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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

CANTAMI, O MUSA,

di Pier Mario Fasanotti

Borghi, quartieri, piazze, bar... La letteratura italiana continua ad alimentarsi di storie e luoghi piccoli che diventano grandi. Un filone antico che trova nuova linfa vitale negli scrittori di oggi

Parola chiave Relativismo di Roberto de Mattei

9 771827 881301

80531

ISSN 1827-8817

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

DELLA PROVINCIA…

Dacia Maraini e gli orrori del ‘900 di Maria Pia Ammirati

provinciali sono tornati. E c’è da brindare. Sì, perché la letteratura italiana si alimenta di storie in apparenza piccole, marginali, e si fa grande così. La sua linfa più autentica non è mai stata quella che corre sotto le vie delle grandi città. Salvo splendide eccezioni. Sono il borgo, il quartiere, la piazza con il bar e il biliardo a lanciare fasci di luce sull’essenza dell’uomo, a rivelare vizi e virtù della vita domestica. E a sua volta i cortili, i tinelli, gli androni di vecchi palazzi, il porticciolo quando c’è, riflettono la storia con la esse maiuscola, che sta alle spalle e penetra, s’infiltra come la luce attraverso le persiane. Il revival di storie di provincia si fa più forte. La prima sorpresa, un’ottima sorpresa, viene dall’editore Sellerio che ha appena pubblicato il roman-

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NELLE PAGINE DI POESIA

Il tatuaggio di Calipso di Roberto Mussapi

zo di Carlo Flamigni, noto più come medico che non come narratore. S’intitola Un tranquillo paese di Romagna e nelle prime pagine raggruma la peculiarità umana di chi è o si tiene lontano dalle sbiadite e frustranti metropoli. È la storia dei Casadei, famiglia strana a partire da Primo, un pasticcione con la testa nelle nuvole e nei libri, e da sua moglie Maria, bella cinese che ha imparato a parlare il romagnolo invece che l’italiano. Primo, un buon uomo anche se ogni tanto «perdeva la testa dietro a un paio di tette», decide di trasferirsi in una casa di collina. Un clima che dovrebbe favorire l’ispirazione per «una specie di torero con l’aria da intellettuale».

Per decifrare la Sfinge Russia di Vittorio Strada I turbamenti di Charlie e la Cecenia di Sokurov di Anselma Dell’Olio

continua a pagina 2

Mona Hatoum in mostra a Ferrara di Marco Vallora


cantami, o musa, della

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segue dalla prima Flamigni spiega giustamente che in Romagna (ma capita in moltissime zone italiche) il soprannome è spesso più importante del nome che, pare sempre un po’ «e nò de sgnùr», nome di signori, appunto. Il soprannome è segnaletica di identità caratteriale. Per esempio c’è un tale Ravaldino che, a causa del suo abbigliamento dimesso e l’aria piagnona, vien chiamato «e pòr Clemènt», espressione che si usa per i defunti. Oppure la bambina che ha la sfortuna di essere nata in una casa dove apparecchiare un posto in più a tavola è un affanno, che viene battezzata Delusione o Errore.

secolo, suggestionati dal film omonimo con la sensuale Rossana Podestà e con lo smaliziato Philippe Leroy. Pellicola vista al Cinema Centrale di Busalla. La loro vita è un tirare a campare, è il sogno di sistemarsi per sempre. Vicende grottesche che li porterà per mano verso una sorta di fanciullezza, tipo Amici miei. Sia pur venato di nostalgia, il romanzo di Licalzi ondeggia magistralmente tra l’allegria e il disincanto della vita di provincia. Scrive l’autore: «Nessun uomo è fallito se ha degli amici». Sono del resto leparole che Henry Travers rivolge a James Stewart nell’indimenticabile La vita è meravigliosa di Frank Capra. Dettagli e figure memorabili anche nei nuovissimi racconti di Francesco Guccini (Icaro, Mondadori): in terra bolognese si cimenta la vena civile dell’autore, rafforzata da continue invenzioni linguistiche. Spostiamoci più giù. La regione geografica è la Basilicata, quella del cuore e della narrativa italiana contemporanea è la Lucania, così come si chiamava in antico e così come probabilmente ancor oggi viene sentita dai suoi abi-

Poi ci sono i pettegolezzi, ingrediente essenziale della provincia. Se di qualcuno si sa poco, si scava oppure s’inventa partendo da cose verosimili. Nel romanzo di Flamigni, per esempio, si parla del medico Neri, che vive solo. Il non aver moglie e figli fa scoppiare maldicenze: «Nei piccoli paesi o sei alcolista, o sei cornuto, o sei pederasta, le alternative non sono molte». Non molte per chi non riesce a esibire la patente della correttezza. E giù voci, ipotesi, parlottii infiniti. La psiche viene scandagliata col punteruolo della fantasia, il carattere di un personaggio s’avvantaggia e il profilo aspira all’universale. Queste sono categorie narrative riprese felicemente da AndreaVitali che ambienta le sue storie sul lago di Como. L’ultima sua opera s’intitola La modista (Garzanti). Ci sono il mistero, il correre dietro a sottane, il Da sinistra: Alberto Bevilacqua, Piero Chiara passato che condizio- e Raffaele La Capria na il presente, la voglia di cambiare posto e nello stesso tempo l’affettuosa catena che tanti. Di certo è Lucania quella di ti tiene legato al «tuo» paese.Tematiche sa- Giuseppe Lupo e del suo La caropientemente trattate da un maestro del ge- vana Zanardelli (Marsilio), «una nere come Piero Chiara (romanzi e raccon- catena di sogni che non tarderanti editi dalla Mondadori), snobbato un tem- no ad affacciarsi nella Storia». po dai critici, portato in palma di mano da Siamo nel 1902 e la visita di Stato dell’allora presidente registi di valore come Lattuada, e del Consiglio Zanardelli in terra ora rivalutato come scrittore puro. lucana, lui uomo del profondo Una seconda sorpresa editoriale Nord, dà spunto all’autore per un sarà in libreria il 4 giugno. Dialetpirotecnico resoconto sulle conto, vicoli, piazzette, voci e malevodizioni e sulle contraddizioni, ci ambientati nella più aspra Liahimè in parte tuttora persistenti, guria con il romanzo di Lorenzo del nostro meridione. All’oggi, inLicalzi, Sette uomini d’oro (Rizzoli). Storie e storiacce che si vece, si volge la banda di personaggi di medesima area geografisnodano nella Valle Scrivia, enca messa insieme da Gaetano troterra di Genova. Giggi CipolCappelli in Storia controversa lina, Cinghialone e Aurelio Fierdell’inarrestabile fortuna del vino ro - anche qui i soprannomi - sognano, ovviamente al bar, di fare il colpo del Aglianico nel mondo (Marsilio). La forza di

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551

provincia

questo romanzo è nella capacità dell’autore, per la verità già intravista nelle opere precedenti, di far rispecchiare nella sua provincia un’Italia neo-cafona che ha attecchito con feroce rapidità negli ultimi anni. Un docente universitario del potentino che per far quattrini si associa a un suo vecchio compagno di scuola, un nessuno diventato il dodicesimo uomo più ricco d’Italia: lui è il neocafone, ambizioso come lo è certa provincia in ansia da revanscismo.

Passando appena per la Puglia di un grande vecchio della nostra narrativa, quella di Carlo Castellaneta e del suo indimenticabile capolavoro Viaggio col padre (1958,) lungo ed emozionato amarcord nella terra d’origine, approdiamo all’altra grande regione del Sud, quella Campania oggi troppo sovraesposta dagli onori della cronaca politico-sociale per la monnezza e di quella letteraria per un romanzo-inchiesta che non si nomina tanto si sa quale è. In questa regione torna spesso dalla capitale romana il maestro forse non riconosciuto ma certo riconoscibile di una

genìa di scrittori, di una nouvelle vague letteraria partenopea, quel Raffaele La Capria al quale i tanti giovani scrittori campani di certo guardano. E il ritorno su queste terre di La Capria è anche letterario, forse sospinto ancora dall’onda di quello splendido tratteggio di una condizione di napoletanità, che va ben oltre le mura cittadine, nella sua trilogia del Tre romanzi di una giornata formata dai primi lavori pubblicati con rara pazienza: Un giorno d’impazienza (1952), Ferito a morte (1961) e Amore e psiche (1973). Vigila la sua presenza e vigila sulla provincia campana Antonio Pascale che con La città distratta (Einaudi) ha dato inizio il suo persistente lavoro d’indagine sul territorio con la sapiente modalità del

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reportage narrativo. «Chi vuol capire qualcosa sul nostro Sud, farebbe bene a leggere Antonio Pascale», ha scritto il critico Goffredo Fofi. E così è, pensando a questo libro su Caserta rivelazione del Sud e dell’ltalia intera. Sommesso, sghembo, velato di comicità, Pascale ha offerto lo spunto più adatto, tra racconto e riflessione, per cogliere l’essenza della provincia di oggi, campana o meno che sia. Senegalesi a frotte e polacche all’aria la domenica in un hinterland di case mai portate a termine, dove prolifera l’economia del sommerso, mentre terra e mare si corrompono in un lento morire. I progenitori illustri delle storie di provincia ci sono. Pensiamo a Giovannino Guareschi (Rizzoli) e agli intrecci oggi voltati decisamente al poliziesco di Giuseppe Pederiali (Garzanti). Pensiamo ai primi romanzi, di alto profilo letterario, di Alberto Bevilacqua. Un esordio, quello della Città in amore, e poi un continuo e acuto sguardo sulla sua Parma, in versi come in prosa, senza mai cedere al provincialismo di maniera. Oltretorrente, la riva del Po, i luoghi di una scrupolosa e struggente indagine sui caratteri dell’umanità, con la forza ma anche con le tante debolezze che la contraddistinguono. C’è nel tempo un crescente accento amaro nelle pagine di Bevilacqua che «tra grazia e crudeltà», come recita un verso del suo ultimo e rabdomantico Duetto per voce sola, ha descritto un mondo in uscita come fosse «il» mondo. E lo è per davvero nella sua opera. E come si fa a dimenticare le isole? C’è la Sicilia di Andrea Camilleri che nei gialli non descrive, ma addirittura inventa un paese di provincia, Vigata. Il suo commissario Montalbano si esprime in un dialetto che arricchisce il lessico italiano, gli ridà fantasia e pregnanza. Mare davanti ed Etna alle spalle fanno da fondale all’intensissimo noir di Elvira Seminara (L’indecenza, Mondadori) mentre a riportare l’attenzione del pubblico sulla Sardegna ci ha pensato Salvatore Niffoi (romanzi pubblicati da Adelphi). Ma ci sono anche i valenti scrittori della scuderia editoriale de Il maestrale. Per esempio Alberto Capitta. Nel suo Il giardino non esiste, descrive una tragedia familiare e una sorta di resurrezione dove spiccano i personaggi femminili, capaci di osare, di prendersi carico del dolore e della speranza. Tutto questo oltre in mezzo al mare nostrum, in un’isola che è molto più di una provincia.

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parola chiave

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RELATIVISMO l presidente americano George W. Bush, accogliendo lo scorso 16 aprile Papa Benedetto XVI negli Stati Uniti, ha sottolineato il pericolo della «dittatura del relativismo». Questa espressione - ormai divenuta una parola chiave del nostro tempo è stata coniata dall’allora Cardinale Ratzinger, quando, nell’Omelia della Messa pro eligendo pontifice del 18 aprile 2005 disse che «il relativismo (…) appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Apparentemente i due termini di «dittatura» e di «relativismo» appaiono inconciliabili. La parola «dittatura» evoca infatti un potere forte, esercitato da un soggetto, o da una minoranza, che si pone al di fuori di ogni regola. Il termine «relativismo» rimanda al contrario a un potere «debole» esercitato con tolleranza in un contesto di pluralismo. In realtà il nesso esiste, ed è più intimo di quanto possa sembrare. Il relativismo nasce come una dottrina filosofica che consiste nel negare l’esistenza di una verità oggettiva, secondo il principio che l’uomo è la misura di tutte le cose. I sofisti greci, soprattutto Protagora e Gorgia di Lentini, predicano il relativismo già nel V secolo avanti Cristo. Il detto di Protagora «l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono» è riportato da Platone, che lo critica, in Teeteto 151e; 152a; Cratilo 385e.

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Se l’uomo è la misura di tutte le cose, la sua ragione diviene il criterio ultimo di ciò che è vero e di ciò che è falso, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Ma l’uomo, nei giudizi che formula, non segue unicamente la propria ragione. La ragione umana, nei suoi giudizi e nelle sue scelte, è frequentemente condizionata da desideri e bisogni, talvolta oscuri e irrazionali, che nascono nel nostro cuore. La ragione dovrebbe illuminare la volontà, ma la volontà asseconda spesso le passioni e le tendenze più profonde dell’animo umano. Imponendosi alla ragione, la volontà diviene misura ultima di giudizio e di azione. Ciò è facilitato dal fatto che in un ottica relativista, la ragione, ridotta a opinione e convinzione personale, è intrinsecamente debole. La volontà può, infatti, sottomettersi, sia pure con fatica, alla ragione quando essa a sua volta si sottomette a una verità oggettiva; ma se questa verità oggettiva viene meno, se la ragione è solo opinione, la volontà è destinata a imporsi con prepotenza alla ragione. La molla del relativismo sta proprio nel desiderio dell’uomo di liberarsi da

Tutto nasce dal desiderio dell’uomo di liberarsi da ogni vincolo della ragione, perché se non esistono verità o leggi oggettive tutto è permesso e la vita sembra più libera e facile. Così prevale la logica dell’arbitrio e dell’intolleranza

La dittatura dell’opinione di Roberto de Mattei

La formula della “volontà di potenza” di Nietzsche esprime bene la situazione in cui, in assenza di verità, prevale la potenza della volontà, e la ragione del più forte si sostituisce alla forza della ragione. Ma attraverso la logica, la ragione può approdare anche a una verità ontologica ogni legge della ragione, perché se non esistono verità o leggi oggettive, tutto è permesso e la vita sembra più libera e più facile. Se ogni verità è un’opinione, l’uomo non sbaglia mai e giustifica tutto ciò che nasce dal suo «ego». La formula della «volontà di potenza» di Nietzsche (Al di là del bene e del male, in Opere complete, vol. VI, tomo II, Adephi, Milano, 1990, pp. 119-20) esprime bene questa situazione in cui, in assenza di verità, prevale la potenza della volontà, e la ragione del più forte si sostituisce alla forza della ragione.

L’intelligenza è uno strumento dato all’uomo per comunicare con i propri simili e per elevarsi al suo Creatore. Ma l’intelligenza, per esprimersi, ha bisogno di regole da rispettare. Il fondamento della logica occidentale sta nel principio di identità o di non contraddizione, secondo cui è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo. Aristotele, a cui si deve la prima formulazione di questo principio (Metafisica, IV 3, 1005b 19-20), che è allo stesso tempo legge

dell’essere e del pensiero, confutò per primo con un argomento insuperabile la fallacia del relativismo. Chi nega il principio di contraddizione, afferma un principio che ritiene vero; ma affermando una verità contraddice il relativismo; meglio sarebbe allora tacere, limitarsi a vegetare in silenzio. Attraverso la logica, la ragione può approdare alla verità: una verità non solo logica, ma ontologica, che sta nelle cose stesse. Il nostro giudizio, spiega sant’Agostino, può essere vero o falso; le cose, invece, sono sempre e soltanto vere, mai false (De Veritate, I, 10). La verità delle cose è una verità oggettiva, radicata nella realtà. Se questa verità è negata, e a essa si sostituiscono opinioni, nate dalla volontà soggettiva, le decisioni sono lasciate all’arbitrio della forza. Ci sono molti tipi di forza, ma non è detto che la forza del numero, che caratterizza i regimi democratici, sia più giusta della forza esercitata dal potere di un singolo o di una minoranza. Fu un parlamento regolarmente eletto, ricorda Papa Woityla nel suo ultimo libro Memoria e identità (Rizzoli, Milano 2005), ad acconsentire alla chiamata di Hitler al potere nella Germania degli anni Trenta e ad aprirgli la strada per l’invasione dell’Europa e l’organizzazione dei campi di concentramento. La forza, separata dal diritto, è sempre arbitraria e si trasforma in violenza. Giovanni Paolo II lo ha spiegato nelle encicliche Fides et Ratio e Veritatis splendor e Benedetto XVI ha spesso ripreso nei suoi libri e nei suoi discorsi questo concetto centrale. L’esempio tipico è l’aborto, l’omicidio di massa, che pur approvato dai parlamenti del nostro tempo, resta in se stesso intrinsecamente ingiusto e immorale.

La legge del numero non giustifica la negazione della legge naturale, iscritta nel cuore e nella ragione di ogni uomo. Ma chi ci dice - potrebbe obiettare qualcuno - che cosa è la legge naturale? Ce lo dice oltre alla Rivelazione divina, attraverso i Dieci comandamenti, la ragione stessa, non quella di Tizio o di Caio, ma la ragione umana, che quando segue le regole primarie della logica, come il principio di identità e di non contraddizione, diventa ragione comune, ragione pubblica e vera. La «ragione pubblica» è la ragione umana che, attraverso il dialogo razionale, ritiene possibile stabilire alcune verità sulla vita dell’uomo in società. Chi nega l’esistenza di regole logiche comuni a ogni uomo non nega solo la legge naturale, nega la possibilità stessa di dialogo razionale tra gli uomini. Prevale allora, la logica dell’arbitrio e dell’intolleranza verso chi afferma una verità. La dittatura del relativismo, appunto.


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ROCK

Scarlett canta Waits (e l’orco approva) di Stefano Bianchi ovesse dare retta ai gufi del flop annunciato, si cospargerebbe il capo di cenere per poi ritirare in fretta e furia Anywhere I Lay My Head dai megastore e dal downloading. Ma la ragazza è tosta. E certi giudizi al vetriolo (la voce che è un belato, secondo il Times; intonazione barcollante, si legge su Rolling Stone; incapacità di cantare, sentenzia Uncut) non le fanno né caldo né freddo. L’importante, per Scarlett Johansson, è aver coronato il sogno d’interpretare quell’orco (geniale) di Tom Waits. Oltretutto con un risicato background canterino alle spalle: la mi-

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seria d’un karaoke nel film Lost In Translation (intonava Brass In Pocket dei Pretenders), una Summertime di George Gershwin esibita nella compilation benefica Unexpected Dreams: Songs From The Stars e Just Like Honey, cantata dal vivo l’anno scorso, coi Jesus and Mary Chain, al Coachella Festival. La musa di Woody Allen, la femme fatale di Black Dahlia, non ha alcuna intenzione di fare la masochistica fine delle altre stelle del cinema prestate alla musica: di Bruce Willis con l’album The Return Of Bruno, della punkettara Juliette Lewis, di Russell Crowe e Keanu

musica

Reeves che hanno già messo in saldo le loro band (30Odd Foot of Grunts e Dogstar), dello swingante Richard Gere fra le danze di Chicago. Mamma mia, che pregiudizi contro di lei. Le si conceda almeno il merito di aver mostrato un gran coraggio: Tom Waits cantato da una donna! E per giunta bene. Sì, alla faccia dei gufi. Con quella voce nebbiosa, roca, ciondolante. Che paga (inconsciamente?) pegno a Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins e a Nico, la Grimilde del primo disco dei Velvet Underground. Muse sotterranee, come «underground» sono le cover di Anywhere I Lay My Head, compresa la pastosa Song For Jo scritta da Scarlett con una certa autorevolezza «dark». Affrontate con piglio anticonformista dalla signorina, affiancata da due newyorkesi piuttosto cool : David Andrew Sitek dei TV on the Radio e Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs. I quali, di buzzo buono, hanno trasformato il Waits sound gorgogliante, rumorista e granuloso in un rock alternativo alla Mercury Rev e alla Sonic Youth, con licenza di sophisticated pop. L’ideale passepartout, per le interpretazioni sghembe e visionarie della Johansson, a proprio agio nella scarna Town With No Cheer, fra organi e percussioni esotiche; nel fulgore elettronico di Anywhere I Lay My Head, che riecheggia Hiroshima Mon Amour degli Ultravox; in una ineccepibile Green Grass aspirata con voce profonda; nella solennità di No One Knows I’m Gone, che somiglia tanto ad All Tomorrows Parties dei Velvet Underground. E poi le ballate, con una svolazzante guest star, David Bowie, a fare da corista: Falling Down, contrappuntata dal banjo, e Fannin Street, che ammicca a Be My Baby di Phil Spector. Quindi? Vade retro, scettici. C’è molto di peggio, in giro. E pare sia piaciuta all’orco in persona, la tenace Scarlett. Scarlett Johansson, Anywhere I Lay My Head, Rhino/Wea, 19,50 euro

in libreria

IL FAVOLOSO MONDO DI TIZIANO FERRO

mondo

riviste

LA MISSIONE DI PETER GABRIEL

OMAGGIO A JOE ELY

È

fresco di stampa ma già richiestissimo dalle teenager italiane il libro della giornalista Caterina Tonon Il mondo di Tiziano Ferro - Ero contentissimo (Aliberti editore). Centotrenta pagine ricchissime di aneddoti, gossip, interviste e curiosità su uno dei cantautori più amati in Italia, «dai tempi in cui cantava nei cori gospel terrorizzato dal pubblico, a quello che poi è diventa-

«C

on l’esplosione del mondo digitale, che sta davvero fiorendo sui cadaveri dell’industria musicale, l’unica cosa che le persone non hanno notato è che abbiamo fatto un gigantesco passo indietro in termini di qualità del suono». A partire da queste considerazioni, Peter Gabriel ha annunciato la nascita del progetto Music Club, che punta a combattere la scarsa qualità dovuta alla compressione dei forma-

n questo luogo di tutto e di nulla, dove hanno spazio precipizi improvvisi, stanno per ore nell’immobilità assoluta. La sola mente libera di muoversi e di seguire quel canto che nasce quando l’uomo e il suo limite si affrontano spietati». Le parole di Cormac McCarthy si attagliano a perfezione alla carriera di Joe Ely, songwriter texano cresciuto nel mito di Nashville cui mescalina.it dedica un lungo editoriale.

Centotrenta pagine di aneddoti e curiosità su uno dei cantautori più amati in Italia

L’ex Genesis annuncia la nascita di Music Club, in difesa della qualità del suono nell’era del digitale

Un editorilae di “mescalina.it” ripercorre la carriera (e l’ispirazione) del cantautore texano

to, cambiando senza essere del tutto cambiato». Il libro, agile e giovane nello stile come nella grafica, è intrigante già dai titoli dell’indice, che vanno dall’identikit dell’artista a «Centoundici chili di fantasia», passando per «Mi trasformo in attrazione» e terminando con un semplice ma tutto da leggere «Dicono di lui...». Una divertente e molto completa opera dedicata soprattutto alle fan più appassionate, scritta da una giornalista sul ciglio dei trent’anni che di se stessa dice: «Precaria per professione e vocazione, scrive spesso per dovere, talvolta per diletto».

ti Mp3, con un’offerta di musica ad alta qualità a prezzi assai contenuti. Supportato dalla partnership della Bowers & Wilkins, casa britannica specializzata in prodotti musicali ad alta fedeltà, il music club secondo Gabriel consentirà di scaricare dalla rete un album al mese per una tariffa annuale di 67 dollari. I brani offerti, che saranno del tutto privi di Drm (Digital Rights Management) avranno qualità comparabile a quelli di un cd musicale, dunque, ma a costi altamente concorrenziali.Tra i primi album disponibili on line Bought For a Dollar, Sold For A Dime di Little Axe, membro degli Sugar Hill.

Iniziata l’avventura in solitaria nel 1977, subito fortunata per via della collaborazione con i Clash, Ely scrive negli anni Ottanta pezzi vibranti di rock’n roll e conutry come Me & Billy the kid e Everybody got hammered per approdare negli anni Novanta a uno stile solipsistico venato di guitar steel e fisarmoniche che culmina nel capolavoro Letter to Laredo (1995). Narratore di storie e ambienti polverosi, di terre selvagge e fantasmi che cavalcano in silenzio, Ely ha percorso i confini del rock trovando riparo nel mondo ritroso della frontiera. Quello che, ormai svelato, non è più un Paese per vecchi.

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zapping

LA TOP 5 DEL “PEGGIO” dagli Skiantos a Sanremo di Bruno Giurato l Guardian è in vena di resumé storico musicali e ci ripropone la top 10 dei momenti più memorabili dei festival rock. Questo non può che scatenare voglie parallele per quanto riguarda la musica italiana. Ci affrettiamo a fornire un elenco simile (ci limitiamo alle prime cinque posizioni solo per limiti di spazio), con meno festival rock, manifestazioni che in Italia non godono di tradizione altrettanto robusta, e più italianità. Procediamo. 1) Il mitico concerto settantasettino degli Skiantos, in cui invece di suonare il gruppo rock-demenziale di Bologna cucinò gli spaghetti, se il mangiò (offrendone al pubblico), dopodiché: fine dello show. 2) Zucchero che insulta il pubblico durante un concerto a Porto Cervo nello scorso agosto: «Siete uno schifo», e il pubblico, giustamente, risponde a bottigliate. 3) Franco Battiato che dedica il disco Pollution al Centro internazionale di studi magnetici, un’organizzazione con sede a Imola che, come si apprende dall’avviso riprodotto all’interno della copertina, sarebbe dovuta riuscire, il 12 settembre 1972, a «bloccare, mediante l’uso di uno stroboscopio magnetico, tutti i veicoli a motore a scoppio circolanti in Italia». 4) Il sassofonista nero napoletano James Senese che, in studio con Gino Paoli, alle troppe precisazioni del cantautore su dove e come suonare in un certo brano rispose così: «Aggio capito, aggi’a mettere nu poco e poesia ncoppa a sta cacata». Sembra che Paoli non abbia trovato il coraggio di replicare. 5) Per ultimo come dimenticare tutti i Sanremo dalle origini a oggi? Regolarmente, anno dopo anno, a ogni assolo di chitarra elettrica la regia inquadra il bassista, il che non sarà pienamente rock, ma è senz’altro un ripetersi di momenti notevoli che dice tanto. Se non tutto.

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JAZZ

Cronaca di una vita negata di Enrica Rosso arà difficile lavarsi di dosso il senso di oppressione perentorio e ossessivo, ad alto tasso d’inferno, che ci avvolge per quasi un’ora e mezza e che ci toglie il respiro per tutta la durata della rappresentazione di ‘Nzularchia di Mimmo Borrelli.Tradotto in italiano «Itterizia, ittero, febbre gialla» procurata da un’inondazione di paura che vince e non dà tregua, che semina affanno e crea parole nel tentativo di sopravvivere all’indicibile. Solo cento spettatori a sera chiamati ad assistere all’allucinato resoconto di una vita negata. Da subito costretti a un ingresso in fila indiana, come in visita alle catacombe, verso la parte del retro palco, quella povera, dimessa, appannaggio degli artisti, quella che rivela per intenderci, la miseria e nobiltà del fare teatro. Accompagnati da suoni ed echi di un altrove non meglio identificato, ma che si intuisce spaventoso, abbiamo infine accesso all’anima nera di Gaetano (Peppino Bazzotta) che ci accoglie prostrato, accoccolato nei suoi pensieri, protetto da infiniti abiti-larve sospesi alle pareti o stratificati in cumuli-tane sul pavimento, a indicare i fantasmi del suo personale olocausto interiore. Si segnala di prepotenza l’immagine dell’enorme placenta che pende dal soffitto e che svelerà Piccirillo (Nino Bruno) assolutamente inerme e candido, testimone immaginario dei turbamenti mai espressi di Gaetano. E siccome la violenza è un piatto prelibato e ognuno di noi prima o poi si deve strafogare della parte che gli spetta, sempre avvolti dalle note che gocciolano sulla scena, assorbiamo impotenti l’esercitazione di crudeltà inferta negli anni dal padre Don Pasquale (Pippo Cangiano), detto Spennacore, ex-camorrista di chiara fama ritrattata in un dialogo serratissimo col fratello mai nato, finché la brutalità appresa per passaggio diretto del dna non materializzerà l’esecuzione di Piccirillo che, a compimento di un truce rituale,viene letteralmente ingoiato dalla scena per essere restituito al non vissuto. Cade così il muro dell’omertà e ci ritroviamo nel mausoleo del padre, imbevuto di luce, trafitti dalla sua composta crudeltà. Il livore di Gaetano lascia spazio alla mestizia, colano le note bellissime e compassionevoli composte da Paolo Coletta a diluire il senso di soffocamento interiore, a fare giustizia, ma uccidere i ricordi non è facile. Bazzotta e Cangiano sono concentratissimi e generosi interpreti di un finale

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memorabile. L’epilogo è feroce e schiacciante. Una regia illuminata che si avvale della potenza visionaria di Carlo Cerciello traduce una scrittura trascinante e smodata che va oltre il dire e che ha fatto vincere a Mimmo Borrelli, classe ’79, la quarantottesima edizione del premio Riccione, massimo riconoscimento nazionale della drammaturgia contemporanea. Un autore giovanissimo e già importante che con la sua scrittura e febbrile inarrestabile sembra destinato a regalarci testi di grande impatto emotivo. Ininfluente l’effettiva comprensione del testo che ci arriva comunque nelle sue infinite sfumature assorbito per osmosi. Lo Roberto scenografo Crea materializza per noi lo strazio psicologico di Gaetano e ci mette in scena come ulteriori comparse del suo degradato bestiario.

‘Nzularchia, Crt-Teatro dell’arte, Milano, fino all’8 giugno

L’arte imperfetta secondo Ted Gioia

di Adriano Mazzoletti a casa editrice Excelsior 1881 di Milano ha pubblicato The Imperfect Art che lo scrittore, ma anche filosofo e pianista di jazz,Ted Gioa aveva dato alle stampe nel 1988 per Oxford University Press. In poco meno di 190 pagine e in sette capitoletti, l’autore fornisce tutto ciò che si deve o si dovrebbe sapere sul jazz, in rapporto all’arte del Novecento, dalle origine agli anni Sessanta, quando Ornette Coleman apparve sulla scena della musica nero-americana. Non si tratta di una storia cronologica del jazz, come è stato spesso scritta da musicologi o semplici studiosi e storici di questa musica, bensì una serie di concetti che vanno dalla «musica di arredamento» secondo quanto scritto nel 1920 da Erik Satie, al «mito primitivista» , all’«arte imperfetta» che Gioia applica al jazz nelle sue diverse forme. Quando Satie scrisse che la Musique d’Ameublement avrebbe svolto la

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TEATRO

Ornette stessa funzione della Coleman luce e del calore, aveva riconosciuto nei gusti e negli atteggiamenti della sua epoca il desiderio sempre più intenso di una musica priva di asperità, spogliata da ogni contenuto emotivo e dallo stucchevole individualismo tipici del romantico. passato Gioia vede nel passaggio dalla registrazione acustica a quella elettrica, iniziata nel 1927 e la successiva introduzione e diffusione di strumenti elettronici, sintetizzatori, registrazione su più piste, sovraincisioni e sostituzioni di strumenti tradizionali con i loro corrispettivi digitali, un cambiamento epocale, che porta alla musica di arredamento tipica di certe sperimentazioni colte, ma anche a ciò che negli Stati Uniti viene volgarmente definita

«musica per ascensore». Assai lontano il jazz dalla monotonia e ripetitività di questo tipo di prodotto. Il jazz che aveva lanciato al suo apparire la sfida alla distinzione che esisteva nella musica accademica fra compositore ed esecutore, persiste nella repulsione per qualsiasi suddivisione in ambito musicale. «Nella sfera dell’arte popolare come in quella dell’arte colta scrive Gioa - il jazz rimane una anomalia: nel mezzo di una cultura inserita in uno spazio chiuso e prevedibile, il jazz continua a voler sfidare gli elementi». Uno dei capitoli più interessanti è quello che dà il titolo allo stesso volume: L’arte imperfetta. L’improvvisazione spontanea o meditata è noto, è uno degli elementi

fondamentali del jazz, ma è anche il più problematico. Gioa per chiarire in modo paradossale l’importanza dell’improvvisazione nel jazz, azzarda alcuni esempi bizzarri riferiti alle altre arti se anche queste avessero attribuito la stessa importanza all’impovvisazione.T.S. Eliot che tiene delle letture serali di poesia nel corso delle quali, anziché recitare composizioni preesistenti, deve creare poesie improvvisate, ogni sera diverse, a volte recitate velocemente, altre volte lentamente. Oppure Matisse e Dalì che ogni sera si esibiscono davanti a un pubblico pagante che li guarda dipingere tela su tela. Oppure un grande interprete di musica classica improvvisare con solo pochi minuti da dedicare a ciascun «capolavoro». «Arte imperfetta» quella del jazz se giudicata con lo stesso criterio delle altre arti. Ted Gioia, L’Arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea, Ecxcelsior 1881, 210 pagine, 17,50 euro


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NARRATIVA

libri

Il viaggio di Amara negli orrori del ‘900 di Maria Pia Ammirati oagulo del nucleo forte della narrativa di Dacia Maraini, il tema dell’impegno civile, attraversa la vasta produzione con diverse variazioni sul tema che alleggeriscono o appesantiscono le storie a seconda della centralità che l’impegno prevede. Una centralità che si addensa anche attraverso altri temi cari alla scrittrice repertati nell’ultimo romanzo Il treno dell’ultima notte. Romanzo di impianto corale, struttura corposa e di grande respiro, trova sollecito sulle corde di storie di microcosmo che vivono la grande bufera novecentesca europea di nazismo e comunismo. Nel piccolo e nel grande, Dacia Maraini incasella le storie e la Storia ricostruendo attraverso tre fatti essenziali: la shoa, l’assedio di Stalingrado e la rivoluzione di Budapest del ’56. Nell’anno 1956, agli inizi dell’inverno, la giovane protagonista dal nome profetico, Amara Sironi, si trova a viaggiare in una fatiscente carrozza di un treno con altre persone. È l’inizio di un viaggio non pianificato (che si rivelerà anche come nekuia) che la porterà al centro di un’Europa non ancora pacificata, piagata dalla fame e dalla morte, appena in ripresa dopo i danni della seconda guerra mondiale e della bestialità nazista, ma pronta a fare i conti con l’altro mostro incontrollato che è il comunismo sovietico. Il viaggio in treno non è solo una forma metaforica consolidata, ma ha il triste cigolio dei treni e dei carri merci adibiti dal ‘42 in poi alla deportazione degli ebrei nei lager nazisti di Auschwitz, Birkenau e Dachau. Amara è diretta proprio ad Auschwitz dove spera di trovare notizie del suo primo amore l’adolescente Emanuele, sparito da Firenze nel ’42 e rintracciato attraverso un epistolario che de-

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scrive le ultime fasi della vita di Emanuele e della famiglia nel ghetto polacco di Lodz. L’arrivo ad Auschwitz è raggelante per la sua storia e per la sua disarticolata modernità di museo o luogo della memoria. La lucidità e spietatezza delle descrizioni (che si confonde anche con la naturale immaginazione dei visitatori) delle piccole cose: le valige e le scarpe accatastate in montagne grigiastre, le fumaiole, collidono con l’ordine del museo: le frecce e le scritte indicatrici, i guardiani e i visitatori. Amara immagina l’arrivo di Emanuele e della sua bella madre e spinge la fantasia fino a pensare, e a rivivere, il momento in cui vengono portati nella camera a gas. Gli ultimi istanti, il fumo, la paura, l’orrore dei corpi avvinghiati. Alla ricerca di Amara si affiancano via via altri personaggi, gente comune che viaggia per l’Europa in cerca di radici e famiglie spezzate o dissolte, ognuno con una storia terribile da raccontare. Sempre più spesso sono racconti che hanno il valore di un pugno diretto alla bocca dello stomaco, cruda verità dai sapori e dagli odori forti. Per questo si diceva che quest’ultimo romanzo della Maraini funziona da summa: la scrittrice dei sensi, per quel suo gusto del racconto sapido e profumato, com’era stato in Bagheria e persino in Marianna Ucria; la scrittice che cesella le storie degli individui nella grande Storia delle collettività; e la scrittrice delle voci femminili, quelle a cui sempre più spesso il mondo consegna il dovere di ricordare, raccogliere e non dimenticare soprattutto le pagine più dolorose dell’umanità. Dacia Maraini, Il treno dell’ultima notte, Rizzoli, 430 pagine, 21,00 euro

riletture

Gli aforismi di Dávila? Da sgranare come un rosario di Giancristiano Desiderio a rilettura della settimana è una rilettura non perché il libro sia da rileggere dopo nuova ristampa o sia da rileggere andando a cercarne una vecchia e primissima edizione. Sarebbe una ricerca inutile, perché non esiste una prima edizione di Tra poche righe di Nicolàs Gómez Dávila edito da Adelphi nel novembre del 2007. Al massimo si potrebbe risalire fino al 2001 e di questo autore ignorato in vita e scoperto in morte si potrebbe rileggere In margine a un testo implicito - sempre Adelphi - che è il primo libro tratto dal grande libro degli Escolios che, volume più volume meno, dovrebbe arrivare a contenere fino a cinque libri. Dunque, perché rilettura? Perché Tra po-

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che parole è uno di quei libri che non si legge ma si rilegge. Il proposito del suo autore, quel «colombiano che amava Nietzsche e odiava il mondo moderno» secondo la definizione calzante di Franco Volpi, era proprio questo e nient’altro: «Non è un’opera ciò che intendo lasciare. Le uniche che mi interessano si trovano a una distanza infinita dalle mie mani. Vorrei lasciare però un libricino che, di tanto in tanto, qualcuno apra. Un’ombra tenue che seduca poche persone. Sì! Affinché una voce inconfondibile e pura attraversi il tempo!». È stato accontentato, sia pure post mortem. Ora, che cos’è che si rilegge veramente? I classici. Sì, certo, ciò che è «classico» si fa continuamente leggere perché ha sempre qualcosa da dire. Ma qui non si vuole sostenete che Gómez Dávila, questo

filosofo con il nome da tennista (questa volta definizione è mia), sia un classico, ma solo che il suo libro si rilegge. È fatto non per la lettura, ma per la rilettura. Non solo a distanza di giorni, settimane, mesi, anni. Anche a distanza di minuti. Perché tra un minuto e l’altro avete bisogno di pensare, respirare, pensare e ritornare a leggere. A volte leggete e pensate: «Che cavolo ha voluto dire?». E andate a rileggere per capire se avete capito. Altre volte capite a volo e avete bisogno di pensare e di sostare nel vostro stesso stupore. Pagina 31: «La verità è nella storia, ma la storia non è la verità». Che è semplicemente la verità, ma detta così, in modo diretto e semplice, senza complicazioni, è come se la verità fosse davanti ai vostri occhi. Pagina 81: «Una verità giusta mancherebbe di

interesse». E abbonderebbe di noia. Lo avrete capito: Tra poche parole è un libro di aforismi. Uno dietro l’altro, in fila indiana, in rapida successione, un filo di perle che sgranate come un rosario. Un rosario dello spirito, dell’intelligenza, della lucidità. Un aforisma è fatto apposta per essere letto, riletto, ricordato, pronunciato, pensato, ripensato. Gli aforismi sono fatti apposta per pensare. Danno da pensare. Sono una sorta di nutrimento dello spirito. A volte lo condividete, a volte no, a volte lo apprezzate, a volte no, a volte lo accogliete, a volte no. Condividete questo: «Un corpo nudo risolve tutti i problemi dell’universo». Certo, certo, dipende dal corpo nudo. Ma converrete che si tratta di un pensiero fresco, agile, vero. Che lascia pensare, come una buona battuta.


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FILOSOFIA

Nietzsche, Torino e i valori dell’Europa di Renato Cristin a scena di Nietzsche che il 3 gennaio 1889 nella torinese piazza Carlo Alberto abbraccia il cavallo di una carrozza chiamandolo fratello, è il momento culminante di quella crisi psichica che lo portò pochi giorni dopo in clinica a Basilea e che, in un progressivo peggioramento durante i dieci anni successivi, lo condusse alla morte il 25 agosto 1900. Spinto dall’ansia di lavorare in tranquillità, egli arriva a Torino per la prima volta il 5 aprile 1888 e, dopo alcuni viaggi, vi risiede stabilmente dai primi di settembre fino al 9 gennaio 1889, quando Franz Overbeck, suo fidato amico, lo raggiunge, allarma-

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to dai sempre più forti segni di squilibrio, per accompagnarlo a Basilea. Torino, città poco nota ai tedeschi («ho scoperto Torino […] il tedesco istruito le passa accanto senza fermarsi»), viene molto apprezzata da Nietzsche non solo per le condizioni climatiche («aria energica e secca»), ma anche per l’ambiente urbano («una residenza del XVII secolo, le strade diritte, la regolarità degli edifici e la bellezza delle piazze […] le amene rive del suo fiume, i viali in fondo ai quali si scorgono le Alpi innevate») e per la cortesia della gente («tutti quelli che hanno avuto a che fare con me […] sono persone molto garbate, allegre»). Qui ritrova serenità psichica e una rinnovata forza spirituale: in poco più di sei

mesi scrive Ecce homo, Crepuscolo degli idoli, Il caso Wagner, L’anticristo e i Ditirambi di Dioniso, oltre a più di un centinaio fra lettere e biglietti scritti dal 27 settembre al 6 gennaio 1889, che si riferiscono principalmente alle fasi di composizione ed edizione dei testi sopra citati, ma che raccontano pure della sua vita quotidiana («trovo che qui valga la pena di vivere sotto tutti gli aspetti» scrive all’editore Köselitz, raccontandogli del «caffè nei migliori locali», dei pasti alla trattoria, dove scopre «i grissini, i

sottilissimi bastoncini di pane» e dove può godere «di un sarto classico»). Poi, a gennaio appunto, la catastrofe. Queste lettere possono rappresentare un’occasione per una nuova e più ampia interpretazione di Nietzsche che ne valuti ciò che è valido e ciò che non lo è, che ne recuperi lo spirito critico e, soprattutto, la volontà di ripristinare i valori originari della civiltà europea. Friedrich Nietzsche, Lettere da Torino, Adelphi, 269 pagine, 15,00 euro

SOCIETÀ

Partorire senza paura si può di Riccardo Paradisi allontanamento dallo sguardo generale di tutto ciò che è naturale, e perciò anche intrinsecamente misterioso, come il nascere e il morire, testimonia come la civiltà moderna sia in fondo spaventata da ciò che non riesce a comprendere coi suoi limitati strumenti razionali. Per questo, dice Elisabetta Malvagna nel suo Partorire senza paura, nella nostra epoca il parto, ormai completamente medicalizzato e ospedalizzato, è ancora vissuto come un trauma e molte donne non sono sufficientemente informate sulla gravidanza, sul processo della nascita e sui possibili modi per facilitare il parto. Il libro della Malvagna contiene capitoli sul parto nella storia e sulla medicalizzazione della nascita, sull’epidemia del cesareo e sull’anestesia epidurale, sul parto in casa e in acqua, sull’influenza dell’ambiente, sul ruolo delle oste-

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triche e sulle principali esperienze pilota internazionali per favorire il parto naturale. Circondato ancora da un’inspiegabile aura di diffidenza. «In generale, in vista del parto viene trasmesso un messaggio di ansia, forse anche perché i medici temono che la donna si aspetti sempre e comunque un esito perfetto del parto, che magari potrebbe rivelarsi non così tranquillo come la paziente si attende. Perciò eccedono in allarmismi, in analisi, in ecografie. Insomma, caricano la partoriente, anche la più serena e fiduciosa, di preoccupazioni e timori, rendendola insicura sulla possibilità di far nascere il proprio bambino senza interventi esterni, chimici o chirurgici». Non manca alla fine del libro un capitolo sulla normativa in Italia in materia di parto. Normativa sostanzialmente assente, visto che, a parte interventi degli enti locali, esiste solo una proposta di legge sulla tutela del parto che punta a offrire alla donna e al bambino la migliore as-

sistenza, a garantire l’epidurale gratis a tutte le donne e il diritto di scegliere il parto in ospedale, a domicilio e in specifiche strutture territoriali, parificando i rimborsi tra parto cesareo e parto naturale. Elisabetta Malvagna, Partorire senza paura, Red edizioni, 141 pagine, 12,00 euro

STORIA

La Rosa Bianca appassisce con Moni Ovadia di Vito Punzi

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uando nell’agosto 2005 venne presentata al Meeting di Rimini una mostra dedicata alla Rosa Bianca, a quel minuscolo ma significativo movimento tedesco di opposizione al nazismo che ruotò attorno ai fratelli Hans e Sophie Scholl, nessuno avrebbe immaginato il grande interesse che seppe suscitare tra i giovani (dopo quel Meeting la mostra è stata proposta in centinaia di scuole italiane e tedesche). La casa editrice Itaca, oltre al catalogo della mostra, pubblicò nel 2006 La Rosa Bianca, di Inge Scholl, e Lettere e diari, di Hans e Sophie Scholl. Risultato: migliaia di copie

vendute e finalmente una diffusa coscienza di quello che quel gruppetto di giovani cristiani (cattolici, evangelici e ortodossi) aveva osato contro Hitler e il suo regime. L’editore Il Margine presenta ora una monografia di Paola Rosà su Willi Graf, uno dei giovani appartenenti alla Rosa Bianca, la cui esecuzione avvenne il 12 ottobre 1943. Di grande interesse il contributo della sorella di Willi, Anneliese KnoopGraf (sua la Postfazione), ricco e ben curato l’apparato fotografico, sconcertanti invece altre scelte. La monografia della Rosà è infatti costruita su di un parziale azzeramento della memoria: nella bibliografia non figura alcuno dei titoli pubblicati da Itaca, tanto meno il ca-

talogo della mostra riminese. Non sarà un caso che la stessa dimenticanza si presenti anche nel sito dell’Associazione Rosa Bianca, d’ispirazione catto-democratica. Curiosa

l’incongruenza tra l’Introduzione di Moni Ovadia e la ricerca della Rosà. Se da un lato l’attore si scaglia contro la «vile ipocrisia della borghesia cattolica» e le «prudenze colpevoli della gran parte delle gerarchie vaticane e in particolare del pontefice Pio XII», la Rosà, usando le parole pronunciate dall’israeliano Pinchas Lapide nel 1967, deve ammettere che «Pio XII diede un contributo sostanziale a salvare 700 mila ma forse addirittura 860 mila ebrei da morte certa per mano dei nazisti». Non c’è che dire, strano modo di confezionare libri. Paola Rosà, Willi Graf. Con la Rosa Bianca contro Hitler, Il Margine, 230 pagine, 16,00 euro

altre letture Il luogo comune vuole che tra l’Italia e il mare vi sia una simbiosi storica naturale. È vero geograficamente ma il mare è rimasto, a lungo, custode estraneo della storia civile di una società prevalentemente agraria e urbana. Il Mare, un Paese marinaro dall’immaginario rurale di Paolo Frascani (Il Mulino, 215 pagine, 14,00 euro) racconta in prospettiva diacronica proprio questo rapporto irrisolto. Con la fine del primato detenuto dal nostro Paese nella prima età moderna, dice infatti Frascani, il rapporto tra il mare e gli italiani si allenta in termini di lavoro, produzione e utilizzazione delle risorse. Nell’800 il Mediterraneo torna al centro della politica europea e l’Italia avvia una politica di protagonismo nel mare nostrum. Un processo che porterà a defnire durante il secolo scorso l’immaginario collettivo della nuova Italia marinara ma insufficiente a porla all’altezza delle sfide che si trova oggi ad affrontare. Diocleziano è l’imperatore romano che riuscì a fondere tradizioni occidentali e orientali, ridando unità e organicità amministrativa e militare all’impero, arrestandone per qualche tempo la decadenza. L’impero romano del III secolo avanti Cristo infatti era gravemente turbato dalle invasioni barbariche, da rivolte interne e da una crescente crisi economica. Stephen Williams, nel suo saggio Diocleziano (Ecig editore, 258 pagine, 18,50 euro) tratteggia un ritratto affascinante di questo personaggio che grazie a un governo tetrarchico ripristina la pace in tutto l’impero, mette ordine nelle innovazioni introdotte dai predecessori e ne attua di nuove. La sua politica ebbe però anche delle ombre pesanti: una forte inflazione economica e una spietata persecuzione nei confronti dei cristiani. Perché si diventa anoressiche e ormai, visto che la sindrome colpisce anche sempre più maschi, anoressici? Cosa scatena negli adolescenti un comportamento che minaccia non solo il corpo ma anche la capacità di rapportarsi con gli altri, i famigliari in primo luogo, e giunge a mettere a rischio anche la vita? Anna Salvo, psicoterapeuta che ha avuto in cura molte pazienti affette da questa sindrome, offre in Questo corpo non è mio (Mondadori, 223 pagine,17,50 euro) una chiave interpretativa per comprendere cosa si nasconde dietro il rifiuto per il cibo: paura, dolore, affetti feriti, un deserto dove tutto è trasformato in ghiaccio. L’autrice consiglia a chi sta vicino a un’anoressica di non confondere la pietas e la cura con la condiscendenza su tutto.


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il saggio

UNA FACEZIA SOVIETICA LO DESCRIVEVA COME “UN PAESE DAL PASSATO IMPREVEDIBILE”. UNA DEFINIZIONE CHE BEN SI ADATTA ALL’ATTUALE RICERCA STORICA CHE, SULLA BASE DI NUOVE FONTI, METODI, ORIENTAMENTI, CONTINUAMENTE SI RINNOVA. RIUSCENDO SEMPRE MEGLIO A COMPRENDERE UN UNIVERSO ANOMALO, A DECIFRARE L’ENIGMA…

La Sfinge Russia di Vittorio Strada o studio della Russia, della sua storia, della sua cultura, della sua letteratura si colloca nell’ambito degli studi sulle altre entità nazionali, ciascuna delle quali ha una sua peculiarità, non tale però da intaccare una loro comune omogeneità. Anche a livello accademico tale studio, come il suo insegnamento, occupa un posto tra gli altri dedicati ad altri paesi entro il sistema universitario. Ma se si considerano le cose non in senso formale e dalla superficie si va alla sostanza, si deve convenire che lo studio della Russia in tutte le sue manifestazioni politiche e culturali costituisce un caso a sé. Non si tratta soltanto di luoghi comuni, non privi di alte espressioni poetiche come quella di Aleksandr Block che invitava il «vecchio mondo» europeo a fermarsi come il «saggio Edipo» davanti alla «Sfinge col suo enigma antico» ed esclamava con sfida: «la Russia è una Sfinge» che fissa l’Europa «con odio e con amore», oppure come gli ancora più celebri versi di Fëdor Tjut cev, ˇ secondo cui «la Russia non può essere capita con l’intelletto», né «misurata col metro comune» perché essa ha «una sua propria natura» e intesa può essere soltanto con un atto di «fede». Oppure si ricordi il detto, attribuito a Churchill, secondo cui la Russia sarebbe «un rompicapo avvolto in un mistero all’interno di un enigma». Si tratta di due visioni complementari del-

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liarità dello sviluppo storico russo e delle teorie che sono state e tuttora sono elaborate al proposito, tema di grande interesse che richiederebbe un notevole impegno anche di tempo. Mi limiterò ad alcune considerazioni empiriche riguardanti una realtà che molti hanno conosciuto e vissuto. Partiamo da una considerazione che può parere ovvia, ma che non sempre diventa oggetto di una riflessione adeguata a manifestarne il significato. Anche chi non è uno studioso della Russia converrà che nessun altro paese ha conosciuto un’esperienza sconvolgente come quella russa dello scorso secolo. All’inizio del Ventesimo secolo, dopo disastri interni quali una guerra persa col Giappone e una rivoluzione sanguinosa come quella del 1905, nonché dopo un eccidio endemico come quello dovuto al terrorismo e alla sua repressione, e dopo un conflitto mondiale che scosse le basi stesse della civiltà europea con conseguenze particolarmente catastrofiche per l’autocrazia zarista, la Russia nel 1917 fu sovvertita da una rivoluzione che sconvolse il mondo e la cui durata, con tragiche vicende, si protrasse fin quasi alla fine del secolo, fino al 1991, lasciando dopo di sé tracce indelebili.

Tra il 1917 e il 1991 la storia della Russia è stata variamente riscritta secondo il mutare delle direttive emanate dal potere comunista. Anche la lingua, oltre alla cultura e alla letteratura, non è uscita indenne dai settanta e più anni di dominio sovietichese la Russia, la cui inintelligibilità è dichiarata con compiacimento dai russi e con sgomento dagli stranieri, ma che esprimono semplicemente una maggiore difficoltà di comprensione della Russia rispetto ad altre realtà storiche, senza tuttavia scoraggiare dai tentativi razionali di analisi, come è dimostrato dagli studi russistici fiorenti dentro la Russia e fuori di essa. Anzi tali studi, animati non necessariamente da «fede», ma ispirati doverosamente dallo spirito critico, aiutano a capire anche come è sorta l’ideologia della incomprensibilità della Russia, della sua misteriosità, della sua impareggiabilità, secondo una ideologia che si salda con l’idea del «messianismo» russo di natura religiosa, cristiano-ortodossa, ma anche laico-ateista, come è avvenuto in tempi recenti. Eppure non si può non riconoscere che parlare di una relativa eccezionalità dello studio della Russia e della Russia stessa è giustificato. Anzi non riconoscere ciò è pregiudizievole per tale studio e per la conoscenza del suo oggetto. Con questo non intendo entrare in un’analisi delle pecu-

Non è questo il momento di analizzare un evento storico mondiale di tale portata, aperto a varie interpretazioni, e di esso considereremo in breve soltanto la fenomenologia con particolare riferimento alla cultura e alla letteratura al fine di delineare, seppure semplicemente con un tratteggio, quella eccezionalità russa cui sopra ho accennato e i problemi particolari che un suo studio comporta. Si può obiettare che la Russia ha una sua storia secolare, non limitata allo scorso secolo, obiezione lapalissiana che però non cancella il fatto, riconosciuto da ogni storico, che l’esperienza epocale del Ventesimo secolo è stata per la Russia, e non per essa soltanto, il momento culminante di quella secolare storia, la quale deve essere ripercorsa a partire da esso, sia pure, naturalmente, con una pluralità di metodi e modi. Sempre per restare su un piano empirico, non basta però osservare, con tutte le implicazioni che ciò comporta, che la Russia nello scorso secolo ha vissuto due catastrofi senza pari, nel 1917 e nel 1991, usando qui l’espressione «cata-

strofe» in senso neutro, senza connotazioni assiologiche. Bisogna aggiungere e precisare che dicendo «Russia» si deve intendere però «impero russo», per quel che riguarda il 1917, poiché indiscutibilmente è tale Impero che fu la sede dell’evento rivoluzionario, sotto i cui colpi esso entrò in crisi, disgregandosi. Per quel che concerne invece «la catastrofe» del 1991, parlare di «impero sovietico» è per alcuni opinabile e se questa espressione viene usata, si deve precisare di che impero si tratta, dato che a crollare è stata l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.Anche qui, senza entrare in una discussione oggi assai intensa tra gli storici a questo proposito, diremo che se di «impero sovietico» si può parlare, si tratta di un «impero» di tipo assai particolare e nuovo, diverso in via di principio da quello zarista, anche se territorialmente con esso quasi coincidente. Sorge allora il problema, essenziale soprattutto quando si tratta di cultura, di che cosa si deve intendere per «Russia» in un discorso che, come si era detto, riguarda due realtà imperiali, sia pure tra loro diverse: quella zarista e quella comunista. È un problema acuto soprattutto oggi, nel periodo aperto dal fatidico 1991, quando, dopo il collasso dell’«impero sovietico», per la Russia si è aperto a tutti i livelli (politico oltre che culturale) l’interrogativo lancinante circa la propria identità nazionale e quindi l’impegnativo problema di una adeguata comprensione di tutta la propria storia remota e recente. Nasce qui il nuovo nazionalismo russo in tutte le sue varie forme, comprese quelle nostalgico-imperiali, ma nasce come frutto pernicioso sul terreno legittimo di una autodeterminazione nazionale dopo un secolo sconvolgente come ilVentesimo. Bisogna allora tornare all’altra data fatidica: il 1917. Anno che, con riferimento all’ottobre e non al suo prologo di febbraio, ebbe un significato non puramente locale russo, ma mondiale in quanto portò, nel territorio dell’ex impero zarista, alla formazione di un nuovo potere e di un nuovo regime, comunque lo si voglia definire comunista o totalitario, e nel resto del mondo alla creazione di una rete di organizzazioni politiche facenti campo a quel regime e a quel potere e unificate in una Internazionale detta comunista. Anche qui, tralasciamo ogni giudizio di valore e constatiamo che la Russia come entità nazionale scomparve persino nella denominazione del nuovo Stato, designato con l’acronimo anazionale «Urss». Limitiamoci a considerare che cosa ciò abbia significato per


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Da sinistra, in senso orario: uno scorcio di Leningrado; Vittorio Strada con Solzenitsyn; ˇ ˇ una scena dal Dottor Zivago; un ritratto di Tolstoj; un ritratto di Pietro il Grande; “Il bolscevico”di Kustodiev; la casa di Pasternak; Pasternak e Majakovskij

quelle che fino ad allora erano chiamate «cultura e letteratura russa». Da un punto puramente descrittivo si deve dire che tale cultura e letteratura si spezzarono letteralmente, e drammaticamente, in due: una parte emigrata e esiliata in Occidente e una parte rimasta, volente o nolente, dentro i confini del nuovo Stato. Si dirà che la situazione non era del tutto nuova, se si pensa che già col vecchio regime zarista non erano mancati gli esuli russi in Europa o, passando a situazioni più recenti, che la Germania nazionalsocialista costrinse non pochi suoi cittadini eminenti nel campo della cultura e della letteratura all’espatrio nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti d’America. Si tratta però di fenomeni non comparabili con ciò che la Russia dovette subire dopo l’ottobre 1917 non solo per la quantità e la qualità dei fuggiaschi, ma anche per la durata del loro esilio: quasi un secolo, tanto che nel democratico Occidente si formò una vera e propria seconda Russia intellettuale e artistica che oggi, anche nella Russia post comunista, è riscoperta come una ricchezza spirituale troppo a lungo sottratta. Quanto a ciò che avvenne per la cultura russofona nella Russia comunista, le cose sono troppo complesse, e in parte note, perché convenga ora parlarne. L’espressione «russofona» è volutamente provocatoria poiché la letteratura russa, sia pure con l’etichetta «sovietica» e sotto l’egemonia comunista e tutto il suo apparato ideologico- censorio, continuò anche nell’Urss, parallelamente alla letteratura e cultura russa in esilio di Bunin, della Cvetaeva, di Nabokov e di Berdjaev, Sestov, Fedotov e poi delle successive ondate di esuli. Tutto ciò apre per lo studioso grandi problemi di analisi che non si pongono per lo studioso di nessun’altra letteratura e cultura moderna. Né può essere trascurato un altro fatto straordinario, cioè che l’ideologia e il regime che si instaurarono nel territorio dell’ex impero zarista dopo l’ottobre 1917 non si limitarono all’ambito dei confini sovietici, ma si estesero con varia intensità a tutto il mondo, creando una sorta di vassallaggio su affiliati e simpatizzanti e imponendo un nuovo linguaggio artificiale che, originariamente espresso nelle forme lessicali e sintattiche dell’idioma dominante dell’Urss, il russo,

era però internazionale, facilmente traducibile in francese, tedesco, italiano, eccetera: era il sovietichese, sostanziato dall’ideologia marxistaleninista adattata a opportune tradizioni nazional-popolari locali, ma sostanzialmente e rigorosamente unitaria. Come sanno gli storici della lingua russa, questa non uscì indenne da settanta e più anni di dominio sovietichese, come indenni, naturalmente, non uscirono la cultura e la letteratura russa dell’era sovietica. Né indenne ne uscì la stessa popolazione russa tanto che i sociologi ancor oggi cercano di analizzare e definire quel particolare tipo antropologico che è l’homo sovieticus.

A risentire di questa anomala situazione furono gli stessi studi russicistici, deformati dall’ideologia del potere, e spesso caratterizzati, nelle aree di egemonia comunista, da complici falsificazioni e autocensori silenzi, magari sotto il manto di un

rale, che forse aiutano a capire le peculiarità dello studio della Russia di ieri e di oggi e i grandi problemi di ricerca da esso aperti, si può concludere dicendo che fortunatamente si tratta ormai di uno studio comune che unisce gli storici russi ritornati alla tradizione di libertà intellettuale del periodo prerivoluzionario e gli storici occidentali, esclusi quei pochi ancora limitati da pregiudizi ideologici «politicamente corretti» che, tra l’altro, impediscono di capire quella che uno storico ha chiamato la «tragedia sovietica», diversa indubbiamente da quella degli altri totalitarismi, ma non meno, anzi più grave. Secondo una facezia sovietica, la Russia è «un paese dal passato imprevedibile», con riferimento al fatto che tra il 1917 e il 1991 la sua storia è stata variamente riscritta secondo il mutare delle direttive ideologiche emanate dal potere comunista, così come, del resto, avveniva anche in altri paesi per le loro storie là dove se non un potere, c’era però una egemonia politico-culturale dello stesso colore. Ma, a ben guardare, quella facezia, in un certo senso ed entro certi limiti, vale per la ricerca storica in quanto tale, che, sulla base di nuove fonti e di nuovi metodi e orientamenti, continuamente si rinnova, in modo talora profondo e inaspettato. Per cui una delle più stolte polemiche del «politicamente corretto» è stata ed è quella rivolta contro il cosiddetto «revisionismo», il quale, quando non è semplicemente una salutare «revisione» di falsificazioni e omissioni, come nel ca-

Una delle più stolte polemiche del “politicamente corretto” è quella rivolta contro il cosiddetto “revisionismo” che, quando non è semplicemente una salutare revisione di falsificazioni e omissioni, riconosce che la ricerca storica è sempre riesame, ripensamento, rielaborazione vacuo accademismo. Ancora un’osservazione. Nell’età staliniana, che è stata quella centrale ed essenziale dell’intera storia sovietica e comunista, e soprattutto nel periodo della seconda guerra mondiale, il regime sovietico inglobò, deformandoli, alcuni elementi del passato culturale russo, rigorosamente selezionati e decristianizzati, nell’ideologia marxista-leninista, creando un amalgama, la cui componente dominante era costituita, naturalmente, dall’ideologia del potere. Si tratta di un fatto interessante, parte di quel fenomeno più vasto e complesso che è la «cultura sovietica» e, al suo interno, il «realismo socialista», oggetti di particolari studi storici. Un tema e un problema a sé sono quelli dell’arte e della letteratura d’avanguardia futurista e costruttivista degli anni Venti, un tempo superficialmente idealizzati quasi fossero un’antitesi alla sovieticità e oggi visti come un momento delle libere ricerche prerivoluzionarie e della complessa formazione della cultura posteriore al 1917. Dopo queste brevi considerazioni d’ordine gene-

so di certa storiografia anche nostrana di partito, riconosce che la ricerca storica è sempre naturalmente riesame, ripensamento, rielaborazione. E questo è vero, in particolare, per quel che riguarda la storia di un paese anomalo, ambiguo, travagliato come la Russia, oggi finalmente, almeno nella sfera intellettuale, libera. Si tratta oggi di una ricerca storica plurima comune, russa e occidentale, con la differenza che per gli studiosi russi è in gioco molto più di un interesse puramente accademico poiché si tratta per loro di definire in modo nuovo l’identità presente e passata del loro paese, oltre che la prospettiva del suo futuro, entro un orizzonte globale e non soltanto europeo. Da questa libera ricerca culturale dipende in parte la sorte stessa di quel «rompicapo avvolto in un mistero all’interno di un enigma» che per molti resta pur sempre la Russia. La domanda che ci si pone è però se la soluzione di questo «rompicapo» oggi interessi la cultura in generale o non sia piuttosto soltanto appannaggio degli specialisti studiosi della Russia.


video Eccezziunale atto secondo MobyDICK

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TV

un ritorno sprecato O

di Pier Mario Fasanotti

perazione pericolosa quella dei remake. Se poi la riproposizione del soggetto, sia pure con varianti, viene affidata allo stesso attore di una volta si rischia di sorridere appena invece che ridere. La comicità è essenzialmente sorpresa. E questo è quel che manca in Eccezziunale veramente, atto… secondo me, firmato Vanzina, Rai 2. Il sottotitolo non c’è. Ma lo scriverei comunque: «Lo spreco». Spreco di un talento come quello di Diego

web

Abatantuono che, nel rigagnolo nostalgico della commedia all’italiana, rifà il milanese e «il terrunciello». Il primo film risale al 1882, fece (molta) cassetta e disse la sua nelle imitazioni, nelle smorfie, nel gergo. Oggi è minestra riscaldata. Non basta Sabrina Ferilli con scollature generose, tacchi alti, parlata ciociara -un alter ego dialettale di Diego - spontaneità di brava attrice che, come lei stessa ha rivelato, ha voluto uscire, per un po’, dal guscio drammatico. Ma questa sua «vacanza» l’abbiamo pagata per intero noi telespettatori. Il film non aveva l’intenzione di rileggere e riaggiornare il bene e il male delle tifoserie calcistiche, le invenzioni linguistiche e la deriva violenta (stavolta rappresentata con quasi-maschere nazifasciste: sfilacciatamene comiche solo perché non riuscite). Ha detto Abatantuono: «Purtroppo vedo che il clima calcistico è cambiato poco. Nel primo film il massimo della ”violenza”dei tifosi era rappresentato dalla gag della buccia di banana mentre in questo film non c’è neanche quella. Il messaggio che abbiamo voluto racchiudere in questa pellicola, è proprio quello della non violenza all’interno di questo sport».\\u2028 Enrico Vanzina sostiene che il perno è lo sfottò, il divertimento, la bonaria presa in giro. Peccato, comunque, che un attore come Abatantuono che in questi quasi ultimi vent’anni si è dimostrato all’altezza dei ruoli assegnatigli da registi ottimi come Gabriele Salvatores e Pupi Avati, si sia messo a baloccarsi con i vecchi giocattoli di un cabaret logoro, buono solo per amarcord a tarda serata tv. Lo ricordiamo in Io non ho paura, in Marrakesh, in Mediterraneo (Salvatores), in La cena per farli conoscere (Avati). Di grande statura. Ha voluto divertirsi con le gag di inizio carriera. Ma non le ha reinventate. Non fanno ridere frasi come «Mi si è chiusa la bocca dell’inguine», «La classe non si sciacqua», «Sei un retroverso, hai il carattere come un utero». E Vanzina fa salire sul piccolo palco il milanese bauscia (con una parlata improbabile), il siciliano mafioso, il napoletano lagnoso. Le fotocopie non piacciono.

games

dvd

EUROPEI 2008: FISCHIO D’INIZIO ONLINE

UN CALCIO “PORTATILE” ALLA NEXT-GEN

L’AFRICA SENZA RICATTI

I

nizia l’estate degli Europei di calcio. Austria e Svizzera si preparano a ospitare i tifosi che andranno allo stadio, mentre il nuovo portale della Uefa, Uefa2008.uefa.com, si prepara a ospitare tutti gli altri. A partire dalla scorsa settimana e fino a europei conclusi, il portale racconterà tutto ciò che i calciofili vorranno sapere delle squadre partecipanti, delle partite e dei giocatori im-

L

a serie Pro Evolution Soccer di Konami è universalmente riconosciuta come la “Bibbia” della simulazione calcistica su console (e, negli ultimi anni, anche su personal computer). L’ultima edizione (Pes2008), però, pur raggiungendo notevoli risultati di vendita sia su Xbox 360 che su Playstation 3, ha provocato una vera e propria rivolta degli appassionati, a causa

U

Il sito della Uefa offrirà una costante copertura live e quotidiani aggiornamenti sui giocatori

La versione Psp di “Pro Evolution Soccer” è addirittura migliore di quelle Ps3 e Xbox 360

Manfredonia e Covatta raccontano con sguardo limpido e senza vittimismi un paese difficile

pegnati. Il portale, annunciato con un conto alla rovescia che campeggia di fianco al titolo, offrirà una «copertura live: diversi reporter aggiorneranno sui vari avvenimenti direttamente dai campi di gioco e dalle sedi di allenamento, il tutto in 10 lingue differenti; aggiornamenti quotidiani sui giocatori: all’informazione sportiva sulle squadre si aggiunge un resoconto dettagliato di tutti i 368 convocati delle varie nazioni; personalizzazione dell’esperienza: scegliendo la propria squadra sarà possibile avere informazioni specifiche relative al team indicato».

degli innumerevoli difetti che affliggono il gioco (soprattutto nella gestione dei “replay” e nelle sfide online). Per ridare smalto alla propria immagine, Konami ha deciso di puntare forte sulla versione - strana ma affascinante - per Nintendo Wii e, soprattutto, su quella per la Playstation portatile di Sony. La critica specializzata ha già definito Pes2008 per Psp migliore delle sue controparti next-gen. Forse è un po’ troppo, ma di sicuro - se volete giocare a calcio con una console portatile - in giro non troverete niente di meglio.

rio improduttivo, l’Africa raccontata dal regista con la preziosa collaborazione di Giobbe Covatta, non ha però alcuna mira estetizzante né pauperistica. Il comico di Parola di Giobbe, da tempo impegnato in prima linea con i bimbi africani, racconta un mondo assai difficile ma per niente cupo, dove a onta di grossi disagi materiali, si sorride e ci si dà da fare senza alcun tipo di vittimismo. Tra gag comiche e amarezze appena affiorate, il lavoro di Manfredonia tocca il cuore dello spettatore senza alcun ricatto emotivo. Un’opera lieve e genuina che scioglie in un sorriso ciò che ormai non ci fa piangere.

n colbacco di finta pelliccia, che arriva in Africa fra gli aiuti umanitari, destinato a non si quale sollievo. È l’immagine più paradossale e fuorviante, tra le molte colte dallo sguardo terso di Giulio Manfredonia in Sono stato nero pure io, che meglio individua l’estrema supponenza e l’approssimazione con cui la civiltà del benessere guarda al Terzo Mondo. Ormai infarcita di retorica, e saturata da un immagina-


cinema

MobyDICK

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Charlie & Aleksandra di Anselma Dell’Olio harlie Bartlett è un insolito film adolescenziale, sghembo, dissacrante, spiritoso. L’omonimo eroe, il dotato e sensibile «attor giovane» d’origine russa Anton Yelchin, è «emerso» all’età di dieci anni nel 2001, come il protagonista Bobby Garfield di Cuori in Atlantide, dal romanzo di formazione di Stephen King. Yelchin è figlio di due campioni di pattinaggio artistico e nipote di un nonno calciatore professionista. Nato a Leningrado, i genitori sono emigrati negli Stati Uniti quando aveva sei mesi. Ha scelto la recitazione da bambino, respingendo i tentativi dei genitori di farne uno sportivo come loro. Vorace lettore, giocatore di scacchi, suona chitarra e pianoforte e ha una band. È difficile immaginare un attore più perfetto per il diciassettenne Charlie, ottimo studente, motivato e pià maturo dei suoi anni, espulso dall’ennesimo collegio privato per falsificazione e spaccio di documenti d’identità. Alla svampita, dolce, distratta e depressa mamma Marilyn (la sempre attendibile Hope Davis, che era sua madre anche in Cuori in Atlantide) non resta che mandarlo alla scuola pubblica per l’ultimo anno di liceo. Ma prima gli dice: «Così impari che essere benvoluto non è la cosa più importante». «E qual è allora?», chiede il figlio. «Ora non mi viene in mente», risponde Marilyn.

C

Come di consueto, al centro delle ossessioni di un’età delicata è quella di carpire il mistero della propria sfuggente identità attraverso l’agognata popolarità con i coetanei. A inizio film, Charlie s’immagina su un palcoscenico, osannato dai suoi pari in platea. Ha

l’accortezza di non arrivare a scuola il primo giorno nella limousine di famiglia. Ma vestito in blazer blu con stemma in latino sul petto e una ventiquattrore in mano, sulla scuola bus l’unico che gli permette di sedergli accanto è un ragazzone ritardato. Viene salvato dal bullo della scuola, che come benvenuto gli ficca la testa nel water, dall’arrivo del preside Gardner, altro punto di forza del film, il mai troppo lodato Robert Downey Jr. Professore di storia abbandonato dalla moglie, una figlia da crescere all’ultimo anno del proprio liceo, promosso controvoglia preside, l’attore dà il meglio di sé nel ruolo di un uomo in piena crisi d’iden-

re ma pronti a far assumere ai figli ogni sorta di farmaco purché prescritto da un medico. In realtà, le motivazioni per le anomale avventure di Charlie sono ben più complicate di come sembrano. C’è il mistero dell’assenza del padre, un facoltoso finanziere, che sarà rivelato solo a racconto avanzato, che fa capire anche il depresso smarrimento della madre, se non il suo appoggiarsi a Charlie come se il vero adulto fosse lui. Opera prima del regista Jon Poll e dello sceneggiatore Gustin Nash, il film è stato apprezzato al Festival di Tribeca 2007; meglio tardi che mai, ora arriva da noi.

L’opera prima di Jon Poll, sulla crisi di identità di un ricco adolescente, è una scanzonata favola morale. Mentre il film di Alexander Sokurov sulle macerie materiali e umane generate dai conflitti ha un respiro più ampio di qualunque pellicola pacifista... tità, speculare a quella di Charlie. I due entreranno in rotta di collisione quando il ragazzo non solo corteggia sua figlia Susan (Kat Dennings) ma diventa pure psichiatra ad hoc e spacciatore di psicofarmaci della scuola. Le sedute psicoterapeutiche avvengono nei gabinetti scolastici; poi l’intraprendente autodidatta finge i sintomi dei compagni di scuola con analisti vari a disposizione della facoltosa famiglia, fin troppo pronti a prescrivere Ritalin, Xanax, Prozac e altri farmaci-scorciatoia. È una scanzonata favola morale che tra le righe sfotte l’ambiguità degli adulti, contrari all’uso di droghe legge-

Aleksandra è diretto e scritto da Alexander Sokurov, uno degli autori russi contemporanei più raffinati, idolo della giovane generazione di autori del cinema indipendente del suo paese. L’arca russa (2002) è un viaggio attraverso la storia russa, girato all’Hermitage di San Pietroburgo in un unico piano sequenza di 96 minuti; la sua trilogia del potere è composto da Il sole (2005) sull’imperatore Hirohito e gli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, Moloch, un giorno nella vita di Hitler (1999) e Taurus, su Lenin morente (2001). Ma Sokurov ha fatto molti altri film e do-

cumentari, e ha collezionato premi ai festival di Berlino, Cannes, Mosca, Toronto e Locarno. Aleksandra era in concorso a Cannes l’anno scorso e ha raccolto lodi adoranti dai critici più vari. I film del russo non sono mai d’ovvia lettura e comunicano su piani diversi. L’anziana protagonista è Galina Vishnevskaya, la leggendaria soprano russa, vedova del violoncellista Mstislav Rostropovich. Aleksandra è la nonna di Denis (Vasily Shevtsov), un capitano dell’esercito russo di stanza in Cecenia che lei non vede da sette anni. Rimasta vedova, intraprende il lungo e scomodo viaggio per rivederlo. Il film è stato girato interamente in Cecenia, ma non si vede mai un combattimento, solo la polvere, le armi, le tende, la routine, i cingolati e la noia di una base militare in zona di guerra. Una scena sorprendente è il risveglio di Aleksandra nella tenda dove s’è addormentata da sola la notte del suo arrivo: c’è un soldato sdraiato nella branda accanto. Lei si alza e ispeziona minuziosamente il militare dormiente, quasi annusandolo. Solo lentamente si capisce: sta cercando di accertare se l’impolverato guerriero sia l’adorato nipote che ha lasciato poco più che adolescente sette anni prima. La gioia dei due nel ritrovarsi è contagiosa. Aleksandra non è il film più facile per entrare nel mondo di Sokurov, ma pur essendo «d’essai», merita d’essere visto per l’assenza di luoghi comuni sulla Cecenia e la larghezza di sguardo. Sokurov è figlio di un militare di professione, cresciuto in una serie di basi militari. Se oltre che dell’ottuagenaria Aleksandra, si pensa che gli occhi del film siano anche quelli d’un bambino, forse si capisce meglio l’incanto-disincanto di quest’opera. Ci sono parole e immagini che trasmettono tutta la gravità delle macerie materiali e umane dei conflitti - qualsiasi conflitto - ma l’opera ha un respiro più ampio di un qualunque film pacifista. Aleksandra è soprattutto sguardo e non detto, con dialoghi brevi e pregnanti. Si registrano le complicazioni dell’uso sistematico delle armi, ma anche quelle della libertà, della solitudine, delle donne, del matrimonio, della virilità, della patria e di molto altro ancora.


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Siete crudeli e invidiosi, voi dei, più di ogni altro, voi che impedite alle dee di giacere con un mortale apertamente, amandolo come sposo. Così quando Aurora si legò a Orione, voi che avete una vita facile lo braccaste finché Artemide la casta la raggiunse nell’isola di Ortigia e lo uccide con le sue frecce. E quando Demetra dalle belle chiome si unì a Iasonei in un campo tre volte arato, cedendo al desiderio, Zeus fu ben presto informato della cosa e lo uccise, lo uccise con un fulmine abbagliante. Così ora invidiate me, dei immortali, perché giaccio con un uomo mortale. Io lo salvai, giunse qui naufrago aggrappato alla chiglia di una nave. Era solo: Zeus gli aveva spaccato e affondato la nave col solito fulmine, in mare aperto. Tutti morirono, i suoi prodi compagni, Lui invece fu portato dal vento e dall’onda lungo la vasta distesa del mare E lo spinsero qui, sulle rive di quest’isola. E io lo accolsi con amore, lo nutro e lo disseto e lo volevo rendere immortale, immune per sempre da vecchiaia. Ma poiché non è dato a nessun dio Disobbedire agli ordini di Zeus, se ne andrà, se è questo che quello là vuole. OMERO dall’Odissea (Traduzione di Roberto Mussapi tratta da Tanti baci ci vogliono a baciare, Salani)

LA CROAZIA DI MIROSLAV KRLEZA in libreria

di Loretto Rafanelli

a traduzione di Le ballate di Petrica Kerempuh di Miroslav Krleza (a cura di Silvio Ferrari, Einaudi, 245 pagine, 15,00 euro), permette al lettore italiano di avvicinarsi a un paese a noi geograficamente molto vicino, ma allo stesso tempo molto lontano sotto l’aspetto culturale, la Croazia. L’opera di Krleza (nella versione del 1946), considerato forse il massimo scrittore croato del Novecento, svela un tratto della cultura di un paese che le tante amare vicende storico-politiche hanno isolato a lungo. Petrica Kerempuh, il personaggio chiave della raccolta, figura che riecheggia Till Eulenspiegel del romanzo di Coster, assai presente nella tradizione letteraria del centro Europa, è il saccente, comico, dannato, ma anche colto e sapiente, fustigatore dei vizi e dei delitti delle classi alte, nonché il difensore accanito e viscerale dei

L

Nelle “Ballate di Petrica Kerempuh” la voce di un paese geograficamente vicino ma culturalmente lontano contadini, ridotti a schiavi dai nobili e dagli invasori di turno (turchi, veneziani, magiari, austriaci, ecc). Krleza fa di Petrica il narratore, in «diretta», delle vicende terribili (eccidi di contadini, rivolte represse, abusi intollerabili, ecc.) che hanno attraversato la Croazia nel corso del periodo che va dal XV secolo fino al Novecento. L’autore, a cui anche Magris in Danubio rende omaggio, costruisce un quadro tracciato col sangue dei derelitti di quel paese, la storia della sofferenza di un popolo plebeo. Ma egli, grande glottologo, si pone anche come difensore della lingua croata, quindi dell’identità nazionale minacciata. Krleza ci appare a volte un po’caotico ed eccessivo, ma pure in possesso di una notevole forza espressiva, con tratti che ricordano i migliori espressionisti, nonché il poeta Villon. Divenne una sorta di coscienza nazionale, anche per la sua alta integrità morale e per l’opposizione allo stalinismo.

poesia

Il tatuaggio di Calipso: l’ins di Roberto Mussapi un momento nevralgico della storia di Ulisse, e, dato il significato di questa storia per l’umanità, un momento fatale: il dio messaggero del Pantheon scende alla grotta sottomarina di Calipso, recandole la decisione di Zeus: deve liberare Ulisse dall’incanto con cui lo trattiene nel suo regno fatato, l’eroe deve ora far ritorno a Itaca, la piccola isola di cui è re e da cui era partito, per combattere la lunga guerra contro la città di Troia, con contributi che sappiamo decisivi. Non dobbiamo immaginare Ulisse incatenato, e nemmeno prigioniero: è ammaliato, infatti di notte si congiunge alla bellissima Calipso, di giorno piange e pensa a Itaca, e alla moglie Penelope. Una condizione umana assoluta, volere e disvolere lo stesso oggetto, ma anche una dimensione ulteriore: sognare il ritorno al mondo effimero e mortale degli umani, a una moglie che come lui invecchia, e nello stesso tempo essere incantato dalla bellezza immortale della dea Calipso e del mondo divino in genere. Ulisse, per volontà propria e degli dèi, in una commistione di energia e destino così simile alla vita, sceglie gli umani, i morituri, mentre Calipso gli avrebbe donato immortalità, statuto divino. È un momento fatale perché la dea si ribella contro il suo proprio mondo, il Pantheon gre-

È

co, mostrando uno straordinario amore per l’umano. Calipso ama totalmente Ulisse, come solo il divino, in forma femminile, quindi più bella e prossima ai misteri della natura, può amare. E rinfaccia la sua anomala situazione a Zeus e al suo concorso di dèi adulteri, stupratori, incestuosi, contrapponendo al loro mondo di inscalfibile immortalità il suo amore per un uomo solo, naufrago, povero. L’Odissea, il poema in cui nasce la letteratura di viaggio e d’avventura, e in cui si profila con potenza insuperata l’anelito conoscitivo inscritto nella poesia, ci presenta un viaggiatore naufrago e in lotta col mare. Poseidone, il signore delle onde, è il vero nemico di Ulisse, e il mare è il regno dell’ignoto. Ulisse deve sfuggire a Polifemo e ai Ciclopi, esseri giganteschi che hanno un solo occhio, e quindi una visione fissa, incapace di orizzonti laterali, esseri che rimandano a un’età antica dell’uomo, alla primigenia angoscia dell’abisso. E, in mare, ecco apparire l’isola dei Lotofagi, i mangiatori del fiore che reca oblio, fino a farti smemorare la tua origine, la tua meta, lo scopo per cui stai viaggiando e sei partito, e quindi il tuo nome, la tua stirpe, il tuo posto e il tuo ruolo nel mondo. Dal mistero marino appaiono i mostri dell’abisso, i signori dell’ignoto che affascina e incanta ma può condurre alla

il club di calliope LE VERE PAROLE Le vere parole pronunziate senza supremazia scarne d’informazioni, le frasi di un senso altro dal dire d’ogni giorno si generano dall’informe oggi come ieri, tempo nel tempo. Essere per esse è uno scopo, come si svela la ragazza che incrocia veloce, i capelli neri sciolti, e ti saluta e ti redime. Come anche lo schianto invisibile del tuono, lo scoccare silenzioso d’un’immagine mnemonica, e qualcuno lo vede, e qualcuno la sente. Giovanni Piccioni


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saziabile ansia di conoscenza rovina. I veri nemici dell’uomo in mare, di isola in isola, di sponda in sponda, ossesso nella volontà del ritorno, non sono soltanto i miraggi incantevoli, non sono quindi gli allettamenti di Calipso e di Circe, ma esseri che negano civiltà e memoria, cancellando il tempo: i bestiali Ciclopi, i mangiatori di loto. Il più pericoloso di tutti questi esseri annichilenti è una creatura mostruosa, in parte donna in parte uccello, che appare su un’isola nel mare baluginante, nelle ore di bonaccia, ore dall’incanto malefico e paralizzante, un essere dal fascino irresistibile, il cui canto trascina i naviganti verso l’abisso. Era stata Circe, la maga incantatrice, a predirgli il primo pericolo nel suo viaggio di ritorno verso Itaca, da cui salvarsi facendosi legare all’albero, a cui non cedere pena la scomparsa nell’abisso: le Sirene. Non la sospensione del tempo nel canto di Calipso, che reca Ulisse in un altro mondo di voce e sogno, nella grotta subacquea: Calipso resta comunque una realtà iniziatica in Ulisse: dopo la convivenza con la splendida creatura semiacquatica e divina non sarà più l’uomo di prima, e infatti il suo ritorno, propiziato dalla stessa dea, costretta all’obbedienza, che lo aiuta a costruire la zattera con cui la lascerà per sempre, sarà un volo fatato. Dopo tutte le traversie, gli affanni, i pericoli mortali e i lutti, l’ultima tappa verso Itaca,

grazie a un provvidenziale naufragio, sarà il breve soggiorno alla corte dei Feaci, esseri magici, leggeri, fatati, governati dal buon re Alcinoo, che accoglie con letizia l’ospite, mentre la sua figlia, Nausicaa, giovanissima, si innamora dell’eroe esule e bruciato dal sale. Ma questa volta Ulisse, che aveva ceduto al fascino di Circe, prima, e poi di Calipso, è ormai impermeabile alla seduzione delle femmine divine o magiche, è iniziato a quel mondo. Una barca senza remi lo condurrà quasi volando alle rive di casa. Ulisse torna a Itaca, e con il ritorno al corpo di Penelope e al letto costruito con le sue mani da un olivo, si conclude il poema. Ma un mito racconta che un giorno, preso dall’insaziabile ansia di conoscere ancora, di avventurarsi oltre, si riunirà ai vecchi amici, salperà di nuovo, per l’ultimo viaggio, oltre il confine stabilito, le Colonne d’Ercole. È il mito da cui nasce l’Ulisse di Dante. Credo che quel desiderio di ripartire, di andare oltre, di non fermarsi, fosse il segno, il tatuaggio lasciato nel suo cuore dall’incontro con Calipso, dalla sua rapita congiunzione con il corpo e la voce di una maga del mondo divino. Lì, in quella grotta dove lei aveva regno e alcova, aveva intuito qualcosa di misterioso e segreto, inaccessibile da terra, da riva, e salpò per trovarlo, altrove, oltre le Colonne d’Ercole, per l’alto mare aperto.

UN POPOLO DI POETI < Ti vedo. Finché non senti dolore non vedi rubino e l’acquiluvio esce dall’interno glissando sul tuo ruvido. Adesso passa passa che un tuffo tra la chioma smeralda e friabile vale a terra il poco suolo dell’acqua di quando piove. Incarta i tuoi sottilmente lascia presagire alle conchiglie il momento buono per andare. Silvia Malavasi

< M’abituo al vuoto, alla ridotta mensa di un tramonto. Non so scrollare la condotta dal mio peso, di uno sciame contro il cuore. Ormai disteso tra le ombre. Sei amata, regola infranta, illustrata in una oltranza senza più occhi? Verità caduta in un forse, corto pensiero senza sfogo, congelato in queste morse. Eppure oggi contro i dolori biechi lo affogo. Gianna Pinotti

< Non c’è altro mondo che la schizofrenia della valle e del giardino stirarsi come un lungo serpente sul limite di ogni nervo mantenere la coda oltre il recinto ancorata all’albero della vita quando la testa è già consunta tra le pietre col terrore del colpo di machete.

non c’è altro modo di essere integri nella realtà non perdere la visione.

Marina Moretti

«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata agli autori ancora sconosciuti. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale inviarli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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MOSTRE

Feroce, ironica, maliziosa

Mona Hatoum di Marco Vallora i prenda un marito, un compagno, o un signore qualsiasi necessariamente villoso, lo si metta nudo e insaponato sotto una doccia, e dei suoi peli manipolati sulla schiena si frizioni la nera schiuma, ottenendo delle rotanti serpentine stellate, alla Van Gogh, che evocano una sua celebre veduta notturna. Oppure si prenda un classico scolapasta, lucido di alluminio e si introducano in tutti i fori dei bulloni, che rendano quel cranio lucido una sorta di granata da casa, allarmantemente bella. Non si pensi a delle «ricette» da ready made, vedendo le accalappianti e scostanti opere di Mona Hatoum, che sono comunque oggetti trovati ma truccati, con ferocia e ironia. Lei stessa, emigrante libanese figlia di genitori palestinesi in fuga da Haifa, che ha studiato nel clima più cool e minimalista della Londra anni Settanta, e che non è più potuta tornare in patria per lo scoppiare della lacerante guerra civile che ha crivellato di orrore Beirut, ci ricorda che non si tratta di facili ricette: «La gente vuol sapere che cosa nelle mie opere derivi dalle mie radici culturali. Come se io seguissi una ricetta o fossi in grado di isolare l’elemento arabo, o quello femminile, o quello palestinese». C’è tutto un po’, in quelle sue opere stranamente surreal-minimaliste e maliziose, come quella panchina da parco parigino, Banc Publique, sulla cui base di metallo sta come crescendo un piccolo praticello, imbarazzante, di peli

S

arti

pubique della stessa artista, che non sai davvero che partito prendere: se sedere, creando strani mercimoni anatomici, o risparmiare quella curiosa piantatura femminile, che non è la sola pilifera, in questa «casa» impossibile, nomade, dell’«instabile» Hatoum. Che costruisce delle intriganti Keffieh fatte di suoi capelli, griglie estetiche con serpentelli satanici, che fuoriescono dalla solida struttura ghibertiana, così come rettili sinuosi e sibilanti sono i cordoni elettrici, che cospargono la sala di lampadine friganti a terra, che non concedono mai una fruizione rilassata e rassicurante. L’Unheimlichkeit, come lo chiamava Freud e lo spiegava Otto Rank, nel suo celebre saggio sul Doppio: il perturbante (si provi a bere in quella tazza doppia e fusa insieme, a due conche collegate a seno, che rende impossibile ogni dissetarsi. Mangiare, ricamare, procreare: cose da donna, che qui si vendicano con risata alla Artaud. Il vecchio macinino da verdura, il «passino», si gonfia nero sino a parere un insetto kafkiano, annidato nella stanza in elettrica penombra (il riferimento allo scrittore è della Hatoum stessa, che ammette lo choc della lettura della Colonia Penale). La grattugia diventa un paravento che affetta la nudità senza proteggerla, come quella ciocca molle di capelli arruffati, che fuoriesce da due valigie d’emigrante, alla Gober, ormai cementate insieme, titolo-Tati di Trafic (non stupisce che il primo libro d’arte, che ha attirato l’attenzione di questa straordinaria artista fosse di Magritte). Una tavola minuziosamente preparata, ma la superficie dei piatti è sostituita da un monitor, che ci fa entrare dentro il corpo dell’artista altro che nudo! - grazie a un’indagine endoscopica, che ci porta dalla mucosa della bocca a quella dell’ano e via risalita: Gola profonda, perfida vendetta contro-porno. Ha ragione il saggista palestinese Said: «Familiarità ed estraneità sono in lei contigue e al tempo stesso inconciliabili». Inconciliata, grandissima Hatoum.

Mona Hatoum. Undercurrents, Ferrara, Palazzo Massari-Pac, sino al 10 giugno

autostorie

A lezione di guida da Giancarlo Fisichella di Paolo Malagodi ato a Roma nel gennaio 1973 e attivo in Formula 1 da ormai tredici stagioni, Giancarlo Fisichella è uno dei piloti con più lunga carriera e, dopo l’esordio del 1996 con la Minardi nel massimo campionato, ha militato in diverse scuderie tra le quali Benetton e Renault, con alcune vittorie e svariati piazzamenti colti nei numerosi Gran Premi disputati. Un patrimonio di esperienza e notorietà, che il campione romano ha deciso di mettere a disposizione dei comuni automobilisti, per contribuire a un miglior comportamento al volante soprattutto da parte dei giovani, purtroppo spesso protagonisti del triste fenomeno bollato dai media come «le stragi del sabato sera».

N

In collaborazione con il giornalista Leo Turrini è stato così scritto un libro (Ma chi ti ha dato la patente?, Mondadori, 120 pagine, 14,00 euro), la cui idea è nata a un incrocio. «Nel senso letterale del termine, assistendo - come racconta Fisichella - alle manovre quantomeno spregiudicate di automobilisti poco attenti alle norme del Codice della strada, mi sono convinto che ci sia ancora tanto da fare per contribuire a incrementare il tasso di educazione civica di chi ha le mani sul volante. E ho immaginato potesse essere carino, da parte mia, tentare di trasmettere ai cittadini quel bagaglio di esperienze che è figlio di una vita dedicata alle macchine, alle competizioni, alle corse». Non poteva, perciò, che essere la velocità uno dei temi affrontati da chi, come pilota, non ha mai condiviso

le tirate moralistiche contro l’automobilismo sportivo, dichiarandosi «convinto che il desiderio della competizione tramite l’uso di un mezzo meccanico appartenga alla natura dell’essere umano, o almeno di molti esseri umani. Ma ciò che è sbagliato è trasferire questo istinto, questa indole, per la ricerca del limite, in un contesto che è assolutamente estraneo all’esercizio dell’agonismo a bordo di un’automobile». Partendo dal presupposto che la sua carriera l’aveva ben presto portato a lasciare la strada a vantaggio della pista per iniziare dalle gare su kart, ecco che il consiglio di Fisichella ai giovani conducenti è di cercare il modo giusto per interpretare a fondo le tecniche di guida veloce, senza rischiare la propria vita e quella degli altri. Rivolgendosi, semmai, a qualche circuito

privato e cominciando a fare esperienza dai kart, «un mezzo ideale per sfogare la voglia di velocità e per dimostrare di essere abile con un volante tra le mani». Molti altri sono i temi affrontati, con disincantata autoironia e tradotti in linguaggio frizzante, da un libro che esamina anche i comportamenti tipici degli automobilisti italiani, nel lungo elenco ispirato a una nota canzone di Enzo Jannacci e con casi del tipo: «Quelli che se li becca l’autovelox al volante mica c’erano loro, ma la nonna che è sempre stata una fanatica della velocità». Affatto bonaria è, invece, l’opinione di Fisichella - testimonial, tra l’altro, di una birra analcolica - su chi guida in stato di ebbrezza, ammonendo che «Se bevi e ti metti al volante, allora sei un idiota sanguinario».


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31 maggio 2008 • pagina 15

ARCHITETTURA

Napoli com’era dal Quattrocento all’Ottocento di Marzia Marandola edicato all’immagine di Napoli e provincia, questo volume è parte di un progetto scientifico, finanziato dalla Regione Campania e coordinato da Cesare de Seta e Alfredo Buccaro per il Centro interdipartimentale sull’iconografia della città europea dell’Università di Napoli, che dispiega una collana sull’iconografia delle città campane. Sostenuta da sistematiche ricerche essa confluisce in un archivio informatizzato dell’iconografia urbana della regione. La rappresentazione di Napoli e dell’area napoletana tra XV e XIX secolo, prima che l’avvento della fotografia sottraesse alle vedute il valore di documentazione storica, è l’oggetto del volume, sostenuto da un censimento delle fonti e da chiari criteri che includono vedute in prospettiva e a volo d’uccello, piante zenitali, rappresentazioni funzionali alla conoscenza globale della forma urbis e del suo sviluppo. Le immagini del volume, tratte da dipinti a olio, da acquerelli, da incisioni, dispiegano un godibilissimo ritratto urbano che, tradotto in digitale, è in rete su www.iconografiaurbana.it, a disposizione di studiosi e semplici appassionati. Dalla fiabesca tavola Strozzi, risalente al Quattrocento, alla nitida incisione di Antoine Lafrery e Stefano Dupé-

D

rac, le immagini di Napoli attestano la prevalenza della vista dal mare, almeno fino alla seconda metà del Settecento, quando si afferma la veduta dalle colline. Spetta all’Ottocento il dubitevole merito dello stereotipo, ancora in auge, di Napoli da Posillipo, con il pino in primo piano e il Vesuvio sullo sfondo. La magnifica pianta settecentesca di Giovanni Carafa duca di Noja, segna il trionfo di moderni metodi cartografici, sulla falsariga di quelli adottati da Giambattista Nolli per la celebre pianta di Roma del 1748. Oltre a Napoli, il volume illustra anche i dintorni della capitale vicereale: i campi Flegrei e Castellammare, spingendosi fino a Paestum, Ischia e Procida, luoghi che artisti e viaggiatori disegnano ap-

passionatamente. Il vulcano in eruzione del 1631, anno di attività straordinaria del Vesuvio, diviene per alcuni anni tema principale delle rappresentazioni. Oltre il limite topografico di Paestum, le rappresentazioni si fanno rare: in realtà Napoli sembra compendiare, nell’immaginario geografico europeo, l’intero Sud d’Italia, a esclusione della Sicilia. Sono infatti rarissime le vedute abruzzesi, molisane o lucane. La raccolta non è limitata solo alle vedute di artisti o alle incisioni, ma si estende anche agli archivi, in primis l’Archivio di Stato di Napoli, alle raccolte italiane e straniere, alle biblioteche pubbliche e private, rintracciando raffigurazioni inedite e di varia destinazione. Sono presenti topografie allegate alle controversie di confine tra Stato Pontificio e Regno di Napoli, quelle che corredano i progetti settecenteschi di nuove infrastrutture idriche e viarie, come gli inventari di confisca dei beni ecclesiastici. La fantasmagorica raccolta diviene pretesto per studi sulle tecniche cartografiche antiche e moderne, sul significato simbolico dell’imago urbis, su approfondimenti di carattere storico e topografico, che fanno del volume un’esemplare storia illustrata di Napoli e dell’immaginario che la città ha suscitato nei secoli.

Iconografia delle città in Campania. Napoli e i centri della provincia, a cura di Cesare de Seta e Alfredo Buccaro, Electa Napoli, 416 pagine, 60,00 euro

MODA

Da Carla Bruni in poi il viola è glam di Roselina Salemi

ra il colore della Quaresima, penitenziale, funereo, persino iettatorio. Era il colore del mezzo lutto che andava a spezzare il nero della vedovanza. Ed è ancora evitato, senza dirlo, nei teatri e nel mondo degli artisti, come quel gatto nero che ci attraversa la strada. Eppure, potenza della moda, ogni antico ostracismo è stato travolto da un esercito di sfumature dai nomi fioriti: mauve, lilla, glicine, iris, lavanda. Il viola è diventato glam. Non è certo chi sia stato il primo stilista a sdoganarlo. C’è chi ricorda tonalità ametista con accenni di rosa nel Gucci di Tom Ford, chi ritrova il porpora in alcune non recentissime collezioni di Alberta Ferretti, chi cita due mi-

E

tiche uscite di Cavalli e Dolce&Gabbana nel 2004. Ci hanno provato in tanti, a illuminare il grigio dell’inverno con un tocco di viola, ma l’idea è non è mai diventata vera tendenza. Ci voleva lo zeitgeist, lo strano fenomeno per cui le bambine nate in certo anno si chiamano Giulia e gli stilisti, in una certa stagione, scelgono lo stesso colore. All’improvviso il viola diventa un must per ereditiere e principesse, rockstar e modelle. Fa contenta Ambra Angiolini e diverte Cate Blanchett (in Armani a Cannes), avvolge come una carta stagnola quel delizioso cioccolatino di Mischa Barton e quella simpatica casalinga disperata di Marcia Cross. Le donne che hanno sempre amato, quasi vergognandosene, questo colore sensuale e in qualche modo misterioso, scenografico senza essere appariscente e drammatico senza essere teatrale (per portarlo bisogna avere carattere), finalmente si prendono la giusta rivincita. Altre, meno coraggiose, hanno aspettato il debutto di Carla Bruni alla corte d’Inghilterra: le foto del suo tubino con cappotto viola hanno fatto il giro del mondo. Anche se all’epoca, quella che gli inglesi hanno battezzato «la nuova lady D», ovvero Eugenia, figlia del principe Andrea e di Sarah Ferguson, appena diciottenne, aveva già posato per la copertina di Tatler, con

un abito porpora di Ralph Lauren. Insomma, per l’estate, il purple dress, è glam, è chic, è cool. E anche quelle che ti guardavano male pensando a paramenti sacri, riti funebri e comunque circostanze luttuose, o abbinavavo il colore a una qualche stravaganza, al desiderio di farsi notare, considerano la possibilità di un abitino fucsia con il bordo di pizzo, stile Carmen Elektra. Quanto alla sfortuna, per chi ancora avesse qualche dubbio, Mariolina Venezia si è presentata in viola alla serata finale che l’ha incoronata vincitrice del Premio Campiello con Mille anni che sto qui. Per non citare la mamma di Harry Potter, Joanne K. Rowling, in un sublime mauve al Galaxy Book Award. O l’avvocato Annamaria Bernardini de Pace, che ha sempre sfoggiato cappe e stole, vistosi anelli e velluti viola, migliorando il fatturato. Certo, è possibile che, vivendo tempi già abbondantemente penitenziali (la crisi europea, i mutui americani, la manodopera cinese, i conflitti etnici), ci tocchi scoprire di aver sbagliato tutto, tranne il colore.

Cate Blanchett in Armani a Cannes. A sinistra Carla Bruni con il marito Nicolas Sarkozy in visita ufficiale in Gran Bretagna


MobyDICK

pagina 16 • 31 maggio 2008

I MISTERI DELL’UNIVERSO

ai confini della realtà

Strade e ponti Italia del tempo dell’impero romano è nota, fra l’altro, per l’immensa attività costruttiva di strade e ponti da parte degli ingegneri romani, i cui manuali di costuzione sopravvivono solo in parte (Vitruvio infatti considera quasi solo la costruzione di edifici). Le strade romane estese per migliaia di chilometri collegavano tutte le regioni dell’impero, scavalcando in vari punti fiumi anche di grande larghezza e portata, come il Rodano, e fiumi più piccoli ma pericolosi per le forti improvvise piene (alcuni anni fa una piena improvvisa distrusse centinaia di case e i ponti moderni in una valle della Provenza ma lasciò intatto il ponte romano a schiena d’asino, tipica struttura di molti ponti dell’epoca, come quello che pure intatto sopravvive nella Garfagnana non lungi da Barga, chiamato il Ponte del Diavolo). Una schematica descrizione delle grandi vie di comunicazione romane si trova nella Tavola Peutingeriana, della tarda epoca imperiale, conservata a Vienna, dove figurano anche le tappe attrezzate per chi viaggiava a cavallo o in carrozza (sì, esisteva un servizio di carozze-diligenze anche allora; ne parla Aulo Gellio che arrivato da Corfù a Brindisi doveva aspettare alcune ore per la carrozza; ne approfittò per acquistare da un ambulante nel porto una trentina di libri sulla geografia dell’Oriente, antichi, consunti e a prezzo bassissimo). Per una descrizione di quanto resta di tale immenso sistema, dove pietre lisce si ponevano di solito su un profondo, solido basamento ancora intatto in certe parti, come quello della via Aurelia lungo la costa ligure, si può vedere un libro di Von Hagen, esploratore e archeologo.

L’

La straordinaria capacità ingegneristica nel costruire strade e ponti manifestata dagli antichi nostri avi poteva ancora essere riscontrata agli inizi del secolo Ventesimo quando a una ditta italiana fu affidato il grosso del lavoro

un primato perduto di Emilio Spedicato per il completamento della ferrovia transiberiana, fra Irkutsk, presso il lago Baikal a metà Siberia, e il confine cinese e poi Pechino, attraverso le steppe della Manciuria, allora assai poco popolata, oggi sede di oltre cento mlioni di cinesi che hanno fatto scomparire con la loro presenza le antiche tribù nomadi. Il tratto fra Irkutsk e il fiume Amur, nome russo, in cinese He Lon Jang o Fiume del Drago Nero, è uno dei più difficili per cui sia passata una ferrovia, caratterizzato da montagne coperte di foreste, paludi, fiumi, terreno gelato con permafrost, mappatura incompleta. Eppure, e questo oggi sembra incredibile, con la tecnologia di allora, quindi senza mappe dal cielo, computer e le potenti scavatrici di og-

ferrovie in pochi anni per migliaia di chilometri non fosse un problema nemmeno nell’Ottocento è ben noto a chi consideri il tasso di crescita del sistema ferroviario già dal suo inizio verso il 1840. Aprire ogni anno più di 1000 chilometri di ferrovie era normale in paesi europei, in America e in Argentina… Progresso il nostro, o regresso? È da pochi giorni la notizia che i cinesi hanno aperto, lavorando pochissimi anni e con vari mesi di anticipo, un ponte di 36 chilometri che collega due lati di un ampio fiume che separa le regioni, quelle maggiormente industrialiazzate, di Shanghai e dello Zhejiang (dalla quale arriva la maggior parte dei cinesi in Italia, grazie all’antica

Con buona pace degli antichi romani, siamo agli ultimi posti nello sviluppo dei trasporti. Colpa di burocrazia, inefficienze e corruzione. Invece che dibattere sullo stretto di Messina, dovremmo prendere esempio dalla Grecia, dalla Danimarca, persino dalla Cina gi, la ditta italiana compì il lavoro in circa… cinque anni! Ovvero il tempo richiesto a Milano per fare meno di un chilometro da Zara a Maciachini, un quarto del tempo per i circa 200 chilometri della ferrovia veloce da Firenze a Roma. Segno che ormai in Italia il problema principale per lo sviluppo dei trasporti, dove siamo enormemente arretrati, è dato dall’intrico di burocrazia, leggi normative, inefficienza e corruzione dei dirigenti. E che costruire

presenza lì di un porto franco italiano). Ponte che permette un risparmio di alcune centinaia di chilometri. I cinesi hanno in progamma altri simili ponti e li costruiranno in tempi simili, fra questi uno basato su un principio attribuito ad Archimede, ovvero un ponte tubolare collocato sotto il livello dell’acqua. Tecnologia fantasiosa (Archimede era fantasioso, nonostante abbia copiato dagli Egizi…) e innovativa, che non spaventa i cinesi, avviati a

divenire la prima potenza economica del globo entro una ventina di anni (per poi essere di certo superati dagli indiani, terza guerra mondiale permettendo). E in Europa si è fatto, sempre in pochi anni, un ponte che collega Copenhagen a Malmoe, uno che collega le due sponde del golfo di Patrasso-Corinto-Degli Alcioni non lungi da Patrasso (ne ho visto la rapida crescita in due soli anni, in tempo per le Olimpiadi), e credo che gli spagnoli faranno l’impegnativo ponte che collega Spagna e Marocco.

In Italia il ponte sullo stretto di Messina, perfettamente fattibile nonostante le speciali precauzioni da prendere perché resista a terremoti, è sempre fermo allo stadio di progetto. Il suo costo è tutt’altro che alto, credo meno del 20% dei soldi spesi, o meglio buttati via, nella ricostruzione dell’Irpinia dopo il terremoto (purtroppo anche fonte di immensi e facili guadagni). Sarebbe un ponte di indubbia utilità, un’attrattiva per il turismo, un esempio di validità della ingegneria italiana, o meglio di quella che non è ancora morta (triste il requiem per l’Ismes) o emigrata ad altri lidi. Si dubita della sua sicurezza. Questo è un tema discusso in due bei libri di un ingegnere italiano emigrato a New York, tale Salvadori da poco morto oltre novantenne, Perché gli edifici cadono, Perché non cadono. Le tecniche matematiche di oggi permettono di simulare gli effetti e dello sforzo sulle varie parti e delle vibrazioni indotte da un terremoto, e progettare in modo da ottimizzare la resistenza. Sono metodi di equazioni alle derivate parziali e per l’ottimizzazione, ormai maturi e atti a trattare problemi di grande dimensione. Una sfida possibile, manca solo la determinazione politica (si va contro vari interessi) e la capacità organizzativa, perduta da quando dirigenti si diventa, più che per merito, per cooptazione.


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