal calypso (Sweet Black Angel) e ancora un country col sassofono black e il coro gospel (Sweet Virginia); uno dei rock and roll più veloci in carriera (Rip This Joint), il ritmo asprigno e ciondolante di Casino Boogie, l’errebì di Tumbling Dice; una ballata da pelle d’oca

(Torn And Frayed) e un blues verace (ShakeYour Hips); post-psichedelìa «voodoo» (I Just Want To See His Face) e l’Hammond che titilla Shine A Light. Gli inediti, poi, sono tutt’altro che quisquilie: a parte le versioni alternative di Loving Cup e Soul Survivor (intonata da Keith Richards), c’è il funky latineggiante di Pass The Wine (Sophia Loren); la maestosa, densa Plundered My Soul; il blues sudista di I’m Not Signifying; la ballata Following The River, stile Wild Horses, in origine strumentale, che Mick Jagger canta «ex novo»; il country e l’honky tonk di Dancing In The Light; la soffusa, psichedelica So Divine (Aladdin Story) alla quale Keith Richards ha aggiunto nuove parti chitarristiche; Good Time Women che ricalca, velocizza e migliora Tumbling Dice; il boogie strumentale (chitarra, basso, batteria e stop) di Title 5. Dopo Exile On Main Street (spremuto fra sesso, droga e rock & roll) i Rolling Stones hanno campato di rendita. The Rolling Stones, Exile On Main Street, Polydor/Universal, 25,90 euro

Fluido e vorticoso… lo stile “made in Giuliani” ent’anni fa quando Rai-Radiouno indisse il primo concorso per giovani talenti jazz sponsorizzato dalla Yves St. Laurent, fra i tanti nuovi musicisti europei che si presentarono a quella competizione, ne emerse immediatamente uno. Suonava il sassofono contralto, veniva da Terracina e nessuno ovviamente lo aveva mai sentito nominare. Ma furono sufficienti le sue uscite in assolo, durante il concerto finale di quell’orchestra di giovani talenti europei diretta dal flautista James Newton, perché il suo nome divenisse immediatamente popolare. Era Rosario Giuliani. Aveva ventitré anni e immediatamente Enrico Pieranunzi lo volle al suo fianco. Con il pianista romano ha inciso quattro dischi e con l’ultimo appena pubblicato, la sua discografia ha superato le venti unità. Lo troviamo fra gli altri con Flavio Boltro e Dado Moroni, due musici-

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di Adriano Mazzoletti sti ai quali è particolarmente legato. Del primo dice: «Flavio è per me come un fratello. Fra noi c’è un rapporto di affinità musicale. Quando ascoltavamo i brani che avevamo registrato ci sembrava di ascoltare un unico suono, magari in alcuni momenti anche non perfettamente intonato, ma comunque un unico suono, un unico modo di vedere la musica e di andare nella stessa direzione. Magari uno cammina più veloce e l’altro più lento, ma siamo certi che quando si giungeva a destinazione, il tempo era quello giusto». E del

pianista genovese: «Conoscevo la sua grandezza, la sua fantasia armonica, la sua tecnica, lo swing incredibile, ma quello che lui ha fatto nel disco Anything Else ha creato la differenza. Ha dato veramente un suono al disco e, mi permetto di dire, un suono realmente jazz attraverso i soli, attraverso il modo di accompagnare i solisti e, soprattutto, nel modo di affrontare le composizioni. È stata una sorpresa». Nel suo ultimo cd Lennie’s Pennies, appena giunto nei negozi, Giuliani suona invece con il pianista francese

Pierre De Bethmann e gli americani Darryl Hall e Joe La Barbera. Undici brani di cui sei originali, due standard Love Letters di Victor Young e How Deep the Ocean di Irving Berlin e tre composizioni di Lennie Tristano - lo splendido Lennie’s Pennies -, Joe Zawinul e del pianista Jimmy Rowles. Malgrado sia in possesso di una tecnica strumentale prodigiosa non ne approfitta, anche se impressiona l’ascoltatore per il fraseggio fluido, nervoso, a tratti vorticoso, che a volta ricorda quello dei suoi sassofonisti preferiti «Cannonball» Adderley, Art Pepper, John Coltrane. Ma a differenza di molti altri solisti italiani ed europei, Rosario Giuliani, ha saputo formare un suo stile con una sonorità immediatamente riconoscibile. Rosario Giuliani, Lennie’s Pennies, Dreyfus, 17,90 euro


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arti Mostre

ì, è una curiosa coincidenza che, mentre con gran trombe e pompe magne, il Maxxi e il Macro si accingono ad ammainare le vele del segreto e a mostrare finalmente i prodigi dell’architettura contemporanea, nell’accesa battaglia sulla primazia museale, il più possibile glamour e anche cosmopolita, un’altra istituzione, sopita e silente, come la Galleria Comunale d’arte Moderna di Roma (altra cosa, da non confondere, con la Galleria Nazionale, che si chiama Gam e che sta a Valle Giulia) senta il bisogno di battere qualche colpo e di ricordare che esiste. Non lo fa riaprendo la bella e addormentata sede di via Francesco Crispi, dove per un breve periodo, anni fa, ha mostrato la qualità dei suoi tesori, talvolta trattenuti nei depositi e soprattutto l’importanza della pittura romana e locale, agli inizi del Secolo XX. Ma poi, come capita, ci son stati problemi di messa a norma del locali, ristrettezze economiche nelle sovvenzioni, insomma problemi vari, che han portato alla triste chiusura dei portoni della Galleria, di cui Elisa Tittoni ci racconta l’avventurosa esistenza, tra scippi, sgarbi, tensioni, che vedono alla ribalta nomi come Muñoz, Bottai, Pietrangeli. Istituzione trascurata, che ora trova però l’escamotage di affiancarsi alla sede più agile e agibile del Casino dei Principi, in Villa Torlonia, dove ha sede già l’Archivio della Scuola Romana, e dove da qualche anno si sussegguono interessanti mostre, di nicchia ma ben mirate, per far conoscere quel periodo fecondo e in fondo ancora poco arato della romanità artistica, non immediatamente schierata con il galoppare ufficiale delle Avanguardie. E il bello è scoprire non tanto dei veri e proprio artisti «nuovi», che in fondo sono già tutti piuttosto studiati e coccolati dalle poche gallerie specializzate, che in questi anni hanno tenuta l’attenzione desta su un’arte sì tradizionale, ma non meno sperimentale di quella accanita nel trionfo del Nuovo, semmai di singo-

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Architettura

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Alla riscoperta del ‘900 romano di Marco Vallora le opere interessanti, sinora trattenute nella bambagia di depositi poco sarchiati. È incredibile, per esempio, scoprire, dal saggio di Cinzia Virno, che l’imponente e distesa tela, che si chiama, quasi baudlerianamente, e comunque simbolicamente Serenità, di Felice Carena (risposta dolce al cézannismo imperante delle Bagnanti) non era mai stata esposta prima nella «sua» Roma. Perché è vero che il pittore veneziano, che avrebbe poi anche segnato molto il gusto della Torino casoratiana, venendoci a insegnare, è stato forse più influente in altre aree d’accademia, ma Roma fu comunque importante per la sua stessa cultura

e il suo bagaglio di archeologismo stemperato (in modo diverso da Funi, che pure è presente qui con un bellissimo scorcio di Colosseo, sbaffato d’azzurro crepuscolare, quasi un verso di Libero de Libero, il poeta che era anche gallerista e amico di pittori. E in modo ancora più lontano, e meno armato, di quella arcadicità sofferta e murata, che spira nella solenne maternità fangosa, scultorea, della Famiglia del Pastore di Sironi). Bella compresenza, non soltanto di talenti in dialogo o battaglia, ma anche di correnti polemiche e di movimenti contrapposti, a partire da quella compagine (intelligente) di regime (ma di regime co-

munque: ne era coinvolta anche quella donna volitiva e intelligente che era Margherita Sarfatti). Ma non è il solo movimento ufficiale, o l’unico incresparsi delle placide correnti artistiche, secondo brezze un poco scomposte e molto capricciose. Percorsi del Novecento romano si divide, per comodità, in vari capitoli, a partire da quel divisionismo che avrebbe nutrito le prossime generazioni futuriste (e com’è curioso quel taglio iperealista e fotografico del carboncino di Balla 1907, non ancora «futurBalla»!). Ed ecco il capitolo piuttosto compatto della pittura futurista, in particolare aereo-futurista, con tutte le varianti del caso: dalle spirali aviatorie alla spinta medianica, dal ribaltamento ottico alla suggestione pre-op art, sull’onda di quella singolare tela precoce di Benedetta Cappa, in Marinetti, che c’invischia nelle spire scheggiate e geometriche d’una scia di motoscafo, ebbro di cielo e di mare (per omaggiare il dannunzianesimo mascherato del consorte). Ma poi ecco il realismo magico di Socrate, Donghi e Capogrossi, ecco gli incendi cromatici della Scuola romana di Via Cavour, con il portentoso Cardinale già felliniano di Scipione e le case diroccate dalla guerra di Mafai, ecco il loro mentore Longhi, «caricato» dalla pittura tonale di Bartoli, ecco un bellissimo Trombadori e i tetti pulciosi di Pirandello, Guttuso,Tozzi, Cavalli. Su tutti si segnalano due bellissime nature morte, di Afro e Casorati, e, senza dimenticare le sculture, singolari opere del sottovalutato Melli.

Percorsi del Novecento Romano, Roma, Villa Torlonia, fino al 4 luglio

Quando il moderno (con Platz) divenne tradizione tile - scriveva Peter Behrens nel 1900 - è effetto combinato di particolari elementi di forma uniti in una espressione comune». La stilizzazione di una forma monumentale, compressa e semplificata, è l’inizio della architettura del Novecento. L’estetica moderna dovrà unire Arte e Tecnica, e tecnica e cultura. Avrà una attitudine sintetica, e ricercherà, insistendo sul nesso fra forma e funzione, una nuova bellezza aderente ai nuovi scopi; saprà estrarre un sistema di leggi, che presto diventeranno prescrizioni, da acciaio, cemento e masse gigantesche. La Neue Sachlichkeit, nuova oggettività, derivava da un auspicato ritorno alle cose stesse, a una differente relazione con gli oggetti in quanto tali, divenuti ora freddi e impersonali: classico e romantico si fondono, con scientifica obiettività, nel neutro e anonimo del moderno. L’Oggettività è radicale, progressiva, pratica, utile, attenta alla società, semplice e lineare, chiara e pura; e nuda, priva di ornamenti applicati. Essa reca un ideale normativo di fondamenti rigenerati. L’Architettura della nuova epoca, Die

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di Guglielmo Bilancioni Baukunst der neusten Zeit, di Gustav Adolf Platz, pubblicato a Berlino nel 1927, può essere considerato il primo manuale sistematico sull’architettura moderna. Viene pubblicato ora dalla Editrice Compositori, con la ottima cura di Michele Stavagna, che mostra, in profondità, come Platz si muova nell’ambito di Behrendt e di Muthesius, e di Adolf Behne, che nel 1926 aveva scritto Die Moderne Zweckbau sull’edificio funzionale, di Giedion, che nel 1928 aveva studiato le costruzioni in ferro in Francia; e come abbia creato le premesse teoriche di Pioneers of Modern Movement di Sir Nikolaus Pevsner, pubblicato nel 1936. Nell’architettura dei pionieri ideologie e forze espressive si formano reciprocamente, la struttura diventa forma e lo spazio, in involucri di vetro messi in tensione dal ferro, diviene astratto. Equidistante fra tradizione e modernità, il libro di Platz fonda una tradizione del moderno, in una sintesi dialettica che mira al superamento delle differenze fra Baukunst e Stilarchitektur, o fra tipo e indi-

vidualità, come alla risoluzione del conflitto di idealismo e positivismo. Come modelli vengono presentate e discusse le opere di Peter Behrens, figura centrale, attorno al quale ruotano tutti i grandi del Movimento Moderno in Germania: la classicità di Mies van der Rohe, l’espressionismo di Poelzig, Mendelsohn e Taut, la severità poetica di Tessenow, lo spirito democratico di Oud e Dudok, e le linee poderose di Bonatz, Fahrenkamp e Kreis. Platz spiega nel suo trattato lo Zeitgeist del moderno. «I monumenti più importanti del nostro tempo saranno non soltanto scuole ospedali e uffici amministrativi, ma stabilimenti balneari e biblioteche; anche i luoghi del riposo, teatri e sale da concerto, cinematografi e sale di riunione, musei e padiglioni espositivi sono monumenti dell’epoca, che li si consideri domicili delle muse o luoghi di barbarie». Il libro di Platz è l’epopea di una Monumentalità moderna, fondata sulle proporzioni, sulla stereometria più che sugli ornamenti, su masse semplici e simmetriche che saranno in grado di unire, nel ritmo e nella finezza di gradazione, Potenza e Bellezza. Poiché, come scriveva Ernst Bloch nel Principio Speranza, «la nudità costringe a inventare». Gustav Adolf Platz, L’Architettura della nuova epoca, Editrice Compositori, 292 pagine, 38,00 euro


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di Marco Ferrari quel tempo cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora cerco i mattini, il centro e la serenità». Sta in queste poche parole della prefazione scritta nel 1969 il senso del libro Fervore di Buenos Aires di Jorge Luis Borges (Adelphi, 198 pagine, 14,00 euro), riproposizione della sua prima opera poetica del 1923 di cui si conoscono almeno nove revisioni. Della Buenos Aires dei guappi, dei coltelli, della malavita sorta nei conventillos di latta e legno degli emigranti e nella sensuale promiscuità del tango, alla fine degli anni Sessanta rimaneva oramai poco. Il quartiere Palermo, della sua schietta e barbara gioventù, era già inurbato dentro la metropoli degli intrighi e delle beffe, pronta a gettare al vento la sua felice stramberia di Europa rovesciata per la protervia e l’ignoranza del potere. Nel barrio, che deve il nome a un grossista siciliano di carne, si giocava al Truco («quaranta carte al posto della vita» cita la poesia omonima), i patii odoravano di mate e le macellerie erano «più turpe di un bordello».

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In quella città, di ritorno dall’Europa, dopo il soggiorno a Ginevra dal 1914 al ‘18 e in Spagna sino al 1921, lo scrittore portò la metafora ultraista adattata alla tradizione criolla, così fortemente esaltata dalle celebrazioni del centenario dell’indipendenza argentina del 1910 che trasformarono il cuore spurio e ibrido porteño in un’originale qualità del vivere. Rieditandole e riscrivendole quarant’anni dopo, le poesie sembrano determinare una frattura del tempo ma anche una frattura dell’anima: la Buenos Aires di una volta con le modeste case basse dei barrios già odorosi di pampa rispetto a quella dei grattacieli e dei grattacapi (l’inizio della catena dei colpi dei stato); la spiritualità delle radici personali di Borges impiantate nel sobborgo di Palermo rispetto alla centralità del suo vivere in un quadrato urbano di perfetta metamorfosi tra biblioteche e bassifondi, alberghi e giardini, gallerie commerciali e ritrovi di milonga. Dal 1944, infatti, prima in compagnia della madre e poi di Maria Kodama, sua ex alunna, ex segretaria e quindi seconda moglie, Borges andò a vivere in centro, nella parallela di Florida, Maipu 994, sesto piano e uno splendido androne di marmo giallo da dove partono la marmorea scala elicoidale e un piccolo ascensore. Siamo a due isolati dall’alberata Plaza San Martin, visibile dalle finestre di casa, appena dopo Palacio Paz, lo storico palazzo Kavanagh e un altro edificio dalla facciata parigina. Là, Borges andava «in cerca della sera», come scrive nell’omonima poesia, «sotto l’assoluzione degli alberi» jacarandas, acacie - che attenuano l’imponenza della statua di José de San Martin. Qualcuno, ancora, vi può indicare la panchina dove Borges era solito sedersi in quella che lui stesso definisce «facile tranquillità» segnata da un suono greve e

anno III - numero 21 - pagina VIII

il paginone

Un salto del tempo. Un inno mancato alla patria, luogo di barrios, case basse odorose di pampa, guappi, coltelli e vagiti di tango prima… geometrica metropoli poi. È lo sfondo dell’opera poetica giovanile di Jorge Luis Borges, uscita nel 1923, dedicata alla sua città. Riedita da Adelphi ci racconta di “schiamazzante energia” e di “plebe dolente”, di sere cercate “sotto l’assoluzione degli alberi”

Fratture dell’anim sassoso di bandoneón mosso con minimo sforzo ma grande intensità da un suonatore ambulante anonimo, cieco come lui.

Arrivava a San Martin quasi ogni sera, verso le 18, con il soprabito blu e il bastone comprato in Egitto, dopo una capatina nella Galeria del Este, proprio in faccia alla sua abitazione. Lì, al numero civico 971, si trova la minuscola Libreria la Ciudad della signora Elizabeth Blast che, adesso, presenta una vetrata interamente dedicata alle opere originali di Borges, tra le quali Cosmogonías, edita proprio dalla casa libraria. La signora la mattina scriveva sotto dettatura di Borges e il pomeriggio riscriveva le correzioni che lo scrittore le dettava.

Ad esempio La rosa profonda fu dettato interamente agli amici da una scrivania quasi attaccata alla vetrina del negozio di libri. Con sagace preveggenza, superando le barriere del tempo, che nei versi di Rosas definisce «immortalità instancabile», Bor-

mente, lo hanno allontanato per sempre dal monumentale Cementerio.

Antiperonista, direttore della Biblioteca Nazionale Argentina dal 1955 al 1973, Borges sembra passare indenne tra i tur-

Le radici dello scrittore argentino erano impiantate nel sobborgo di Palermo, poi si trasferì vicino a Plaza San Martin, dove nella libreria “Ciudad” dettava i suoi testi alla proprietaria

ges annuncia la sua futura condizione fisica («Come un cieco le cui presaghe mani/ scostano muri e intravedono cieli» scrive in Forgiatura) e il suo eterno riposo. Nei versi di La Recoleta definisce il monumentale camposanto «luogo delle mie ceneri», In alto, un’immagine di Borges anche se poi venne sepolto al Plain Palais e una sua foto con Italo Calvino. di Ginevra, città dove morì di cancro al feA fianco, due ballerini gato nel 1986. Alla Recoleta, passeggiava di tango. Nell’altra pagina, con Adolfo Bioy Casares, Silvina e Victoria alcuni quartieri Ocampo, Leopoldo Marechal per scoprire di Buenos Aires dove le tombe dei padri della patria. Le polemiha vissuto lo scrittore e la copertina che degli ultimi anni di vita relativi ai desadel libro “Fervore parecidos e alla sciagurata invasione delle di Buenos Aires” isole Malvinas, che disapprovò pubblica-

bolenti anni Sessanta che segnarono i primi ritardi e primi distacchi della nazione latino-americana rispetto alla madre europea. In quel tempo l’influenza italiana sulla cultura, il costume e la politica argentina era ancora esorbitante come testimoniato dalla visite di Stato a Buenos Aires di Gronchi nel 1961 e di Saragat nel 1965. Il radicale Arturo Ercole Frondizi, originario di Gubbio, in carica dal 1958 al 1962, sembrò fornire una certa stabilità alla nazione argentina. Partito da posizioni di sinistra, cercò di tranquillizzare il mondo imprenditoriale con una linea moderata non dissimile da quella della Democrazia cristiana


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maggior numero di psicologi al mondo, rispetto alla popolazione, alla prese con una malattia comune: sradicamento. Cominciò allora a farsi largo l’idea che l’emigrazione fosse stata un doppio inganno: dopo aver tolto le radici a milioni di persone, non concedeva una nuova e salda identità, frantumata nella fine del sogno di stabilità che un pavido militarismo ogni giorno minava. Ne sono testimonianza la profonda malinconia del tango innovativo di Astor Piazzola, le immagini della Boca di Alfredo Lazzari e Quinquela Martin, le opere di Manuel Puig e Julio Cortàzar. Il rifugio in una prosa metafisica contagiò, oltre a Jorge Luis Borges e Ernesto Sabato, altri autori che diedero vita a una nuova corrente letteraria di respiro internazionale. In quel contesto Marco Denevi (Cerimonia segreta, Rosaura alle dieci, Assassini dei giorni di festa) creò il mito della città tentacolare dove il nero, il funereo e il macabro si celano dentro indistinti condomini di gente che neppure si saluta e si conosce.

mo Viejo, quartiere diviso dall’altra Palermo dalla grande Avenida Santa Fe, diverrà il notturno cuore mitologico della città. Là dove visse da bambino, in calle Serrano, tra Paraguay e Guatemala, in una casa che la modernità ha portato via, c’erano gauchos porteños, donne da strada, magnaccia, odore delle stalle, vagiti di tango. Ancora non esisteva la paura dello spaesamento, il perdersi all’altro capo del mondo.

Nel decennio Sessanta Buenos Aires divenne una geometrica costruzione, quasi uno zodiaco, in cui «le linee orizzontali dominano quelle verticali» e «quattro infiniti attraversano ogni crocevia», spiega Borges. L’ondata migratoria, infervorata dalla fine della seconda guerra mondiale e dal distacco dalla martoriata Europa, era oramai al capolinea. La nuova identità urbana e nazionale si definì nella ricerca di radici ibride a cui Borges portò il suo contributo quale direttore della Biblioteca National, allora in Calle Mexico 564, dove un paese senza storia depositava la tradizione alessandrina di conservazione della memoria. Vicino alla ex Biblioteca Nazionale, al civico 524, un edificio color crema è ancora se-

ma a Buenos Aires italiana, anche se poi venne deposto da un colpo di stato che portò al potere José Guido, presidente del Senato. Arturo Umberto Illia Francesconi, in carica dal 1963 al 1966, originario di Samolaco, in provincia di Sondrio, medico ferroviario, denominato «l’apostolo dei poveri», diede fiato a una politica di nazionalizzazioni senza perdere di vista il legame ancestrale con l’Italia, come evidenziato dalla trionfale tournée di Luigi Tenco nel dicembre 1965, nonostante fosse sotto le armi, primo in classifica in Argentina con Ho capito che ti amo e soprattutto dal personaggio del film Il Gaucho di Dino Risi del 1964. Ma anche il buon senso di Illia fu sconfitto: infatti venne deposto da Juan Carlos Ongania, quasi un parente, generale in pensione, famiglia di Varenna, provincia di Lecco, una manciata di chilometri di distanza da Sondrio. Illia uscì dalla Casa Rosada a piedi, passò tra la folla tumultuosa, chiamò un taxi poiché tutte le auto di servizio erano state vendute e andò in esilio a casa del fratello. Ongania e il capo dei militari Pistarini attuarono una politica antiliberale arrivando a proibire la minigonna, i capelli lunghi e persino le canzoni italiane, così amate dai loro padri e nonni. Alla crisi economica fece da riscontro una depressione generale che portò Buenos Aires a essere la città con il

de della Sade, la società argentina degli scrittori, di cui Borges fu presidente. Quando aveva ospiti di riguardo, mostrava i patii a cui si accede passando attraverso cancellate in ferro battuto.Altre volte amava mostrare, nel vicino pasaje San Lorenzo, la strana casa del civico 380 di appena due metri di larghezza, l’edificio più stretto della metropoli rioplatense. Di certo apprezzava Palazzo Barolo, ideato come santuario dantesco di Buenos Aires dall’architetto Mario Palanti e dall’industriale Luigi Barolo che là volevano depositare i resti mortali del Sommo Poeta per sottrarli alla possibile distruzione bellica

le grandi metropoli europee.Per questo Fervore di Buenos Aires è un inno mancato alla sua patria di cui, all’epoca, si poteva notare «la schiamazzante energia di certe vie centrali e l’universale plebe dolente che frequenta i porti», come scrisse nella prefazione del 1923. C’era nella città di allora un certo fatalismo, definito «burlone e criollo», «che fa vedere al termine di ogni sforzo il fallimento». Borges la chiama «una nobile tristezza», pronta a saccheggiare la quiete dell’anima, già facendo intravedere le delusioni della grande ondata migratoria europea. Resta contrapposta a questa città, specchio di altre

Borges avrebbe voluto essere sepolto a “La Recoleta”. Ma la sua opposizione ai desaparecidos e all’invasione delle Malvinas lo ha allontanato per sempre dal monumentale cimitero di un’Europa lacerata e divisa. In quella visione eclettico modernista, monumentale e neoclassicheggiante, la capitale argentina assunse dai primi decenni del secolo scorso una dignità stilistica che le permise di confrontarsi e rivaleggiare con

città, quella più antica, dei sobborghi, delle case basse, pronta a inghiottire l’imbrunire della sera e del tempo, segnato dal lento tramonto del sole nella terra infinitamente piatta. Quei sobborghi saranno, poi, il centro della prosa di Borges. Paler-

I vicoli Bollini e Russell, che furono i suoi preferiti, conservano ancora oggi le facciate bianche e rosa delle case dove ambientò il racconto Juan Muraña. Non lontano, al civico 3784 di Honduras si incontra la casa, oggi biblioteca municipale, di Evaristo Carriego, «il primo spettatore - secondo Borges - dei nostri quartieri poveri». A pochi metri di distanza, Borges situa il punto esatto della Fundaciòn mitica de Buenos Aires. All’angolo delle vie Borges e Guatemala, apre le proprie porte in legno «El viejo almacen. El almacen, padrino del malevo, dominaba la esquina», spaccio trattoria, «padrino del malaffare», a cui sono dedicati diversi poemi, che conserva la propria architettura originale. L’altra Palermo, tra il Giardino Botanico e il Giardino Zoologico, ospita mirabili palmeti, aree verdi, giochi per bambini, bar affollati, crocchi di persone e una luce obliqua, riflesso del Rio de La Plata. Il mistero si annida qui, tra grandi palazzi, quartieri dalla vita autonoma, città nella città (un po’ come Genova o Barcellona) che tutto inghiotte, macina, nasconde, priva di memoria. Quest’ultima sta solo nei libri, nel labirinto della scrittura a cui l’inventore dell’Aleph era legato, nei testi di Schopenhauer, de Quincey, Stevenson, Shaw, Léon, Bloy più quelli istituiti dalla critica (Kafka, Poe, Quevedo, Swift, Unamuno e Wells), a cui aggiungere quelli che sono considerati suoi figli legittimi (tra i quali gli italiani Umberto Eco e Italo Calvino). Del resto il 16 ottobre 1984 a Roma, Calvino pronunciò un discorso proprio di fronte al maestro argentino intitolandolo «I gomitoli di Jorge Luis», cioè un filo attorcigliato attorno a un centro, «la rivincita dell’ordine mentale sul caos del mondo». Fervore di Buenos Aires come opera prima prefigura, secondo l’autore, tutto quello che scrisse in seguito. Per Tommaso Scarano, curatore del libro riedito da Adelphi, pare una valutazione eccessiva. E ha ragione. La contrapposizione tra la Capitale prima e dopo l’infornata migratoria, tra criollismo e ibridazione, sarà infine risolta con il sogno, il fantastico, il mistero, la visione dell’Aleph («il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli») in un modesto sottoscala di una trafficata strada porteña, Calle Garay.


Narrativa

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ra gli esordi letterari di buono spessore annoveriamo quest’anno anche il libro di Matteo Nucci, giovane saggista e filosofo romano. Il titolo, Sono comuni le cose degli amici, mutuato da un’affermazione di Platone, si stringe sul tema dell’amicizia, un tema di tradizione letteraria e filosofica, ma di poco successo narrativo. Il tema dell’amicizia giace sul fondo di un racconto tutto versato sui temi della famiglia dove compaiono amore matrimonio e figli come elementi in combinazione tra loro. La storia di Lorenzo, il protagonista, narrata in terza persona comincia in medias res e procede per svelamenti e scoperte. Lorenzo sta organizzando il funerale del padre, la giornata è quella che precede il funerale, una giornata calda ed estiva. Leonardo, il padre di Lorenzo e Martina, giace sul letto composto e vestito in attesa della cerimonia. La casa è piena di gente in visita per salutare la famiglia e prendere congedo dal defunto. L’aria è sospesa e pesante, c’è la tristezza dell’evento e la gestione degli affetti, gli amici che imbarazzati sostano in casa e le persone che si incontrano anche non volendo. Seguiamo Lorenzo che vive una sorta di tempesta emotiva resa chiara dai continui dialoghi, caratteristici di questo testo che mette in evidenza una sorta di elementarità mimetica del dialogo, provando nella mimesi del discorso a evidenziare proprio la semplicità e l’impianto naturale di un parlato non costruito ma viscerale o immediato. Lorenzo è stato un figlio amato da un padre di cui il romanzo pian piano scoprirà l’identità, un’identità ambigua che Lorenzo sente come una sorta di schiacciante eredità. Certo proprio una domanda aleggia in tutto il testo: i genitori sono trasmettitori non di genetica ma di comportamenti, stili di vita e scelte? Lorenzo si consuma, dal giorno della morte del padre, in questo dubbio e comincia una vera e propria ricerca di profondo scavo, sul tema in questione. La morte è quindi fattore scatenante di una riflessione sull’essere e sui rapporti fra sé e gli al-

T

Il bibliofilo

libri Matteo Nucci SONO COMUNI LE COSE DEGLI AMICI Ponte alle Grazie, 224 pagine, 14,50 euro

La famiglia in dettaglio È di spessore l’esordio di Matteo Nucci, opera di scavo, costruita sui dialoghi, incentrata sui rapporti con gli altri e la comprensione di sé di Maria Pia Ammirati tri, in particolare all’interno della famiglia. Pian piano seguendo i pensieri e i dialoghi di Lorenzo si arrivano a conoscere piccole verità quotidiane. Il romanzo è diviso in tre parti: la prima si esaurisce con l’annuncio della celebrazione dei funerali che noi non vedremo, ma di cui capiremo l’importanza nella seconda e nella terza parte. Nel dettaglio ogni parte ha un suo punto caldo e focale den-

tro il quale la storia trova delle soluzioni; la prima parte si intuisce e lentamente si comprende, polarizza il ruolo delle donne che girano attorno a Lorenzo, la madre, una ex moglie, una fidanzata. La morte del padre diviene un’occasione per Lorenzo per rimettere in discussione una stabilità affettiva che si percepisce già incrinata. Rivedere Carolina per Lorenzo è mettere in discussione le sue scelte. Lo-

renzo infatti è commosso dalla presenza dell’ex moglie che sente come un’appartenenza profonda, la profondità del tempo che costruisce i rapporti. Nella seconda parte troviamo Lorenzo e Sara, la fidanzata, in Grecia in vacanza. Lorenzo ha convinto Sara ad andare al mare in Grecia per poter stare solo e riflettere sull’improvvisa mancanza del padre, ma la Grecia diviene la prova dell’impossibilità di ristabilire contatti normali con il mondo circostante. Lorenzo sente montare dentro di sé la rabbia di non aver stabilito intorno a sé rapporti decenti, sente di ritornare continuamente alla moglie, sente la giovinezza passata con il padre come un cumulo di ricordi, e tra tutte le cose sente la mancanza dell’amico Marco, l’unico che non ha partecipato al funerale del padre. Perché Marco non c’era in quel caldo pomeriggio al Verano? La domanda è solo per noi, Lorenzo se la rimastica come una maledizione. Marco, come meglio scopriremo nella terza parte dedicata alla madre, era il fidanzato di Sara. Lorenzo è nudo di fronte alla verità, suo padre era stato un uomo difficile, ambiguo, forse cinico, aveva avuto e tradito molte donne, aveva intrecciato molte amicizie che erano naufragate per altrettanti tradimenti, aveva abusato di cibo e alcool, aveva abusato del gioco. Il padre aveva tradito gli amici come la madre, era questo il destino di Lorenzo. Aver tradito la moglie tradendo contemporaneamente anche l’amico d’infanzia? Il romanzo non dà risposte, sposta l’attenzione sul mondo, sulle piccole cose, sui dettagli invisibili dell’esistenza normale.

Le inquietudini di Slataper-Pennadoro

a rivista Belfagor (n. 2 del 31 marzo 2010) ospita un articolo ritrovato di Scipio Slataper, originariamente pubblicato nel Nuovo Giornale di Firenze del 5 gennaio 1909. In questo testo, intitolato Una notte all’Ospedale di Napoli, Slataper racconta le impressioni riportate dopo essere partito volontario per soccorrere una frangia di sopravvissuti, trasferiti nella città partenopea, al terremoto che il 28 dicembre 1908 devastò Messina e Reggio Calabria. L’impegno civico che contrassegna questo scritto, tipico dello Slataper, si inscrive in quel particolare momento storico che prelude all’immane carneficina della «grande guerra» nella quale lo stesso autore perse la vita, appena ventisettenne. La vicenda biografica e intellettuale di Slataper si configura tra le più paradigmatiche del primo Novecento, in virtù soprattutto di quel formidabile connubio tra valenza etica, tipica della cultura vociana di cui faceva parte, e la forte componente lirica che caratterizza tante sue pagine. Nato a Trieste il 15 luglio 1888, dopo un’infanzia serena in cui ha occasione di misurarsi con l’ambiente del Carso per riprendersi da una forma di anemia, si stabilisce a Fi-

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di Pasquale Di Palmo renze nel 1908 per completare gli studi. Qui conosce e frequenta Prezzolini, Soffici, Papini, Jahier e comincia a collaborare a La Voce, pubblicando le Lettere triestine, una serie di interventi incentrati sul tema dell’irredentismo, destinati a procurargli parecchi oppositori nella sua città natale. Nel 1910 la fidanzata Gioietta, soprannominata Anna, si suicida a Trieste. Ci sono pervenute le lettere a lei inviate dallo scrittore, oltre che alle amiche Elody Oblath (la futura moglie di Giani Stuparich) e Gigetta Carniel, che Scipio sposerà nel 1913. Alle tre amiche, com’è intitolato il libro che uscì per Mondadori nel 1958 (una precedente edizione vide la luce nel 1931, in tre volumi, per i tipi dei Fratelli Buratti, con il titolo Lettere), doveva costituire, secondo le intenzioni dell’autore, una sorta di «romanzo di formazione», ideale prosecuzione di Il mio Carso. Il mio Carso apparve nel 1912, ventesimo quaderno della Libreria della Voce, in 2000 copie non numerate. Nel frontespizio della collana, diretta da Giuseppe Prezzolini, è presente il logo disegnato

L’edizione del 1912 di “Il mio Carso”, composto dallo scrittore triestino in una grotta di Ocisla

da Ardengo Soffici, raffigurante un contadino che zappa la terra. Il titolo originario dell’opera era Il mio Carso e la mia città, modificato su suggerimento dello stesso Soffici. Si tratta di una brochure di 124 pagine, con il titolo che campeggia in caratteri rossi in copertina; sulla quarta si legge: «I Quaderni della Voce si propongono di intensificare e allargare l’azione del giornale La Voce di Firenze». Oggigiorno si può trovare il volumetto a un prezzo che si aggira intorno ai 150 euro. Slataper, il cui nome in ceco significa Pennadoro («Tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano», scriveva a Gigetta nel 1912), compose buona parte del libro in una grotta di Ocisla, sul Carso, che lui stesso aveva predisposto per questa funzione. Lo scrittore troverà la morte sul Monte Podgora, il 3 dicembre 1915, ucciso da un soldato bosniaco sotto i reticolati austriaci. In una lettera indirizzata qualche anno prima a Elody aveva scritto: «E un giorno, ancora giovane, camminando nel Carso, quando i sassi e i fiori mi diranno le cose che io ho già dette, allora uno slavo mi scaglierà addosso un sasso corroso e forte e pieno di spigoli. E io cadrò giù, sul Carso. [...] Voglio morire alla sommità della mia vita, non giù. Sarà l’ultima Calata, portato a spalla».


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poesia

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L’anima del mondo si rivela nel buio di Roberto Mussapi li incanti del buio: dal rapimento notturno, da quella condizione di interruzione del tempo e di irruzione del sogno, ha origine una costola della letteratura universale. Non un genere, ma una costola. Il buio è come il mare, come il viaggio, come il sole, come il cielo: i grandi scenari che, pur pieni di bellezza e senso, e anzi forse proprio perché traboccanti di pienezza, attendono, desiderano il completamento umano, la poesia, l’opera. Conosciamo il buio cosmico che precede l’avvento della luce e con essa confligge: il buio delle cosmologie che si oppone all’esplosione della vita, al trionfo del regno della luce. Questo buio persiste, ma non univocamente negativo come può apparire a prima vista: atra e nera è la tenebra dell’inferno dantesco, ma senza il viaggio in quel regno non sarebbe possibile nemmeno partire, l’impresa stessa dell’alta ascesa alla luce si troverebbe monca sul nascere, privata delle radici. Acheronte, il fiume Stige, sono regni tenebrosi assoluti per le bolge dei dannati, non per il poeta che senza quel porto cupo e disperato non avrebbe punto da cui salpare.

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Buio e atro, una notte senza speranza di respiro e luce, è l’oltretomba greco, che Dante riprende nelle forma, ma trasforma nell’essenza: la notte più triste e cupa è il regno di Ade, dove Ulisse scende vivo, in uno dei grandi viaggi agli Inferi dell’uomo e della poesia, per piangere sgomento di fronte all’ombra vacua e opaca del grande Achille, e a quella, disperata, della propria madre. Per questo, a causa di questo oltretomba disperatamente buio, i greci portano ai vertici il genio plastico, poliscono, levigano il marmo per estrarre dalla pietra la luce perenne della scultura. Il buio e la notte mantengono la valenza sinistra, negativa, annichilente e nichilista nei voli stregati del mago Faust di Goethe, nelle sue diaboliche, infernali scorribande notturne, il buio eterno e irredimibile affiora dalla terra che si splanca davanti al Dottor Faustus di Marlowe, il precursore di Faust, mentre il pendolo scandisce il tempo della sua vita che sta per scadere. Sotto, inevitabile punzione al mago che ha venduto l’anima a Mefistofele, il buio atro e perenne della terra che si spalanca. Ma doppia è la valenza del buio, letteralmente doppia: quando scende la sera e poi giunge la notte, si mani-

il club di calliope

festa la potente realtà siderale, il mondo degli LLA SERA astri che tracciano le rotte nel cielo, i segni tramati dall’alto, imperscrutabili nella luce del giorno. Le palpebre si chiudono, il sogno Forse perché della fatal quiete irrompe. A pochi esseri superiori è concessa tu sei l'imago a me sì cara vieni la conoscenza, sensoriale e intellettiva, nel buio: il Gufo Reale, Bubo Bubo, e in genere i o Sera! E quando ti corteggian liete rapaci notturni suoi parenti, allocchi, barbale nubi estive e i zeffiri sereni, gianni, civette, uccelli che vedono nel buio, percepiscono ogni vibrazione, custodiscono vigili e tesi i nostri sogni. e quando dal nevoso aere inquiete La notte, in letteratura come nella vita, è anche e forse supremante il regno dell’incanto: tenebre e lunghe all'universo meni lo comprese e sancì indelebilmente Leopardi sempre scendi invocata, e le secrete nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, lo attesta il più grande libro narrante vie del mio cor soavemente tieni. mai scritto accanto all’Odissea, Le mille e una notte. Qui la notte, anzi la successione delle notti, sono il cuore stesso dell’esperienza delVagar mi fai co' miei pensieri su l'orme la vita, dell’amore, del viaggio, il segreto della trasformazione. Solo nella notte, insegna il che vanno al nulla eterno; e intanto fugge magico libro arabo, l’immaginazione, represquesto reo tempo, e van con lui le torme sa o controllata durante il giorno, entra potentemente in scena, alfiere del sogno. Analogamente nel capolavoro teatrale sul sodelle cure onde meco egli si strugge; gno, il sogno dei sogni, la notte delle notti, la commedia liminare, se Sogno di una notte di e mentre io guardo la tua pace, dorme mezza estate di Shakespeare non è solo quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. un’avventura nel sogno notturno, ma di una notte di mezza estate, di quel periodo dell’anno che precede la piena esplosione estiva e Ugo Foscolo ha già lasciato alle spalle le inquietudini primaverili: un periodo che è una soglia, un periodo di accesso alla piena luce, al calore assoluto. Il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare con il suo bosco fatato e i capricci dei si- to da tre spiriti che ne tramuteranno felicemente il cuore. gnori delle fate che influenzano, tramite il sogno, le azio- Notti mistiche ed estatiche, capaci di contrastare altre ni degli umani, è la quintessenza del teatro, dove le trame notti funeste, quella di Dracula, quella tenebrosa degli si fanno e disfanno impercettibilmente, dove la realtà not- spalti del castello di Elsinore, dove si propizia e consuma turna, stravolgendo le regole del giorno, in realtà le tra- la tragedia di Amleto. E le notti in cui cammina cammina sforma, consegnandoci modificati al risveglio, al nuovo per le vie di Parigi Charles Baudelaire, e quelle veneziane, ebbre e danzanti di Byron… giorno. Rigenerati dal sogno e dalla notte. Pensiamo ancora alle magiche notti delle poesie per l’infanzia di Stevenson, dove il bambino si addormenta e il Alla selva buia di Dante, ai notturni di Tasso, alle notsuo letto diviene una nave, le ombre del salone dal cami- ti astrali di Leopardi, il quarto supremo poeta italiano, no prendono forme di vascelli e guerrieri… E poi gli Inni Ugo Foscolo, aggiunge un gioiello insuperabile: un soalla notte di Novalis, la commozione dell’uomo nella netto dedicato non alla notte ma alla sera, all’attimo del grandiosità trionfale del buio, e le magiche notti genove- trapasso, a quel breve e fatale tempo di interruzione cosi di Campana… E l’usignolo di Keats, il balcone di Giu- smica in cui si passa dal tumulto alla quiete. Il mondo dei lietta nella incantata notte veronese, il Tamigi nella notte sogni e della sospensione incombe, l’affanno e il travalondinese dei romantici, i presaghi e straordinari nottur- glio del divenire stanno per svanire: la sera è cantata con ni di Tasso… La notte nella sua bellezza serena, piena, la prodigiosa sapienza del poeta che coglie in quel passvelante: la notte in cui il giovane Jim, nell’Isola del Teso- saggio il mutamento eterno e quotidiano della realtà dalro, nascosto nel barile delle mele scopre l’ammutinamen- la luce al buio. La quiete che scende in lui è la quiete delto, la notte in cui Scrooge, l’avaro londinese dell’immor- l’universo. La voce del poeta non parla a nome di un intale Racconto di Natale di Charles Dickens, è frequenta- dividuo, ma dell’anima del mondo.

A

L’ANTIMINIMALISMO DI LAUREANO ALBÁN in libreria

(…) Perché la donna non è cielo, è terra carne di terra che non vuole guerra: è questa terra, che io fui seminato, vita ho vissuto che dentro ho piantato, qui cerco il caldo che il cuore ci sente, la lunga notte che divento niente. Femmina penso, se penso l'umano la mia compagna, ti prendo per mano. Edoardo Sanguineti (da Ballata delle donne)

di Loretto Rafanelli

aureano Albán è un poeta costaricano assai noto nel mondo ispanoamericano (nonché diplomatico presso Onu e Unesco), cantore della straordinaria civiltà precolombiana (Azteca, Maya, Inca), con la sua complessa spiritualità, ma pure della complicata realtà di oggi. Il suo è un lirismo pieno di intensa immaginazione, di strenua creatività, di stupefacente fantasia, sfociante in un andamento epico e onirico imponente. I versi che possiamo leggere in Gli infimi crepuscoli (Via del vento edizioni, 36 pagine, 4,00 euro), sono solo un assaggio, ma illustrano già la nitida grandezza della sua poesia. La sua poetica, antiminimalista e ondeggiante sui grandi percorsi della storia, dell’uomo, della natura (come già in Walcott), lo porta a un senso di pienezza e di vitalità come raramente capita di leggere. E il mare è l’elemento che accompagna questo filo espressivo: «perché il mare è un viaggio/ di unisoni cavalli di cenere./…/ perché il mare è il viaggio/ permanente del corpo,/ il legno e la luce,/ gli occhi inabissati».

L


pagina 20 • 29 maggio 2010

di Pier Mario Fasanotti

Q

uando un serial funziona, i grandi produttori sono tentati di adattare il format a paesi diversi da quello in cui è nato. Accade con Law and Order (su Fox Crime). Cambia qualcosa? Certamente sì, a partire dall’ambientazione. Invece dei lucidissimi grattacieli americani ci prendiamo una vacanza geografica, ed estetica (ci perdonino gli States ma è così visto che tutte le loro città si assomigliano), con Londra. Le vicende, nella loro trama non difficile da dipanare, ne risentono poco, ma comunque assorbono, nel ritmo in cui vengono raccontate, il clima umano e cultural-storico del nuovo scenario. Law and OrderUk (la serie inglese, appunto) è un prodotto medio. Ma qui sta il bello. Tra penose ambizioni di novità e la resa agli stereotipi più banali, magari con l’aggravante della vena pseudo-comica, la res media ruba il trono della qualità e ci sale sopra. Chi ha dimestichezza con il genere giallo non si lascia sorprendere così facilmente dai colpi di scena. Ma c’è sempre una percentuale di inatteso, che deriva dal fatto che il telespettatore, più ancora del lettore, si affida interamente allo svolgimento delle scene. Se poi gli indizi sono tali da portarlo nelle braccia della verità finale prima del tempo, c’è sempre la soddisfazione di poter dire «ecco, io lo pensavo…». Cardine, questo, dell’antico spettacolo teatrale. Di qui la necessità del regista di curare il contorno, che è fatto di personaggi, caratteri, brevi incursioni nella loro vita familiare, ma anche di scenari. Nell’episodio intitolato Sepolto viene ritrovato a distanza di 25 anni lo scheletro di un bambino di otto anni nello scantinato della casa di fronte alla quale lui abitava assieme alla madre vedova. È una specie di cold case, ossia un crimine vecchio (letteralmente «freddo») che, per un caso, reclama oggi e solo oggi una soluzione. Emergono allora due modi di investigare diversissimi: il detective che s’era occupato del caso automaticamente s’accanì contro un omosessuale, ignorando che la pedofilia è strettamente legata all’eterosessualità (sia pur malata) e all’ambiente familiare. Se decenni fa si dava la caccia

danza

Televisione

MobyDICK

spettacoli DVD

Law&Order-Uk nell’oltretomba della memoria

MISS SCICOLONE, NASCITA DI UNA DIVA cicolone per l’anagrafe, Lazzaro per i fotoromanzi, per tutti Sophia Loren. Anima di un pezzo di storia d’Italia, e corpo di un sogno, l’attrice di Pozzuoli rivive in tutto lo splendido intreccio romanzesco che la portò dal Vesuvio alle vette di Hollywood, nel bel documentario di Roberto Olla e Danila Satta. Cercando Sophia, di nuovo in videoteca per Surf Video, racconta la donna, tanto quanto la diva. Perché la Loren è stata dolcissima e acerrima nell’inseguire i suoi desideri: dal sofferto matrimonio con Ponti agli stenti patiti in guerra, dai 19 giorni di carcere all’irta strada che l’ha incoronata signora del cinema.

S

PERSONAGGI

VASCO ROSSI A FUMETTI, LA FANTASIA AL POTERE l mondo che vorrebbe ce l’ha fatto intravedere, ma adesso che non ha più le sue illusioni, che cosa gliene importa della realtà? Molto, ma alla sua maniera. La stessa che trasforma Vasco Rossi nell’eroe di una graphic novel. Ho fatto un sogno, da questa settimana in libreria per le edizioni Rizzoli, racconta l’inconfondibile Blasco in un prezioso bianco e nero che riproduce le sue movenze, il cappelletto, le espressioni tenere e beffarde. Perché mister Rossi diventa un fumetto, lo spiega lui stesso nella prefazione dell’opera: «Il fumetto aiuta a combattere il grigiore quotidiano». Utile quanto mai, in «un mondo che ha bisogno di trovare un colpevole perché non sa affrontare le colpe» .

I al «finocchio», oggi ci si avvale di studi, di psicologi e di statistiche. Il bimbo scomparso, Tommy, frequentava la casa di fronte dove un buon padre di famiglia lo trattava affettuosamente. Julia, la figlia di questi, era la sua amichetta di giochi. Ed è su Julia che gli investigatori che devono riferire ai Procuratori della Corona si soffermano dopo aver notato minime anomalie nel suo modo di riferire i ricordi, allora e oggi. La police britannica si avvale di una psicologa. Due le convinzioni. La prima: da bambini si può essere indotti a credere a versioni alternative degli eventi. La seconda: se ci sono ricordi «sepolti» il soggetto ha forse una vaga sensazione del sommerso - che si traduce in di-

sagio relazionale - ma non necessariamente la consapevolezza dell’esistenza dell’oltretomba mnemonico. Attraverso un metodo sperimentale Julia è la prima a spaventarsi di fronte ai propri ricordi «veri», che furono «spostati» da un’autorità paterna soffocante e deviata. L’argomento dell’abuso sessuale sui figli e in genere sui minori è orrendamente attuale. L’episodio che abbiamo citato mostra bene come le stratificazioni sociali, culturali, emotive coprano la verità. Oltre a questo pesa un modo di investigare fortemente agganciato ai pregiudizi. Non illudiamoci che nella vita reale i cambiamenti televisivi siano ugualmente marcati.

di Francesco Lo Dico

Una Biennale all’insegna del respiro Diana Del Monte i è aperta con una boccata di ossigeno questa settima edizione del Festival di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia dedicata alle emozioni. Intitolato Capturing emotions, il festival è stato inaugurato mercoledì da Oxygen di Ismael Ivo, coreografia portata sul palco dai 20 danzatori dell’Arsenale della danza, il progetto formativo fortemente voluto e avviato l’anno scorso dal coreografo e direttore artistico del festival. «Fai un respiro profondo e inala una buona quantità di aria. Trattienila per tre secondi. Preparati a un’immersione immaginaria. Mentre espiri l’aria, rilassati e abbandona il corpo come se stessi per perdere l’equilibrio. Quando sei sul punto di cadere, fai un passo. È l’occasione per un nuovo inizio». Dopo il triennio dedicato al corpo Body Attack, Under Skin, Body & Eros

S

- e l’anno di Beauty (2008), nel 2009 Ismael Ivo ha portato la «sua» Biennale al Grado Zero. Oggi, il coreografo afrobrasiliano riapre la rassegna con uno spettacolo ispirato all’attività più naturale e necessaria dell’uomo, il respiro. Primo atto della vita di un bambino, respirare è la funzione primaria del corpo umano, ma è soprattutto la molecola del movimento, l’elemento minimo della danza che Ivo mette in scena con la complicità della musica rarefatta di Arvo Part posta in contrapposizione al tessuto sonoro di John Adams. Dopo l’apertura affidata a Ivo, questa settima edizione, che si concluderà il 12 giugno con una maratona di brevi performance danzate intitolata Marathon of the unexpected, si avvia verso la ricognizione di un’ampia area geografica che va dal Canada, già da tempo tappa per un ipotetico grand tour contemporaneo della nuova danza, all’Australia, luogo di inaspettate

prospettive per la scena futura. Immancabili, in questo quadro, le performance dell’irriverente e focosa personalità della québeccoise Marie Chouinard (28/05) e del più tradizionale ensemble dei Grands Ballets Canadiens de Montreal che stasera porterà per la seconda volta sulle scene lagunari il Sacre du printemps di Stijn Celis insieme a Bella Fugura e six dances di Jiri Kylian. In questo panorama ampliato fino agli antipodi geografici, ai nomi già noti si uniscono, poi, le nuove proposte, quali le formazioni dei Kidd Pivot (30/05), dal Canada, e dei Chunky Move (5-6/06), dall’Australia. Italiani, invece, sono i due progetti realizzati in coproduzione con la Biennale e sostenuti dal progetto Enparts (European network of performing arts) che saranno presentati in prima assoluta durante questo festival veneziano.

Il 9 e 10 giugno l’appuntamento è con Cristina Caprioli con Cut-outs & trees, mentre il 10 e 11 giugno va in scena Tristi tropici di Virgilio Sieni, spettacolo liberamente ispirato al famoso libro/diario dell’antropologo Claude-Lévi Strauss. Quest’anno, infine, Leone d’oro a William Forsythe per aver «rivoluzionato il mondo della danza rigenerandone il linguaggio classico, di cui ha ricostruito e decostruito le forme dall’interno, diventando punto di riferimento per le giovani generazioni» che, per l’occasione, porterà al Teatro Piccolo Arsenale un suo recente quartetto N.N.N.N.


Cinema

MobyDICK

egli ultimi anni del matrimonio di Lev e Sof’ja Tolstoj c’era più guerra che pace. La prima star letteraria della modernità, riverita e osannata come un monumento vivente, era stata travolta da un’oceanica crisi mistica, ed era in rivolta contro la sua vita privilegiata di aristocratico possidente terriero, ulteriormente arricchita dal successo internazionale dei suoi libri. The Last Station, tratto dal romanzo di Jay Parini, racconta il suo ultimo anno di vita. Molti personaggi presenti in quei tormentati mesi hanno lasciato scritto le loro versioni dei fatti, e il regista e sceneggiatore Michael Hoffman ne tira le somme, piantandosi saldamente nel campo di Sof’ja, che combatteva perché proprietà e diritti d’autore restassero in famiglia. Il romanzo è meno tenero con la moglie. L’avversario era il discepolo in capo del movimento tolstojano,Vladimir Chertkov (Paul Giamatti), che sosteneva l’anziano patriarca nel suo desiderio di devolvere tutti i suoi beni all’avanzamento della sua filosofia: resistenza passiva (poi adottata da Ghandi), astinenza dalla carne (nei due sensi, alcool e tabacco, e vita comunitaria votata alla coltivazione dello spirito e a beni in comune. La storia è vista attraverso lo sguardo di Valentin Bulgakov (il fantastico James McAvoy di Espiazione), ardente tolstojano, assunto da Chertkov come segretario dell’autore e come spia in occasioni intime che non prevedono la sua ormai contenziosa presenza in casa Tolstoj. Infatti l’organizzatore delle comunità tolstojane e il divulgatore delle sue idee viveva in esilio in un’altra tenuta. Tolstoj non è il primo idealista a promuovere comportamenti ascetici che non pratica. «Sei sempre il primo alla mangiatoia», gli sibila Sof’ja (Helen Mirren) quando il marito esprime il desiderio di abnegazione monacale. Il fascino della storia è nella lotta di potere nella coppia litigiosa e sensuale, decisa a non andare docile verso il sonno eterno. Lev e Sof’ja, sposati da quarantotto anni, avevano avuto tredici figli (solo otto sopravissuti) e una passione reciproca che quando non sfogava nella lite incendiava l’alcova, con giochi erotici scippati a galli e gallina dell’ormai celebre tenuta di Jasnaja Poljana, oggi adibita a museo tolstojano. Mirren (come attrice protagonista) e Christopher Plummer (come attore non protagonista) sono stati candidati all’Oscar, e se non siamo pienamente d’accordo non è colpa loro. Sono attori di rango anche quando vanno sopra le righe (e qui succede spesso), ma i difetti del film, in particolare l’intrigante, viscido Chertkov, un cattivo da cinema muto nell’interpretazione di Giamatti, sono da attribuire a Hoffman. Come avrebbe fatto un uomo di quella statura, autore di Anna Karenina, a sopportare un leccapiedi così ovviamente interessato a strappare a Sof’ja l’eredità che preferiva gestire Chertkov «per il bene dell’umanità»? Lo stile altalenante (che rispecchia l’eterogenea filmografia dell’autore) tra duello epico, melodramma e biografia letteraria in costume alla James Ivory, non si trasforma mai in uno sguardo personale fluido, armonioso, equilibrato, personale. Eppure sarebbe un peccato perdere una storia che vale la pena di conoscere e di approfondire.

29 maggio 2010 • pagina 21

N

Lev, Sof’ja, un cane

e l’apocalisse di Anselma Dell’Olio È un film godibile ma il finale è falso: Sof’ja non è stata ammessa nella stazione; è un risarcimento post-mortem che le viene dedicato. Da vedere.

The Road, film su un mondo post-apocalittico in cui un Uomo e suo Figlio (privi di altri) cercano di sopravvivere contro pericoli mortali in un panorama di rovine: catastrofe ambientale, fame, predoni e bande di criminali ridotti a cannibali. Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy (La strada) è un racconto morale che riflette e s’interroga su quel che resta quando tutto quello a cui si dà il nome di civiltà - quelle cose che ci differenziano dalle bestie - è spazzato via. Il cielo è buio, il sole non si vede più da anni, lavarsi è impossibile, fa freddo da spaccare le pietre, e quando nevica, i fiocchi sono grigi. Il padre (Viggo Mortenson, perfetto) e il figlio (Kodi Smit-PcPhee, ottimo) hanno solo una pistola (e due pallottole) per difendersi e un vecchio carrello arrugginito da supermercato per trasportare le poche cose utili che riescono a racimolare da case e supermercati ripuliti da tempo. Non sappiamo con precisione cosa è successo circa dieci anni prima, forse una serie di terremoti e incendi, forse una vasta esplosione nucleare, ma la devastazione rende la sopravvivenza una lotta quotidiana. I flashback della vita famigliare perduta, soffusi di luce e di colori caldi, sono un sollievo, anche se un pochino oleografici, mentre il romanzo non lo è mai, ma senza il classico refrain: «Il film non è all’altezza del racconto». Stephanie Zacharek di Salon.com è dell’avviso che il film sia superiore al «machismo retorico» del libro di McCarthy, che definisce «Pulp fiction travestito da Arte Alta». C’è della verità in questo giudi-

Stile altalenante ed errori di regia nel film di Hoffman sull’ultimo anno di vita di Tolstoj. Convince invece “The Road”, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy: c’è chi lo preferisce al libro. Da non perdere “Le quattro volte” di Frammartino, prova di puro cinema sommessamente in concorso a Cannes

zio, ma si sa: le opere più geniali sono spesso in bilico tra il sublime e il ridicolo. Quando i pareri sono così discordi era meglio il romanzo, no è meglio il film - vuol dire che va visto. Charlize Theron, la madre che abbandona la famiglia perché non sopporta il degrado che li aspetta, è bravissima nel trasmettere la tragedia nella tragedia: la perdita dell’elemento tenero e accarezzante in un mondo ormai privo di pietas. Si astengano le anime belle che non sopportano temi «deprimenti». Da vedere.

Le quattro volte non era stato idolatrato come contributo italiano al Festival di Cannes, ma è l’unico a portarsi a casa premi e una barca di recensioni entusiaste. Molto più inchiostro s’è versato per le paturnie «Berlusconi fa schifo» di Sabina Guzzanti e quelle di Daniele Luchetti («Fa schifo ma si nomina»), film infinitamente inferiori (specie Draquila) alla meditativa, originale, coinvolgente opera anomala di Michele Frammartino; priva di dialoghi e di musica, è puro cinema. Ha vinto due premi a Cannes: l’Europa Cinema Label per miglior film alla Quinzaine des Realisateurs, che ha lo scopo di dare una mano a far conoscere il film e a farlo durare nelle sale (ne avrà bisogno). Il secondo riconoscimento è spiritoso e calza perfettamente con l’umorismo lieve del film e con la bravura di un protagonista. È il Premio speciale della giuria del Palm Dog per la migliore interpretazione canina. Il bastardino bianco e nero è strepitosamente bravo, e chissà come ha fatto il regista o l’addestratore a istruire tanto magnificamente il cane. È vero che è un pastore, ma (in un unico piano sequenza) l’animale è regista, aiuto-regista (fa spostare a suo piacimento comparse e un camion) e attore. Le scene del gregge di capre in fuga anarchica, che entrano in casa del pastore, montano sul tavolo di cucina, entrano in camera da letto è insieme poesia dell’imprevisto e slapstick Zen. Sono stati evocati i nomi di Antonioni, Robert Bresson e Raymond Depardon. Noi troviamo il tocco di Jacques Tati e di Otar Iosseliani. Attenzione: non è un documentario, né un documento etnografico, pur avendo elementi delle due cose. Da vedere sul grande schermo.


Cristalli sognanti

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MobyDICK

ai confini della realtà

I vasi comunicanti della creatività

vrei potuto scegliere tanti argomenti di sintesi per affrontare un pezzo sull’ultima edizione del Salone del Libro di Torino. Un tema poteva essere il sostanziale aumento del pubblico pagante, oppure l’incremento dei nuovi giovani lettori. O anche il momento d’oro della narrativa storica e degli autori italiani. O, infine, le commistioni multimediali che nemmeno tanto in punta di piedi, hanno fatto il loro ingresso dalla porta principale del tempio italiano della lettura. E invece ho deciso di farmi prendere dalla corrente, di seguire il suo flusso e di raccontarvi la fiera del libro sulla base dei libri che mi hanno attirato di più, che mi hanno spinto a mettere mano al portafogli e che, alla fine, come in una sorta di archivio all’impronta di titoli e copertine, possono rappresentare la mia personale cronaca di uno dei più importanti eventi mondiali legati alla lettura.

A

Premetto che il fruscio della carta mi piace ancora, che il profumo dell’inchiostro fresco riesce a inebriarmi più e meglio di una fascinosa essenza floreale e dunque non vi tedierò raccontandovi la mini invasione di piattaforme e-book che neanche troppo timidamente hanno cercato di convincere i paganti il biglietto che leggere su uno schermo a cristalli liquidi sia più economico, comodo e utile del perdere tempo a fare orecchie alle pagine, usare segnalibri, far schioccare la brossura male incollata di un libercolo a basso budget o sottolineare con penna e matita una frase o un incipit.Vi parlerò di libri: quelli veri. Sono un lettore onnivoro, al limite del compulsivo. Per le mie scarse finanze di giornalista di vecchio stampo risulta molto più pericolosa una sosta in una libreria che in un grande magazzino o in un negozio di dolci. Non riesco a uscirne senza portare via qualche chilo di carta rilegata e, naturalmente, scritta. Per questo non ho perso tempo negli stand delle grandi case editrici dando per scontato che non vi avrei trovato nulla di nuovo o diverso da quanto già razziato solo fino a qualche giorno prima dall’apertura dei cancelli del Lingotto. Ho passato invece più di una mezz’ora allo stand della Ecig, una piccola casa editrice genovese, portata avanti da gente appassionata e competente e specializzata in saggi monografici particolarmente attenti alle antiche civiltà, alle religioni e agli ordini cavallereschi. Me ne sono andato via con almeno una mezza dozzina di volumi, non tutti di recentissima pubblicazione, per approfondire temi legati alle mie prossime scritture compiacendomi che, una volta tanto, ci sia qualcuno in grado di realizzare libri interessanti e che non si scrivono certo in pochi mesi, pur contenendone i prez-

di Roberto Genovesi

Un fumetto ispirato a un format tv presentato a una fiera dedicata ai libri. Una catena che riassume l’anima nuova della “buchmesse” torinese da poco conclusa. È una delle suggestioni captate al Lingotto insieme ad altre, proposte da piccoli editori, collegamenti arditi tra antico e moderno, videogiochi... In alto, la copertina del nuovo manga sulla celebre serie C.S.I. Sopra, due immagini dei videogiochi “Halo” e “Metro 2033” a cui sono ispirati i relativi fumetti. A fianco, la copertina di “Carthago” di Franco Forte

zi di copertina.Vi consiglio, in particolare, i libri della collana Nuova Atlantide tra i quali mi hanno colpito un volume di Ubaldo Lugli dedicato alla rappresentazione dei fantasmi nella Roma antica e le monografie su Illiri, Germani e Russi.

Allo stand della Bietti ho trovato Inferni, il nuovo romanzo di Errico Passaro che ha scelto proprio l’ultimo giorno del salone per presentarlo a pubblico e stampa (ne ha parlato, proprio su questa pagina, Gianfranco de Turris sabato scorso). Passaro è uno scrittore che conosco molto bene e non solo perché ho scritto con lui almeno un romanzo e alcuni racconti.

Ne conosco l’approccio alla scrittura che è sempre stato legato allo stupore nella scoperta e nella riscoperta dei collegamenti più arditi tra antico e moderno, vera forza di tutte le sue fortunate opere letterarie. Come Passaro, anche Franco Forte viene dalla letteratura fantastica. Il suo percorso lo ha portato negli ultimi tempi a provare le sue notevoli qualità narrative nel filone della storia antica con incursioni nel Medioevo. Come molti tra gli scrittori più seri, Forte non ama i riflettori a cui preferisce la scrittura e la riservatezza. Ma questo non gli impedisce di collezionare successi come per il suo ultimo romanzo, Carthago, che presto sarà tradotto in numerose lingue, che si inserisce nel progetto Mondadori che, sotto l’egida di Valerio Massimo Manfredi, ha affidato ad alcune delle migliori menti creative italiane, il compito di raccontare in modo nuovo e appassionato la storia di Roma. Un tema usato e abusato che qualche volta accompagna al numero spropositato di titoli sui banchi delle librerie il rischio di nascondere le sue perle migliori. Per fortuna ciò non accade agli spettacolari romanzi di Andrea Frediani, tutti pubblicati da Newton Compton i quali, proprio al Salone di Torino, sono stati tra quelli più acquistati dai veri intenditori del genere. A partire da Dictator, primo di una trilogia dedicata a un giovane e sorprendente Caio Giulio Cesare. Alla fine non sono riuscito a resistere alle incursioni multimediali del padiglione giallo, come da alcuni è stata ribattezzata la sezione dell’area dedicata - per la prima volta al Salone - a fumetti, videogiochi e cross-medialità. Ne sono uscito con un bottino interessante e «pesante». A contribuire ci ha pensato il nuovo atlante della saga di Halo, splendido maxi volume pubblicato da Multiplayer.it e dedicato all’universo dell’ormai mitico eroe della saga videoludica simbolo della consolle Xbox Microsoft. Sempre allo stand della giovane e ultraspecialistica casa editrice ternana ho trovato Metro 2033, un romanzo di un giovane scrittore russo che deve il suo successo alla viralità della rete. Un tassello editoriale di un progetto cross-mediale composto al momento da un videogioco e da alcune incursioni nel mondo mobile e che, a detta della stessa Multiplayer, si arricchirà nei prossimi mesi di spinoff realizzati da autori ingaggiati da ogni parte del mondo per rappresentare nelle metropolitane delle loro grandi città il format del capitolo originario. Concludo questa breve e, per forza di cose incompleta e personale carrellata, con un manga ispirato alla celebre saga di Csi. Si tratta di Tirocinio letale, proposto dalla ReNoir e curato da Davide Caci. È forse il titolo che più di ogni altro rappresenta l’anima nuova del Salone del Libro di Torino appena concluso. Un fumetto ispirato a un format televisivo, presentato a una fiera dedicata ai libri. Dio benedica il principio dei vasi comunicanti e chi lo ha scoperto. La creatività ne ha davvero bisogno.


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