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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Humpday” di Lynn Shelton

I SEGRETI DEGLI UOMINI di Anselma Dell’Olio

i tempi della contestazione, o della rivoluzione ersatz dei figli dei mio della Giuria), Cannes (Quinzaine des Realisateurs) e gli Independent Spirit Awards (Premio Cassavetes per Shelton). Ben (Mark Duplass) e fiori (e di papà) negli anni Sessanta-Settanta, Lynn Shelton saProduzione Andrew (Joshua Leonard, Blair Witch Project) all’università erano rebbe stata aggredita dalle femministe come «maschiobuoni amici e compagni di baldorie. Due scapestrati con ambiidentificata», all’epoca uno dei peggiori epiteti contro minimalista e rapida zioni artistiche. Poi ognuno va per la sua strada e si peruna donna. La giovane cineasta di Seattle, dove esiste e dialoghi improvvisati una fiorente movida di artisti e filmaker dalla quale dono di vista. Dieci anni dopo Ben è un ingegnere dei nel film della regista di Seattle trasporti con un lavoro regolare, una casa e una lei è nata, è affascinata dai maschi. I ruvidi riti moglie, Anna (Alycia Delmore); stanno setribali, le conversazioni oblique, la tendenza che ha trionfato a Sundance e a Cannes. riamente provando a fare un figlio. La storia a schivare o mascherare i sentimenti; frustraUn azzardato viaggio identitario di due apre con la certezza che Anna è fertile; ma non è zioni e ambizioni di chi, plasmato dal testosterone, amici, la cui mascolinità è narrata il momento. Sono stanchi, ci proveranno domani, e il sente l’urgenza di lasciare un segno nel mondo. Ha già buonumore della decisione condivisa comunica l’armonia trattato il tema in My Effortless Brilliance, in cui mette sotcon grande sensibilità che regna tra due persone a proprio agio e ben assortite. Alle due to il microscopio il machismo di due amici durante un weekend femminile di notte sono svegliati dal campanello: è Andrew, di ritorno dal Mesnei boschi, e ci ritorna su, stavolta puntando alla sessualità maschia sico dopo la fine di una gita-impegno alternativa. con Humpday, appena uscito in Italia dopo trionfi a Sundance (Gran Pre-

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Parola chiave Grido di Maurizio Ciampa Tracey Thorn, il sound della mezza età di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le meditazioni (contraddittorie) di Arturo Graf di Francesco Napoli

Newman, il santo del passaggio di Marco Respinti La colpa di Caino secondo Saramago di Pier Mario Fasanotti

Quel mazzolin di fiori dal Seicento a Van Gogh di Marco Vallora


i segreti degli

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to legati. È un tema esplorato molto bene in un film hollywoodiano da noi molto amato e di cui abbiamo scritto in questa rubrica, I Love You, Man con Paul Rudd nel ruolo di un fidanzato spinto dalla promessa sposa a trovarsi un «migliore amico» prima del matrimonio per fargli da testimone. È un’opera non «di» ma «alla» Judd Apatow (Molto incinta, Quarant’anni vergine, Pineapple Express), il nuovo guru della risata sprigionata dalla confusa mascolinità nel Ventunesimo secolo. Mumblecore, per chi ne è ancora digiuno, descrive film americani a bassissimo costo, girati con amici in pochi giorni senza sceneggiatura, che rispecchiano la vacua esistenza e il borbottio senza costrutto di ventenni americani. Ma è un aggettivo troppo pigro per Humpday. Shelton non ha scritto un copione tradizionale, ma un lungo e dettagliato scheletro o sommario dai contorni ben definiti, in base al quale gli attori hanno improvvisato i dialoghi recitando a soggetto. Questo metodo riproduce le esitazioni e l’intercalare di chi pensa mentre parla. All’inizio si nota, ma poi si finisce per apprezzarne freschezza e spontaneità, ben lontane dalla noia abissale di molti film mumblecore.

Ha la barba, una sacca a spalla e l’aria scanzonata dell’hippy giramondo, artistoide e libero. Anna è un po’smarrita e per l’ora e perché Ben non gliene ha mai parlato. Il marito rapidamente accenna al loro antico affiatamento. Lei accetta di buon grado di ospitarlo a casa loro, e se ne torna a letto per lasciarli fare la rimpatriata. Segue il rito macho (forse più anglosassone che latino) di darsi pugni e botte finte al posto di baci e abbracci: «Ehi, tu!». «Oh, allora, hai visto?». «Eccoci qua dopo tanti anni!». «Io con casa e moglie e tu… sempre in giro». «Chi l’avrebbe mai detto?». Il classico metalinguaggio di riavvicinamento. Anna ha voglia di conoscere meglio l’amico del cuore di Ben, ma la sera dopo Andrew si è già parcheggiato a casa di due artiste pansessuali e festaiole.Vivono in una specie di comune di spiriti liberi creativi, e invitano anche la coppia. Ben va, Anna resta a casa a preparare una cena intima; lui dice che arriverà presto. I due non mangeranno mai le braciole di maiale preparate con tanta cura e amore, sballati da birra e spinelli in quantità, dalle discussioni sull’arte concettuale e dall’ambiente dionisiaco. Gasati dall’atmosfera, i due decidono all’istante di girare un video-shock da mandare a Humpfest, un pornofestival amatoriale (esiste veramente) a Seattle. Si chiuderanno in una camera d’albergo e si riprenderanno mentre fanno l’amore: due amici etero senza secondi fini se non quello di épater e di legittimarsi come bohemiens audaci e fecondi. Pregustano il trionfo. «È oltre l’omosessualità!», esultano sull’onda dell’entusiasmo e fatti come cucuzze.

Per fortuna non si tratta d’omosessualità occulta, l’idea che uno stia per uscire dall’armadio. Sono proprio due eterosessuali con pancette incipienti, senza la minima attrazione sessuale reciproca, e le loro motivazioni per fare qualcosa di tanto temerario suonano autentiche. Ben vuole dimostrare a se stesso che avere lavoro, moglie e casa non significa aver perso l’ingegno giocoso di un tempo e la capacità di stupire, mentre per Andrew è impellente portare finalmente un progetto artistico fino in fondo prima della mezz’età, pericolosamente vicina. Deve rassicurarsi di non essere un fallito, un impostore, un falso Peter Pan, ma un cane senza collare che invecchia, uno scansafatica che si atteggia da esteta in giro per paesi esotici per nascondere la sua inconsistenza e mancanza di talento. Anni fa Roberto D’Agostino, ideatore e gestore del sito gossip Dagospia, ha scritto un libro sulle celebrità di casa nostra, un «vizionario» con un titolo che calzerebbe perfettamente a Humpday: Chi è, chi non è, e chi si crede d’essere (Mondadori, 1988). Sopra, alcuni fotogrammi del film. A destra, i due protagonisti insieme alla regista Lynn Shelton

anno III - numero 22 - pagina II

uomini

HUMPDAY - UN MERCOLEDÌ DA SBALLO GENERE COMMEDIA

REGIA LYNN SHELTON

DURATA 95 MINUTI

INTERPRETI

PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE ARCHIBALD FILM

MARK DUPLASS, JOSHUA LEONARD, ALYCIA DELMORE, LYNN SHELTON, TRINA WILARD

I due amici ritrovati, nel corso del film e in particolare una volta che si chiudono con la telecamera nella stanza di un motel, fanno un viaggio in fondo a se stessi. Qualche critico ha parlato del «progetto artistico» come di un «MacGuffin» - un trucco, coniato da Alfred Hitchcok, che fa girare la trama ma che in sé non ha alcuna vera importanza. Forse c’è qualche grano di verità, ma in realtà no, conta eccome, il programma di due maschi non gay di fare sesso in un filmino che sarà in concorso a un festival erotico, in un’opera che indaga con piglio d’autore e attraverso molto sviscerarsi, le cose che scegliamo per costruire la nostra identità. Il film è stato definito un mumblecore bromance: bromance è una storia d’amore tra due brothers, fratelli spirituali e amici platonici mol-

La quarantatrenne Shelton (battezzata «la Apatow femminile» a Sundance) ha fatto una lunga e variegata gavetta. È scrittrice, sceneggiatrice, attrice (ha fatto molto teatro e ha una piccola parte in Humpday come una delle artiste disinibite della comune), videoartista, poeta, fotografa, direttore della fotografia e a lungo stimata montatrice. Poi è passata alla regia e alla produzione, con film a basso costo prodotti localmente. Al New York Times ha detto con rabbia di essere giunta alla regia tardi, qualche anno prima dei quarant’anni, «perché non avevo fiducia sufficiente in me stessa, e poi mi sono imposta di entrare dalla porta di servizio. Non ho nemmeno frequentato una scuola di cinema: ho iniziato facendo piccoli film e imparando il montaggio». È stata dieci anni a NewYork, e quando è rientrata a Seattle (oggi è sposata con un figlio di dieci anni) ha trovato i soldi per fare il primo lungometraggio, We go Way Back, storia di un’attrice piena di aspirazioni e ambizione, un po’alla deriva, che si confronta con se stessa a tredici anni. Shelton identifica nell’adolescenza l’età in cui ha perso la fiducia nelle proprie capacità creative, espresse liberamente durante l’infanzia. Dopo l’esperienza tradizionale con troupe e macchinari ingombranti, ha incontrato Joe Swanberg, uno dei fondatori del movimento mumblecore, e si è innamorata della leggerezza del metodo: produzione minimalista e rapida e dialoghi improvvisati. È con questo sistema che ha girato My Effortless Brillance, e ha trovato la sua voce come autore. Quando ha proposto Humpday a Mark Duplass, attore e cineasta come lei, lui ha capito che la scommessa era enorme e che avrebbe potuto fallire miseramente. Si è però fidato della regista, apprezzando il suo entusiasmo per un’attiva collaborazione e collegialità artistica, cogliendo la sua affinità per i maschi. La Shelton è una femminista non ideologica attratta dal mondo maschile, e solo un’artista senza agenda occulta poteva mettere due attori sufficientemente a loro agio per trattare un tema scabroso, che poteva andare a finire in vacca. Shelton è affascinata dalla psiche maschile ma sa ritrarre con impressionante delicatezza e profondità quella femminile. La scelta dell’attrice Alycia Delmore (Anna) e il modo in cui l’ha aiutata a creare una moglie seducente, asciutta e piena di sfumature credibili (specie quando viene a sapere del «progetto») rivelano la sua grazia interiore e una femminilità forte, sicura, articolata e dolce. Buona conoscitrice di se stessa e del suo sesso, Shelton ama carpire i segreti degli uomini. Non ha secondi fini, né qualcosa da dimostrare, solo un’infinita curiosità e affetto per il genere maschile. Da vedere.


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parola chiave

n primo legittimo interrogativo credo che emerga del tutto spontaneamente: si può fare storia e narrazione di un grido considerando il grido alla stregua di una parola-chiave del nostro lessico? Non è una forzatura o una superflua manifestazione d’eccentricità? Penso di no: è possibile fare storia e narrazione di un grido, ma a patto di accettare una certa frammentarietà accumulando elementi che non sempre potranno risultare omogenei. Voglio dire di più: si può fare storia e narrazione di un grido solo se si è disposti a esporci al disordine del mondo, solo se portiamo lì, nel ritmo dei suoi battiti sregolati, il movimento della nostra intelligenza. Le ragioni sono ovvie: non abbiamo di fronte una parola organizzata, ma un’irruzione istantanea, talvolta lacerante. Che cosa si può dire di quella fulminea onda sonora apparentemente imprendibile? Poco, ma quel poco, quel «quasi nulla», come direbbe un filosofo dall’acume sottilissimo come Vladimir Jankélévitch, ha un peso assai rilevante o addirittura decisivo. La sequenza istantanea del grido, il suo apice sonoro, ci immette nelle correnti della vita, nel suo tumulto, che non sempre ha una sua ragionevole misura e dunque neppure una discorsività compiuta. Aggiungo poi che se si vuole dare risalto alla parola che sto prendendo in esame, non possiamo dimenticare che molte delle parole del secolo passato, ma anche quelle di questo secolo, spesso risuonano come grida.

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Allora qualcosa non solo si può dire ma dobbiamo dire, o azzardare, a cominciare dal fatto che l’uomo nasce al mondo con un grido. Non un sorriso di gradimento, ma un grido. Difficile dire che cosa esso sia, se l’irrinunciabile espressione di un disagio o una perentoria constatazione d’esserci. Comunque il salto nell’umano è dichiarato da un grido. Il tunnel che ci conduce nel mondo è attraversato da un suono scomposto, quasi uno spasmo, una contrazione, un sussulto, di cui, è bene ricordarlo, nessuno ha memoria. Ce lo raccontano gli altri - i testimoni - come l’inizio di un’epica domestica di cui tutti siamo protagonisti. Oppure lo ritroviamo nella congerie di documenti visivi - filmati, fotografie - che ritraggono l’esordio nella vita affollando il nostro immaginario e forse confondendolo, perché quanto più quel primo momento è braccato tanto più slitta nel mistero o nell’ineffabile, e quanto più è rappresentato tanto più sfugge. Voglio dire che quel suono, un’eco dell’esistenza che appartiene a tutti, si colloca ai margini di ciò che ha senso, si accovaccia nel cono di un’ombra. La nascita è dunque delimitata, o contenuta, da un grido. E qualche volta anche la morte. Per il tramite di un grido si entra nell’umano e se ne esce. Con un grido si attraversano i passaggi fondamentali, i varchi decisivi, della vita. È troppo poco per concludere che il grido è l’umano? Probabilmente è troppo poco. Occorre mettersi all’ascolto di altre grida, e non solo raccogliere, ma accudire quelle sonorità precarie, fuggevoli

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GRIDO Dal limite del vivente

cante è l’invocazione), il grido con cui ognuno di noi è venuto al mondo. Può essere l’enunciazione di un’invocazione, una desolata invocazione, o un’estrema domanda che viene dal dolore e dal dubbio. Come altrimenti risuona il grido di Gesù sulla Croce, nel racconto evangelico della Passione? «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un grido terribile, perché rappresenta uno squarcio nel divino. Dio si separa da sé, ha detto un grande teologo protestante, Moltmann, che molto ha riflettuto sul «Dio crocifisso». E un altro pensatore, un filosofo italiano, Massimo Cacciari, ha osservato che la teologia nasce da quel grido, con quel grido deve continuare a misurarsi, non può eluderlo, non può scansarlo. Quel suono lacerante è il suo fondamento. Lì occorre tornare, sul luogo chiamato Cranio, il Golgota, un piccolo monte grande come il mondo, dove si prova la divinità e l’umanità di Gesù.

di Maurizio Ciampa

Pieter Brueghel, nella Salita al Cal-

Un’irruzione istantanea, talvolta lacerante. Un’onda imprendibile, il suono scomposto che ci immette nel tumulto dell’umano e che spesso ci accompagna quando ne usciamo...

Può essere una desolata invocazione o una domanda che viene dal dolore e dal dubbio. Da Giobbe al Golgota, è il fondamento della teologia che non si può eludere. Le voci dolenti di tutti gli oppressi sono il nastro sonoro che attraversa la storia sovrastato dai rumori del mondo che vengono dal «limite del vivente». Guardiamo ai mendicanti di Marrakech, ai loro «arabeschi acustici», raccontati da Elias Canetti in uno straordinario libro di viaggio (Le voci di Marrakech). La cadenza acustica del mendicante, monotona, insistente, misteriosa, attraversa e avvolge il grande slargo della piazza di Marrakesch per ore e ore, «fino a quando - dice Canetti - non restava quest’unico suono, il suono che sopravviveva a tutti gli altri suoni». Il mendicante è il suo grido: «Colui che grida è definito dal suono, conti-

nuamente ripetuto. Ce lo imprimiamo nella mente, lo conosciamo, ora egli è qui per sempre, è lui nella sua caratteristica nettamente circoscritta: il suo grido. Non verremo a sapere niente altro di lui, egli si protegge, il grido è anche il suo confine. In questo luogo preciso egli è ciò che grida, esattamente questo, niente di più, niente di meno, un mendicante, cieco». La voce ostinata, irriducibile, del mendicante, ma anche quella di ogni uomo, il suo grido, raccoglie l’energia necessaria a stare nella vita, ripetendo forse, con modulazioni diverse (per il mendi-

vario, l’ha immaginata come una scena affollata e rumorosa, quasi una festa popolare o una fiera di paese, dove la Passione è ridotta a un reperto teatrale il cui significato originario è ormai lontano e irrecuperabile. Per Mathis Grünewald, nella Pala di Isenheim conservata nel museo di Colmar (un particolare nella foto), nella Passione affiora piuttosto la lotta che ha attraversato il corpo del Cristo. Lotta con la morte: il Dio crocefisso non voleva morire e la tensione muscolare che l’ha scosso ne ha quasi deformato il corpo. Quel Cristo non ha gridato soltanto l’abbandono, ha detto con tremenda forza il suo rifiuto della morte nella quale ora è sprofondato. Dopo il grido, la pace che ne segue, spaventa, disorienta, smarrisce. Dopo il grido, l’incertezza dell’attesa, le speranze sospese sull’abisso del Sabato. Dopo il Sabato… solo chi crede può arrivare fin lì. Per tutti gli altri ci sono le infinite risonanze e variazioni di quel grido che si confonde con la voce disfatta, mortificata di tutte le vittime, «le voci dolenti di tutti gli oppressi» diceva Leon Bloy, un nastro sonoro che attraversa la Storia sovrastato, soffocato dai rumori del mondo. Infinita è la processione d’immagini, di parole, di pensieri che si è mossa dalla scena del grido, infiniti i commenti, gli interrogativi, le questioni che da quel punto hanno attraversato l’Occidente. Ma non necessariamente il grido è l’incubo raffigurato da Edvard Munch alla fine dell’Ottocento, la rivelazione angosciosa che scuote non solo l’uomo, ma anche la natura accedendola di tonalità cromatiche dense e cupe. Penso al grido che fa traballare gli idoli di cui siamo prigionieri. Penso al grido che si alza insieme alle domande di Giobbe. «Io ho bisogno di te», diceva Kierkegaard nella Ripresa, «ho bisogno di un uomo che sappia lamentarsi a voce alta, che faccia ripercuotere gli echi del cielo dove Dio ordisce insieme a Satana i piani contro un uomo». Abbiamo bisogno di voci alte. Abbiamo bisogno di grida. Non solo come Giobbe. Ma come il bambino che nasce al mondo, e, nel grido, dice la somma delle sue necessità. E dice anche che appartenere all’umano è gridare.


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Pop

musica

L’evasione (dal carcere) A TEMPO DI ROCK di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi osa resterà degli anni Ottanta? Un bel revival di glorie bolse e avvizzite che ci sta ronzando attorno. Sadicamente il pensiero corre a Duran Duran e Spandau Ballet, pingui protagonisti di never ending tour alla ricerca dell’adrenalina perduta. Ma gioiosamente (per fortuna) il pensiero rincorre le donne: dopo Sade, rientrata alla grande con la soffice sensualità di Soldier Of Love, è il turno di Tracey Thorn: faccia «picassiana», ugola paradisiaca e un disco, Love And Its Opposite, che la rilancia in grande stile. Entrambe, guarda caso, diedero lustro a quel New Cool che più o meno trent’anni fa si mise a shakerare pop, jazz e soul intellettualizzando la New Wave britannica. Tracey, che a settembre compirà quarantott’anni e ha avuto il pregio di collaborare con Style Working Council, Week, Lloyd Cole and the Commotions e Massive Attack, dal 1982 al 2002 è stata la dolce metà degli Everything But The Girl. L’altra metà, il tastierista Ben Watt, l’ha finalmente sposata l’anno scorso e ora si diverte a fare soprattutto il disc jockey. Insieme, mentre gli anni Ottanta snocciolavano perlopiù suoni stupidi, hanno inciso Eden (che a riascoltarlo è ancora una delizia) e fatto l’occhiolino a George Gershwin e a Cole Porter con Baby, The Stars Shine Bright. Poi si sono tuffati con successo nei Novanta, armati di trip-hop e drum’n’bass. Love And Its Opposite, che per la cantautrice è il terzo lavoro solista dopo A Distant Shore (’82) e Out Of The Woods (2007), è un al-

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i dev’essere un legame sotterraneo tra rock e galera, un qualcosa che le flebili sinapsi di chi scrive non riescono a decifrare bene, ma un tema, un filone, una traccia rockarceraria c’è, è sicura. Rock è evasione appunto, e poi rock è liberazione. I meglio blues sono quelli antichi dei carcerati, come Rosie, raccolta da Alan Lomax negli anni Trenta. E siccome siamo meridionali e «abbiamo stati tutti quanti/educati male» ci mettiamo anche le canzoni di carcere registrate in Sicilia negli anni Cinquanta da Paolo Uccello, e l’amaro blues calabro di Peppe Musolino, il racconto dell’arresto durante il quale i suoi occhi piansero «come due viti» e della fuga «con maniere d’arte». Una versione decente del quale è stata proposta (strano ma vero) da Otello Profazio. Ma per venire dal mito alla storia c’è Jailhouse Rock di Elvis, anche nella magnifica versione nel finale di The Blues Brothers. E finalmente perveniamo all’attualità con i Presi per caso. Il gruppo composto da ex detenuti, guidato dal genio blues-cabarettistico di Salvatore Ferraro, che ha realizzato dischi e spettacoli teatrali, in questi mesi sarà in tournée in tutt’Europa. I classici del gruppo sono spaccati umoristici di vita tra quattro mura e sole a strisce, come Pippo (Walt Disney, non c’entra, è un verbo), lo spiritual Cristo, e l’amaro-esistenziale S’io fossi n’guirty. Ciò che fa del tour dei Presi per Caso un evento è che si tratta di concerti dentro le mura dei carceri di tutt’Europa, dalla Gorgona a Londra. E per pervenire dal presente al futuro, dall’attualità all’anticipazione, c’è anche un disco di Phil Spector in arrivo. Spector, condannato nel 2009 per l’omicidio della modella Lana Clarkson (continua a proclamarsi innocente), potrà chiedere la scarcerazione raggiunti gli 83 anni. Intanto esce un suo disco intitolato Out of my chelle. Evasione. Liberazione. Appunto.

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La vita dopo i quaranta cantata da Tracey Thorn

Jazz

zapping

bum realizzato per hobby: nessun concerto per promuoverlo, s’è tolta lo sfizio e nulla più. Meglio, d’ora in avanti, «pensare al resto della mia esistenza»: ovvero all’amato Ben e ai loro tre figli. «Comunque», tiene a precisare, «questo disco mi ha dato l’opportunità di raccontare la vita dopo i quarant’anni. La mia realtà di donna e quella delle persone che mi circondano». Punti di vista della mezza età. Che intrecciano storie d’amore, divorzi, scaramucce da locali per single, gioie, delusioni. Ogni canzone, che vede impegnati Al Doyle (tastierista degli Hot Chip), Leo Taylor (batterista degli Invisible), Jono Ma (chitarrista dei Los Valentinos), la cantautrice nashvilliana Cortney Tidwell e il cantautore svedese Jens Lekman, equivale per Tracey Thorn a un message in a bottle: come l’introspettiva, malinconica Kentish Town che recita «un secondo oppure un anno, una volta che è trascorso è trascorso», delineando le atmosfere di tutto l’al-

bum. Se la dance che Tracey aveva abbozzato in Out Of The Woods viene sostituita dal technopop di Hormones, il resto svela un’impeccabile, arguta leggerezza: dal valzer tutto arpeggi e carezze pianistiche di Oh, The Divorces!, al pudore country e alle intromissioni soul di Long White Dress, passando per le pennellate rhythm & blues di Why Does The Wind?, il soul e il folk di Singles Bar e la melodia acustico/elettronica che sottolinea Late In The Afternoon e la conclusiva Swimming. Anche le due cover, per la sensibilità con cui vengono rielaborate, sono acquerelli sentimentali: Come On Home To Me di Lee Hazlewood, dalle scansioni morriconiane, vede la Thorn duettare con Jens Lekman; You Are A Lover degli ungheresi Unbending Trees (scoperti da Ben Watt via MySpace) svela un timbro vocale cristallino che ben si addice al pizzicato d’una chitarra acustica. Intanto, fra l’amore e il suo opposto, c’è un sacco di vita che scorre. Narrata da Tracey con grande sincerità. Tracey Thorn, Love And Its Opposite, Strange Feeling Records/Spin-Go!, 16,50 euro

L’uomo che raccontò lo swing ai tempi del nazismo passata sotto silenzio la scomparsa a Parigi il 2 aprile scorso di Mike Zwerin, musicista, giornalista di International Herald Tribune e di Village Voice e scrittore il cui stile possedeva quelle caratteristiche che sarebbero state apprezzate da Jack Kerouac: umorismo che disarma, linguaggio adattato allo stile di vita dei personaggi utilizzando spesso il loro gergo. Ma Zwerin si rivelò anche storico di notevole importanza con il volume La Tristesse de Saint Louis: Jazz Under the Nazis, edito nel 1987 da William Morrow & Co. Come Gunther Schuller, i suoi inizi nel jazz furono quelli di musicista: trombone e tromba bassa. Fu uno dei rari a utilizzare questo strumento, con Cy Touff. Lo troviamo diciottenne nel 1948 - era nato a New York il 18 maggio 1930 - nel complesso che Miles Davis aveva formato per una scrittura

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di Adriano Mazzoletti al «Royal Roost» di New York assieme the Cool. Ma Zwerin, dopo l’ingaggio a un pugno di stelle del jazz, Gerry al «Roost» tornò in Florida per proseMulligan, Lee Konitz, John Lewis, Al guire gli studi e Davis lo sostituì prima McKibbon, Max Roach impegnati a con Kai Winding e successivamente eseguire arrangiamenti innovativi e con Jay Jay Johnson, due fra i più splendidi di Gil Evans oltre che di grandi solisti di trombone dell’epoca, a dimostrazione delMulligan e John l’alta considerazione Lewis. Il Miles Davis in cui era tenuto quel Nonet suonò al giovane musicista fi«Roost» per circa glio di industriali, quindici giorni e il 4 con la grande passiosettembre venne reane per il jazz e la letlizzata una trasmisteratura. Come molti sione radiofonica che artisti suoi contemvenne in seguito pubporanei venne attratblicata su disco. Sei to da Parigi. La capibrani che precedettetale francese negli ro di quattro mesi le anni Cinquanta era sedute di incisione in Europa il centro pubblicate in seguito Mike Zwerin del jazz. Bud Powell, con il titolo Birth of

Lester Young, Kenny Clarke vi suonarono e vi soggiornarono a lungo e Mike Zwerin iniziò a collaborare con musicisti europei, anche attratto dalla ricerca storica legata al jazz del Vecchio Continente, soprattutto di quel periodo, all’epoca ancora così poco esplorato, come quello che veniva eseguito nella Germania nazista. Riuscì a rintracciare molti testimoni, musicisti e appassionati nonché altri sopravissuti ai campi di sterminio. Fu Zwerin il primo a svelare l’esistenza dei Ghetto Swingers, un complesso formato da musicisti ebrei internati obbligati a esibirsi durante le periodiche visite della Croce Rossa internazionale. Quei musicisti non tornarono mai più da quei campi e la loro storia e molte altre Zwerin le ha raccolte nel suo La Tristesse de Saint Louis: Jazz Under the Nazis, primo lavoro dedicato al jazz di quel terribile periodo.


arti Mostre

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di Marco Vallora

iccolo retroscena, o confessione, scostando la raffinata cortina dei fiori, miracolo d’ipocrisia sociale (pensiamolo: tutto passa attraverso il linguaggio dei fiori...) aprendo un buchetto nella decorativa superficie fiorita, e illuminando le ombre del retroscena. Perché non ammettere, che anche le scelte della critica son dovute talvolta a pregiudizi insondabili o imperscrutabili idiosincrasie? (Longhi insegna. Ma anche Baudelaire, il Baudelaire dei «Belgi vi odio» e dei veleni critici schizzinosi, mica scherza! A questo proposito, incocciando, nei benjaminiani Salons parigini, quei pittori d’epoca e di genere botanico, così minuziosi e alla moda, della cosiddetta Scuola di Lione, l’antinaturalistico delibatore dei Paradisi Artificiali arrivava a schernire la programmatica pédantérie insupportable di quei tardi epigoni del dettaglismo petalico fiammingo, deridendo soprattutto la loro monotona tavolozza, giallastra e pisseuse). No, sarei ipocrita se dicessi che concordo con lui e non è perché mi stanno antipatici i fiori, o peggio che mai i fiori dipinti, che non mi sono subito scaraventato a Faenza. Sì, forse una mostra napoletana di pesci e uova e aragoste, che si sgranchiscono ancora le zampe prima del nostro regaluccio dell’acqua bollente, m’avrebbe più immediatamente coinvolto, che non quei bellimbusti fiori impettiti, che Palazzeschi aveva così ben beccato, in una sua lirica satirica. Ma non è questo, devo ammettere invece un peccatuzzo di insofferenza. Dunque: la notizia di questa mostra a

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Quel mazzolin di fiori dal Seicento a Van Gogh venire l’avevo ascoltata dalle parole stesse d’uno dei tre degli ottimi curatori, che sono anche cari amici, Alessandro Morandotti, Davide Benati e nella fattispecie, Fernando Mazzocca, durante un’accesa discussione - per fortuna ci sono ancora, tra gli amici! dovuta al fatto che io sarei troppo solidale con le mostre di Marco Goldin, come noto assai vilipeso e sprezzato dalla casta dei critici nostrani (non gli stranieri). Per il fatto che organizza delle mostremonstre, che hanno un’audience spaventosa e invidiabile (usiamo pure questo gergo televisivo e loro sono pur sempre dei concorrenti) e che va a razzolare puntualmente tra grandi nomi e luccichii impressionisti. Ora, io che le vedo le mostre di Goldin, a differenza dei detrattori, che leggo i saggi degli storici internazionali e serissimi che coinvolge nei suoi cataloghi, sempre scientificamente impeccabili e che verifico de visu quali spesso straordinarie opere riesce a importare da musei di prima qualità, senza nulla avere da dare in cambio, obbiettivamene non posso che dir bene di quelle mostre. Che non demonizzo, soltanto perché trascinano le folle. Sarebbe davvero un vezzo baudleriano troppo snob. Il punto della discussione era questo: di questo passo, si arriva al «Gatto nell’arte». Che mi pare fosse una vecchia idea divertita di Longhi, a partire da Lotto e so che da anni lo scrittore francese D’Ormesson vorrebbe concepire un libro illustrato sul

«cane nell’arte»: ma scusate, che male c’è, se il risultato sarà nutritivo? Certo, quando mi sento dire da Mazzocca che sta preparando una mostra su I Fiori, da Caravaggio a Van Gogh, proprio Van Gogh!, è chiaro che mi scatta la molla del’insofferenza e debbo mordermi il labbro per non dirgli: «ecco che siamo arrivati alla mostra sul gatto». Che cosa hanno di meglio i fiori dei gatti? Questo per dire come siamo stupidi tutti noi e quanto il pregiudizio sia vano (l’amicizia non era venuta mai meno, ma le ombre delle discussioni però restano). Ho visto colpevolmente in ritardo la mostra sui Fiori e ho goduto moltissimo: mi sono riconciliato con un testo originalissimo, a triplice firma degli amici, nel catalogo Silvana, e in più quello d’un altro amico bravissimo, Marco Antonio Bazzocchi, sui rapporti tra letteratura e pittura. Certo, poi uno è anche incontentabile, perché magari del Maestro di Hardtford avrebbe preteso di vedere proprio quella Natura morta che Zeri pubblicò come del giovane Caravaggio. Di Delacroix, quei mazzetti che lui dipingeva nella villa di George Sand (che senso aveva offrirle dei fiori veri, rubati al suo stesso giardino)? Di Gauguin magari un Gauguin più Gauguin e che non sembri un Monticelli (ma interessantissimo). Oppure, diciamolo, quel Van Gogh che viene dal Cairo (nella foto), ma non è che è proprio così magnifico, come si estasia il pubblico davanti. Però che importa: la lezione, autocritica, è questa: c’è sempre da imparare da tutto. E, sempre, giù la spocchia reciproca.

Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh, Faenza, Musei di San Domenico, fino al 20 giugno

Architettura

Il segno di Pill’ ’e Mata nel paesaggio della Sardegna Quartucciu, in provincia di Cagliari, in occasione di una campagna di scavi archeologici è stata scoperta una importante necropoli composta da circa 250 sepolture, almeno tante sono quelle fino a oggi rinvenute, risalenti a un esteso periodo storico: dal III secolo a.C. al V secolo d.C.. La scoperta ha portato al ritrovamento di oltre duemila reperti, per la cui conservazione ed esposizione il comune di Quartucciu e la regione Sardegna hanno promosso la costruzione di un museo archeologico da realizzarsi sullo stesso sito dello scavo. Due però sono le richieste delle autorità competenti: primo bisogna costruire un museo destinato a contenere i reperti archeologici e secondo bisogna prevedere anche una copertura di protezione del sito delle necropoli. Seppur questi spazi destinati alle sepolture non hanno una particolare valenza architettonica, ma si presentano come crateri profondi scavati nel terreno, sono stati considerati parte integrante del sito

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di Marzia Marandola archeologico e quindi anch’essi da preservare da ogni forma di degrado. L’area in questione però da Piano Regolatore Generale è destinata ad attività produttive, e l’avvio del progetto ha richiesto quindi un preliminare cambio di destinazione d’uso di un piccolo lotto che per utilità culturale è stato sottratto al settore manifatturiero. Il progetto di protezione e musealizzazione della necropoli di Pill’ ’e Mata, completato nel 2009, è stato affidato allo studio dell’architetto David Palterer, israeliano di nascita ma fiorentino di adozione, con la collaborazione di Roberto Medardi. Palterer propone un progetto semplice quanto accurato, composto essenzialmente da due blocchi: un volume maggiore parallelepipedo, orientato parallelamente al fronte stradale e rivestito in pietra bianca su un basamento cementizio, protegge l’area dello scavo archeologico mentre un piccolo volume rosso acceso, a esso incu-

neato e leggermente ruotato, contiene i servizi e gli uffici del museo. Sul prezioso rivestimento in bianchi masselli di pietra Lessinia del volume principale, nel fronte verso la strada, sono scolpiti i caratteri che compongono il toponimo Pill’ e’ Mata, che al pari di un’epigrafe antica segnala la presenza di un luogo monumentale. All’interno una copertura in lamiera grecata su travi rettilinee di legno lamellare a vista sovrasta i crateri dello scavo archeologico, accessibile ai visitatori attraverso una serie di passerelle e camminamenti aerei. Dal blocco principale si accede a quello minore, un piccolo volume elementare, una «casetta» con tetto a doppia falda asimmetrica, detta «la casa degli spiriti», interamente realizzata in struttura cementizia, che spicca per il colore rosso sgargiante, all’esterno acceso ancor più dall’accostamento al verde cespuglio di fichi d’india che lo circonda. Il progetto, che risponde perfettamente alle due richieste della committenza - museo e copertura dello scavo - è completato da uno spazio di parcheggio raggiungibile attraverso piccole rampe e camminamenti esterni, dove pavimenti in castagno e ringhiere metalliche rifiniscono la struttura portante in cemento a vista. Il complesso archeologico, che rielabora e ricompone le volumetrie dei vicini capannoni industriali, diventa uno straordinario landmark nel paesaggio anonimo e aspro di Quartucciu.


MobyDICK

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il paginone

L’avventura umana e spirituale di John Henry Newman, una delle figure più importanti del cattolicesimo contemporaneo, raccontata in un libro da don Roderick Strange. Un’opera di alta divulgazione sul grande teologo che, sacerdote della Chiesa d’Inghilterra entrato poi nella Chiesa di Pietro, salirà agli onori degli altari il 19 settembre prossimo di Marco Respinti

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uella di John Henry Newman (1801-1890) è stata una delle avventure umane e spirituali più appassionanti di tutto l’Ottocento, e il libro John Henry Newman. Una biografia spirituale (trad. it., Lindau, Torino 2010), di don Roderick Strange, rettore del Pontificio Collegio Beda a Roma e grande esperto dell’argomento, la radiografa bene. Il che ci fa pure dimenticare per un attimo, ma solo per un attimo, le notorie tendenze progressiste dell’autore e il suo disaccordo con la Santa Sede su materie delicatissime e importanti quali il sacerdozio (celibato e dintorni compresi) e l’omosessualità. Il volume di Strange offre infatti l’occasione per rivivere i percorsi, rievocare i fatti salienti, apprezzare i vertici di Newman. Sì, perché parlare di Newman significa parlare di una delle menti filosofiche più raffinate dell’evo moderno, di uno dei talenti teologici più accorti dell’«epoca delle rivoluzioni» (come spesso le storie della Chiesa definiscono la lunga e impegnativa stagione culturale in cui la vicenda terrena di Newman si trovò inserita) e di una delle penne più felici che il mondo anglofono abbia mai conosciuto.

Decisamente, Newman ha precorso non tanto i tempi (come troppo spesso si dice con frase fatta e sin troppo

ne Papa Benedetto XVI), deve molto alla corretta impostazione di alcune questioni centrali operata dal grande Newman. Strange le passa in rassegna tutte e di tutte offre narrazioni piane e affascinanti, così da riuscire a coinvolgere sia lo specialista sia il lettore non esperto della materia. Così facendo lo studioso inglese rende un gran servizio di alta divulgazione a una delle figure più importanti del cattolicesimo contemporaneo in pendenza dell’evento più solenne che a un uomo possa capitare e che bene ne suggellerà il cammino intero: dichia-

Si convinse che il “vero anglicanesimo è il cattolicesimo” ma non smise mai di gettare ponti verso i cristiani separati, avendo sempre a cuore una visione non clericale a buon mercato) ma certamente molte delle sensibilità che attraversano il mondo contemporaneo. Se definirlo antesignano del Concilio Ecumenico Vaticano II significa in realtà ben poco (e lo scrivo in piena coscienza anche per parare un giro mentale certamente non sconosciuto a don Strange), certamente si può affermare invece che il Vaticano II autentico (non il suo stravolgimento a opera di forze soi-disant «metaconciliari» che, sovente interne alla Chiesa stessa, si sono inesorabilmente votate alla dissoil Concilio luzione), insomma dell’«ermeneutica della continuità» (come ha avuto occasione di dire beanno III - numero 22 - pagina VIII

rato «venerabile» da Papa Giovanni Paolo II il 22 gennaio 1991, Newman verrà infatti esaltato alla gloria degli altari il 19 settembre prossimo da Papa Benedetto XVI.

Rampollo di una famiglia anglicana, John Henry studiò a Oxford e divenne sacerdote della Chiesa d’Inghilterra nel 1824. Fu la prima tappa di un viaggio importantissimo. L’adesione a quella fede cristiana ricevuta dalla famiglia si trasformò infatti lentamente in una convinzione intima, assunta in prima persona, e su ciò pesarono una serie di avvenimenti decisivi. Newman, cioè, era il contrario di una mente intellet-

Il santo del tuale arida e distaccata, e tutto il suo ragionare, finissimo, è sempre stato strettamente ancorato alla realtà delle cose. Furono i fatti, cioè, e non le teorie a farlo transitare dal «cristianesimo sociologico» alla fede autenticamente vissuta; fatti decisivi, come lo scontro con il razionalismo diffuso anche nei seminari e nella scuole di teologia, e pure fatti profondamente dolorosi, come per esempio la morte della sorella minore, Mary, nel 1828, ma anche fatti pericolosi, come quanto egli si trovò, a causa di una grave malattia, a un passo dalla morte.

Per questo la teologia newmaniana è sempre stata assai carnale anche nelle sublimità maggiori, sempre concreta anche nei ragionamenti più elevati. Ben distante da molti

teologi contemporanei, e forse anche da molti che, sbagliando, si richiamano al suo nome, Newman ha infatti sempre avuto chiara l’idea che la teologia non è affatto una «seconda natura» o addirittura un’alternativa alla fede, ma solo il suo aprirsi con chiarezza a quell’intelligenza dell’uomo che, dono dell’Onnipotente, è lo strumento principe della somiglianza fra l’uomo e Dio. Quindi un mezzo per l’assenso della fede, anzi per la comprensione stessa di quella grammatica del linguaggio orante di cui si sostanzia il rapporto fra umanità e divinità, il quale dopo la Rivelazione, cardine del cristianesimo, diviene contemplazione.

La teologia, dunque, è il modo attraverso il quale la mente umana fatta a somiglianza di


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ra, Newman arrivò insomma a quel punto nodale che gli chiedeva o di lasciar perdere una sfida non umanamente vincibile, oppure di arrendersi per concludere finalmente che l’«anglicanesimo più vero» (cioè più corretto teologicamente, più adeguato storicamente, insomma più «divino» e più tradizionale e più conservatore nella misura in cui l’alternativo progressismo dottrinale ne costituisce solo il palese sfascio) è il cattolicesimo.

rivelato, dunque a combattere le apparentemente impari battaglie contro i deragliamenti latitudinaristi e più che altro svilenti dell’anglicanesimo. Nacque così, negli anni 1820, quel cosiddetto Movimento di Oxford che vide Newman e alcuni altri campioni del conservatorismo filologico-teologico più limpido sferrare una attacco decisivo alla cultura della decadenza. La battaglia del Movimento di Oxford, infatti, nacque certamente con l’intento di preservare la purezza del messaggio cristiano dentro la Chiesa anglicana, ma di fatto si spinse assai oltre sin dall’inizio. La volontà degli «oxfordiani», infatti, di riarticolare con precisione il linguaggio filosofico a supporto della fede entro strumenti logici non panlogisti né razionalisti, il loro insistere sulla necessità di una corretta impostazione epistemologica alla base di qualsiasi confronto dialettico e il ricupero di categorie speculative chiare e distinte, persino tradizionali, dopo la stagione

Quando Newman si arrese definitivamente era il 9 ottobre 1845, di fronte a sé aveva il volto santo del padre passionista dell’Argentario, Domenico Bàrberi, noto come beato Domenico della Madre di Dio (1792-1849), il quale, avendo consacrato l’esistenza alla conversione degli anglicani, lo accolse fra i seguaci di Pietro. Nel 1847 Newman venne ordinato sacerdote a Roma e poi, lasciata Oxford per Birmingham, fondò, innamorato qual era di san Filippo Neri (1515-1595), la Congregazione dell’Oratorio in Inghilterra. Fu creato cardinale, lasciò opere d’importanza capitale, studiò approfonditamente la necessaria riforma delle università mirando a creare quel vir bonus dicendi peritus sempre prodromico al buon cristiano, spiegò magistralmente che la verità rivelata

Concreto anche nei ragionamenti più elevati, sosteneva che la teologia è il modo attraverso il quale la mente umana, fatta a somiglianza di Dio, con Dio parla

l passaggio Dio con Dio parla, anzitutto domandando a Dio in persona di comprendere sempre più Dio stesso con l’intelligenza, il cuore e la volontà. Vive allora, la teologia, nella storia e nella storia essa si svolge, avanza e progredisce, semmai pure muta e si aggiusta, ma il magistero, ovvero la trasmissione continua della fede rivelata da parte dell’autorità, è il suo alveo più che il suo limite. Assurdo, insomma, pensare di giocare teologi contro pontefici, teologia contro dogmatica, e così via, come proprio il cristianesimo più progressista ha malevolmente fatto. Assurdo e lontano le mille miglia dalla sensibilità di Newman, tant’è che, appunto, Newman è così figlio della Chiesa cattolica e non del «dissenso teologico» da finire santo…

Il guadagno di una fede autentica, del resto, lo spinse, dentro l’anglicanesimo, a divenire l’alfiere di una sempre maggiore adesione sincera dell’insegnamento teologico al dato

visione non clericale della Chiesa. Da lui del resto promana una sontuosa filiera di grandi convertiti anglofoni, a cui egli aprì nobilmente la strada. E chi non lo ha seguito nel passo decisivo verso Roma si è autonominato «anglo-cattolico», come a dire «cattolico dentro la storia anglicana», in tutto e per tutto simile ai vecchi «oxfordiani» e alle loro sacrosante battaglie teologico-culturali fino però alla soglia invalicabile della conversione.

dei soggettivismi culturali di cui essi si resero protagonisti operò infatti una grande ripresa di coscienza dei canoni fondamentali della cultura occidentale, la quale, anche se forse non immediatamente percepita come tale, svolse di fatto una grande funzione «controrivoluzionaria» i cui esiti dovevano spingersi ben in là.

Del resto, l’elaborazione di quel concetto di via media (alla latina) con cui tipicamente Newman descriveva l’anglicanesimo come né cattolico né calvinista, nella misura in cui egli mirava precipuamente a depurare tale fede da ogni incrostrazione di carattere ideologico, portò alla fine Newman a un dilemma insuperabile: o l’anglicanesimo come cristianesimo puro e autentico non esiste affatto o esso, finalmente liberato da ogni scoria posticcia, è niente altro che il cattolicesimo. Scavando alla ricerca dell’anglicanesimo più autentico, che nel suo linguaggio significava risalire alla fede cristiana più ve-

non muta affatto nel corso della storia ma che gli uomini comprendono sempre meglio il contenuto divino della Rivelazione dentro quella storia che è l’orizzonte che, da questa parte del Cielo, li definisce senza possibilità di scampo e tornò con decisione a dialogare con gli anglicani non smettendo mai di ripetere loro che il «vero anglicane5simo» è il cattolicesimo. Newman è diventato santo anche sbagliando, come tutti i santi del resto. Si schierò contro la dichiarazione dell’infallibilità papale perché lo riteneva politicamente un punto difficilissimo da fare digerire ai cristiani separati verso i quali non smise mai di gettare ponti, ma non dubitò mai della verità teologica di quel dogma ed ebbe sempre a cuore una

Un’immagine e due ritratti di John Henry Newman. Qui sopra, San Filippo Neri, sua figura di riferimento. A destra, la Teologia secondo Raffaello. A sinistra, lo stemma cardinalizio di Newman

Be’, c’è da ricordare che «anglo-cattolico» lo fu pure Newman, il quale spergiurava che mai si sarebbe convertito… Molti degli «anglo-cattolici» oggi nutrono solo dissensi «giuridici» verso il cattolicesimo papalino romano. Per questo la Santa Sede non ha mai smesso di parlare con loro, anzi con la Comunione anglicana intera. A settembre Pietro regalerà al mondo il «santo del passaggio». Un posto sulla barca per chi osserva dalle bianche scogliere di Dover c’è. La rotta? L’ha tracciata John Henry Newman. www.marcorespinti.org


Narrativa

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i ha l’impressione, leggendo le prime pagine del nuovo e intenso romanzo di José Saramago (Premio Nobel nel ‘98), che la storia di Adamo ed Eva inizi e proceda secondo un ritmo farsesco. Lo scrittore portoghese afferra per la seconda volta la vicenda biblica e la trasforma in occasione per parlare dell’uomo, del suo smarrimento, della sua solitudine interiore, degli affanni terrestri e della lontananza dal Signore, che pure c’è ed è Lui l’imperscrutabile malgrado Egli neghi e attribuisca questa «favola» all’umanità che ha creato. L’autore si concentra poco dopo sulla figura di Caino e lo rende simbolo dell’uomo che rivendica una libertà pur sapendo di non possederla. Dell’uomo che non comprende il mistero del destino e come questo si debba o si possa coniugare con il libero arbitrio. Caino è sbeffeggiato dal fratello Abele, il cui fumo d’arrosto sale dritto verso il cielo e nella differenza tra i due sacrifici in onore del Creatore nasce il dramma tra due esseri diversi. Ma diversi perché? L’enigma attraversa l’intero romanzo. In ogni caso Caino ha il marchio in fronte per aver commesso la più terribile delle azioni: il fratricidio. Il castigo è quello di allontanarsi da casa ed errare in terre arse e brulle, ostili a tutti. Malgrado l’arrogante sfida lanciata a Dio sotto forma di quesito e di condanna, malgrado si ritenga solo un sicario agli ordini di un disegno crudele, o di un «esperimento» (lo stesso che è stato causa della nascita di Adamo ed Eva), Caino vaga nel mondo cominciando a convivere e a tormentarsi con il senso della colpa. Saramago si concede, ammettendole tutte, eccezionali libertà narrative. Per esempio descrivendo unaTerra già popolata. Qualcuno potrebbe scandalizzarsi per la blasfemia, come del resto accadde nel 1991 quando comparve il primo romanzo «religioso» di Saramago, Il Vangelo secondo Gesù Cristo nel quale il nazzareno soffre per l’abbandono del Padre. Ma il narratore non dileggia la storia biblica, anzi dice espressamente che «è vera». Scrive che Caino non è un fantasma letterario. È un uomo che teme d’essere burattino del Signore, col quale tuttavia cerca di mantenere un contatto, ben sapendo che è con Lui che si deve confrontare, non importa se per secoli o per millenni. Caino arriva in una città senza nome, genericamente collocata nella «terra di Nod», ossia terra della fuga o degli erranti. Qui si guadagna il pane facendo il pigiatore di argilla. Lo avvertono: il pericolo non è la fatica smisurata, semmai la brama che la signora del borgo, la bellissima e insaziabile Lilith, potrebbe riversare su di te, rendendoti schiavo della sua lussuria. E così avviene. Lilith, moglie dello sterile e pavido Noah, lo chiama a corte e lo trasforma in «toro da monta». Nella camera da letto della so-

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Il corpo a corpo di Caino con Dio

Nel nuovo romanzo di Saramago il fratricida biblico diventa simbolo dell’uomo che rivendica una libertà sapendo di non possederla di Pier Mario Fasanotti

Autostorie

libri

José Saramago CAINO Feltrinelli, 142 pagine, 15,00 euro

vrana il piacere smodato renderà Caino «un’ombra» di se stesso. Lilith avrà non tanto compassione ma cinismo verso il suo strumento erotico permettendogli di uscire alla luce del sole e riprendere così le forze. Evitato l’agguato ordito dal gelosissimo e vigliacco Noah, Caino, che s’è fatto sempre chiamare Abele (identificazione con la sua vittima: un misto di colpa ed espiazione), rivela il suo nome vero e racconta come andarono le cose con il fratello. Il rapporto tra i due amanti muta radicalmente. Caino chiede a Lilith se abbia ancora voglia di coricarsi con un assassino. Lilith prova tenerezza, forse amore. Ormai lontana dalla frenesia sessuale, chiederà addirittura di essere uccisa. Per la prima volta una donna dissoluta e sfacciatamente libera come Lilith si abbandona alla volontà di un uomo, pur sollecitandola con piglio autoritario. Ma Caino rifiuta, ha orrore del continuo «divorarsi». Lei rimane incinta proprio quando il rapporto carnale si fa dolcissimo. Caino affronta le peripezie dell’uomo errante, con in fronte un marchio destinato ad allargarsi.Vaga, ma non su territori noti, bensì in quelli scivolosi del tempo, un andare e tornare tra i secoli della storia giudaica. Saramago spinge il protagonista dinanzi a quei fatti che ogni lettore della Bibbia ha quasi orrore di accettare come veri: il sacrificio di Abramo, gli innocenti di Sodoma che bruciano nel fuoco, la devastazione di Gerico, il vitello d’oro e l’ira del Signore.Torna, e torna fortemente, nell’animo dello scrittore portoghese lo smarrimento di fronte a quel che sempre gli sfugge: il perché. Caino e Saramago condividono la cupa tristezza dello stupore. Il fratricida torna dopo dieci anni nella città di Lilith e trova la donna ancora innamorata. Alla madre di suo figlio, Enoch, e solo a lei, spiega d’essere stato «in un altro presente, in altri presenti». Non si può parlare di futuro, dice la donna, ma accetto la verità del tuo viaggio e la tua testimonianza. E sarà proprio Lilith a confondere volontariamente il nome di Caino e di Abele: «Nessuno è una sola persona». Saramago alza un urlo di sdegno che al tempo stesso è domanda. Non si volta dall’altra parte, non si fa agnostico, bensì entra nella storia biblica per cercare di afferrarne il senso. Caino accetterà il destino di girovago. Noi uomini, pare dica l’autore, erriamo nel mondo. Per elemosinare una spiegazione nelle pieghe di ciò che pare sia già stato scritto. Si trova un giorno dinanzi al Signore, le cui frasi non ode bene. È un perpetuo ragionare tra l’uomo e Dio. Scrive Saramago: «Quel che si sa per certo è che siano stati lì a ragionare l’uno contro l’altro una e più volte, e che stanno ancora discutendo».

Le mitiche Citroën “targate” Flaminio Bertoni apita a volte di sentir dire che nel mondo delle quattroruote esistono almeno due distinte categorie: i comuni automobilisti e i citroënnisti. A sottolineare che, pur sulle medesime strade, guidare una Citroën significa prediligere l’originalità delle soluzioni tecniche, se non addirittura accettarne le provocazioni estetiche rispetto alle altre auto. Secondo una filosofia aziendale nata il 4 giugno del 1919, quando André Citroën (1878-1935) decise di convertire la sua azienda parigina di componenti meccanici alla produzione di automobili. Conservando, nell’immagine della nuova marca, il double chevron presente nella dentatura a cuspide dei particolari ingranaggi brevettati da Citroën e apprezzati per la loro resistenza allo sforzo. Dettaglio tecnico mantenuto quale emblema di un costruttore che, dopo i modelli dei primi anni, scelse di puntare su vetture decisamente innovative, pur se contrastate dalla necessità degli ingenti investimenti correlati alla stessa arditezza della loro concezione. Come avvenne, quasi paradossalmente e anche per i critici strascichi del

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di Paolo Malagodi 1929, con la rivoluzionaria Traction Avant del 1934 che portò l’azienda sull’orlo del fallimento. Rimediato dall’intervento del gruppo Michelin e con la continuazione di una gestione che fece proprio della Traction Avant un grande successo commerciale, durato oltre vent’anni e rimasto in produzione sino al luglio 1957, con molte modifiche meccaniche ma fedele alla livrea originaria. Una pietra miliare nella storia dell’azienda transalpina dunque, oltre che nella vicenda umana e professionale dell’italiano Flaminio Bertoni; nato a Masnago nella provincia varesina il 10 gennaio 1903 e morto a Parigi il 7 febbraio 1967, dopo essersi trasferito in Francia all’inizio del 1931 per lavorare come disegnatore all’ufficio tecnico della Citroën e mantenendo, nel contempo, la prediletta attività artistica di scultore. Dote che gli permetterà di plasmare rapidamente, di sabato sera nel proprio atelier domestico, un blocco di plastilina. Poi presentato, il successivo lunedì

L’attività del designer italiano nell’azienda transalpina raccontata dal figlio

mattina, ai vertici aziendali quale proposta di forma per una nuova vettura a trazione anteriore. Il gradimento fu immediato, con l’inizio di un lungo periodo di successo per l’allora trentenne Bertoni che, nell’esporre la sua creazione, non nascose un entusiasmo più da artista che da tecnico nella frase: «Con questa macchina vinceremo tutti i concorsi di bellezza». Come racconta il figlio Leonardo Bertoni, nato da Flaminio e Giovanna Barcella il 25 aprile 1932 a Parigi, in un libro da poco uscito (Bertoni-Citroën, Macchione editore, 192 pagine, 20,00 euro), che sin dalla copertina enuncia i propri contenuti nel sottotitolo: Storia e immagini dell’incontro tra l’arte di Flaminio Bertoni e il progetto industriale della Citroën. Temi chiaramente sviluppati, in un lavoro inoltre ben documentato dalle numerose immagini sia dell’ambiente familiare sia delle realizzazioni di tipo artistico o di carattere automobilistico.Tra cui, dopo quello della Traction, lo straordinario successo dell’utilitaria 2 Cv, progettata e pronta già prima della guerra ma in produzione solo dal luglio 1949. Sino all’avveniristica DS 19 presentata nell’ottobre 1955, che porterà alle stelle la fama di Flaminio Bertoni.


Personaggi Quel maschilista di Pablo Picasso D

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ire che Pablo Picasso sia stato uno sperimentatore è cosa ovvia. Ma è interessante applicare questa definizione alla sua vita amorosa, mai disgiunta dalla vena creativa. Misogino e incantatore, entusiasta e malinconico, charmant e sadico, il pittore di Malaga era insaziabile: non solo con le figure che fissava sulle tele ma anche con le donne. Di tanti amori, tredici sono stati veramente importanti anche perché hanno lasciato una traccia nella sua pittura. Picasso nel ritrarre la compagna di turno usò il colore e il disegno per delineare le trasformazioni emotive del rapporto: quando l’amore e l’eros cominciavano a deteriorarsi, l’immagine pittorica dell’amante si sfigurava fino a racchiudere dolore, e persino ripugnanza. Tutte le sue donne (due mogli comprese) furono in un certo senso sue «schiave», riconoscendogli il diritto della tirannia in quanto genio. Un’equazione suggestiva e romantica improntata al maschilismo, ma soprattutto all’errata convinzione secondo cui la crudeltà e il disprezzo siano ingredienti essenziali dell’impasto geniale di una persona. Come capita a molti (si pensi per esempio a Salvador Dalì), tutto va ricondotto all’infanzia. Pablo crebbe in un mondo femminile. Sua padre José era pittore mediocre, che tuttavia ebbe il merito di insegnare al figlio a tenere in mano matita e pennelli. Nei quadri di Picasso tutti gli uomini portano la barba. Come suo padre. Senza parenti maschi, Pablo volse l’occhio artistico quasi esclusivamente alle donne. Si chiamava Fernande la sua prima compagna parigina. Aveva il volto ovale, coerente con il «periodo blu» del pittore. Sincera fu Fernande nel ricordare poi il suo amore: «Compagna fedele nei giorni di miseria, non seppi esserlo

di Mario Donati nei giorni di prosperità». Ma s’intesero davvero i due? Gertrude Stein diede un implacabile giudizio: lei era capace di parlare solo di profumi, cappelli e pellicce. Ma questo era solo un mezzo ostacolo visto che Pablo, a detta della scrittrice, «eccettuata Dora Maar, non scelse mai una compagna che si trovasse anche solo in prossimità del suo livello mentale». La relazione finì, forse prima nei quadri che nel quotidiano, tanto è vero che Fernande si trasformò nella tela in un «personaggio tellurico», con piedi piatti, collo taurino e dita gonfie come salsicce. Insomma, aveva perso ogni femminilità. Ma chi era Dora Maar cui abbiamo accennato? Era fotografa, poi anche pittrice. Per Picasso incarnò la passione erotica fino al parossismo. S’incontrarono nel luglio 1936, quando iniziò la guerra civile spagnola. Ambedue erano di sinistra. Dora diventerò nei ritratti «la donna che piange». La sua gelosia, intrisa di sospetti nevrotici, fece naufragare la vita amorosa. Dora, ex amante di Geroge Bataille, sulle tele fu trasformata in un corpo pieno di spigoli, simboli d’un carattere instabile e conflittuale. Affascinante, ma ombrosa, entrò in una clinica psichiatrica. La seguì Jacques Lacan, amico nonché medico di Picasso. Rimasta sola, s’aggrappò al misticismo religioso. Con tanto buon senso, Lacan disse che quella svolta la tenne lontana dal suicidio.

pamphlet

Paula Izquierdo, Le amanti di Picasso, Cavallo di ferro, 166 pagine, 16,00 euro

E Arthos punta il cannone epistolare hi si nasconde dietro il nom de plume Giulio Arthos è un mistero alla luce del sole, almeno per quegli amici che negli anni hanno imparato ad apprezzare intemperanze, sbuffi e generosità di un «buon vecchio ribelle» che non s’è mai arreso alle convenzioni, alle idee dominanti e alla fiera di ipocrisie che è cifra della cittadella culturale e politica italiana. Invano all’amico Arthos è il ricordare che tra diserzione e irruzione esiste la via mediana della strategia: se certe cose sente di doverle dire lui le dice e basta e chissà che in fondo non abbia semplicemente ragione. Dice: ma usa lo pseudonimo, come è il caso di queste Lettere non spedite comparse negli scorsi anni sul quotidiano Linea e indirizzate a ministri, direttori di giornali, giornalisti di peso, presentatori televisivi, e insomma uomini e donne di potere. Si, è vero usa uno pseudonimo, che però è un segreto di Pulcinella, e lo usa come una guasconata ulteriore, in un gioco di rimandi che riporta a un pensatore tanto demonizzato - il filosofo Julius Evola - dalla di cui sopra cittadella quanto da Giulio Arthos è ammirato e rispettato. Ecco, le lettere non spedite - tra gli altri

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di Riccardo Paradisi destinatari Gianfranco Fini, Alessandro Cecchi Paone, Furio Colombo, Walter Veltroni, Paolo Mieli - sono stoccate che infilzano pose ridicole, che toccano sussieghi napoleonici, che sfidano conformismi paludati, che bucano palloni gonfiati, che smontano sicumere infondate, che polemizzano nel merito di certi temi, a volte - va detto con la franchezza dell’amicizia - anche in punta di filologia, in un eccesso di puntiglio. Ma nel carteggio di Arthos ci sono anche lettere di elogio per chi ha il coraggio dell’anticonformismo. Due esempi. Nella lettera a Concita De Gregorio - ai tempi del carteggio inviata di Repubblica - e a Curzio Maltese, Arthos ricorda ai due giornalisti cos’hanno scritto il giorno dopo la manifestazione dell’Ulivo il 10 ottobre del 2005. «Sarà fortuna, destino, cristiana provvidenza, daimon o più prosaicamente fattore c… Sta di fatto - scrive Maltese - che a un certo punto spunta il sole. Un bel sole dopo tanta nuvolaglia e proprio quando l’ex presidente della Commissione europea è salito sul palco per pronunciare il suo discorso di cinquanta minuti». Il grandangolo della De

Gregorio è ancora più imbarazzante: «Sul palco ci sono più di cento persone c’è anche la figlia della Melandri che la madre ha allattato al ministero», «un vero e proprio comitato di salute pubblica o liberazione nazionale» chiosa Malaparte e si è visto come è andato a finire quando il comitato va al governo del Paese. Il commento di Arthos è sferzante: «Se foste vissuti durante il deprecato ventennio, esimi colleghi, avreste dato filo da torcere agli innumerevoli poeti di Mussolini». Ma come si diceva c’è anche spazio per i riconoscimenti nelle epistole di Giulio Arthos. Uno in particolare va a Vittorio Strada, slavista, storico, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia. «Caro professor Strada, il suo articolo sull’Avvenire per chiedere di istituire una giornata della memoria per le vittime mondiali del comunismo è valso come un trafiletto: nessuno nell’Italia governata dal centrodestra se n’è accorto». Perché il comunismo sarà morto, ma l’egemonia culturale degli ex comunisti sta benissimo dice Arthos. Come l’eterna ignavia della destra. Giulio Arthos, Lettere non spedite, Tabula fati, 125 pagine, 17,00 euro

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ALTRE LETTURE

FUORI DAI VINCOLI DEL CONFORMISMO SOCIALE ome si può capire un’opera d’arte? Come si può comprendere la sofferenza psichica? Come si può accogliere il mistero del sacro? I discorsi e le logiche di cui disponiamo, orientati a misurare l’efficienza e l’utilità, lasciano tutte queste domande senza risposta. Anzi svuotano di senso queste domande che invece sono piene di senso. L’elogio del discorso inutile di Pietro Barcellona invece (Dedalo edizioni, 55 pagine, 16,00 euro) non persegue l’obiettivo di una soluzione pratica ma cerca, nel farsi della parola gratuita, un nuovo spazio mentale in cui ricostruire la relazione affettiva fra essere umano e mondo, fra sé e altro. I discorsi inutili - che sono poi quelli della filosofia, della psicologia, della poesia - liberano lo spazio mentale dai vincoli imposti dal conformismo sociale.

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TUTTE LE DECLINAZIONI DEL VERBO ESSERE *****

intepretazione del verbo essere è come una costante che attraversa tutto il pensiero linguistico dell’Occidente sin dalle prime opere di Aristotele. E nel suo dipanarsi si intreccia con la filosofia, la metafisica, la logica e perfino con la matematica. Andrea Moro in Breve storia del verbo essere (Adelphi, 329 pagine, 36,00 euro) ricostruisce questa storia: dalla Grecia classica, attraverso i duelli tra maestri della logica del Medioevo e le rivoluzione seicentesche, fino al Novecento, quando la linguistica diventa un modello propulsivo per le neuroscienze.

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USTICA A FUMETTI (MA SENZA UN FINALE) *****

l 27 giugno 1980, alle 20 e 59, il Dc-9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia, decollato a Bologna e diretto a Palermo, scompare dagli schermi radar nei cieli del mar Tirreno, a nord dell’Isola di Ustica, e precipita in mare. Muoiono tutte le 81 persone presenti a bordo. Decenni di indagini, centinaia di udienze, migliaia di pagine processuali, perizie, ipotesi, depistaggi e decine di decessi giudicati sospetti per uno dei fatti più inquietanti della recente storia d’Italia. A questa tragedia è dedicato Ustica, scenari di guerra (Edizioni Becco giallo, 143 pagine, 15,00 euro), un fumetto di Leonora Sartori, Andrea Vivaldo, Fabrizio Colarieti che torna a narrare una strage spaventosa, avvenuta solo un mese prima della strage di Bologna. «Questa è la storia di un aereo - dicono gli autori nella prefazione - noi non sapevamo come raccontarla, soprattutto ci mancava la conclusione. Perché purtroppo la storia dell’aereo non è a lieto fine. Da allora, quello che continua a mancare sono le risposte. Così questo fumetto non ha una fine che si rispetti. È questo è un peccato. Per tutti».

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una fatica paragonabile a quella di Tantalo quella di presentare libri in tv. Fabio Fazio, in Che tempo che fa (Rai 3) se la cava - e molto bene - intervistando l’autore. Il suo salottino con grandi sfondi luminosi è diventato spesso il più ambìto per gli autori. Essere chez Fazio è oggi il più bel colpo di bravura che diventa fiore all’occhiello degli uffici stampa degli editori. Però verso le 23,30 c’è anche Gigi Marzullo (Sottovoce, su Rai 1). Fa domande dirette, non s’addentra in premesse che tolgono spazio all’interlocutore. A rischio di diventare una macchietta dell’ovvio. Se uno scrittore suo ospite scrive un libro su Zorro, potrei scommettere i miei averi che la prima sua domanda sarebbe questa: «Chi è Zorro?». Un po’ come Alain Elkann quando su La Stampa intervista i suoi (quasi) colleghi. Recentemente Pagina tre, sobrio programma radiofonico di Radio 3, ha messo in rilievo, senza chiassose canzonature, la prima domanda di Elkann: «Che libro ha scritto, lei?». A parte l’aria compassata del viveur, il quesito, nella sua sostanza, è ugualissimo a quello che potrebbe porre un barcaiolo di Chioggia o un pescatore di Positano. Tornando a Marzullo, il suo ciclo di incontri ambisce a una maggior complessità, fatta salva l’elementarità dell’intervista, sempre condotta con grande distacco emotivo, come se volesse congelare sul suo viso tracce di emozione. Certo, con Corrado Augias si va sul sicuro, anche per la sua ironia, per la sua mobilità facciale (a volte istrionica) e la sua ottima preparazione culturale. In una delle ultime puntate, Marzullo ha invitato la sempre «giovanile» Silvana Giacobini, autrice di un libro sulla vita di Sophia Loren. Spezzoni di film, riflessioni su tanto successo. Qualche verità non proprio così nota è venuta a galla: quell’invidiabile monumento di carne partenopea e di sensualità spavalda, si è poggiata anche su una rigida disciplina profes-

È

danza

Televisione Sussurrando con Marzullo su Sophia Loren MobyDICK

spettacoli

di Pier Mario Fasanotti sionale, gavetta umile, determinazione di ferro (per esempio nel voler apprendere bene la lingua inglese). Agli esordi le rimproverarono di avere la bocca troppo larga, il naso un po’ lungo, i fianchi larghi assai. Bisognerebbe conoscere il nome di quel cretino che si credeva veggente. Sophia mise in pratica quella filosofia di vita che ebbe modo di spiegare in pubblico, molti anni dopo, quando era più newyorkese che napoletana: «Seguo sempre quel cordone che mi porta verso l’obiettivo». Caratteristica che in apparenza contraddice quel che pensiamo dei napoletani: spontanei, discontinui anche se geniali, disordinati con la propria e l’altrui vita. Marzullo non s’accontenta del solito «caffè» alla Costanzo. Inserisce altri libri facendo parlare gli autori. Il panino ha troppi strati, è indigesto. Pochi minuti. Si capisce poco, il montaggio è confuso. Il gusto dell’abbondanza rovina una serata fluida. La vetrinetta degli «altri» pare un’elemosina a chi non sta in prima fila. Forse ci vorrebbero le domande di Marzullo, levigate come il marmo di Carrara. Ma perché tanta ambizione di programma onnicomprensivo? L’elastico, si sa, si rompe e può tornarci in faccia. Che male che fa.

DVD

IL TRAGICO SCOOP DI QUELL’11 SETTEMBRE assato in frammenti televisivi tra i più noti di sempre, 11/9 dei fratelli Naudet doveva essere un semplice documentario sui pompieri di NewYork. Le tragiche circostanze di Ground Zero, lo trasformarono invece nello scoop che nessuno avrebbe mai voluto realizzare. Perché quella mattina del 2001, i pompieri dell’Engine 7, Ladder 1, risposero a una chiamata dal World Trade Center: un aeroplano si era schiantato contro una delle due torri. La troupe dei Naudet si spinse fin dentro le Twin Towers e documentò l’indicibile: la polvere, le macerie, lo schianto. Centosettanta minuti, che mostrano come il mondo cambiò per sempre.

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RILETTURE

TUTTE LE ICONE DEI MITICI SIXTIES alla Dolce Vita ai Rolling Stones, da Andy Warhol a John F. Kennedy. E poi Marilyn, i jukebox, il twist e il ’68, i blue jeans e la Fiat 1100. Più scorrono i decenni, e più i Sixties mostrano di aver meritato la fama di «mitici». È possibile riassaporarne ancora una lauta fetta, in Gli anni 60 (Logos, 224 pagine, 15,00 euro), volume illustrato che è un colorito viaggio nel tempo. Le auto, la moda, i capelli, il divismo: niente come quegli anni può essere raccontato meglio dalle immagini che ancora oggi vivono in quell’universo iconografico che è alle origini della società contemporanea. Un piacevole carosello della memoria.

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di Francesco Lo Dico

Melting pot nel nome di Tersicore di Diana Del Monte arrivo, seppur tardivo, della bella stagione accompagna, come ogni anno, l’apertura dei festival e delle rassegne teatrali all’aperto. Che si tratti di anfiteatri romani, come a Verona, di teatri di origine greca, come il Teatro Antico di Taormina, o di siti archeologici di grande rilevanza, come il complesso delle Terme di Caracalla, il connubio tra l’arte presente sulla scena e la possente bellezza del luogo si sposa, in questi siti, con la piacevolezza delle serate estive all’aperto, generando, quasi sempre, eventi che riscuotono un grande successo presso il pubblico più diversificato. Non è un caso, dunque, se a partire dal 1913, anno della prima rappresentazione estiva all’Arena di Verona, manifestazioni di questo tipo sono andate via via aumentando - del ’37 è la prima «trasferta» estiva del Teatro dell’Opera

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di Roma presso le Terme di Caracalla. Tra le più recenti acquisizioni di rilievo in questo universo dell’arte sotto le stelle c’è sicuramente il Festival Internazionale di Villa Adriana, organizzato dalla Fondazione Musica per Roma all’interno della Residenza dell’Imperatore Adriano e arrivato quest’anno alla sua quarta edizione. A partire dal 15 giugno, il festival laziale si propone come uno spaccato delle più consolidate tendenze del panorama contemporaneo dello spettacolo dal vivo. I resti della vasta Villa, la più importante e complessa a noi rimasta dell’antichità romana, daranno il benvenuto, tra gli atri, all’Oratorio di Aurélia, luogo magico dove l’impossibile avviene di fronte ai vostri occhi; alle «danze plurali» di Akram Khan e Sidi Larbi Cherkaoui, due coreografi che hanno fatto della loro personale multiculturalità un’identità danzante manifesta, e alla Cloud Gate Dance Theatre of Taiwan, compagnia di danza contem-

poranea della lontana isola cinese. L’avanzare delle forme spettacolari «minori», ottimamente rappresentate dal lavoro di magico illusionismo che Victoria Chaplin, figlia di Charlie Chaplin, ha costruito su e per sua figlia Aurélia Thiérée, si accompagna così alla performance di questo ensemble taiwanese che ci ricorda la sempre più presente e valida risorsa delle compagnie di danza contemporanea provenienti dall’Estremo Oriente. A completare il quadro, infine, ci sono Akram Khan, danzatore e coreografo inglese di origini bengalesi, e Sidi Larbi Cherkaoui, belga di padre marocchino, che, mescolando molteplici forme dell’arte di Tersicore, quali la danza contemporanea e la danza tradizionale indiana, si pongono come due eccellenti rappresentanti di quelle danze

definite «plurali», affascinante espressione delle dimensioni della multiculturalità e della glocalità. La fondazione Musica per Roma, infine, offre agli spettatori la possibilità di prenotare una visita guidata di una parte dei resti della Villa, che originariamente occupava un’area più vasta di quella di Pompei, dichiarata dall’Unesco monumento-patrimonio dell’umanità nel 1999. Per parlare d’arte e di teatro antico, ma anche solo per passare una piacevole serata, sperando, magari, di poter guardare le stelle.


MobyDICK

poesia

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Le meditazioni di Arturo Graf

I No, non è vero poeta Chi abbia un’anima sola, Che mutar senso o parola A se medesima vieta.

di Francesco Napoli l tramontare del XIX secolo Classicismo e Romanticismo, che fin lì avevano dominato la scena letteraria più recente, e non solo in Italia, vanno perdendo i loro caratteri antitetici, stemperando la loro influenza: persiste del Romanticismo, e soprattutto dopo la Scapigliatura, l’andatura più disinvolta della poesia cosiddetta borghese, dai tratti veristi in alcuni, familiare in altri, o, se mi è concesso dire, «personalistica» e d’ispirazione civile; e del Classicismo, invece, continua a sopravvivere un che di riscossa carducciana. E allora se l’influenza di Carducci è a tratti ancora evidente almeno fino a tutti gli Ottanta dell’Ottocento, sussiste in Italia un senso di superamento di quella poetica e, più in generale, una voglia di scavalcamento di scuole e correnti, compreso dunque Classicismo e Romanticismo. Salgono gli astri di Pascoli e D’Annunzio, certo, ma si evidenziano diverse costellazioni poetiche, con stelle di minor grandezza dei due testé citati, ma pur sempre di degna levatura.

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Arturo Graf (Atene, 1848-Torino, 1913) è uno di questi minori dell’Ottocento, forse tra i maggiori del tempo.Vita intensa e travagliata la sua. Nativo della Grecia, da padre tedesco, amante della letteratura, e madre anconetana, a soli tre anni è a Trieste, allora ancora austroungarica, e alla morte del padre si trasferisce in Romania. Solo all’età di quindici anni giunge in Italia e frequenta a Napoli il liceo. Risente della lezione di Francesco De Sanctis, decisivo per la sua formazione critico-letteraria, ma poi si laurea in legge. Quando si stabilisce a Roma conosce Ernesto Monaci, con il quale stringe un saldo legame, accomunati da una viva passione per l’età medievale, in particolare per i suoi aspetti simbolici. Nel 1875 ottiene la libera docenza in Letteratura italiana e riceve l’incarico dall’Università di Roma. Ma la svolta è probabilmente quella dell’anno successivo, quando si reca a Torino fresco di nomina alla cattedra di Letteratura neolatina. La sua prolusione accademica si intitola «Di una trattazione scientifica della storia letteraria» e sette anni dopo diventa ordinario di Letteratura italiana. Le sue lezioni saranno seguite da tutto il gruppo dei crepuscolari di quella città, da Gozzano a Chiaves a Vallini, lezioni tenute fino al 1907. È su Nuova Antologia che avvia la sua attività di poeta pubblicando i primi versi di Medusa (1880) a cui faranno seguito Dopo il tramonto (1893), Le Danaidi (1897), Morgana (1901), Poemetti drammatici (1905) e Le Rime delle Selva (1906). Graf è stato uno dei più

il club di calliope

accaniti portatori delle istanze neospiritualiste del primo Novecento in Italia, una tendenza alla quale attinsero non pochi crepuscolari, Corazzini in primis, e artefice raffinato di un verso denso di pensiero che mal si conciliò con la sua passione lirica. La meditazione filosofica pesò sull’ispirazione, la capacità d’analisi appare spesso troppo fine a se stessa e un pessimismo diffuso permea parte della sua produzione in versi così copiosa da risultare più folta dell’opera omnia in versi di Giosuè Carducci senza averne la varietà timbrica e tematica; liriche degne di essere memorizzate che mancano però di quello slancio e di quel potere fascinatorio non solo del poeta di Pianto antico ma anche di Pascoli e D’Annunzio.

Quegli è poeta che cento Ne chiude ed agita in petto, E ognuna ha vario l’affetto, E ognuna ha proprio talento (…) Arturo Graf (Prologo da Le Rime della Selva)

Heine e Leopardi appaiono i suoi punti di riferimento, mentre avversa D’Annunzio al punto da aver contribuito non poco all’attraversamento dello stesso da parte dei crepuscolari. E la sua opera toccò ferma «Giaccio disteso su l’erba sopra le cime del monte», sono autorizzati da Graf; e l’orologio baudelariano (L’Horloge) batte come un cuore in Graf prima che in Palazzeschi (L’orologio in L’Incendiario) o in Moretti (Elisabetta Verhaegen in Poesie di tutti i giorni); per non parlare del tema corazziniano per eccellenza del poeta che muore ogni giorno un poco, in Graf capovolto ma con lo stesso intento («Se tu non muori ogni giorno,/ Ed ogni giorno non nasci»).

non solo Corazzini. Palazzeschi lo mette, insieme a lui medesimo, a Orsini, Govoni e Corazzini, tra i rinnovatori della poesia italiana; Gozzano qualcosa ne ha avuto se Montale nel giudicare come sottovalutate Le Rime della Selva lo avvicina all’amato poeta torinese. E sul piano delle immagini o dei temi, due esemplari piuttosto evidenti: se Gozzano scrive «Socchiusi gli occhi, sto/ supino nel trifoglio» (La via del rifugio) e Thovez nel Poema dell’adolescenza af-

Sono troppo poche le riprese editoriali recenti dell’opera poetica di Graf. Così, dopo una edizione 1990 di Anna Dolfi della Medusa, è giunta l’ora di una più interessante riedizione, curata con sobria sapienza critica da Adele Dei, delle Rime della Selva (Rocco Carabba Editore). Più interessante non tanto per la qualità dello studio, quanto piuttosto per una maggiore incisività della raccolta nel profondo rinnovamento di inizi XX secolo della nostra poesia. L’opera poetica di Graf risente certo di un gusto cupo e medievaleggiante, con profonde meditazioni sulla morte e sul male del mondo. Abbondano visioni di paesaggi solitari e tragiche esistenze, risolte molto spesso in macabre rappresentazioni e, solo di rado, in un più acuto simbolismo. Proprio con Le Rime della Selva, però, il poeta «sembra scuotere la polvere della propria poesia, raggiungere di fatto il nuovo secolo, sia pure in modo parziale e contraddittorio, sia pure attraverso la discontinuità, le ridondanze e i compiacimenti della sua penna esercitatissima e fluviale» (Adele Dei).

UN SODALIZIO PER RIFLETTERE SUL SACRO in libreria

Bisogna avere cura delle cose perché ci sopravvivranno e poi diranno di noi e delle mani, le gioie, le vergogne. Hai ragione Chiara, a dire un soffio vivere. Ma se potessi non tornerei indietro perché forse non saprei neppure come, se non talvolta sprofondare nel sonno incosciente come febbre. Cadono cose dal cielo che non so descrivere. Un fremito che è tutto. Ma a volte è meglio niente. Nicola Bultrini

di Loretto Rafanelli

associazione Iniziativa Europea, diretta dallo psichiatra Augusto Debernardi, organizzazione triestina che intende porre un ponte, attraverso la cultura, con i paesi dell’Est, propone il libro-catalogo In sacro anima vagans - Arte e poesia (Ellerani editore, a cura di Enzo Santese), che accompagna una serie di eventi culturali a Trieste, Gorizia e Monfalcone. Nel volume compaiono poesie di importanti poeti quali Broggiato, Grisancich, Moretti, Mussapi e pitture di artisti dell’Alpe Adria (Braun, Glinkov, Milic,Tutta). Il sodalizio tra arte e poesia è qualcosa di raro, sostanzialmente è la storia di qualcosa di incompiuto (con l’eccezione del grande itinerario proposto con tenacia da Marco N. Rotelli), seppure l’arte, come dice Bonnefoy, ci permetta di scoprire l’essenza ultima delle cose. In questo caso il tema di riflessione comune per poeti e artisti è il sacro. E il rapito fascino di una immagine racchiusa nelle vie sbilenche del reale, si fa estrema tensione creativa, il gesto caritativo ultimo che proprio il sacro possiede.

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Fantascienza

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on so quanti abbiano fatto caso a uno strisciante fenomeno della narrativa attuale. Non era mai successo prima, neanche nel momento di maggior favore della fantascienza in Italia (gli anni Settanta del Novecento) che il futuro, in particolare del nostro Paese, fosse tenuto così presente dagli scrittori tanto da sollecitarli a scrivere romanzi sul tema. E, altro caso interessante, soprattutto da parte di autori che possiamo definire non specializzati in materia, cioè non usi a scrivere di fantascienza. Perché proprio di questo si tratta: nonostante che forse qualcuno non abbia voglia di sentirsi definire così perché ritiene ancora la fantascienza un genere troppo «popolare» o addirittura ancora squalificato, di essa dobbiamo parlare anche se in alcuni casi sembri piuttosto una riverniciatura per poter parlare del presente pensando al futuro. Ma anche questa è una caratteristica proprio della fantascienza. Oppure di una fantapolitica negativa o di un’antiutopia, dato che le immagini di questo futuro soprattutto italiano sono generalmente negative, di tono molto pessimistico. Prendiamo ad esempio due autori che hanno un loro nome e una loro fama consolidata in ben altri settori: il sociologo Francesco Alberoni e il giornalista e polemista Oliviero Beha che hanno pubblicato romanzi in cui, altra coincidenza, si parla del sesso di domani, ma che a nostro parere non ci sembrano compiutamente riusciti. Nel senso che non riescono a trasmettere nel modo migliore quel che vorrebbero sostenere. Nel suo I dialoghi degli amanti (Rizzoli) Alberoni, per sua stessa ammissione nella rubrica del Corriere della Sera, propone in forma narrativa quanto ha teorizzato nei suoi saggi scritti negli ultimi vent’anni su innamoramento, amore e sesso. Il mondo del XXI secolo immaginato da Alberoni, a causa delle manipolazioni genetiche, dell’ingegneria biologica e della politica di potenza, è diviso praticamente in caste sessuali «omogenetiche», da una parte i Clan genetici femminili e dall’altra le Koiné genetiche maschili, nate - paradossalmente - per «salvare il mondo dall’appiattimento dell’identità» minacciato dalla globalizzazione.

MobyDICK

ai confini della realtà senza coinvolgere granché il lettore nella vicenda. Beha, giornalista cartaceo e televisivo, nel suo Eros Terminal (Garzanti) invece di un dialogo propone in sostanza un monologo interminabile che ancor di meno coinvolge il lettore offrendogli la visione di un’Italia futura la quale, dopo una non ben precisata apocalisse che azzera ogni tecnologia elettronica, è divisa sostanzialmente in due caste: quella che vive in Quartieri Alti ben difesi, e tutti gli altri intorno a cavarsela come possono: una specie di mondo alla Blade Runner, ma molto, molto meno affascinante e coinvolgente: acqua razionata, «rottamazione anagrafica» dei vecchi, non si mangia più carne ecc. Si accenna al surriscaldamento globale, all’impoverimento energetico, alla omologazione generalizzata, ma non di più. Il tutto senza troppa convinzione.

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Sesso e futuro

Una visione per la verità assai confusa che si disperde in una serie interminabile di monologhi ed elucubrazioni mentali che accompagnano le avventure (in genere erotiche) del protagonista e che quindi anche qui, come in Alberoni, fanno perdere di vista lo scenario in cui si svolgono le azioni. Non è obbligatorio che esso prevalga, ma che venga almeno descritto con quel tanto di particolari per far capire bene al lettore di cosa si stia parlando e in che ambiente si svolga la trama. Il protagonista, uno «scrittore» divenuto un «pontiere di uomini» cioè un «Esperto Negoziatore», è affetto da una strana malattia, l’«egopirite» che non si capisce quel che esattamente sia e quali effetti produca: sembra che «bruci» i sentimenti di quanto ha dentro di sé in attesa non si bene di cosa, fra contorti pensieri su denaro, potere, amore, morte e ovviamente sesso mentale (ma anche pratico). Il lettore, francamente, si annoia. Eppure non mancano gli spunti interessanti, ma lasciati allo stato di mugugnamenti interiori, come quello sulle macchine: «L’alibi era quello del fatto che ormai esse ci fossero e dovessero diventare sempre più perfette, numerose, giustificando tutto quello che accadeva per esse e intorno a esse. L’arma era il modo di utilizzarle come fine e non come mezzo, animandole di un significato bellico mostruoso, da “guerra civile” permanente». Bella l’idea di una «guerra civile» fra uomini e macchine (in senso lato), ma non adeguatamente sfruttata. Quando si hanno tesi da esporre - e tutti hanno il diritto di averle - non si può sottomettere totalmente lo stile e la trama a esse, rischiando di essere poco leggibili. Non si chiedono romanzetti «all’americana», che si consumano in fretta e si dimenticano ancora più in fretta, ma di trovare la via migliore per far chiudere al lettore l’ultima pagina soddisfatto per il piacere della storia e per il «messaggio» contenuto in essa. Se non ci si riesce l’autore non ha raggiunto il suo scopo e quanto si proponeva di comunicare rimane chiuso nel suo libro e non giunge all’esterno.

applicati all’Italia

A quanto pare, l’Inferno è sempre lastricato di buone intenzioni, perché il risultato è la creazione di un contrasto fra i sessi «naturali». I due protagonisti, Sakùntala Dely e Rogan Farrell (come dire Oriente e Occidente) sono degli eterosessuali vissuti in ambiente obbligatoriamente «omo» i quali scoprono la loro diversità e sfuggono alle costrizioni dei rispettivi ambienti chiusi. Per di più Farrell è un fisico che ha inventato l’Insula che «produce energia pulita» (non si specifica di più), ha conquistata fama e denaro e con essi cerca, anche a livello di politica internazionale, di scardinare il sistema «omogenetico» ormai diffuso dappertutto e costituito da Confraternite geneticamente specializzate. L’aspetto peggiore di questa so-

di Gianfranco de Turris cietà è che le modificazioni sono del tutto artificiali: si inseriscono nei cervelli farmaci in modo da produrre la «isomorfizzazione genetica» e quindi modificare il naturale erotismo di base. In più, a seconda della nazioni, si creano esseri umani soggetti al potere e condizionati biologicamente. Insom-

Alberoni sul rapporto uomo/donna, amore/sesso. La forma narrativa a differenza di quella saggistica permette così, quasi in un «delirio sessuale» di lui e di lei (come viene anche definito), l’illustrazione dell’atto più antico del mondo alla luce - mi pare - delle teorie indù, specificatamente tantriche. Il sesso spi-

Sempre più frequente rilevare come la narrativa scivoli volentieri su scenari propri della science-fiction. Ma se non si è abbastanza “esperti” si rischia di dosare male gli ingredienti, e di non sviluppare idee suggestive sacrificandole allo stile. Il caso di Alberoni e Beha ma, un mondo dittatoriale solo in apparenza democratico e progressista. Questo lo scenario di fondo, con i due protagonisti che si cercano e si lasciano, si attendono e si ritrovano alla fine dopo anni, come risulta al lettore dai «dialoghi degli amanti» del titolo, ma in cui soprattutto sono esposte le teorie di

ritualizzato e la divinizzazione degli organi sessuali di Sakùntala e Rogan con vere e proprie elegie a quel che li caratterizza come maschio e femmina. Il che, alla fine, non avvince più di tanto, appiattisce l’interessante sfondo futuribile e limita in sostanza la visione al rapporto di coppia fra i due amanti,


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