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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Nelle sale “Bright Star”: da non perdere
IL TALENTO DI MRS. CAMPION di Anselma Dell’Olio
on Bright Star si presenta un’occasione rara per separare le pecore biato per una banalità di genere. Persino rigorosi critici che non apprezzano il Non dalle capre in materia di recensioni cinematografiche. Di solito lo cinema della Campion, come Stephanie Zacharek, sono stati conquistati considero un bene quando i critici hanno opinioni divergenda Stella luminosa o Fulgida stella, traduzioni italiane della poesia è un’opera ti. Fa eccezione il nuovo film di Jane Campion sull’amoche dà il titolo al film. leziosa e decorativa re totalizzante, sensuale e pudico tra la spigliata e schietta È la storia dell’incontro, dei primi passi falsi e poi del rapiil film della regista neozelandese mento ardente di Fanny (Abby Cornish, semplicemenFanny Brawne, dotata sarta e fashionista ante-littete stupefacente) e John (Ben Whishaw, ottimo), ram e il poeta John Keats, pilastro del Romantidedicato all’amore tra John Keats e Fanny autore di Endymion, Ode on a Grecian Urn, cismo inglese. Chi confonde una sfolgorante Brawne. Ma un’attenta lettura della sensualità opera sottile, penetrante, finissima e appassioOde to Psyche, Ode to a Nightengale, prima di femminile e dell’eros maschile resa nata con il solito pittoresco filmetto in costume otmorire a venticinque anni di tubercolosi il 23 febtocentesco, ricolmo di fiorellini e farfalle, sospiri e braio 1821, in Italia, dove gli amici (tra cui Percy Bysshe con attori mirabili e uno sguardo sguardi, lezioso, decorativo e visto mille volte, come hanno Shelley) lo portarono per allontanarlo dal rigido inverno inpittorico mai fatto (pochi) critici, è rimandato a ottobre. Era in concorso a Canglese. Ha resistito un anno solo, e riposa nel Cimitero acattolico di nes nel 2009, e già questo dovrebbe mettere sull’avviso gli addetti ai laRoma, a Testaccio. Ma è un errore pensare che il grande poeta romancalligrafico vori: anche se non piace, cosa legittima ovviamente, non può essere scamtico sia il protagonista principale del film.
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Parola chiave Famiglia di Sergio Belardinelli Altri amori, in un’altra vita di Maria Pia Ammirati
NELLE PAGINE DI POESIA
I versi dei grandi nell’era dell’audiovideo di Francesco Napoli
L’estetica della “terza stanza” di Franco Palmieri Due Roth per un sol Uomo di Pier Mario Fasanotti
Stregati dai miracoli di Cima da Conegliano di Marco Vallora
Il talento di Mrs.
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inizia a guardarla con occhi diversi. Quando l’amico Brown e la vedova Brawne (Kerry Fox) si accorgono che i due hanno cuori che battono all’unisono, è troppo tardi. Fox era l’indimenticabile Janet Frame in Un angelo alla mia tavola della Campion, premiato alla Mostra del cinema di Venezia con il Leone d’argento (meritava l’oro). Autobiografia della maggiore scrittrice neozelandese vivente, che ha subito nove anni di elettroshock in manicomio per una diagnosi errata di schizofrenia, Frame è salvata dalla lobotomia grazie a un tempestivo premio letterario. Uscita prima come fiction televisiva in tre parti, Angelo, tagliata e rimontata come film per le sale, raccoglie tutti i premi più importanti agli Oscar della Nuova Zelanda (film, regia, attori, script) e altri a Chicago, a Toronto e agli Independent Spirit Awards, oltre che a Venezia. Era degno del Leone d’oro più di Rosencrantz and Guildenstern are Dead del pur brillante Tom Stoppard. Aveva un impatto emotivo e visivo vastamente superiore.
I maschi ci sono e contano molto; Keats, ovviamente, ma ha un ruolo-chiave anche il suo amico e sostenitore Charles Brown (un incisivo Paul Schneider) che lo ospita a pagamento nella sua metà della casa che condivide con la vedova Brawne e i suoi tre figli: la diciottenne Fanny, l’adolescente alto e sottile Samuel (l’incantevole Thomas Brodie-Sangster) e la piccola Toots, nove anni, una nuvola di capelli rossi, eterea e vivace, strizzabile come pochi (Edie Martin). Il fulcro dello sguardo della Campion è Fanny: mira a restituirle importanza e onore come pari grado di Keats in sensibilità e spessore di spirito, per rovesciare la figura insignificante, frivola e ignorante tramandata da amici ed esegeti protettivi (e gelosi) del poeta. Operazione riuscita, grazie a un’attenta lettura della corrispondenza tra i due e della biografia di Andrew Motion. Non erano molte le donne istruite allora, e Fanny non fa eccezione. Ma era rapita dalla grazia quanto l’autore di Bellezza è verità, verità è bellezza e Una cosa bella è una gioia per sempre. Invece che con la scrittura, Fanny si esprime cucendo abiti di raffinata eleganza. Uno dei piaceri del film è il guardaroba di Fanny, che qualunque femmina con un soffio di gusto vorrebbe possedere, ogni singolo, squisito capo. Lei confessa di non capire «come funziona» la poesia: ma i suoi vestiti di alta sartoria sono poemi. All’inizio i due giovani flirtano come duellanti, mentre Brown la bistratta senza pietà. Lei legge le poesie di Keats ma non riesce «a decifrarle». Lui le risponde che la poesia non è da decifrare ma da sentire, e paragona l’esperienza di leggerla a un tuffo nel lago. Il punto non è di raggiungere subito l’altra riva, ma di lussureggiare nell’acqua. Allora Fanny chiede di prendere lezioni da lui. Brown (scrittore anche lui, ma riconosce la superiorità siderale dell’amico e gli fa da sprone, da mister letterario) non vuole che Keats sia distratto da questa creatura che lui giudica civetta indiscriminata e irredimibile.
Tutto il cast è mirabile, e il Brown di Schneider è molto ben realizzato. Il battibecco incessante tra lui è Fanny è tradotto dai critici in modo diverso, non necessariamente antitetico. Qualcuno dice che l’antipatia reciproca è tipica dell’attrazione occulta: chi disprezza compra. In Jane Austen è certamente così, basta ricordare i primi scontri tra la spigliata Elizabeth Bennet e il sostenuto Mr. Darcy in Orgoglio e Pregiudizio, preludio di un irresistibile innamoramento. Un’altra lettura decrive l’aggressività di Brown verso Fanny come desiderio di salvaguardare il primato dell’amicizia virile, o più semplicemente come il frutto di pulsioni omosessuali. Forse era le due cose insieme. Erano molto protettivi gli amici maschi di Keats: Shelley, Brown, il pittore Joseph Severn i principali. Adoravano lui e la sua arte ancora misconosciuta dai critici. La stima e l’affetto che provavano erano tanto profondi da offrirgli di tasca loro il lungo (e inutile) viaggio in Italia per cercare di salvarlo; un’offerta così sentita e generosa che il poeta, pur perdutamente innamorato di Fanny e soffrendo la separazione come un’amputazione, non ebbe il cuore di rifiutare. Ma torniamo alla trasformazione della prima impressione che l’allora ventitreenne poeta si era formato di Fanny: da maliziosa stuzzicamaschi, in degna destinataria di sentimenti assoluti. Tom, fratello minore di John, era gravemente malato di tubercolosi. Fanny lo viene a sapere e prepara un canestro pieno di allegri e graziosi regalini e leccornie, e glielo porta. Il poeta è colpito dalla sensibilità della ragazza, che lui pensava interessata solo a balli, feste e alte frivolezze. Commosso dal suo gesto spontaneo, Keats anno III - numero 23 - pagina II
Campion
BRIGHT STAR GENERE DRAMMATICO
REGIA JANE CAMPION
DURATA 120 MINUTI
INTERPRETI BEN WHISHAW, ABBIE CORNISH, PAUL SCHNEIDER, THOMAS SANGSTER, JONATHAN ARIS, SAMUEL BARNETT, ANTONIA CAMPBELL-HUGHES, SAMUEL ROUKIN, ROGER ASHTON-GRIFFITHS
PRODUZIONE AUSTRALIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA 2009 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION
Campion, nata a Wellington nel 1954, si è laureata in antropologia in Nuova Zelanda, prima di trasferirsi in Australia per studiare pittura, poi cinema a Sydney, dove ancora risiede. La passione per le belle arti traspare dal suo sguardo pittorico e mai calligrafico, dalle composizioni sempre invisibilmente costruite e intrise di emozioni che l’autore vuole comunicare. Si è imposta all’attenzione prima con Sweetie (1989), storia di una ragazza, poi donna instabile che sale su un albero e da lì tirannizza la sua famiglia australiana middle class e fortemente disfunzionale, ritratta con impietoso sguardo dalla Campion. Invitata nel concorso principale al Festival di Cannes, l’opera impone la regista antipodiana all’attenzione della cinofilia internazionale. Segue il film sulla Frame, e poi nel 1993 esce il suo capolavoro, The Piano (in Italia Lezioni di piano), ambientato a metà dell’Ottocento, con Holly Hunter nel ruolo di una ragazza madre inglese ammutolita dopo la sua «vergogna»: parla solo attraverso la sua musica. La famiglia le combina un matrimonio nella lontana colonia di Nuova Zelanda con un latifondista (Sam Neill) disposto ad accettare lei e la «figlia del disonore», la straordinaria Anna Paquin. Resta scolpita nella memoria la scena in cui madre, figlia e pianoforte vengono scaricati dalla nave su una vasta spiaggia deserta, ammantata di nebbia e foschia e battuta da enormi onde oceaniche. La sola forza della natura selvaggia e imponente comunica l’isolamento e il confino comminati alla due inglesine, e l’immenso estraniamento dello sconosciuto, incontaminato habitat in cui sono state scaraventate. La storia originale è intrisa dello struggente impatto romantico, privo di sentimentalismo, delle sorelle Brontë, molto amate dalla Campion, ai nostri occhi un merito assoluto. The Piano ha vinto la Palma d’oro e la Hunter quella per migliore attrice a Cannes; candidato a tutti premi principali agli Oscar, il film si è aggiudicato quelli per attrice principale e non protagonista (Hunter e Paquin) e per miglior sceneggiatura originale. Una qualità eccezionale della Campion è il suo singolare talento nel mettere in scena un’autentica sensualità femminile e l’eros maschile che piace alle donne. (Le femmine, e i maschi che le amano, noleggino In the Cut, un noir che vale sopratutto per la performance di Mark Ruffalo e per una scena di stupefacente erotismo). L’intero Bright Star non è da meno, con una dichiarazione d’amore impareggiabile. Fanny, sapendo che Keats è troppo povero e malato per sposarla, gli si offre. Lui risponde «Ho una coscienza». Da vedere subito, prima che sparisca.
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parola chiave
l concetto di famiglia non è più un concetto chiaro; è diventato piuttosto una sorta di ircocervo e, a volte, persino un campo di battaglia culturale. Si parla di tramonto della «famiglia tradizionale», ma poi, quando si tratta di dire in che cosa consista la famiglia che ne avrebbe preso il posto, si finisce per identificarla con qualsiasi aggregazione di individui, a prescindere dal sesso o dal vincolo che li tiene uniti. Uno scossone semantico, questo, che, a mio modo di vedere, danneggia non soltanto la famiglia, ma l’intera società. Mi rendo conto ovviamente che la locuzione «famiglia tradizionale» possa suscitare oggi diffuse e giustificate perplessità, non fosse altro per quel suo immediato rinviare al passato, alla famiglia di ieri, a un tipo di famiglia che per molti versi non esiste più: la cosiddetta famiglia «estesa» con molti figli, i nonni che vivono sotto lo stesso tetto, una rigida ripartizione dei ruoli, una più o meno marcata subordinazione della donna, relazioni intergenerazionali abbastanza lineari e funzioni sociali pressoché scontate, svolte secondo una sorta di automatismo. Se però è vero ciò che diceva Levi-Strauss, e cioè che «l’unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli, è un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società», allora l’aggettivo «tradizionale» potrebbe rinviare anche a ciò che della famiglia costituisce una sorta di elemento costitutivo, una permanenza sottratta all’usura del tempo e indispensabile per poter continuare a parlare di famiglia.
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In altre parole, al di là delle molte trasformazioni che, specialmente in questi ultimi anni, si sono registrate sulla famiglia sia in termini di struttura che in termini di funzioni, al di là della tanto conclamata pluralizzazione delle forme familiari come tratto caratteristico e liberatorio della società odierna, credo che sia ancora possibile, anzi, addirittura necessario, stabilire un criterio capace di distinguere la famiglia, diciamo pure, la «famiglia tradizionale», da altre forme di aggregazione sociale che famiglia non sono. Tale criterio potrebbe essere formulato così: c’è veramente una famiglia soltanto laddove esiste almeno una coppia eterosessuale oppure una relazione genitori-figli, che siano socialmente riconosciute, sancite cioè da un patto pubblico di tipo religioso o civile. Parlare di famiglia implica che si tenga presente sia il passato, quindi ciò che inevitabilmente è cambiato o è entrato in crisi, sia il presente e il futuro, quali dimensioni autentiche del dispiegamento di ogni realtà autenticamente «tradizionale», quindi viva e vitale. Non si tratta quindi di considerare il passato dell’istituzione familiare in modo nostalgico, ma nemmeno di considerarlo in modo vandalico, quasi che la «famiglia tradizionale» sia riducibile esclusivamente a certe forme storiche nelle quali si è manifestata e dalle quali abbiamo ormai preso definitivamente congedo. In entrambi i casi c’è infatti il rischio di non cogliere a pieno un aspetto essenziale di ogni vera istituzione tradizionale: essere cioè quel filo rosso che unisce il passato al futuro tramite il presente, una «catena generazionale», direbbe Giovanni Paolo II, ovvero una realtà intrinsecamente «relazionale», la quale, proprio per questo, non si sclero-
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FAMIGLIA Nonostante i grandi cambiamenti che si sono verificati, è l’istituzione che più di altre incide nella crescita delle persone. La sfida del nostro tempo è riscoprirne la funzione. Per il bene della società
Il vero senso della tradizione di Sergio Belardinelli
Più diventiamo individualisti, pluralisti, eticamente neutri e più si fa pressante l’esigenza di un luogo dove le relazioni umane siano improntate alla gratuità, al dono, a un amore che coinvolga la totalità della persona. E questo luogo, senza voler affatto trascurare i problemi che lo caratterizzano, è la famiglia tizza in nessuna delle sue forme, ma non è nemmeno indifferente alle forme che volta a volta assume. Nonostante i grandi cambiamenti che si sono verificati nelle forme familiari, la famiglia continua a essere il luogo privilegiato di incontro tra i sessi e tra le generazioni, nonché l’istituzione sociale che più di altre incide nel processo di crescita delle persone (dei figli come dei geni-
tori) e che, pur con tutti i limiti che la caratterizzano, più di altre è capace di generare quei capitali individuali e sociali penso alla reciprocità, alla fiducia, alla gratuità - senza i quali è assai difficile immaginare una società degna del nome. Purtroppo, però, la nostra società sembra aver perduto ogni interesse per la famiglia; a volte si direbbe addirittura che voglia come indebolirne le funzioni, rele-
gandola nell’ambito tutto privato dell’affettività e delle soddisfazioni intime. Eppure mai come oggi la qualità delle relazioni familiari è stata tanto decisiva per il benessere e la felicità degli individui e della stessa società. Più la società si fa individualista, pluralista, eticamente neutra, lasciando che gli individui decidano da soli del proprio «bene» e della propria «felicità», e più si fa pressante l’esigenza di un «luogo» dove le relazioni umane siano improntate alla gratuità, al dono, a un amore che coinvolga la totalità della persona. E questo «luogo», senza voler affatto trascurare i problemi che lo caratterizzano, è la famiglia. Si tratta in fondo di prendere sul serio il problema della cosiddetta «socializzazione», all’interno del quale la famiglia ha sempre esercitato un ruolo chiave. La tendenza a ridurre la famiglia a un fatto eminentemente privato, a una sorta di cellula primaria della vita individuale, anziché sociale, ne indebolisce senz’altro la funzione socializzante; lo stesso processo di socializzazione, anziché configurarsi come un processo di «formazione» dei nuovi venuti, tende a diventare non a caso un semplice processo di «comunicazione», dove il più delle volte ci si limita a «informare» più che a «formare». Ma il gran parlare che si fa di autonomia, libertà, responsabilità, tolleranza, fiducia come di risorse indispensabili a una società pluralista, quale è la nostra, ripropone inevitabilmente la famiglia nel suo ruolo formativo e socializzante. È in famiglia che si incominciano ad acquisire queste risorse così importanti per la società; e si acquisiscono tanto meglio quanto più la famiglia è una famiglia nel vero senso della parola, ossia un luogo di reciprocità tra i sessi e tra le generazioni, il cui «bene» primario è rappresentato dalla capacità di costruire relazioni orientate soprattutto alla totalità della persona.
In questo senso mi pare che si possa continuare a parlare di «famiglia tradizionale» senza cedere né al riduzionismo di coloro che hanno semplicemente nostalgia per la «famiglia di ieri», né a quello di coloro che ne fanno una semplice forma archeologica, definitivamente sorpassata dagli eventi che hanno contrassegnato e contrassegnano la società di oggi. Si tratta in ultimo di comprendere il delicato intreccio di «luci e ombre» che caratterizza la famiglia odierna, di saper cogliere sia i rischi, sia le opportunità che nella nostra epoca si offrono all’istituzione familiare, nella convinzione che, nonostante i cambiamenti che la caratterizzano, esiste pur sempre un criterio che ci consente di distinguere ciò che è famiglia da ciò che invece famiglia non è. I modi in cui articolare concretamente questo «bene relazionale» sono certo cambiati; certe rigidità e certi automatismi del passato, per fortuna, non esistono più; ma la famiglia non è diventata per questo una semplice «istituzione-guscio», come vorrebbe Anthony Giddens, un’istituzione «che si chiama ancora allo stesso modo, ma al suo interno è qualcosa di fondamentalmente diverso». In quanto famiglia, ossia in quanto luogo di reciprocità tra i sessi e tra le generazioni nel senso in cui ho detto, essa è diventata piuttosto un traguardo da conquistare giorno per giorno per il bene degli individui e della società; il compito e la sfida più urgenti del nostro tempo.
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Pop
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musica
Gli U2? Erano meglio DI COME SONO di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi el pop, forse, conviene fare gli essenziali anziché i prolissi. Lapalissiano. Senza esagerare, però: «two is meglio che one», recitava la pubblicità di un gelato. L’ideale compromesso, allora, ha puntato sulle band tascabili tipo Soft Cell (Marc Almond + David Ball), Suicide (Alan Vega + Martin Rev) e White Stripes (Jack White + Meg White). Zero orpelli, massimo rendimento, suoni pelle & ossa. Al club dei «meglio pochi ma buoni» si sono aggiunti i Black Keys di Dan Auerbach (voce, chitarra) e Patrick Carney (batteria, percussioni). Arrivano da Akron (Ohio), gommosa capitale dei pneumatici Goodyear e dei «de-evoluzionisti» Devo, si frequentano da quand’erano pischelli, hanno cominciato a suonare assieme al college, con Brothers raggiungono sei dischi, non disdegnano scappatoie soliste (Feel Good Together di Carney; Keep It Hid targato Auerbach) e l’anno scorso hanno lanciato il progetto Blakroc facendosi affiancare da una pattuglia di rappettari, RZA e Mos Def in prima linea. Ma la sola certezza, alla fine, è Black Keys. Due parole, protettive come la coperta di Linus, che in slang indicano chi ha qualche rotella fuori posto e tecnicamente i tasti neri del pianoforte che costituiscono una scala pentatonica minore (quando si parte dal Mi bemolle) associata al blues e al rock. Appunto. Auerbach & Carney, «fratelli» tutt’altro che coltelli, privilegiano dal 2002 (The Big Come Up: inciso in uno scantinato) il rock rudimentale e il selvatico blues che con puntualità imbastardiscono, corrompono, contaminano. E siccome lo zenit della bravura l’hanno raggiunto nel 2008 col blues distorto e minimalista di Attack & Release, ero convinto che da quella gemma grezza in poi si sarebbero seduti sugli allori. E invece, Brothers si spinge ancora più in là schizzando
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Jazz
zapping
genzia product placement. Con tutti i quaquaraquà che ci si trova d’intorno è diventa operazione indispensabile raccontare quel che di buono c’è sul «mercato musicale». Dunque, di buono ci sarebbe un gruppo. Qual è il gruppo nato nei profondi anni Ottanta che ne è venuto fuori bello bello e tosto tosto? Qual è il gruppo periferico per eccellenza, che non proviene dalla mondana NY e nemmeno dalla Londra sempre meno swinging? Qual è infine il gruppo - lo diciamo per gli amanti del rock spirituale che ha scritto meravigliose canzoni religiose come Gloria o God part II? Indovinato, sono gli U2. Il quartetto guidato dal chitarrista The Edge, non da quell’altro signore che fa il columnist del New York Times e il profeta, e nel tempo libero canta. Il quartetto che ha attraversato un bel po’ di rivoluzioni stilistiche, ma che al netto di questo e quello è rimasto un ensemble col basso, la chitarra, la batteria e la voce. E con questi quattro elementi ha creato un suono universale, gli echi della chitarra di The Edge non solo vengono imitati da tutti, ma sono stati oggetto di studio scientifico (si veda qui http://www.amnesta.net/edge_ delay/). E visto che in questi giorni in tutti i negozi del mondo, e probabilmente dell’oltremondo, troviamo il loro live, il dvd del concerto City of blinding light, quale sarà il consiglio che vi diamo dallo scriptorium rockettaro? Avete indovinato. Non compratelo. Lasciate perdere. Perché comprare il video di un gruppo ormai stanco se non avete avuto nemmeno l’onore di stare sotto al palco rotante a 360 gradi? Il concerto lo vedemmo in streaming un po’ di mesi fa, e c’era l’onesto lavoro di un gruppo che ancora se la cava ottimamente. Ma perché comprare questo dvd quando per meno soldi vi portate a casa il primo live del gruppo: Under a Blood Red Sky? Non c’è il video, ma c’è la musica, lì. E poi c’è la scomoda trascendenza del passato, cioè il fatto che tutti vorrebbero essere, ma a qualcuno tocca essere stato. Purtroppo, come diceva Shakespeare, ciò che è fatto non può non essere fatto.
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Dove osano
Auerbach & Carney dentro una black music lunatica con acidulo contorno di rock. I due hanno registrato questi quindici pezzi uno più bello dell’altro ai mitici Muscle Shoals Studios di Memphis che negli anni Sessanta e Settanta videro transitare Wilson Pickett e Aretha Franklin, Bobby Womack e Rolling Stones. Sicché, senza stravolgersi del tutto, si sono evoluti puntando sul groove. Eppoi, permettendo alle chitarre elettriche di viaggiare sottotraccia, hanno dato più polpa ai fraseggi del basso, alle tastiere, perfino al mellotron. Il risultato, geniale/umorale, mette in vetrina fra le cose migliori Everlasting Light con voce in falsetto stile Prince, saette funk e passo ritmico da «beatlesiana» Come Together; le cocciute, sporche, «hendrixiane» She’s Long Gone e Black Mud; le acidule, quasi tribali Sinister
Kid e The Go Getter; il rhythm & blues di Tighten Up, che quando meno te l’aspetti derapa nel rock. E quel blues verace, alla B.B. King, di Next Girl, che cede all’improvviso il passo all’heavy rock anni Settanta. Altrove, invece, Auerbach & Carney si divertono come matti col «vintage»: succede nella soul music vecchio stampo (amabilmente ruffiana) di The Only One e nel soul col cuore in mano di Too Afraid To Love You e I’m Not The One; nella rivisitazione di Never Gonna Give You Up del «soulman» Jerry Butler e in Ten Cent Pistol, dove c’è un sacco di Motown e tracce dell’Harlem Shuffle intonata dai Rolling Stones; nel blues, nel soul e in quel pizzico di John Lennon che scandiscono Unknown Brother e in Howlin’ For You (di nuovo blues, con tappeto percussivo alla T. Rex). These Days, la ballatona finale, ti fa incontrare come per magia Marvin Gaye. E giù applausi. The Black Keys, Brothers, V2/Cooperative Music, 17,50 euro
Bob Brookmeyer o l’arte dell’improvvisazione di Adriano Mazzoletti mprovvisamente qualche settimana fa Bob Brookmeyer, uno dei più importanti solisti di trombone, arrangiatore e compositore della seconda parte del secolo scorso è giunto a Roma per prendere parte a un concerto al Parco della Musica con l’orchestra stabile dell’Auditorium. Iniziativa assai lodevole e importante, ma purtroppo il mondo del jazz romano ha in parte disertato il concerto, perché il suo nome non dice più nulla o quasi ai giovani appassionati. Ricordo questo episodio per lanciare un piccolo grido d’allarme. Da qualche anno a questa parte, la stampa specializzata, gli organizzatori di festival, ma soprattutto la
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radio hanno dimenticato che il jazz ha una sua storia e che molti musicisti che questa storia hanno contribuito a creare, sono ancora in attività. I loro nomi però non appaiono più nei cartelloni, la loro musica non viene trasmessa e la loro storia non è più raccontata. Un altro esempio: pochi mesi fa il pianista Barry Harris, uno dei più brillanti pianisti post-bop che ha collaborato con Charlie Parker, Miles Davis, Cannonball Adderly,Yusef Lateef, era anch’egli a Roma per una masterclass in una scuola di musica. Ma siccome il suo nome è ormai sconosciuto ai più, la sua presenza è passata quasi inosservata. Per rinverdire la memoria o semplicemente per far conoscere lo straordinario musicista che è Bob Brookmeyer, è suffi-
ciente ricordare il sodalizio con Gerry Mulligan, fra il 1954 e il 1957, dove sostituì Chet Baker nel quartetto senza pianoforte inaugurato dal celebre sassofonista due anni prima, oppure le collaborazioni con Stan Getz, Jim Hall, Jimmy Giuffre o ancora le splendide partiture da lui scritte per la grande orchestra di Thad Jones e Mel Lewis e le tante altre che lui stesso diresse con l’American Jazz Orchestra. Ma tutto ciò sembra ormai dimenticato. Fortunatamente c’è chi ha deciso di ricordarlo pubblicando alcune sue splendide incisioni. È la nuova etichetta Poll Winners Records che ha deciso di stampare su cd i long-playing che, al momento della loro apparizione, si aggiudicarono ben cinque stelle sulla rivista
Down Beat. Fra gennaio e febbraio 1956, Bob Brookmeyer e il sassofonista Zoot Sims accompagnati dal trio del pianista Hank Jones, incisero su due long-playing della Storyville sedici brani, oggi raccolti in un solo disco. Quei due Lp ebbero un immediato successo e le cinque stelle più che meritate. I sedici brani, fra cui celebri standard come I Hear Rhapsody, Blue Skies, I Can’t Get Started o classici del jazz quali Blue My Naughty Sweetie Gives To Me o The King composto da Count Basie, colpiscono ancora per il modo di trattare con ironia e raffinatezza l’Arte dell’improvvisazione. Bob Brookmeyer, Poll Winners Records, Distribuzione Egea
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arti Mostre
l destino. Era abituato, come un acerbo soldatino friulano, Pier Paolo Pasolini, a varcare sovente la frontiera immaginaria tra la Venezia tizianesca e quella più austera, dura, furlana, di Pordenone e Giovanni da Udine. Su e giù, nel vecchio, usurato vagone della tradotta di terza classe, i sedili di legno, e lì sopra, un giorno, dimenticò, distratto da chissà quale fuggente fisionomia, la sua tesi. Che stava preparando con il venerato professore-incantatore Longhi, a Bologna. Umiliato, decise di strapparsi dall’arte, passò ad altra tesi, di filologia, con Calcaterra. Ma la passione, e l’impronta longhiana perdurò, nel suo dna vulnerato di poeta, e di regista. «Chi parte da Venezia - annotava dopo un viaggio di due ore, giunge al limite del Veneto, e, per dissolvenza, entra in Friuli. Il paesaggio non sembra mutare, ma se il viaggiatore è sottile, qualcosa annusa nell’aria. È cessata sulla Livenza la campagna dipinta da Palma il Vecchio e da Cima». Che bella quell’idea del trascorrere dei paesaggi, quasi già fosse un’interiore dissolvenza pre-cinematografica. E poi quell’idea dell’odore, del sentire con la mano materna degli occhi, la terra e la fertile campagna umida, che sale in effetti dalle tele del Cima, come un niditissimo, miracolato collirio luminoso, sceso lustrante su quell’articolarsi di naturalissime architetture d’inscatolati paesaggi cilestrini. Una sensazione che ritroviamo anche in uno dei suoi più sensibili interpreti, il Coletti, che par riecheggiare quello che, nella vernacolare e stravagane Carta del navegar pitoresco, sosteneva il quasi contemporaneo di Cima, il commentatore Boschini: «par che con la Natura e’l se afradela». E Coletti: «Una comunione con l’ambiente naturale, così stretta e viva da destare in noi quasi metaforiche illusioni dei sensi:
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dignitas classica del suo far semplice e insieme articolatissimo, che ci conquista per sempre e forse ce lo rende oggi più importante ancora, di quanto una critica elogiativa ma sostanzialmente diminuente (nell’indulgenza della sua esagerata «bravura») lo ha troppo a lungo imbalsamato, lui che ha balsami più liberanti. E che era portentoso proprio nel costruirci la sua di bellezza, non «ingenua» come molti hanno etichettato, ma confindente, immediatamente d’innanzi ai nostri occhi: come un prestigiatore della veduta, o un maestro di tempura (secondo Barthes). Lasciando «che la “veduta”filtri discreta e incantevole, negli spazi liberi delle grandi pale» (De Logu) mentre le figure (ancora Coletti) «sembrano cresciute nel paesaggio stesso, così come il paesaggio, pur nella sua varietà, sembra nato spontaneamente e non composto, umilmente vero e concreto». Davanti al nostro sguardo stregato (perché è vero che di filtri luminosi si tratta, di velature alla ponentina, ma se vogliamo anche di strane, incantatorie pozioni cromatiche). Come parrebbe certificare il Longhi, parlando del serafico San Sebastiano di Strasburgo, trafitto soltanto da una dolce piuma di freccia, atteggiata come un passo di danza, quasi un battente archetto barocco, eppure non meno vulnerante. Certo, è difficile non rileggere Cima con l’ausilio del Viatico longhiano, nelle terre della pittura veneta. Ma oltre alla riconoscenza, per una mostra così calibrata e armonica di soli capolavori, non si può trascurare la ricchezza del catalogo Marsilio, che ci fa riassaporare scritture e sensibilità alte, come quelle di Berenson, Pallucchini, Fiocco, sino al settecentesco Lanzi, che insieme a noi conviene che «nelle arie delle teste, nel comparto de’ colori, ha quel non so che per cui non si farebbe mai fine di riguardarla».
Stregati dai miracoli
di Cima da Conegliano
Archeologia
di Marco Vallora ché par di respirare aria fresca, profumo di fiori, alito di verzura, odor di terra: sapore di verità». Se si tenta d’essere dei rapiti «viaggiatori sottili» anche dentro la meritoria mostra che Giovanni C.F. Villa ha dedicato al poeticissimo Cima da Conegliano, quel miracolo di natura che si fonde con i volti e con le dolci riesumazioni dell’architettura antica (in modo assai diverso e certo meno antiquariale, che non nel Mantegna, quasi coetaneo) quella «vitrea
chiarezza», come suggerisce Villa, però anche affabile, affettuosa, come lo sguardo delle sue Madonne, su quei bambinetti liberi e ben sodi, già autonomi e sempre curiosi, a respirare l’intorno, gremito di dettagli quasi fiamminghi, ti vien incontro con una dolcezza e una naturalezza, che ha pochi confronti (nonostante a pochi passi da lui si dipanassero altri magisteri sublimi e tremendamente concorrenti). Ma è la naturalezza incomparabile, con cui egli bagna generosamente la
Cima da Conegliano. Poeta del paesaggio, Conegliano, Palazzo Sarcinelli, sino al 20 giugno
Oro, argento e ambra... ecco i tesori di Spina
l museo Archeologico nazionale di Ferrara vanta un nuovo tesoro. E non c’è parola più adatta per definire la collezione ospitata nella Sala degli Ori aperta questa settimana per la prima volta al pubblico. Si tratta di una raccolta straordinaria di gioielli realizzati in oro, argento, ambra e pasta vitrea di manifattura greca ed etrusca rinvenuti nelle tombe di Spina. E per il raffinato allestimento di queste oreficerie e monili, datati dal V al IV secolo avanti Cristo, è scesa in campo anche la maison Bulgari. Sono orecchini, anelli, diademi, collane, ciondoli e monili, quasi un centinaio di pezzi che documentano l’elevata raffinatezza degli artefici che li produssero. La neonata Sala degli Ori espone anche altri oggetti preziosi, incluse due pissidi in marmo e numerosi balsamari in pasta vitrea. Ma soprattutto, la collezione è costituita da pezzi in gran parte inediti e sconosciuti al pubblico che vanno a integrare il percorso espo-
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di Rossella Fabiani sitivo dedicato alla necropoli di Spina. Le tombe infatti hanno restituito diversi prodotti di oreficeria, in parte attribuibili all’artigianato etrusco, in parte affini ad analoghi gioielli magno-greci. Quasi tutti gli oggetti esposti provengono da sepolture risalenti all’ultimo ventennio del V secolo avanti Cristo, un periodo di generalizzato benessere per questo centro etrusco. Le tecniche di lavorazione dei reperti attestano l’elevato grado di abilità raggiunta dalle botteghe artigiane. Non a caso Spina era uno dei più importanti centri di smistamento dell’ambra baltica. I materiali usati, l’oro, l’argento, l’ambra, le pietre semipreziose (agata, corniola, cornalina) e le paste vitree, sono materiali che, nell’oscurità della tomba, evidenziano il riflesso di luoghi e liturgie che alludono al potere e alla ricchezza, nascondigli che custodiscono tesori esclusi dai riti quotidiani e destinati, all’occorrenza,
agli usi cerimoniali. Gli orecchini - il gioiello di gran lunga più frequente nelle sepolture - sono in genere di forma tubolare ricurva, con l’estremità realizzata a protome di ariete o leone, a testa femminile e di Acheloo, tipici dell’area etrusco-padana. Più rare le fibule, in bronzo e argento, utilizzate per chiudere le vesti o i lembi del sudario. Gli anelli, a sottile verga d’oro, hanno a volte castoni in pasta vitrea mentre le collane, di cui non mancano esemplari in oro, sono in genere formate da vaghi e da pendenti in ambra alternati a perle in pasta vitrea. Rispetto all’elevata percentuale dei vasi attici di V e della prima metà del IV secolo avanti Cristo, a Spina la presenza di manufatti in oro nei corredi è relativamente eccezionale e quasi sempre riguardano il mondo femminile. Oltre ad amuleti di vario materiale, nelle tombe vengono occultati intenzionalmente pochi monili in oro, realizzati probabilmente da officine locali che, pur basandosi su esperienze artigianali precedenti, riescono a ideare nuovi tipi di gioielli e a lanciare nuovi stili. Gli ori e i reperti preziosi di Spina, oltre a essere una documentazione rara, ostentano il prestigio familiare esaltando al tempo stesso il valore carismatico dell’orafo-artigiano, un vero e proprio demiurgo che manipola materiali che simboleggiano l’eternità in rapporto alla ciclicità e alla caducità della vita umana.
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il paginone
Quando anche in Italia alle due camere e cucina si aggiunse il salotto, cambiò un’epoca. E oltre allo stile mutò il rapporto con gli oggetti e la funzione della casa. Breve viaggio nelle oscillazioni del gusto nel Novecento seguendo il percorso (ormai centenario) tracciato da un maestro del genere: Gillo Dorfles di Franco Palmieri l passato non c’è più; ma è la sola realtà che possiamo raccontare, anche se attraversarlo a ritroso comporta inciampi e sviste. Celebrando i cento anni di vita di Gillo Dorfles (compiuti il 12 aprile scorso) e i 101 di Rita Levi Montalcini (festeggiati anche da lei in aprile), scopriamo che il tessuto di una vita si intrama con il tempo che abbiamo attraversato soltanto se lo abbiamo cavalcato compiacendoci di seguirlo, così che alla fine la nostra testimonianza riveste se non il ruolo del protagonista, certamente quello del testimone. Nel caso di Dorfles ruolo del promoter perché, disincagliarsi dal proprio tempo, come fecero gli idealisti inglesi - da Moore a Owen - in cerca di Utopia o per fondare l’ennesima New Lanark, fornisce struggenti anamnesi filosofiche ai posteri ma, nello stesso tempo, sconcertanti fughe dalla realtà. Noi tutti, la «gente» - primum vivere! - ci soffermiamo sul presente e ce lo portiamo a casa, giorno dopo giorno. Gillo Dorfles, e tanti come lui che hanno attraversato il Novecento, si sono da subito posti la domanda: perché questo oggetto, quel quadro, quel film, quel libro? E perché è successo, a un certo punto della storia delle società, che una sorta di semiologia del quotidiano sia diventata la traccia di una esistenza privata come se fosse
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è sempre in agguato, perciò sono poco attendibili). Ma la domanda che ci ponevamo qualche passo più indietro non è solo retorica (perché questo oggetto e non un altro?); essa ha contrappuntato tutto il Novecento ed è alla fine il segno distintivo di ciascuno di noi nella classifica dell’apparenza. Ci stiamo avvicinando al punto del discorso, ma dobbiamo cominciare dal principio, tenendo presente un assioma (dovuto al Michael Foucault): le parole sono le cose e le cose siamo noi. Stabilito (andiamo per sintesi) che la famiglia e la casa costituiscono il fondamento di ogni società è stato con il Novecento che il Lunpenproletariat (quelli che per ricchezza non avevano che se stessi), diventata piccola (ma proprio piccola) borghesia, (nonostante lo strumentale
le carrozze dei monarchi che ancora regnavano in tutti gli Stati europei (in Francia no; e negli Usa dal 1776). Naturale, quindi, che la Grande Esposizione Universale che inaugurava il Novecento avesse luogo a Parigi. E per l’occasione Bemporad pubblicò una sontuosa guida a uso di quella borghesia che voleva sprovincializzarsi. E la tecnologia, diciamo pure il progresso della scienza e della meccanica, l’ebbero vinta sui sogni degli utopisti, Carlo Marx compreso. Una vittoria che nel corso di tutto il Novecento si è ripetuta più volte per sovvertire agli inganni di ideologie tragiche e illusorie.
Però, come un motore in rodaggio, il Novecento ci mise qualche anno a partire. Tuttavia il portato di alcune speculazioni ideali dell’Ottocento, sfrondate del falansterio onnicomprensivo del Fourier e del rivoluzionarismo utopico di Owen (anche se prefiguravano una forte critica alla futura società di massa di là da venire), entravano nel Novecento perché ormai radicate nella percezione dei valori individuali e nella consapevolezza diffusa di una equità sociale che non poteva più assuefarsi alla ipocrita bonomia delle aristocrazie regnanti. Più delle fughe utopiche, la Dottrina sociale della Chiesa e il magistero di Antonio Rosmini (1797-1835) con il
Il desiderio di riempire le pareti del “salone” segna l’inizio di un processo economico irreversibile. Punteggiato dal cinema dei telefoni bianchi, dai grandi magazzini, dai fumetti, dal tripudio del kitch esclusiva mentre era, volutamente (snobisticamente?) inavvertita, identica a quella di tutti gli altri (addirittura del nostro dirimpettaio del pianerottolo del condominio)?
Certo non capita a tutti i contemporanei di uno stesso secolare percorso l’occasione, la capacità e la fortuna di averlo quell’oggetto del Novecento potuto osservare godendolo e studiandolo, come fanno certi buongustai di professione che studiano mentre mangiano (lo fanno anche gli assaggiatori di vini, ma la sbornia involontaria anno III - numero 23 - pagina VIII
classismo bolscevico) ha cominciato a domandarsi che cosa doveva metterci in quella stanza in più che gli architetti stavano aggiungendo a fianco delle due camere e cucina. Un passo avanti era stato già fatto, dopo che per secoli in una stanza col camino si mangiava e si dormiva. E pensare che questa stessa gente usciva da quella stanza con una valanga di figli per andare ad assieparsi lungo un percorso dove sfilavano
L’ESTETIC della “terz suo fondamentale Nuovo saggio sull’origine delle idee, avevano aperto un varco nella società dell’Ottocento e conseguito un’universale affermazione gettando le basi del concetto che riconosceva dignità alla persona umana nelle procedure di legge e nella politica. Una rivoluzione tutta interiore che riconosceva a ciascuno il diritto alla parola. E non fu per caso che Filippo Marinetti, l’ideatore ed elaboratore del Manifesto futurista del 1909, si fosse formato agli studi presso un istituto di gesuiti. Libero di pensare, di esprimersi, di agire e di scegliere, l’uomo del Novecento fu colto da una certa ebbrezza, come quando vai in discesa e non pensi alla necessità del freno. E il freno della libertà è la formazione culturale, l’educazione. Che essa passi per la scuola è vero solo in parte, perché i comportamenti diffusi e reclamizzati costituiscono altrettanti suggerimenti esemplari. Non era più l’aristocrazia che sfila in carrozza a offrire modelli irraggiungibili, così lontani da presentarsi appena a una obbligata e
invidiosa ammirazione mascherata di deferenza. Già il logos stava in Occidente cominciando a cedere spazio all’imago, perché il vedere parlava più eloquentemente del dire, comunicava tutto e subito e oltre che suggerire faceva una cosa in più: suggestionava; praticamente un sofisma, cioè una stratificazione sofisticata, essendo il segno manipolatore della ragione, riusciva meglio laddove più che vincere bisognava convincere. La famiglia borghese stava entrando a pieno diritto nella storia; anzi la stava facendo, la Storia. Ma forse qui la maiuscola non si addice ai fatti. E, nei fatti, la rappresentazione di quella borghesia che bocciava nei modi, nei gusti, nelle attitudini e nei consumi, soprattutto nello stile di vita, demistificava se stessa nella rappresentazione che mostrava di sé.
Nascere agli inizi del Novecento, come Gillo Dorfles e i suoi, almeno per un po’ di tempo, coetanei, significava muoversi in parallelo al procedere di un percorso che, se nati distanziati da questo, avrebbe potuto generare una sopraffazio-
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di un Marcovaldo pre-Italo Calvino, rimbecillito da una Luna e (co)gnac (l’insegna pubblicitaria di un brandy in una notte di luna cui era caduta una sillaba). I fumetti entravano nelle case dello sterminato suburbio americano con tutto il carico ilarosatirico che li contraddistingueva, generando quel fastidioso senso di inconfessabile rivalsa perché «l’erba del vicino è sempre più verde».
CA za stanza” ne; perché le mode o si fanno o si subiscono. Erano così tante le novità che si accalcavano, che il Novecento ci mise un po’ prima di liberarle tutte. Ma dopo il primo decennio del nuovo secolo detto «breve», ma affollatissimo - se ne stabilirono i tre fondamentali capisaldi, ancora in auge: i mezzi di comunicazione, la pubblicità, il valore identitario degli oggetti.
Sorprendentemente, la sintesi di tutto questo era già stata espressa nella società americana statunitense che aveva già inglobato nella sua economia sociale gli esiti della Rivoluzione industriale, e il racconto quotidiano di questa way of life piccolo borghese aveva trovato i suoi characters nei personaggi della Commedia dell’Arte del Novecento, i fumetti. Il primo fumetto, quello del bambino Yellow Kid, era in realtà un espediente pubblicitario: il pupo vestiva un camicione,
giallo per l’appunto, sul quale veniva diffuso un messaggio: comprate i biscotti di questa ditta, i vestitini di quell’altra, eccettera. Il primo grande general store, in Inghilterra e poi a New York, quello della famiglia Woolworth, seguito a ruota da Maci’s, oltre alla merce raccoglieva i clienti. E questi clienti, i burini che scendevano in città, venivano osservati dal signor Hopper, il creatore di Happy Hooligan, il fumetto che raccontava «le avventure in città»
commedia del Novecento; e più tardi il cinema dei telefoni bianchi, da Bragaglia a Camerini a Blasetti. Se i fondamenti dell’estetismo si insegnano a scuola (il Partenone, la Nike di Samotracia, le opere di Fidia, eccettera), il «gusto cambia, è legato al momento e quello attuale non potrà mai essere di domani. Per cui, anche se vi confluiscono, rassegnamoci: oggi lodiamo il liberty dopo averlo trovato di pessimo gusto a metà Novecento, e prepariamoci a rivalutare domani i mobili post-liberty dei nonni, quelli che oggi non avremmo nemmeno il coraggio di adoperare» (così Gillo Dorfles il giorno del suo centesimo compleanno, sul Corriere della Sera). E il Kitsch, titolo della sua opera del 1968, dieci anni dopo l’uscita delle «oscillazioni»?
Accadde anche in Italia. E poiché dopo il praghese Aloys Senefelder inventore della litografia, la sovrapposizione alternata delle lastre a colori aveva dato il via alla stampa in quadricromia, mentre nasceva Gillo Dorfles usciva il Corriere dei Piccoli, le cartoline illustrate pubblicitarie e cominciavano le avventure di sor Pampurio, Fortunello (nome dato da noi a Happy Holligan), Marmittone, Il Signor Bonaventura (inventato da Sergio Tofano per dare un alter ego positivo allo sfigatissimo Fortunello) e, dulcis in fundo, Arcibaldo e Petronilla e più tardi, Blonde. E qui, dove la piccola borghesia è raccontata nella sua privacy, qui entra Gillo Dorfles. O meglio, tutto quello che Le oscillazioni del gusto, la sua opera sulle modificazioni nelle acquisizioni dei segni di qualificazione sociale, hanno contribuito a raccontare sulle varianti dell’estetismo, sempre conteso tra «tecnocrazia e consumismo». Ma dicevamo all’inizio della grande novità che il Novecento ha introdotto nella società urbanizzata: la terza stanza. Quando le due camere e cucina si arricchiscono del «salotto»,
C’è, in questi corsi e ricorsi dell’estetismo, del gusto e negli stili espressi da tutti noi nell’andare degli anni, la forza di quelle altre due componenti che inauguravano il Novecento: la comunicazione di massa e la pubblicità. In fondo, l’adeguamento - che non è peccato - del prodotto ai gusti del mercato, giacché il bello di prima è destinato a trasformarsi nel brutto di domani e di nuovo nel bello di dopodomani, smobilita e vanifica lo snobismo di una autoreferente upper class sociale tesa a distinguersi solo per il livello e la portata dei propri consumi, dai Suv alle patacche dorate bene in vista, al visone a teatro. L’elogio del Kitsch, ben oltre la sua intenzione provocatoria sempre all’erta, anticipa oggi il valore estetico ricono-
C’è nei corsi e ricorsi dell’estetismo e negli stili espressi nell’andare degli anni, la forza di quelle altre due componenti che inauguravano il XIX secolo: la comunicazione di massa e la pubblicità cui è seguito l’accrescitivo autoreferente-comunistico di «salone», oltre al gusto e allo stile mutano il rapporto con gli oggetti e la funzione della casa. Il salotto di nonna Speranza e le piccole cose di pessimo gusto di gozzoniana esegesi, denotano forse un sogno acquisitorio del neo-inurbato, ma sicuramente l’inizio di un processo economico che non si è più arrestato. La funzione della critica del gusto - da Galvano della Volpe a Dorfles - ha trovato la sua ragion d’essere nel mercato piccolo o alto borghese, ma pur sempre nel desiderio di riempire le pareti della terza stanza. Del resto il teatro ne aveva bisogno per rappresentare la
Alida Valli, diva dei “telefoni bianchi”; sopra, alcune locandine pubblicitarie; a sinistra una delle prime televisioni-oggetto protagoniste degli arredi dei salotti americani; un’immagine di Gillo Dorfles
sciuto domani, e suona paradossale. Ma se il Kitsch è tollerabile e forse necessario all’equilibrio tra produzione e consumo, è quell’altra cosa, la diseducazione nei comportamenti, che ci affanna. Ma questo è un altro discorso. Del resto, i critici dell’estetica (specie nel mercato delle arti) l’etica talvolta la lasciano a casa. E se, alla fine, la protagonista - o la responsabile? - di questo tripudio di kitsch-non-kitsch è lei, l’arbasiniana casalinga di Voghera, simbolo di tutte le vittime del Peggio di Novella 2000 di Arbore e D’Agostino, il suggeritore sarà certo il demone della pubblicità, del mercato, ma il freddo artefice sarà stato lui, il deus ex machina convogliatore della febbre acquisitoria, «il gillidorflismo». Anche così si diventa famosi e imperituri. Altro che cento anni.
Narrativa
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libri
Paolo Ruffilli UN’ALTRA VITA Fazi, 204 pagine, 18,50 euro
di Maria Pia Ammirati
aolo Ruffilli appartiene alla categoria dei facitori, non solo poeta, saggista e narratore ma egli stesso editore come direttore della collana del Leone d’oro. Come poeta di talento alle sue prime prove, ricordiamo tra queste Piccola colazione del 1987, fu citato da Eugenio Montale, e quelle sue stesse qualità poetiche, concisione e sapenzialità espressiva, Ruffilli le esporta nella prosa e nell’ultimo suo libro di racconti pubblicato da Fazi, Un’altra vita. Al titolo non è secondario aggiungere il sovrattitolo che appare a pagina 7: «20 storie d’amore in cerca di un’altra vita». Il primo libro di narrativa uscito nel 2003, Preparativi per la partenza, anticipa certamente quest’ultimo, nei temi, nell’avvicinamento alle realtà minime delle stanze borghesi. E le stanze non sono nominate a caso in questa raccolta meticolosamente organizzata per tempi (date) e spazi, perché gli scenari sono interni di vita matrimoniale, di brevi storie di coppie, di amori incipienti o in finale di partita, che si articolano in rapidità verso la fine o la gestione della routine dei rapporti d’amore o convenienza. Affilato lo sguardo verso le piccole e minime cose, il testo, per tornare alla struttura, è ordinato in quattro tempi, tempi stagionali a loro volta suddivisi da citazioni in un vero trionfo delle soglie genettiane, l’ordito che non è fuori dal testo ma contribuisce a essere testo. Arriviamo dunque alle storie, 5 per ogni stagione: 20 brevi, a volte brevissimi, racconti tutti interpretati da coppie e dedicati ad altrettanti scrittori, tranne quello dedicato a Emily Dickinson. Sia le dediche che le stagioni hanno apparentamenti e rimandi nei testi, spesso microscopici, ma tutto concorre alla tessitura poetica dei racconti, tessitura prima di tutto espressiva per la massiccia cura data alla parola, da quella petrosa a quella allusiva, privilegiandone sempre il suono con giochi di rime interne, allitterazioni e assonanze. Gli attori in campo sono volti senza nomi, i nomi evidentemente sarebbero una forzatura o un inutile distrazione dal movimento che corre verso lo svelamento del rapporto amoroso che vorrebbe sempre essere un’al-
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Riletture
Altri amori, in un’altra vita Venti brevi storie compongono la nuova raccolta di racconti di Paolo Ruffilli: una prova narrativa intrisa di lirismo
tra storia da quella corrente. L’altra vita può essere sognata, immaginata o sperata, un’altra vita come quella monologata dalla Dickinson che chiaramente allude alla poesia senz’amore, all’ombra, alla solitudine o il racconto dedicato a James Joyce non solo ambientato in Irlanda (la fresca estate irlandese), ma giocato sui temi dell’amore spirituale e della fede cattolica. In questo racconto d’apertura, l’attrazione amorosa si veicola attraverso la bellezza folgorante della natura, una bellezza a volte violenta e scontrosa. Come la protagonista, «un’esaltata, di quelle che l’isola aveva prodotto sempre in grande quantità… una di quelle patetiche bigotte». La donna e la natura si fondono in un’identica accensione amorosa, «un’accensione, come sfregando il fiammifero sul ruvido di sabbia», che in una sorta di lotta tra spirito e carne vede l’amore carnale come un finale rapido e inevitabile. La donna, la bigotta dai capelli rosso fiamma, non sfugge all’attrazione del viaggiatore innamorato, facendo tornare alla memoria il vecchio adagio «son le figlie di Maria tra le prime a darla via». Non è banale parlare del lirismo in prosa di Ruffilli, il lirismo di Un’altra vita è l’espressione totale, che investe anche le storie, di questo testo. La narrazione non è certo un supporto alla lirica, ma amplia il respiro narrativo dei testi poetici dell’autore della Camera oscura (Garzanti 1992). Si può parlare di una sorta di poesia totale o di un esperimento che cerchi nella poesia ancora più corpo, ancora più estensione. In questo testo, in cui i conti devono sempre tornare - quattro sono i tempi, 5 i racconti, venti è la somma totale -, contano comunque le storie dei singoli, filamentosi organismi che trovano evanescenti rispondenze tra loro.
Per Popper la verità non è infallibile (e nemmeno l’aspirina) mre Lakatos diceva che le idee di Popper rappresentano lo sviluppo più importante nella filosofia del Ventesimo secolo. Non è un’opinione esagerata, certamente non è arbitraria. Il modo in cui Popper ha fatto filosofia e i risultati che ha ottenuto sono non solo ragguardevoli sul piano degli studi, ma anche utili e necessari per la nostra concezione della libertà e della vita politica ed etica. L’idea che il filosofo del «razionalismo critico» ci trasmette della vita umana associata è quello della «società aperta» e del pluralismo: sono «idee» che, per essere comprese e apprezzate, non possono essere isolate dal significato della filosofia di Popper. Il filosofo che con qualche forzatura potremmo definire «il filosofo che inventò la filosofia della scienza» ha legato il suo nome a una visione non dogmatica della conoscenza umana. È l’idea che Popper ebbe della scienza e della conoscenza - che cosa vuol dire conoscere? ecco la domanda centrale della sua opera - che gli permise di avere un’idea più matura del liberalismo e della democrazia. Gli per-
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di Giancristiano Desiderio mise, in altre parole, di elaborare tanto una scienza quanto un’etica non totalitarie. Rubando un’idea di Nietzsche si può dire che Popper è un filosofo per tutti e per nessuno. Il suo stile è piano e il suo linguaggio non è gergale. Popper odia i paroloni e ritiene che sia dovere del filosofo essere chiaro e comprensibile da tutti. Proprio perché il filosofo parla a tutti, ossia gli uomini, e non ai docenti o agli iniziati. Congetture e confutazioni, da poco ristampato e rimandato in libreria dal Mulino, è un testo esemplare di Popper, diciamo pure un capolavoro. Popper non è un dogmatico, ma non è neanche uno scettico. Crede nella ragione umana, ma anche nei suoi limiti. Sa che il valore più importante delle «congetture scientifiche» risiede nella capacità umana di criticarle per scoprirne errori. Secondo l’aforisma di Oscar Wilde «esperienza è il nome che ognuno dà ai propri errori». Per certi versi il pensiero di Popper è la messa a
Ristampato “Congetture e confutazioni” con una prefazione scritta dal filosofo ottantatreenne
tema di questo aforisma. L’idea che ci si possa liberare una volta e per tutte e per sempre degli errori è non solo pericolosa perché nasconde un altissimo potenziale ideologico e totalitario, ma anche sciocca perché se possiamo imparare qualcosa è proprio perché esistono gli errori da cui apprendiamo. In questa edizione di Congetture e confutazioni c’è una prefazione datata 1985, scritta da Popper quando aveva 83 anni. Si discute del problema dell’induzione. Per Popper la conoscenza induttiva non è certa e infallibile. Anche le osservazioni più banali, ad esempio che il sole sorge tutti i giorni perché così è sempre stato, non ci può dare la certezza che così sarà sempre. Non ci sono luoghi della Terra, infatti, in cui c’è il sole di mezzanotte o il sole non sorge affatto? Altro esempio: l’aspirina. Fa bene, è utile, è risolutiva di piccoli problemi. Eppure, «chi può dire che non sia possibile scoprire un giorno che l’aspirina ha seri effetti collaterali di un tipo che fino a oggi non è mai nemmeno stato preso in considerazione?». Se ne ricava che la verità non deriva dall’induzione. La verità non è un’aspirina che toglie tutti gli errori.
Stili
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ALTRE LETTURE
L’ITALIA DOLENTE DI MASSIMO FINI di Riccardo Paradisi
Due Roth
per un sol Uomo Joseph e Philip, due epoche diverse ma lo stesso gusto della verità e dello smascheramento. Con al centro l’individuo denudato, nevrotico, sradicato. Come in “Fragole” o in “Everyman”... di Pier Mario Fasanotti on è così insolito, o insano, leggere le pagine di uno scrittore e ricordare quelle di un altro. La letteratura è una concatenazione di parole, atmosfere, caratteri. L’apparente caos mnemonico viene spontaneo quando due scrittori hanno lo stesso cognome: Roth. Il primo Roth, per così dire, si chiamava Joseph (1894-1939), era ebreo ed era nato in Galizia (a Brody), parte orientale dell’impero austro-ungarico. Con la morte di Francesco Giuseppe, Roth avverte la perdita della patria, lo sradicamento. Autore di libri che sono capolavori, fece anche il giornalista: con estrema attenzione verso un mondo che si stava disgregando. Non è un caso che qualcuno lo definisse «fanatico della verità». In obbedienza al dovere di vivisezionare la società ma anche l’uomo, Roth ci ha lasciato delle impeccabili anatomie letterarie. Una di queste, pubblicata ora dall’Adelphi (178 pagine, 14,00 euro), s’intitola Fragole e comprende due racconti lunghi.
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Il «secondo» Roth si chiama Philip, è nato a Newark da famiglia ebrea nel 1933. Diventato celebre in tutto il mondo con il Lamento di Portnoy, ha speso la sua esistenza tra insegnamento e scrittura. Alla pari di Joseph, sia pure in un altro contesto, Philip si tuffa nel mezzo di una situazione sociale o familiare, ponendo in rilievo meschinerie, avidità, passioni, solitudini sconfinate, piccole abitudini. In entrambi gli omonimi narratori la barra di navigazione è l’umorismo ebraico, dissacratore il più delle volte, pietoso a tratti, sempre intriso del gusto della verità e dello smascheramento. Il centro ideale dei libri dell’uno e dell’altro Roth è l’uomo denudato, nella cornice di una società le cui dinamiche fanno cornice ma al tempo stesso diventano personaggi esse stesse. Nel primo racconto di Fragole, intitolato Perlefter, storia di un borghese, Joseph Roth insiste magistralmente, col suo bisturi psicologico, nel dipingere la personalità di un uomo estremamente noioso, maniacale, banale, commerciante arricchitosi con l’intuito medio. Con lo «sbagliato» (in quanto a perso-
nalità e a destino, se si pensa all’eroe greco) nome di battesimo, Alexander, il piccolo borghese non prova sentimenti netti, semmai discreti piaceri tutti appesi ai moti di simpatia o di antipatia: «Non riusciva ad amare o a odiare… voleva conservare quel che possedeva… persino la moglie voleva tenersi, anche se lo annoiava e nei suoi confronti provava l’interesse che si prova per una governante». C’è in questa bel oliata macchina per mediazioni commerciali, il senso della perdita. Come in alcuni personaggi di Philip Roth. «Sentiva galoppare la morte» scrive di lui l’autore galiziano. Fin da bambino s’era abituato a non ribellarsi alla crudeltà: «la accettava, togliendone il nutrimento». Ipocrita sia nell’ambito familiare che in quello sociale, era solito dire: «Non pretendo gratitudine». E Roth aggiunge: «E la pretendeva». Il signor Perlefter, di modesti studi e di abissale ignoranza, si colloca ovviamente nel partito conservatore, ultramoderato. Crede che qualsiasi dinamismo sociale sia pericoloso. La monarchia è una garanzia contro movimenti di piazza, fantasie utopiche, innovazioni azzardate. Un suo credo: «Le polemiche sono in assoluto superflue. Ci si può sempre mettere d’accordo. Io voglio la quiete a ogni costo». Uno dei suoi pensieri più profondi è: «A poco a poco s’invecchia». Oltre non va. Ci va invece il protagonista di Everyman (Einaudi) di Philip Roth, messo al tappeto dalle malattie e dagli anni che incalzano. Scrive l’autore di quest’uomo alla deriva: «Non c’era più nulla che stimolasse la sua curiosità o che rispondesse ai suoi bisogni, né la pittura, né la famiglia, né i vicini, nulla tranne le giovani donne che gli passavano davanti facendo jogging la mattina sulla promenade». A una di queste presenze muscolari femminili lui dà il suo numero di cellulare. «Lei non chiamò mai» annota l’autore.
n paese privo di principi, di valori condivisi che non siano i soldi, volgare, senza dignità e senza onore, spietato senza essere virile, femmineo senza essere femminile, corrotto, intimamente mafioso, devastato nel suo straordinario paesaggio naturale urbano artistico che lo ingentiliva insieme alla sua gente. Una parodia di democrazia sequestrata dai partiti e dai suoi mediocri esponenti che la abusano. Espressioni e parole sono inconfondibilmente quelle di Massimo Fini che in Senz’anima (Chiarelettere, 472 pagine, 15,00 euro) fotografa il degrado dell’Italia degli ultimi trent’anni mettendo insieme come in un mosaico gli articoli scritti in questi decenni nel suo lavoro di inviato, di cronista, di commentatore. Un panorama dolente su cui si stagliano anche i ritratti magistrali di Craxi e Martelli, Cossiga e Berlusconi, Gradini e Scalfari,Vespa e Costanzo.
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Il signor Perlefter di Joseph Roth è sentimentalmente anemico. Solo sul piano sessuale ha le sue impennate, ovviamente clandestine. Si annota nel taccuino, poco distante dal calendario delle ricorrenze ebraiche, l’indirizzo di quelle signore che, se pagate, possono fargli trascorrere ore di straordinaria effervescenza ormonale. Il benestante Perlefter paga il dovuto, s’irrita per il dovere di portarle a teatro o al cinema: «I destini altrui, anche se solo recitati, non lo riguardavano. Amava soltanto i propri, solo di sé poteva preoccuparsi». In quei momenti di desiderio ammette con se stesso di «aver voglia di donne», mai sfiora le corde del sentimento o dell’intimità mentale. Delle donne - e che siano bionde, per carità - predilige la biancheria intima. Oltre non va, altro non scopre e non vuole scoprire. Quel che afferra dell’universo rosa sono alcuni particolari fisici, utili per imbastire un racconto lievemente piccante da fare nel suo circolo. Più che l’esperienza in sé, a lui piace conservare un ricordo.
Un altro tratto comune ai due Roth è la nevrosi, certamente vissuta e sperimentata su se stessi. Axler, l’attore protagonista di L’umiliazione di Philip Roth, ci si pone davanti nel momento in cui si blocca. È la deriva nevrotica, è un viaggio corto in una gabbia. Axler, sull’orlo del fallimento professionale e umano, confessa piagnucolando: «Non sono più capace di rendere reale un ruolo per me stesso». Il signor Perlefter non ha questa tragica consapevolezza, non ne è capace. Però devia il proprio e crescente disagio in manifestazioni di panico o di maniacalità. Quando comincia a viaggiare comincia anche a temere il prossimo, convinto che dietro ogni maschera umana si celi un assassino, un aggressore. Oppure s’affatica a disinfettare gabinetti, lavelli, abiti: all’odore del mondo preferisce quello del cloroformio. Alexander ha davvero un nome sbagliato. È Alexander il piccolo. Bara con se stesso, la famiglia, il prossimo, i parenti «fastidiosi». Bara e non sa di barare. Gli basta solo stare quieto, magari davanti a un quadro, pur non capendo un’acca di pittura.
CONFINDUSTRIA SECONDO ASTONE *****
opo averci raccontato negli Affari di famiglia meschinità e miserie dei figli dell’alta borghesia industriale italiana, Filippo Astone racconta nel Partito dei padroni (Longanesi, 382 pagine, 17,60 euro) come Confindustria e la casta economica comandano l’Italia. Un partito come tutti gli altri, lo definisce l’autore, con tanto di scandali, guerre interne e conflitti d’interesse ma anche ricco (circa un miliardo di ricavi all’anno), potente e molto ramificato sul territorio. Astone spiega perché Confindustria è così influente e come funziona il suo potere, quali sono le leggi che ha imposto e in che modo vuole ridisegnare il Paese ottenendo mano libera sui contratti. Soprattutto quali sono le rendite di posizione dell’estabilishment economico italiano, mettendone in luce la mancanza di ricambio, i compensi incredibili, la tendenza a comportarsi in modo uguale se non peggiore a quello della casta politica.
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SIAMO TUTTI PSICOPATICI? *****
erché è così difficile smettere di fumare? Com’è possibile che un placebo si riveli altrettanto efficace di un farmaco? Cosa intendiamo oggi per comportamento normale? Attraverso 50 brevi, essenziali ed efficaci capitoli Adrian Furnham in 50 grandi idee di psicologia (Dedalo, 207 pagine, 18,00 euro) guida il lettore alla scoperta dei concetti di base di una disciplina che si propone di indagare il comportamento e il pensiero umano, i sentimenti e le idee. Con uno stile brillante e discorsivo applicato a contenuti rigorosi, l’autore ci illustra alcune delle più comuni psicopatologie.
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di Enrica Rosso nche quest’anno la progettualità internazionale promossa dal Napoli Teatro Festival regala frutti succosi. Concentrandoci sull’uso delle immagini, della tecnologia, elementi ricorrenti del programma, abbiamo individuato due progetti che manderanno in visibilio gli appassionati del genere. Fino al 27 giugno nelle sale del Pan, Palazzo delle Arti di Napoli, c’è in prima assoluta Devo partire. Domani, la videoinstallazione del filmaker Ming Wong ispirata al film Teorema di Pasolini. Nella celeberrima pellicola un misterioso sconosciuto andava a turbare con il suo fascino sensuale la routine di una famiglia borghese composta da padre, madre, i due figli adolescenti e una domestica, per poi partire improvvisamente lasciandoli in ambasce dopo aver consumato rapporti carnali con ciascuno di loro. Prodotta dal Festival l’installazione si sviluppa contemporaneamente in cinque sale comunicanti in ognuna delle quali si proietta il vissuto dei singoli personaggi coinvolti nella vicenda, scandito in tre momenti chiave: tentazione, confessione, rivelazione. Le prime due fasi identiche per tutti, la terza, di parte. Già Menzione Speciale della giuria alla Biennale di Venezia 2009 con Life of Imitation, lo studio di Ming Wong sui personaggi è qui arricchito dalla potenza espressiva dei contesti ambientali che spesso rubano la scena al giovanissimo artista singaporiano, unico interprete di tutti i ruoli. La residenza a Napoli del performer ha enfatizzato un senso di appartenenza ai luoghi di assoluta pertinenza. Il rapinoso Vesuvio, le sale del Museo Archeologico, gli scempi di Bagnoli o le Vele di Scampia con la loro significante realtà offrono a chi guarda un ulteriore, potente impatto di
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Televisione
Teatro
MobyDICK
spettacoli DVD
Gioco di ruolo con imprevisti
Immagine e tecnologia in “GuruGuru”, in programma al Napoli Teatro Festival 2010
un’interiorità implosa esibita per contrasto dal paesaggio. Il numero cinque ritorna anche nell’ultima creazione dei Rotozaza, in scena fino a domani al Korperformer. Frutto dell’incontro artistico
tra l’inglese Ant Hampton e Silvia Mercuriali, che dal 1999 esplorano la fusione tra teatro sperimentale e live art, GuruGuru, in prima italiana, ci introduce al fenomeno dei focus group. Solo cinque spettatori per volta chiamati a sperimentare la performance-terapia che li vedrà protagonisti. Dopo una rapida selezione, a ognuno viene assegnato un personaggio (a chi scrive Cicci). A seguire si è introdotti in una postazione a semicerchio, di fronte a un televisore, dove i cinque prescelti vengono guidati attraverso ordini comunicati tramite l’uso di cuffie a interagire tra di loro e con un’entità, parecchio dispotica a dire il vero, espressa in video. Un sofisticato gioco di ruolo, con imprevisti, per esplorare la possibilità di andare oltre alla mera partecipazione passiva e vivere l’esperienza accomunante di essere svuotati, mercificati, ottusamente usati. Come vuoti a perdere decontestualizzati e incapaci di un’espressione autonoma, messi al servizio del Guru da noi stesso creato che ci svillaneggia esponendo le nostre fragilità al gruppo e, come se non bastasse, in balia degli sbalzi di corrente. Rispetto ai video giochi aggiunge un piano di interazione tra persone chiamate a condividere l’esperienza e a connettersi con la propria essenza, cioè l’impasto di cui siamo fatti noi esseri umani, carne e sangue, muscoli e organi, fallaci è vero ma capaci di vibrare dentro e di costruire macchine così complesse da imitarci quasi in tutto. E sottolineo quasi.
Napoli Teatro Festival 2010, fino al 27 giugno, info: www.napoliteatrofestival.it - tel. 081.19560383
IL SOGNO AMERICANO SECONDO JOHN F. KENNEDY on chiedete cosa possa fare la patria per voi: chiedete cosa potete fare voi per la patria». Presidente tra i più amati della storia americana, John Fitzgerald Kennedy legò la sua fama a scritti discorsi che fecero epoca. E alcuni celebri frammenti, se ne colgono in Jfk - Il sogno americano, bel documentario che Cinehollywood dedica al carismatico leader politico che vinse il Pulitzer nel 1957 con il suo Profiles in courage. Attori rinomati, celebri giornalisti e funzionari della Casa Bianca, raccontano Kennedy in parallelo agli eventi che ne punteggiarono la presidenza. Più che un biopic, il diario di una nazione.
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FESTIVAL
LA FESTA DELLA MUSICA ALL’OMBRA DEL VESUVIO a FatBoy Slim ai Velvet, da The Niro a Jamiroquai, passando per i Perturbazione e i 24 Grana: saranno due giorni brevi ma intensissimi, quelli che si annunciano sul palco del Neapolis Festival. La tradizionale kermesse musicale in programma il 15 e il 16 luglio nella città partenopea propone quest’anno oltre ai concerti, iniziative culturali di spessore come la fiera a Mostra d’Oltremare, uno spazio dedicato a quanti vivono di musica per passione, per lavoro o a fini di volontariato. E poi porte aperte a etichette indipendenti, operatori culturali, associazioni, magazine e record store. Da non perdere.
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di Francesco Lo Dico
Il “cupio dissolvi” di Bertolino (in attesa di epurazione) onviene prenderla alla larga. I giullari erano personaggi medievali, artisti spesso irriverenti che si guadagnavano da vivere come attori, mimi, musicisti, ciarlatani. Dice uno storico: «Il giullare è un essere multiplo». Spesso erano chierici, come nel Duecento e Trecento. Divertivano, ma quando recitavano verità scomode allora venivano allontanati perché cantori di cose obscaena et turpia. Non è affatto certa l’etimologia di osceno, in ogni caso non si ha dubbi sul significato: di malaugurio, indecente. Oggi in tv hanno trovato collocazione alcuni «giullari» che, facendo ridere, sono additati come pericolosi. Non le solite barzellette su Pierino, ma incursioni sulla politica (del malaffare), su leader del governo e dell’opposizione. Uno di questi è il comico Enrico Bertolino, giunto alla centesima puntata di Glob, l’osceno del villaggio (Rai 3, domenica in tarda serata). Bertolino, manco considerato quando si esibiva entro i ristretti recinti della comicità
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di Pier Mario Fasanotti lombarda, ora sta aspettando il benservito dalla Rai. È scomodo. Ancora più scomodo perché è un Santoro che fa ridere. E non importa che lanci frecce avvelenate alla sinistra. Non basta per essere salvato. I peccati gravi sono, per esempio, far vedere la foto di Letizia Noemi, fanciulla seguita con attenzione da «Papi», irridere a Simona Ventura, mostrare la protesta degli abitanti dell’Aquila assieme all’imbarazzo di Bruno Vespa o all’ottimismo di Carlo Rossella, definito «raccontatore militante», gli interventi raccolti su youTube sulla privatizzazione dell’acqua. Su quest’ultimo argomento, svetta il commento dello scrittore Erri De Luca:
«Chi si dice padrone dell’acqua deve dimostrare di esserlo anche delle nuvole e dell’arcobaleno… chi vuole impossessarsi dell’acqua sarà perseguitato dall’acqua». Bertolino ultimamente ha fatto riferimenti al suo prossimo «licenziamento». E pure i suoi ospiti: «Tanto lo sa che si chiude, vero?...». Ma il «giullare» di Rai 3, forse per un irresistibile cupio dissolvi, s’è spinto a paragonare l’allenatore (ex Inter) Mourinho e il premier Berlusconi, accomunati nella tendenza a creare avversari per ricompattare la squadra e a sbeffeggiare l’interlocutore scomodo, o soltanto sincero. Esilarante - ed è questo che preoccupa di più coloro che vor-
rebbero trasformare in legge l’ottimismo italico - è stata la sequenza degli spezzoni televisivi in cui i due davvero parevano somigliarsi nella scelta delle parole e delle stizzose indignazioni. Curzio Maltese, giornalista ospite di Bertolino, ha rilanciato la sua proposta: Mourinho come capo dell’opposizione in quanto ottimo comunicatore di quel che fa, e non fa. Il comico-presentatore pare si defili con una battuta, in realtà si tuffa di testa nel magma che sta denunciando. Come un giullare della Provenza, afferma con tono grave: «La nostra fortuna è quella di non essere capiti». Oppure: «Noi tentiamo di fornire risposte che noi stessi non comprendiamo». Sempre Maltese ha ricordato un episodio. Era in casa con la televisione accesa e a un certo punto sente Bersani che alza la voce. Ha quasi un sussulto di gioia, ma sua moglie glielo frantuma informandolo che il leader del Pd se la stava prendendo con il «compagno» Franceschini. Bastasse questo per rimanere in Rai…
MobyDICK
poesia
12 giugno 2010 • pagina 21
Il potere della voce è in Italia un grande editore che crede fermamente a un progetto, quello dell’audiolibro, tanto da produrre con costanza diversi titoli. E ci crede a tal punto che dopo Harry Potter eTiziano Terzani, La profezia di Celestino e Susanna Tamaro e tanti altri titoli oggi già in catalogo, ha voluto perfino azzardare un audiolibro di poesia. Così Salani, convinta con Rumi che «quando l’orecchio si affina diventa un occhio», ha appena pubblicato La grande poesia del mondo (2 cd, 15,80 euro), antologia a cura di Roberto Mussapi. Quindi, uno dei più grandi poeti contemporanei legge con appropriata varietà e con una voce sempre rimodulata sui singoli autori la poesia di ogni tempo e luogo, da Omero ai lirici greci fino ad alcuni grandi dell’Otto-Novecento come Rilke e Yeats passando tutte le stagioni e le massime firme dell’universo poetico riconosciuto. Il risultato è davvero sensibile e chi ascolta viene avvinto da una forte e coinvolgente personalità recitante. Entrando nello studio di Roberto Mussapi per un’intervista, la voce è tutto, ci si rende conto che, appunto, l’attrazione verso la dimensione della voce potrebbe perfino essere catalogata come maniacale. Vi campeggiano in numero ragguardevole radio e radioline di ogni genere e mini juke box da uno dei quali, con divertito orgoglio, Mussapi mi fa ascoltare la registrazione della prima canzone della sua infanzia. Un’attrazione fatale come ci spiega… «Nella mia infanzia potrei dire che la voce è stato tutto o, almeno, tanto. Quando tra amici ci si racconta di quel periodo ricordo confidenzialmente due oggetti di casa: la radio e il giradischi. Mio padre ci faceva ascoltare fiabe e musica dal fonografo e poi la sua fonovaligia, una sorta di portatile ante litteram. E la prima canzone che ho ascoltato, e alla quale resto ancora legato, è stata Diana di Paul Anka. Sentivo la radio con passione e i primi juke box m’incantavano, ero letteralmente attratto dalla scatola magica. Così anche nelle letture dell’infanzia mi sono orientato in qualche modo verso quei capolavori nei quali si poteva “ascoltare”una voce: Waste Land, Odissea o Moby Dick, per fare alcuni esempi».
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il club di calliope
di Francesco Napoli C’è evidentemente per lei una stretta connessione tra poesia e voce, così come i suoi ultimi libri e una particolare vocazione al teatro in versi testimoniano. La poesia ha la sua sede naturale nella pagina che tramanda ogni forma di sapere e quindi non penso a una sua espressione che sia solo orale. Ma un libro può certamente far sentire la sua voce esistente come brivido evanescente della parola pronunciata. Un autore si rilegge dopo aver pubblicato un suo libro, e lei hai riascoltato, immagino, questo audiolibro e con quale effetto?
Un audiolibro, concepito per il grande pubblico, dedicato ai più grandi poeti di tutti i tempi. Scelti e letti da un poeta contemporaneo, Roberto Mussapi, che - ci dice - da sempre ha prediletto l’ascolto...
Dall’alto, in senso orario: Roberto Mussapi, Dante Alighieri, Rainer Maria Rilke, William Shakespeare, Omero e Goethe Emozionante perché quando Luigi Spagnol, presidente della Salani, e quindi non un editore di nicchia o di poesia, mi propose questo audiolibro, voleva dire che lo pensava per un pubblico ampio, minore certo di quello di Harry Potter, ma comunque più vasto di quello normalmente considerato di poesia. Così ho curato le scelte e il copione, ho tradotto quasi tutte le opere da leggere anche alla luce di una lunga e felice esperienza radiofonica in Radio Rai.
E con quali criteri di scelta? Di gusto oggettivo mi verrebbe da dire, ma mi sembra un bell’insieme. A proposito di Rai, nel suo piccolo anche lei è stato epurato. Devo dire prima di tutto che per me l’esperienza in radio è stato il presupposto di questo audiolibro che altrimenti con buone probabilità non ci sarebbe neppure stato. Un’esperienza davvero indimenticabile quella delle mie trasmissioni in Rai. Per sette anni, al mattino o alla sera, con cicli a tema come Itaca nel 2004 o Samarcanda l’anno dopo, o con più libertà, con le due ultime serie di Il capo e la coda, ho avuto un grande seguito, soprattutto presso quegli ascoltatori che la poesia la conoscevano poco. Ho sempre cercato di non astrarre la poesia dalla vita e questa disposizione, al di là d’ogni formula radiofonica, ha, credo, dato alle mie trasmissioni una presa su un pubblico ben più ampio di quello della poesia canonicamente inteso. E poi cos’è successo? Poi Sergio Valzania, con il quale ho avuto un bellissimo e intenso rapporto anche perché ognuno dei temi e dei cicli delle trasmissioni è scaturito da un incontro con lui, direttore attento e di grande cultura e di profonde capacità di ascolto, al termine di una felice direzione è stato sostituito a Radio Tre. E da quel momento le cose sono misteriosamente cambiate. Nonostante io abbia dichiarato la mia disponibilità a continuare, non ho ricevuto neppure un “no grazie”… Dopo una collaborazione così lunga e proficua mi aspettavo tutt’altro. Torniamo a Salani e all’audiolibro che al momento le dà più soddisfazione. Qual è il poeta che sceglierebbe sempre? Dante, e poi Omero, mentre Shakespeare è la guida al teatro, alla componente drammatica della poesia. Per finire: un consiglio per l’ascolto dell’audiolibro. Lo farei in due modi diametralmente opposti: a casa, in silenzio e da solo, quasi in devoto ascolto, oppure come sottofondo, casomai in viaggio. Non è stato assolutamente pensato per un ascolto con carta e penna, a tavolino, non è un corso di letteratura italiana, deve scivolare come l’acqua, rinfrescando e rigenerando.
LA MAPPA CREATIVA DI LAGAZZI in libreria
CAPRI, POESIA
di Loretto Rafanelli
Capri, poesia: suoni volati via, frasi in germoglio di parlato e taciuto, catapultate dal silenzio verso l’assoluto di un diagramma ch’è morte rifiorita in vita, incorrotto tessuto che lega tempo a spazio, corpo a corpo. Versi scampati all’agguato della sintesi, suoni immobili, inuditi, fuggo nell’ombra della vostra follia per ritrovare l’uomo che fui, prima di ogni rinascita. Claudio Angelini
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uello che colpisce di Paolo Lagazzi non sono solo le sconfinate conoscenze (che vanno dalla letteratura alla filosofia, dalla religione alla musica all’arte); la straordinaria perizia nel sapere collegare i tratti di uno scrittore a quelli di altri scrittori, costruendo trame di variopinta bellezza; il ricco e spumeggiante stile, ciò che colpisce è, soprattutto, la sua capacità di dirci sempre qualcosa che sta oltre, che sta addirittura là dove lo stesso scrittore non ha avuto sentore di andare.Tutto ciò fa di questo critico un unicum. Lagazzi, anche nella sua recente raccolta di saggi (Forme della leggerezza, Archinto), più che scrivere di libri, costruisce, amando e rispettando le altrui scritture, uno straordinario percorso che contempla la ricchezza dello sguardo, l’intreccio intimo e segreto, la cifra destinale, l’emozione che lo anima. Lui stesso ci dice che il critico, seguendo Bachelard, non deve «soffocare, ottundere la letteratura… circoscrivere il senso… intrappolarla», ma affrontare i testi con la leggerezza e il rigore dell’immaginazione. Noi, infine, siamo certi che Lagazzi sia un grande scrittore, che si cala nelle pagine altrui per tessere una sua infinita mappa creativa.
i misteri dell’universo
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di Emilio Spedicato
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ualche anno fa girando per Torino vidi in una bancarella un libro di autore a me sconosciuto; mi attrasse il titolo: Tracce d’Eurasia in Egitto. Mi trovai a leggere un libro di estremo interesse, scritto da uno studioso, Seigbert Hummel, tuttora ignorato dalla maggior parte degli antropologi e storici dell’Asia centrale. E questo sebbene il suo lavoro sia fra i più fondamentali e illuminanti per la comprensione di quel cuore dell’Asia dove stanno le radici della nostra civiltà, che è la regione a nord di Himalaya e Karakorum.
Il libro era stato scritto in tedesco da uno studioso che, dotato di quattro dottorati (sinologia, tibetologia, mongologia, turcologia) e conoscitore di una trentina di lingue asiatiche, già direttore del Museo Antropologico di Lipsia, era stato confinato in un villaggio dei Sudeti dalle autorità comuniste alla loro presa di potere nella Germania dell’Est: Hummel era infatti anche pastore luterano e lasciare una persona religiosa in una posizione di importanza culturale era inammissibile in quei tempi; fu fortunato nel non perdere la vita grazie alla sua notorietà nel campo scientifico. Hummel passò quindi circa quarant’anni nel piccolo villaggio in mezzo alla foresta (certamente devastata dai fumi tossici delle fabbriche chimiche di Chemitz e Karl Marx Stadt), dove gli fu lasciata la sua vasta libreria. E nella pace di quel luogo scrisse libri di straordinario valore, che dopo la caduta del Muro il torinese Guido Vogliotti cominciò a tradurre in inglese. Sono pubblicati in India, a Dharamsala, centro dove risiede ufficialmente il Dalai Lama. Qui stanno varie istituzioni culturali tibetane, e biblioteche con piccola parte dell’immenso patrimonio librario tibetano che fu distrutto dai cinesi all’epoca della Rivoluzione culturale. In Tibet esistevano circa diecimila monasteri e il 99% fu distrutto. Ricordiamo, sulla testimonianza del nostro grandissimo tibetologo Giuseppe Tucci, che quasi tutti i monasteri avevano le loro biblio-
MobyDICK
ai confini della realtà
Tracce d’Egitto in Eurasia
fatto volentieri (in quella zona, dal lato boemo, avevo passato da studente universitario un mese di lavoro nei boschi, dove i giganteschi abeti morivano per l’inquinamento.... Ero a Nacetin, dove si vedevano le rovine di un villaggio di tedeschi dei Sudeti che, in circa un milione, erano stati espulsi dopo la guerra...). Di lì a poco Hummel morì, avendo io nel frattempo acquisito, gentile omaggio di Vogliotti, un altro suo libro, sul regno di Zhang Zhung. Prima di considerare alcune delle informazioni per me di maggiore interesse nei due libri di Hummel, è bene ricordare che lui aveva avuto
lavori di restauro, scoprì dietro una parete varie centinaia di documenti in lingue diverse (mongolo, tibetano, sanscrito, cinese, tocarico); questi documenti erano stati nascosti forse per impedirne la distruzione da parte dei mongoli di Gengis Khan (inizialmente Gengis era di religione animista), verso il 1200, e alcuni risalivano all’epoca di Giustiniano. Si sa di altri ritrovamenti, spesso bruciati dagli stessi scopritori timorosi di essere denunciati per furto (Owen Lattimore dice di un contadino che aveva riempito un intero carro). Quelli di Dung Huang, di cui ora la Cina chiede la restitu-
ghezza. Un popolo dai capelli biondi, occhi forse azzurri, vestiti simili a quelli degli scozzesi antichi. E fu trovato un dizionario zhangzhung-tibetano di estremo interesse. Il regno di Zhang Zhung occupava, sino a circa 1500 anni fa, la parte meridionale del Tibet, era caratterizzato dalla religione Bon, aveva nel sacro monte Kailas il suo riferimento principale, identificato con il monte Meru, sacro anche nei Veda. Chi scrive usando il dizionario zhang zhung ha potuto dare una possibile spiegazione di termini come dilmun, in sumero (cielo blu) e addirittura kami in giapponese (Dio = anima del cielo). Era una lingua franca, usata in un territorio molto vasto. Il libro Tracce d’Eurasia in Egitto potrebbe essere meglio intitolato Tracce d’Egitto in Eurasia, in quanto varie considerazioni indicano la civiltà del centro Asia e quella indiana del periodo vedico come anteriore di almeno
Una civiltà del deserto del Gobi, in quello che un tempo era il Tibet. Un popolo dai capelli biondi e dai vestiti simili a quelli degli scozzesi. Una scrittura di tipo geroglifico con centinaia di caratteri identici a quelli degli egizi. E sullo sfondo gli straordinari saggi di Hummel teche, di solito in disordine, ma spesso così ben dotate che si poteva letteralmente camminare su un tappeto di documenti e pagine spesso anche più di un metro! Letto il libro citato, contattai Vogliotti e da lui ebbi il telefono di Hummel che, pur conoscendo trenta lingue asiatiche, non parlava né inglese né francese. Cavandomela comunque con il tedesco, mi disse che, avendo superato i 90 anni e avendo problemi di salute, non poteva incontrarmi, cosa che avrei
accesso ad almeno una parte di quello straordinario ritrovamento di documenti antichi che avvenne a Dung Huang nel primo decennio del Novecento. Dung Huang è una località della Cina, ora nella provincia del Gansu, un tempo in Tibet; è situata agli inizi del deserto del Gobi, in questo punto sabbioso, e presso delle colline. Qui si trova uno dei più straordinari complessi buddisti dell’Asia, in parte formato da grotte naturali. Nel primo decennio del Novecento un monaco, impegnato in
zione, si salvarono, venendo acquistati da esploratori come Aurel Stein, Pelliot e un certo giapponese. Il loro studio diede risultati interessantissimi.
Furono trovati originali sanscriti di documenti perduti in India! Si trovarono scritti in tocarico, relativi a una civiltà del deserto prima nota solo da cenni in autori classici latini e greci, e recentemente anche da ritrovamenti archeologici, addirittura con corpi mummificati di oltre due metri di lun-
mille anni a quelle egizie e sumere. Fra le corrispondenze osservate da Hummel, di estremo interesse è che la popolazione dei Nakhi, ora localizzati nella Cina sud-occidentale, una volta pare vicino alle sorgenti del Fiume Giallo, avesse una scrittura di tipo geroglifico, con centinaia di caratteri identici a quelli degli egizi! Una coincidenza? Uno scambio? Difficile crederlo. Una origine comune? Forse, ma quando e come sia avvenuta la separazione è ancora da scoprire.