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mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Addio a José Saramago

L’INTELLETTUALE SCOMODO di Pier Mario Fasanotti

stato poeta, critico letterario e giornalista fino al 1974, quando nel teresse per il teatro e la forte vis polemica contro gruppi di potere corrotPortogallo scoppiò la famosa “Rivoluzione dei garofani” e il ti e opprimenti e leader politici che egli accusava di insipienza e inIndiscusso Paese conobbe finalmente la democrazia dopo i decenni tolleranza, Saramago ci abituò al suo mondo allegorico, surreadel regime totalitario di Salazar. Fu a quel punto che le, un mondo che penetrava nelle pieghe della storia magari protagonista José Saramago, nato nel 1922, figlio di un agricoltore ribaltandone i canoni interpretativi. Quel che gli intedel Novecento letterario, che diventò poi poliziotto, studi interrotti, diffiressava era il percorso sia intimo sia sociale delil Premio Nobel portoghese coltà economiche sulle spalle, decise di dedil’uomo, fosse un povero Cristo o lo stesso Cricarsi ai romanzi. Una strada che lo portò a sto del suo Il Vangelo secondo Gesù. Prenha continuato a scrivere poesie, critiche Stoccolma nel 1897 per ritirare il premio deva a schiaffi la punteggiatura, non usava e romanzi sino quasi alla fine. Nobel. Da ragazzo autodidatta e povero a genio le virgolette per delimitare i dialoghi, che pur della letteratura del Novecento. Harold Bloom, uno c’erano ed erano tanti, il segno dell’interrogativo il Con la stessa lucidità dei critici più famosi del mondo, ha detto di lui qualche lettore doveva intuirlo. Paragrafi lunghissimi, ma il suo e vis polemica anno fa: «È il romanziere maggiormente dotato di talento antesto, una volta che entri dentro, ci afferra la mente abituandi sempre cora in vita. Il Maestro è uno degli ultimi titani di un genere lettedola a un ritmo che in musica potrebbe essere definito mozartiano. rario in via di estinzione». Senza mai abbandonare la vena poetica, l’in-

È

Parola chiave Calcio di Gennaro Malgieri Quel che resta di Irène Némirovsky di Gabriella Mecucci

NELLA PAGINA DI POESIA

L’eternità dell’attimo nel Barocco di Marino di Filippo La Porta

Celebrando il MAXXI con Luigi Moretti di Claudia Conforti Un’auto insabbiata per raccontare l’Iran di Anselma Dell'Olio

Ali e radici: cent’anni di Zegna di Roselina Salemi


l’intellettuale

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Era un uomo dolce, ma molto fermo nelle sue posizioni. Anche in quelle letterarie: non ebbe esitazioni a “ripudiare” il suo primo romanzo, Terra del peccato (1947). Alla stregua di un figlio da allontanare per un comportamento scombinato. Fu quel romanzo d’altronde che gli procurò vita difficile nel Portogallo opaco e militaresco di Salazar. Come critico e giornalista subì inevitabilmente pressioni e censure. Nel 1969 si iscrisse al Partito Comunista Portoghese. Tessera clandestina. Ma fu abile a non imbattersi nella polizia segreta. Dopo aver pubblicato, con modesti riscontri di vendita, Manuale di pittura e calligrafia e Una terra chiamata Alentejo, il destino lo butta nelle braccia del successo per merito di Memoriale del convento (1982). Seguiranno altre opere osannate dalla critica internazionale come L’anno della morte di Ricardo Reis e La zattera di pietra.

Il suo nome comincia a circolare all’estero, destando ammirazione e anche polemiche, con Storia dell’assedio di Lisbona. Esempio, questo, della sua vocazione di narratore-storico. I lettori, anche quelli più lontani dalle cronache letterarie e quelli culturalmente meno attrezzati, subiranno il fascino di Cecità (tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi, come tutti salvo l’ultimo, Caino). Cecità ha come titolo originario Ensaio sobre a

anno III - numero 24 - pagina II

Cegueira ossia Saggio sulla cecità. L’editore torinese sostenne che la semplificazione in copertina a Cecità e basta avrebbe incoraggiato i lettori che altrimenti poteva disorientarsi immaginando un pamphflet, un trattato medico-filosofico. Poco male, ma Saramago scelse apposta quel titolo come epigrafe dell’indifferenza degli uomini, scaraventati in una bolgia infernale metropolitana dove non esiste solidarietà fino al crescere drammatico delle domande essenziali dell’uomo. Uno dei protagonisti - e qui l’allegoria sociale e politica si rende evidentissima - sostiene che «siamo tutti ciechi… non solo gli uomini, ma anche Dio e tutto il mondo». C’è una donna, la moglie del medico, che sussurra la terribile verità che è sottesa al dramma ambientato in una città qualsiasi di una nazione qualsiasi: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo; ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono». Un giorno Saramago, dinanzi a un lettore che esigeva una spiegazione profonda del testo, e la più autorevole di tutte, disse: «Volevo raccontare le difficoltà che abbiamo nel comportarci come esseri razionali, collocando un gruppo umano in una situazione di crisi assoluta. La privazione della vista è in un certo senso la privazione della ragione. Quello che racconto in questo libro, sta succedendo in qualsiasi parte del mondo, in questo momento». Non è casuale che sia un manicomio la scelta del luogo dove il terrore arriva all’apice. E Saramago non fornisce spiegazioni sull’epilogo di luce ritornata: si torna al

scomodo pa si intreccia al dolore, il silenzio dei patimenti si alterna con l’urlo contro un invisibile responsabile.

“prima” nello stesso modo in cui il prima si è trasformato, con mostruosa gradualità, in un “dopo”dantesco. Che ci sia un errore all’inizio della nostra vita? Magari un piccolo errore che mischia criminalmente le carte di una, di tante eistenze? È il quesito che ha sempre arrovellato Saramago. Nel romanzo Tutti i nomi c’è l’unico personaggio ad avere un nome, ed è uno scritturale ausiliario presso gli uffici dell’Anagrafe. Tavoli e scaffali dove si trovano adiacenti i fascicoli di chi è in vita e di chi è morto. Questa la grande confusione originaria. L’impiegato con la mania del collezionismo (valenza allegorica anche questa) s’imbatte nella storia dai contorni confusi di una donna, il cui nome trova in quel Purgatorio che è l’Anagrafe. In lui scatta qualcosa, si apre «un labirinto confuso» e «nella sua testa senza metafisica inizia la caccia a una donna e al motivo per cui ha iniziato a trascrivere il modulo della sconosciuta». Da mite impiegato si trasforma in contraffattore di documenti, in ladro, in mentitore. Un Jeckyll e Hyde del Catasto, travolto per caso o per destino misterioso dalla pulsione irrefrenabile a inseguire una pista tra milioni di sentieri che gli appaiono davanti, giorno dopo giorno. E si troverà a muoversi in doloroso bilico sul sottilissimo crinale che separa la vita dalla morte. In alcuni dei ro-

manzi di Saramago compare, all’inizio, un fatterello di poco conto. E questo poi rotola e si fa valanga, distruggendo false impalcature umane, frantumando maschere comportamentali, fino a costringere un pover’uomo - ossia tutti noi, fuori d’allegoria - a diventare faticosamente speleologo del proprio intimo. Un abisso che si apre nel romanzo L’uomo duplicato: un professore di scuola media, solo e triste, si vuole distrarre guardando una video-cassetta. A poco a poco scopre che il protagonista della pellicola altri non è che lui che lo guarda. Si sente un duplicato, un clone, un gemello. E infine avverte in casa un’altra presenza. È la storia dell’uomo che fa i conti con se stesso nel momento in cui riesce a vedersi in un altro essere terribilmente somigliante. La divisione a metà della coscienza come condizione di dialogo interiore. Divisibilità dell’io, scontro-incontro tra due parti che forse non sono nemmeno due, chissà.

Saramago ha poi preso di petto il suo rapporto con Dio nel romanzo Il vangelo secondo Gesù Cristo. Libro che gli è costato critiche feroci, accuse di blasfemia. In effetti, con una disinvoltura sfrenata rispetto al Nuovo Testamento, lo scrittore portoghese fa muovere il Cristo di Nazareth, uomo «nato sporco da ventre di madre», in un mondo dove l’autore - che qui e là indossa i panni di questo o quel personaggio biblico - vuole chiedere spiegazione di stragi e di violenze. Spiegazioni della nostra stessa millenaria storia, poco importa se l’ambientazione sia palestinese: in quel momento, ma anche in seguito, il mondo è lì e non altrove (non esiste un Eden). La col-

La narrativa a sfondo religioso-storico è continuata nell’ultimo romanzo, Caino (Feltrinelli). Il ragazzo che ha ucciso il fratello reclama il suo candore, ma sarà continuamente straziato dalla colpa. Non accetta d’essere stato strumento di una volontà incomprensibile e «impenetrabile». Vagherà in un mondo curiosamente già popolato, passerà dall’eros acceso alla tenerezza amorosa con Lilith, da cui avrà un figlio. E alla fine si troverà dinanzi a quel che si crede il responsabile dei destini dell’umanità. Saramago ha scritto uno dei più bei epiloghi romanzeschi: Caino comincerà a discutere con il mistero, intesserà un dialogo destinato a durare millenni e millenni. José Saramago in questi ultimi anni si è esposto come polemista. Saggi brevi, considerazioni, pensieri, lui li ha raccolti in Quaderno. Ma la Mondadori (che controlla la Einaudi) ha ritenuto opportuno fare a meno di uno scrittore come Saramago per il fatto che è intervenuto pesantemente contro Silvio Berlusconi. Quaderno è stato edito da Bollati Boringhieri, i diritti delle opere narrative sono andate alla Feltrinelli. Così ha reagito lo scrittore: «Io ho conosciuto la censura durante la dittatura portoghese, l’ho sofferta e combattuta, e nessuno mi può chiedere di amputare una mia opera in una situazione di apparente normalità della democrazia». In realtà il breve scritto del portoghese sul premier italiano ha una coloritura non solo politica quanto storica: «Se Cicerone vivesse ancora tra voi, italiani, non direbbe: “Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”ma piuttosto: “Fino a quando, Berlusconi, attenterai contro la nostra democrazia?”». E ancora: «Berlusconi ha trasformato in pochi anni l’Italia nell’ombra grottesca di un Paese e una grande parte degli italiani in una moltitudine di burattini che lo seguono trascinandosi e senza rendersi conto di camminare verso l’abisso della dimissione civica definitiva, verso il discredito internazionale, verso il ridicolo assoluto». Saramago prese posizione, anni prima, contro la decisione di Fidel Castro di fucilare alcuni dissidenti. Disse: «Io sono arrivato fin qui. Da adesso in avanti Cuba continuerà la sua strada, io mi fermo… Cuba non ha vinto alcuna eroica battaglia fucilando quegli uomini, ma ha perduto la mia fiducia, ha frustrato le mie speranze, ha defraudato le mie illusioni». Uno scrittore che urla la propria indignazione per la strage degli innocenti, di biblica memoria, non poteva non vergognarsi di un falso mito politico.


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parola chiave

gni quattro anni la tribù globale del calcio si dà appuntamento in un qualche angolo del mondo dove celebra i propri fasti, proiettandoli oltre le dimensioni provinciali solite, in uno scenario planetario. È un fenomeno contagioso che coinvolge più o meno tutti. Da anni, in ogni continente, questo sport (che è molto di più di un qualsiasi altro sport) continua a fare adepti che s’identificano in esso come in una sorta di religione profana. Una religione dai costi altissimi e dalle rese economiche ancora più alte. Un vero business fondato sul primordiale istinto dell’antagonismo che diviene in alcuni deprecabili casi feroce, incontrollabile, assoluto. Come per tutte le tribù il «nemico» è sempre da abbattere: nel calcio vige la stessa regola. E i riti che esso propone sono veri e propri riti bellici spinti da pulsioni che oserei definire «politiche», officiati da quei militi bonari e appassionati, barocchi e un po’ cialtroni, fino a quando non si trasformano in deliquenti veri e propri, che sono i tifosi. Organizzati più o meno per bande, essi riproducono sul piano sportivo la logica del clan, della fazione, del gruppo organizzato secondo regole ferree che rimandano a schemi e modelli politici di tipo tradizionale che negli stadi celebrano i loro trionfi «patriottici». Ricordate il titolo del Corriere dello sport all’indomani della vittoria degli azzurri del Mondiale spagnolo nel 1982? «Eroici!», semplicemente.

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Allo stadio il clan si difende, talvolta addirittura in modo violento, per affermare la propria identità. Il tifo è l’esplicitazione di un legame con qualcosa di vivo, concreto, tangibile come può esserlo soltanto una «fede». Inconsciamente, nel sentirsi «parte», il tifoso manifesta il bisogno di riconoscersi in una comunità. E quanto più la famiglia si sfalda, la patria viene negata, la tradizione misconosciuta, cos’altro resta se non l’elementare legame con una squadra in cui riconoscersi? Il calcio è l’ultima manifestazione, dunque, della politicità inconscia che vive nel profondo di ognuno e quando assume dimensioni gigantesche come la disputa della Coppa del Mondo, esso diventa la sublimazione di una confrontazione planetaria che vede addirittura aree del Pianeta osservare i movimenti «delegati» dalle nazioni ai loro rappresentanti in campo, come fosse una sorta di «guerra asimmetrica». Da qui anche il conflitto commerciale, legato soprattutto ai diritti televisivi, che è un corollario dell’esportazione del calcio presso tutti i popoli perfino quelli che agli albori della diffusione di questo sport neppure immaginavano di poterne diventare protagonisti di primo piano. L’irresistibile «calcistizzazione» che si è ormai spalmata su tutti gli strati e i ceti sociali, si spiega con quell’inconscia spinta comunitaria a cui facevo riferimento che è uno dei fondamenti, probabilmente il più importante, della «nuova» politicità, trascendente le forme tradizionali legate ai partiti e ai movimenti, che si va affermando ovunque. Del resto i toni stessi dei linguaggi calcistici la dicono lunga sul bisogno di aggregazione e, di conseguenza di identificazione del «nemico». Essi esprimono in egual misura

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CALCIO È una delle manifestazioni moderne della cultura dei popoli, capace di mettere insieme sensibilità profonde. Basta ripensare a Garrincha o a Pelè per capire che se non fosse poesia sarebbe solo una guerra banale

L’estetica dell’anima di Gennaro Malgieri

È una forma della politicità inconscia che vive dentro di noi, officiata da militi appassionati che sono i tifosi (quando non si trasformano in delinquenti). Nel sentirsi parte di un clan, si manifesta il bisogno di riconoscersi in una comunità. Coi propri riti, le proprie regole, i “nemici” da sconfiggere aggressività e conservazione secondo un codice di tipo politico-militare che il giornalismo specializzato enfatizza e ripropone. Allo stadio, dunque, o si è amici o si è nemici e quando la simulazione riesce, poco male: i dolori cominciano quando la politica delle parole cede a quella dei gesti. L’avversario, purtroppo, è una categoria che esiste soltanto nelle buone intenzioni di chi

commenta le partite il giorno dopo, ma dalle innumerevoli stazioni radiofoniche, vere e proprie centrali di comando degli ultras, vengono inequivocabili incitamenti se non all’odio quantomeno alla demonizzazione dell’altro. Ma c’è di più. Il clan necessita di punti di riferimento che la squadra da sola non è in grado di rappresentare. Una società calcistica è costituita da tanti

soggetti tra i quali il tifoso vuole individuare il leader, più o meno carismatico, come Max Weber insegnava, che sia allo stesso tempo trascinatore, difensore dei diritti del clan e liturgicamente accondiscendente ai voleri del suo popolo. Il clan e il capo sono due categorie eminentemente «politiche», mentre lo stadio, catino di energie catalizzate dove ci si affronta secondo regole condivise, è il luogo nel quale l’antagonismo si esprime al meglio, tanto sulle tribune quanto sul campo di gioco.

Se poi si considerano, oltre a quelli televisivi, gli enormi interessi finanziari che si muovono attorno al calcio, di cui il Mondiale in corso è l’ennesima prova, non si può che concludere che esso produce campagne aggressive anche nel posizionamento di gruppi economico-finanziari nel dare la scalata a posizioni diverse di potere. Il calcio, insomma, al di là della spettacolare bellezza che eccita le folle, è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Comprendere che cosa c’è dietro di esso significa sezionare i meccanismi di potere, le soggettività conflittuali, le ansie, i sentimenti come il rancore e la rivincita, un caleidoscopio di umanità insomma che si nasconde dietro lo sventolio di bandiere e i pronunciamenti militaristi che vengono dai fans e dai dirigenti delle società calcistiche che animano quello che forse impropriamente è considerato lo sport più bello del mondo. Ci si accorgerà, accostandosi a tutto ciò, che lo sport più in generale, ma il calcio in particolare, sta assumendo le fattezze di un «destino politico» del quale non sappiamo quanti sono consapevoli, frastornati dalle vuvuzuele sudafricane e abbagliati dai colori che splendono tra Durban, Johannesburg, Pretoria e Città del Capo. Per quanto mi riguarda, credo, al di là dei sociologismi necessari per capire un fenomeno planetario e le dimensioni che ha assunto, che il calcio sia essenzialmente un’estetica dell’anima, forse la più riuscita in tempi moderni, capace di mettere assieme sensibilità profonde che non hanno confini: da qui la sua positiva «politicità». E per di più è una delle manifestazioni moderne della cultura dei popoli, soprattutto di quelli che sono alla ricerca di un protagonismo che non hanno mai avuto (non a caso i progressi asiatici e africani nel campo sono prodigiosi): guardo alcuni disegni giovanili del grande scrittore francese Henry de Montherlant, leggo le vecchie poesie di Umberto Saba e quelle nuove dello straordinario poeta del calcio Fernando Acitelli, mi soffermo sulle pagine di Osvaldo Soriano e ripenso a miti che non ritornano, da Garrincha a Maradona, passando per Pelè e Sivori incantatore di serpenti e di portieri. Poi, mi do pace davanti all’incanto di un divino soffio di forza e di bellezza evocatomi dal discobolo di Mirone il quale eleva a eroe l’atleta, uomo potente orgogliosamente consapevole di avere un’anima. Adesso sì, posso rimettermi davanti al televisore e frastornarmi con le vuvuzuele, i djambé nigeriani, i darbuka algerini, le seducenti ghanesi che danzano e cantano lasciando che il mondo rotoli come una palla almeno per pochi giorni. Se il calcio non è poesia, in fondo è ben poca cosa: forse una guerra, neppure tanto originale.


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musica Cd Il pop da camera Troppo vecchi PER ELECTRODE di Neil Hannon I MobyDICK

zapping

di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi

ent’anni fa, il personaggio che ora si fa fotografare in una schiumosa vasca da bagno con bombetta, papillon, pipa, un cane Labrador e una bottiglia di champagne stappata di fresco, s’inventò i Divine Comedy («Stavo bazzicando nella biblioteca dei miei genitori quando mi sono imbattuto nel poema di Dante Alighieri e… boh, mi sembrava suonasse bene») ispirandosi al Glam/Art Rock anni Settanta di David Bowie, Roxy Music, Split Enz e Sparks. Al disco di debutto, Fanfare For The Comic Muse, ne seguirono altri otto in bilico fra pop, cabaret e melodramma: da Promenade, con quel défilé di canzoni dedicate alle passeggiate dei flâneurs in riva al mare; a Casanova, che più dandy non si potrebbe; da A Short Album About Love, con accompagnamento di un’orchestra sinfonica; a Fin de Siecle, che il titolo dice già tutto. Lui, che si chiama Neil Hannon ed è nord irlandese di Derry, fra un’incisione e l’altra non ha mai smarrito il proverbiale aplomb: neppure quando, di punto in bianco, i musicisti lo lasciarono in braghe di tela. Sbuffò, il segaligno damerino, ma poi decise non solo d’andare orgogliosamente avanti come one man band (The Divine Comedy c’est moi !), ma di mettersi (compositivamente) al servizio di chiunque ne avesse fatto richiesta. Et voilà: risposero all’appello Ute Lemper, Jane Birkin, Charlotte Gainsbourg, Michael Nyman, Air e perfino quello sguaiato di Tom Jones. Passa il tempo, s’accavallano mode musicali più o meno effimere, ma Mr. Hannon che a fine anno compirà quarant’anni non si sposta d’un millimetro. Con humour britannico, continua a mettere in mostra il suo chamber pop elegante come un abito di sartoria da condividere (è successo l’anno scorso) con Thomas Walsh dei Pugwash in occasione dell’amabile dischetto The

V

Classica

Duckworth Lewis Method, dedicato al cricket. E poi, oltre a ostentare il pedigree intellettuale di chi ha letto e riletto le pagine di Francis Scott Fitzgerald, Noel Coward, William Wordsworth e Anton Cechov, Neil cita e ricita chi lo ha musicalmente influenzato: Burt Bacharach, Jacques Brel ma soprattutto la voce vellutata di Scott Walker che ogni volta gli fa ammettere: «Quando provo a cantare come lui, mi avvicino paradossalmente a me stesso. Anzi: sono me stesso». Bang Goes The Knighthood piacerà o verrà mal digerito come gli altri suoi viziati, teatrali e un po’ spocchiosi dischi che fuggono il rock come la peste. E dunque, in rigoroso ordine d’apparizione come si addice alle sue pop-operette che hanno un inizio, uno svolgimento e una fine, ecco le vaporose orchestrazioni di Down In The Street Below che mutano in leggera, cameristica bagatella; la «brechtiana», ma al tempo stesso «kinksiana» (leggi Ray Davies)

The Complete Banker; lo spumeggiante easy listening di Neapolitan Girl; Bang Goes The Knighthood, azzeccata chanson dal retrogusto paranoico; il pop salterino e gli sbuffi d’archi di At The Indie Disco; lo swing da orchestrina anni Trenta che sottolinea Have You Ever Been In Love; il passo marziale e i defatiganti pizzicati di Assume The Perpendicular; la furbacchiona, fischiettabile The Lost Art Of Conversation; Island Life, a metà strada fra il country bucolico della Penguin Cafe Orchestra ed Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson; lo struggente mélo di When A Man Cries; l’accoppiata Bacharach & vaudeville che scandisce Can You Stand Upon One Leg; il beat da Swinging London che fa di I Like un grumo di nostalgia. Giù il sipario. Bravo!, scandiscono i loggionisti. The Divine Comedy, Bang Goes The Knighthood, Divine Comedy Records, 17,50 euro

quaranta che si avvicinano, il fatto che sei in ritardo sui lavori, sulla vita, su tutto, e l’immensa ascella dell’estate romana che incombe e ti arriva pure il problema fatale: quali droghe assumere? In fatto di droghe, ammetilo, sei rimasto indietro: birra estiva sotto una pergola, vino rosso alle cene, whisky per digerire e ogni tanto da uno a tre Negroni. È quasi scemata l’epoca dei due amici la chitarra e la trombetta. La coca no per problemi etici, quindi estetici: è la droga più antimusicale che esista. E adesso ti trovi per caso in un serio festival di musica elettronica, Electrode si chiama, al centro sociale Forte Prenestino. Il luogo è bello di una bellezza demolita, i graffiti e gli affreschi sui muri ricordano l’aura postpunk di Frigidaire. Ci sei capitato perché dovranno suonarci gli Zu - il più grande gruppo rock del mondo che proviene da Ostia - ma tardano, tardano. A mezzanotte cominciano i Dalek. Dovrebbero mischiare electro e rap: in pratica il dj crea rumori tipo aspirapolvere spento e acceso e il rappante risulta di una prevedibilità mortale, perfetto con il tono apocalittico delle canzoni. Ti ci metti, lì serio davanti al palco e chiudi gli occhi. Niente. Musica non ce n’è. O non ne senti. Perché ti manca una qualche caspita di Extasy, Mdma, qualche polvere o qualche pasticca che avrebbero il potere di far muovere qualche neurone con il tempo e l’armonia di questi tizi. Segue il bestiale Beardyman londinese. Costui è un genio. Con la bocca e i loopers fa di tutto: bassi, batterie, voci, rumori, pure il sax, e scherza pure. E vabbè ma alle 2 e passa mentre tutti intorno saltano e oscillano non ce la fai più. Te ne vai e rinunci agli Zu. Hai rinunciato anche alle polveri e pastiglie, sai che sei rimasto indietro. Pazienza.

Quando Remigio Paone rispolverò l’Excelsior ella Milano del secondo dopoguerra un sol uomo vigilava tanto sullo svago più scanzonato quanto sul più fervido nutrimento intellettuale della cittadinanza: si chiamava Remigio Paone, produceva riviste musicali brillanti e sfarzose, ma al tempo stesso fondava e presiedeva l’orchestra da camera I pomeriggi musicali, dedita alla produzione recente e recentissima. Anni dopo Paone, nel frattempo divenuto sovrintendente al Comunale di Firenze, decise di rispolverare per il Maggio musicale 1967 un balletto, Excelsior - coreografia di Luigi Manzotti, musica di Romualdo Marenco, - che nel 1881 a Milano, e poi dappertutto per decenni aveva accumulato trionfi memorabili, contribuendo alla nascita di un nuovo genere, quel Ballo Grande all’italiana, antesignano, nella sua sfilata di quadri fastosi e tra loro indipendenti, della (guarda un po’) rivista franco-ita-

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di Jacopo Pellegrini liana. Per dare corpo a quest’idea bizzarra, Paone chiamò a raccolta due suoi antichi sodali del côté intrattenimento, Ugo Dell’Ara, coreografo, e Giulio Coltellacci, scenografo e costumista, affidò la revisione e l’orchestrazione dello spartito (la partitura originale era andata perduta) a Fiorenzo Carpi, collaboratore fisso di Strehler al Piccolo, la regia a Pippo Crivelli. Idea bizzarra, ma portentosa: da oltre quarant’anni lo spettacolo gira il mondo, sempre accolto da successi incontrastati. O quasi: nel ’67 certa critica musicale e un gruppo di musicisti capeggiati nientepopodimenoche da Luigi Dallapiccola reagirono malamente: guai a scambiare «per cultura» il ballo Excelsior, «bacchettina con lo zucchero filato da squagliare in bocca», che non inganna chi ha «idee precise sulla consistenza dei valori musicali»!

Inutile replicare a tanta sicumera. Evidentemente, l’importanza di un manufatto artistico come riflesso d’un fenomeno socioculturale sfuggiva ai nostri censori; ma se già allora Fedele d’Amico era sceso in lizza per difendere Marenco, i balletti del compositore piemontese (Novi Ligure, 1841-Milano, 1907) possono oggi contare sull’illuminata esegesi di Antonio Rostagno, musicologo in forza alla Sapienza di Roma, espertissimo dell’Ottocento italiano. Nel celebrare gli ideali del progresso attraverso la scienza (in Excelsior la Luce sbandisce l’Oscurantismo), del bene che trionfa sul male (Amor, 1886, coreografo sempre Manzotti), Marenco mescola a ritmi e motivi di danza, elementi tratti dal melodramma coevo (Verdi maturo, Boito): un fenomeno di «volgarizzazione» e «popolarizzazione».Viene voglia di leggere nel Ballo Grande la risposta coreutica

all’Opera ballo, versione italiana semplificata del Grand Opéra francese.Accanto a Rostagno, negli atti dei convegni novesi su Marenco curati dalla Grillo, spiccano gli interventi sul balletto (Poesio, Scholl) e sulla presunta affiliazione massonica del musicista (Mola). Condotta in tono sciolto, malauguratamente la biografia di Marenco scritta dal pronipote Garavaglia impone al lettore lo sforzo di separare il grano (notizie biografiche e documenti raccolti da Gennaro Fusco) dal molto loglio di un fastidioso andirivieni cronologico, di asserzioni non comprovate, di ripetizioni sviste errori, di citazioni altrui non dichiarate.

Romualdo Marenco: prospettive di ricerca, a cura di Elena Grillo, Joker, Novi Ligure, 216 pagine, 19,00 euro; Luca Federico Garavaglia, Romualdo Marenco. La riscoperta di un pioniere, Excelsior 1881, Milano, 284 pagine, 24,50 euro


arti Mostre

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urante il fascismo, prima che Mussolini dichiari varie guerre, Ermenegildo Zegna, ultimo di sette figli, papà orologiaio, va in America. Nei suoi taccuini segna nome e indirizzo dei sarti italiani a Nuova York («Sono loro gli ambasciatori dei nostri tessuti») e confida al fratello, a cui scrive ogni sera: «Figurati che fanno pagare anche 180 dollari i vestiti confezionati con i nostri tessuti o con quelli inglesi». Ce l’ha con inglesi, Gildo Zegna, saranno sempre il suo chiodo fisso. Vuole trovare il sistema per torcere il filo di lana più fine del mondo. Setaccia fabbriche, filande, negozi, allevamenti di pecore. Lancia la prima campagna pubblicitaria dell’Italietta fascista, tappezzando le carrozze ferroviarie di prima, seconda e terza classe con un’immagine-manifesto: un pugnale foderato di tessuto Zegna spezza la catena del dominio inglese. Sono passati cent’anni e siamo alla quarta generazione: c’è un altro Ermenegildo e c’è Anna, tutti e due nel Consiglio direttivo della Camera della Moda, c’è una Fondazione, ci sono le sponsorizzazioni, la collaborazione con gli artisti, la vela, l’Oasi Zegna con i suoi incantevoli rododendri (adesso è anche il periodo giusto) e questo centenario tondo tondo sa un po’ di festa e un po’ di nostalgia, di quando l’impresa era davvero un’impresa, di quando la moda era più giovane e lo slancio visionario valeva più di tutto. Il mondo è cambiato ma l’orgoglio della famiglia è rimasto uguale, come la voglia di non dimenticare la sua storia. La mostra Ermenegildo Zegna, cento anni di tessuti, innovazione e stile (il catalogo è pubblicato da

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Ali e radici: cent’anni di Zegna di Roselina Salemi Skira e costa 80,00 euro) è aperta al pubblico fino al 26 luglio nell’archivio storico del Gruppo a Trivero (Biella) e c’è di tutto: le vecchie foto del lanificio, le ingenue eppure efficaci pubblicità dell’Adam (Anonima Drapperie Abbigliamento Maschile), i taccuini e i libri contabili, le immagini degli allevamenti da dove parte la lana più fine, Australia, Sudafrica, Mongolia, le vetrine, i trofei, i traguardi.Tanto per citarne uno, i venti abiti, unici al mon-

Archeologia

do, realizzati con straordinarie fibre che arrivano alla finezza eccezionale di 10,3 micron di diametro (un capello umano ne misura 60), una sfida nella sfida. Il lanificio Zegna, in fondo a una strada quasi verticale, a Trivero, nel biellese sembra finto, sembra un edificio degli anni Venti ricostruito in uno studio cinematografico, completo di edera sui muri. Qui arrivano le lane più preziose, dalla Tasmania, dal Perù, dalla Nuova Zelanda, qui si

producono due milioni di metri di tessuto, di 450 tipi. Poi c’è lo stabilimento di Stabio, a un centinaio di chilometri, dove la stoffa diventa vestito (servono quattro settimane per averne uno su misura) e ci vogliono trenta diverse stirature perché il completo abbia la raffinata perfezione che rende adorabili i manichini. Ma prima di arrivare a questo punto c’è un altro pezzo di storia. I figli di Ermenegildo, Angelo e Aldo crescono tra la casa

e la fabbrica, vivono con una severità presbiteriana tra i telai che girano giorno e notte: tocca a loro affrontare l’allegro delirio degli anni Sessanta, la rivoluzione che sta per cambiare la società, oltre che il mercato. Gianni Versace riscrive la grammatica della moda maschile, Giorgio Armani reiventa il classico, destruttura la giacca, Cerruti guarda avanti, da Parigi. Angelo Zegna tasta il polso alla globalizzazione. Ha il chiodo fisso del cinese: «Qualcuno di voi deve impararlo!». E ha ragione. Quando è ora di passare il testimone a Gildo Junior, Aldo e Paolo, sembra che i cromosomi si siano equamente divisi: la precisione del bisnonno orologiaio, la curiosità del nonno, fondatore del marchio, lo spirito cosmopolita. La moda diventa sempre più importante: c’è la collezione ZZegna, c’è l’aristocratico Adrien Brody come testimonial, c’è, nel 2008, il traguardo degli 871 milioni di euro di fatturato. La quarta generazione, che celebra e progetta, ha undici nipoti sparsi per il mondo. Il più grande ha trent’anni, la più piccola quattordici. Paolo è il glocal, e adora le riunioni familiari sotto gli ulivi, tesse la lana e la storia di casa Zegna. Zio Gildo, l’americano, che ha studiato tra Londra e Boston, benedice le rimpatriate dal nuovo quartier generale milanese. Non è un uomo, è un’equazione: 600 negozi in 80 nazioni e 7000 dipendenti. Ha cominciato ristrutturando la prima fabbrica spagnola e poi la rete giapponese. Il suo motto è Roots and Wings (Radici e ali). Potrebbe essere un aperitivo zen. Potrebbe essere una canzone dei Beatles.

Ermenegildo Zegna, cento anni di tessuti, innovazione e stile, Casa Zegna,Trivero (Biella), fino al 26 luglio, catalogo Skira

Memoria di Roma: gli Aemili e la basilica nel foro a mostra, allestita alla Curia Iulia al Foro Romano in due sezioni e frutto di un progetto scientifico di Maria Antonietta Tomei, direttrice del Foro Romano e del Palatino, insieme a Patrizia Fortini, intende presentare l’uso «politico» della Basilica Aemilia e delle altre basiliche erette nei Fori di ogni città romana, come spazio della memoria civica. In origine le basiliche risposero all’esigenza, avvertita nella Roma repubblicana a partire dal II secolo avanti Cristo, di avere a disposizione un ampio edificio coperto nel quale svolgere attività economiche e giudiziarie. Proprio la Basilica Aemilia, fondata nel 179 avanti Cristo, si trasformò per prima in un edificio anche «politico», perché la famiglia degli Aemilii la usò come monumento familiare,

L

di Rossella Fabiani facendovi collocare le immagini dei suoi esponenti più illustri. Come tutte le grandi famiglie romane, gli Aemilii vantavano infatti progenitori illustri, tra cui il re Numa Pompilio, del quale si può vedere nella prima sezione della mostra l’unica statua che lo raffigura, trovata nella vicina Casa delle Vestali. Insieme a Numa, oltre a una serie di immagini che rappresentano le monete in cui erano celebrati i grandi personaggi della gens Aemilia, è esposto un bellissimo ritratto attribuito a Marco Emilio Lepido, il collega di Ottaviano e Marco Antonio nel secondo triumvirato. In questa sezione, i rilievi provenienti dalla Basilica mostreranno così l’intreccio esistente tra le memorie familiari e la

storia di Roma. Fino a poco tempo fa si riteneva che fossero collocati all’interno dell’edificio in modo da formare un lungo fregio continuo mentre soltanto di recente si è proposto che il racconto fosse scandito in una serie di pannelli separati l’uno dall’altro e dedicati ciascuno all’illustrazione di singoli episodi della storia di Roma, interpretazione dovuta a Klaus Stefan Freyberger dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. La seconda sezione è invece dedicata a uno degli aspetti più importanti della trasformazione delle basiliche in edifici politici: la creazione di veri e propri cicli di statue raffiguranti spesso famiglie locali, ma soprattutto la famiglia imperiale. Saranno così presentate una serie di statue tutte provenienti da diverse basiliche per ricreare l’impressione destata da queste schiere di ritratti che, disposti l’uno di fianco all’altro occupavano la basilica, alternando uomini, donne e bambini, raffigurati in tipi statuari diversi (la toga però, costume simbolo dell’identità romana, prevaleva nelle statue maschili). Le Statue e i ritratti provenienti dalla Basilica Aemilia, dalla Basilica Noniana di Ercolano, da Luni, da Velleia e da Lucus Feroniae illustreranno così la trasformazione della basilica in una sorta di palcoscenico del potere, soprattutto di quello imperiale.


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il paginone

La premessa è di per sé bizzarra: inaugurare il nuovo museo romano delle Arti del XXI secolo con una mostra dedicata a un protagonista dell'architettura del millennio passato. E come se non bastasse l’ambizione antologica dell’esposizione, smodatamente vasta, non restituisce la spigolosa e contraddittoria complessità della sua opera

Grande bouffe per Luigi Moretti di Claudia Conforti a terza inaugurazione del MAXXI, lo stupefacente Museo delle Arti del XXI secolo, ideato da Zaha Hadid nel cuore del Flaminio a Roma, si è consumata tra il 27 e il 28 maggio. Nel primo giorno si è svolta la conferenza stampa, nel secondo si è celebrata un’autentica festa collettiva: una gioiosa adunata di artisti, di architetti e di ingegneri, di curiosi e di cultori, che dal crepuscolo a notte fonda ha esplorato le filanti gallerie espositive e gli screziati esterni del museo, sperimentandone al vivo le gagliarde potenzialità aggregative. L’apertura del Museo delle Arti del XXI secolo è siglata da un poker di mostre, diverse per tema, concezione e godibilità: tra esse mi limito a quella dedicata all’architettura e intitolata a Luigi Moretti architetto. Dal razionalismo all’informale. L’esposizione, aureolata da molteplici patrocinatori, (dall’Accademia Nazionale di San Luca all’Università della Svizzera Italiana all’Archivio Centrale dello Stato), da un comitato scientifico ecumenico e coordinata da Bruno Reichlin e Letizia Tedeschi, omaggia un grandissimo, quanto celebre, protagonista dell’architettura del millennio passato. Sconcertante viatico per la prima istituzione nazionale mirata alla promozione delle arti del Ventunesimo secolo, come annuncia a lettere capitali l’acrostico MAXXI.

L

Una mostra dall’ambizione antologica, smodatamente vasta, e zavorrata, in ossequio a una spietata prassi accademica, da un ciclopico tomo Electa, di cui tacerò. Infatti il suo ingombro fisico, il peso strabiliante e la pletora di introduzioni (tre!), saggi, saggini e noterelle che ne inchiostrano le pagine, congiunti all’assenza di anno III - numero 24 - pagina VIII

qualsiasi indice analitico che faciliti l’orientamento nella selva verbosa, ne scoraggiano sia l’asporto che la lettura. Opportunamente al colosso cartaceo si affianca un maneggevole libretto, trapunto da fotine che, curato da Maristella Casciato e Annalisa Viati Navone, collaboratrici alla curatela, raccoglie una sintetica cronologia dell’opera dell’architetto romano. Luigi Moretti (1907-1973) fu uno dei più dotati architetti italiani del Novecento: il suo talento, precocemente intuito dal gerarca fascista Renato Ricci, gli valse dal 1933 la direzione dell’ufficio tecnico dell’Opera Nazionale Balilla, preposta all’edificazione di centinaia di strutture finalizzate alla formazione delle nuove generazioni fasciste. In tale veste il giovane, appena laureato alla neo-fondata facoltà di architettura della Sa-

mai ripensata criticamente da Moretti, neppure dopo la guerra e l’ingloriosa fine del regime mussoliniano. L’architetto dette prova di un’ostinata coerenza che, degna di miglior causa, gli assicurò la diffidenza di parte della cultura disciplinare che volle accogliere gli ideali libertari e repubblicani.

Nonostante ciò, in virtù di un talento progettuale fuori dal comune e di un’altrettanto portentosa abilità nelle relazioni sociali, nelle alleanze politiche (fu intrinseco alla nuova classe democristiana al potere e alle alte gerarchie del CuriaVaticana) e affaristiche (lavorò in stringente sintonia con la Società Generale Immobiliare, compromessa anche in operazioni speculative poco onorevoli), Moretti fu colmato di riconoscimenti pubblici, di successi professionali a scala

Imprevedibile e audace nella creatività quanto prudente e conformista nelle relazioni sociali e affaristiche. Che gli procurarono opportunità abbaglianti pienza, costruì edifici stupefacenti al Foro Mussolini: l’Accademia della scherma (sfregiata dall’uso di aula bunker per i processi alle Br), la palestra del Duce e il piazzale dell’Impero, oltre alla Casa del Balilla a Trastevere. L’adesione all’ideologia fascista non venne

planetaria e di cospicui emolumenti, in misura che non trova termini di confronto tra gli architetti italiani del tempo. Negli anni Sessanta del secolo scorso lo studio di Moretti impiegava tra le trenta e le cinquanta persone, mentre negli studi professionali di progettisti affermati, appartenenti a varie generazioni, come il decano Giovanni


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Michelucci o Ignazio Gardella, Paolo Portoghesi o Carlo Aymonino, gli addetti superavano a stento le dita di una mano. Membro dell’Accademia Nazionale di San Luca, nel 1956 fu insignito dalla presidenza della Repubblica del prestigioso Premio Nazionale dell’Architettura, come riconoscimento sia delle sue «realizzazioni esemplari sia per la sua attività critico-culturale», come scrisse nella motivazione Adalberto Libera. Conte-

L’adesione all’ideologia fascista non venne mai ripensata criticamente da Moretti. Ma il suo talento progettuale fuori dal comune gli valse infiniti successi e riconoscimenti stualmente gli fu dedicata una mostra che, dopo Roma, toccò Milano, Madrid e Algeri, città che si fregerà del suo hotel El Aurassi, progettato con Silvano Zorzi, il geniale amico ingegnere. Nel 1968 Moretti ebbe l’onore di una premessa alla sua monografia del poeta Giuseppe Ungaretti; nel 1971 allestì una personale a Madrid e nel 1975, due anni dopo la sua morte, fu tra i primi architetti italiani contemporanei a essere oggetto di una monografia redatta dallo storico dell’architettura Renato Bonelli. Il suo estro scintillante, multiforme e vorace lo spronò a misurarsi, con spregiudicatezza intellettuale e temerarietà culturale, in ogni agone critico, dalla pittura al cinema alla grafica all’editoria,spaziando con acuminata baldanza nelle diverse epoche storiche, con una particolare predilezione per Michelangelo e per le metamorfiche manifestazioni del genio barocco. Nel 1950 fondò e diresse una rivista di cui uscirono solo sette numeri, divenuti immediatamente oggetto di venerazione collezionistica, che condivideva il titolo Spazio con la galleria d’arte contemporanea da lui aperta in via Cadore a Roma tra il 1954 e il ’55, un’iniziativa che contribuì a spalancare le porte della capitale alle fiammeggianti avanguardie europee e nordamericane.

Da queste poche righe Moretti si rivela artista impervio, sfaccettato e ambiguo, insofferente di tutti i noiosissimi «ismi» che lusingano la pigrizia critica e storiografica, In alto, da sinistra, in senso orario: Luigi Moretti nel suo studio e alcune sue opere: Villa La Saracena a Santa Marinella; un particolare della Palazzina del Girasole a Roma; il Complesso polifunzionale di Corso Italia a Milano. Sotto: un particolare dell’allestimento di Aldo Aymonino della mostra in corso al MAXXI di Roma; un particolare della Villa La Califfa ancora a Santa Marinella; uno scorcio del Villaggio Olimpico a Roma e, sempre a Roma, il ponte Pietro Nenni. Nella pagina a fianco, una copertina di “Spazio”, la rivista che Moretti fondò e diresse dal 1950 ma di cui uscirono solo sette numeri

immancabilmente grondante di lacrimevoli rimpianti. Quanto Moretti fu imprevedibile, audace e anticonvenzionale nelle incursioni creative, tanto seppe essere prudente, cautamente protocollare e astutamente conformista nelle relazioni sociali e affaristiche, che gli procurarono opportunità costruttive ed economiche davvero abbaglianti. Autore del complesso residenziale Watergate a Washington, che dette il nome al più rumoroso e inquietante scandalo politico nordamericano del dopoguerra, ha costruito a Milano case albergo dalle ermetiche volumetrie verticali e un pionieristico complesso multifunzionale in corso Italia, che ha squassato, con spavalda irruenza plastica, l’ordinata bidimensionalità delle quinte stradali, tipiche del tessuto milanese. A Roma la palazzina del Girasole, costruita a viale Buozzi nell’immediato dopoguerra, seppe reinventare il tipo abitativo più amato dai romani. Il villaggio Olimpico e il quartiere di Decima attestano ancora oggi l’originalità tipologica e la capacità di interpretare la storia urbana di Moretti che, in collaborazione Zorzi, regalò alla capitale l’elegantissimo ponte della metropolitana e lo strabiliante (quanto incompreso) palazzo Enpdep in via Morgagni: un potente ponte in cemento precompresso, perfettamente inscritto nel volume del preesistente villino abitato dal romantico paesaggista Roesler Franz. Si devono a Moretti anche gli impeccabili propilei dell’Eur (sedi Esso e Sgi); la sede della banca popolare di Milano, in piazzale Flaminio e l’incantevole trittico balneare orchestrato dalle ville Saracena, Califfa e Moresca a Santa Marinella. Questo elenco è limitato alle opere più celebri, divulgate dai manuali di storia dell’architettura e frequentate dalle locations cinematografiche. In realtà quello di Moretti è un corpus di opere stilisticamente inclassificabili: ognuna di esse è il risultato di sperimentazioni formali perspicue, di azzardi tipologici e costruttivi a se stanti, che interpretano con lo sguardo urticante della modernità il concerto vitruviano di utilitas, firmitas e venustas, a cui Moretti rimase sempre ereticamente fedele. Nella mostra in questione tutta la spigolosa complessità, le brucianti contraddizioni e i lampi di tenebra che hanno alimentato la sulfurea creatività di Moretti sono addo-

mesticati in una disciplinata sequenza cronologica, che sciorina ben quattrocento schizzi preparatori, ordinati come soldatini nelle candide teche che ancorano lo spazio guizzante di Zaha Hadid. L’istanza didascalica che imbriglia la mostra trionfa nelle tavole sinottiche che solo la delicata magia dell’allestimento mette al riparo dal patetismo didattico. Esse si inseguono lungo una parete laterale, finalizzate ad accendere nella mente dei visitatori tornati fanciulli il tenero ricordo dei sussidiari e dei manuali scolastici, dove una data topica suscita l’immagine di un edificio memorabile (o presunto tale) insieme alla memoria di avvenimenti politici, altrimenti sepolti nell’oblio di menti spossate. Si impone invece con persuasivo vigore la sottile e penetrante lettura che dell’opera di Moretti e del suo incontro con il MAXXI di Hadid suggerisce il gagliardo allestimento di Aldo Aymonino. La trama espositiva ordita da Aymonino sa alleviare con rapida grazia la bulimia grafica e la ridondanza dei modelli esposti (in gran parte non d’epoca e di non eccelsa qualità), lampeggiando interpretazioni che illuminano l’opera di Moretti, assecondano il dinamismo di Hadid e riaccendono la gioia di guardare l’architettura nelle varie forme della sua rappresentazione. Turbinanti pannelli ricurvi, che si rincorrono come cirri e si specchiano sulle vetrine, mentre evocano la passione di Moretti per le geometrie curve e guizzanti, esibiscono le immagini delle sue architetture in spettacolari ingrandimenti di foto d’epoca, cui si associano gli scatti commissionati per l’occasione a Gabriele Basilico.

L’introibo messo in campo da Aymonino è il vero talismano critico della mostra. Liberamente ispirato alle ali degli angeli barocchi, tanto amati da Moretti, che ne fece tema di una copertina di Spazio, il portale esibisce la cadenza danzante della raggiera di un ventaglio che, dissimmetrico e possente, si torce obliquamente nella manica a vento di Hadid, esaltandone la fluidità spaziale e illuminando i sensi dell’opera di Moretti nell’incontro con lo spazio del MAXXI. Una squillante banda orizzontale color carminio mette in evidenza gli incanti trasparenti e sospesi delle tempere con le quali Moretti in gioventù illustrava i progetti, che si confrontano con i quadri,prevalentemente d’avanguardia ma non solo, riuniti nello screziato collezionismo dell’architetto romano. Ideale premessa alla megamostra del MAXXI è costituita dalla minuscola esposizione, ordinata dalla medesima équipe di curatori, nell’Accademia di San Luca e intitolata Moretti. Storia Arte Scienza, che dà conto, con consapevole modestia, della multiforme formazione e personalità dell’artista, arricchendo il filo critico già svolto da un pionieristico saggio pubblicato qualche anno fa su Casabella da Cecilia Rostagni, autrice di un’insuperata monografia sulla vita e l’opera di Luigi Moretti.


Narrativa

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Q

uando Irène Némirovsky viene arrestata, il 13 luglio 1942, la maggiore delle sue due figlie, Denise ha 13 anni, la minore Elisabeth, soltanto 5. Dopo tre mesi è deportato anche il padre. A Denise rimane fra le mani la valigia della madre che Michel Epstein gli ha consegnato. Null’altro, dopo la morte dei genitori. Le due ragazzine restano completamente sole e la loro sarà una vita dove peseranno più le assenze che le presenze. Elisabeth diventerà scrittrice come Irène. La grande continuerà per tutta la vita a ricordare e a far conoscere la madre. È lei che, dopo molti anni, trova il coraggio di aprire la valigia consegnatagli dal padre.Vi troverà dentro un manoscritto prezioso che copierà fedelmente: quella straordinaria Suite francese che doveva diventare la Guerra e pace di Irène Némirovsky e che non ha potuto essere completata. Denise è stata intervistata da decine di giornalisti per capire che cosa sia stata la sua vita senza una così grande madre e senza un padre, qual era Michel Epstein, intelligente e affettuoso. Le conversazioni con Clémence Boulouque escono ora per Adelphi in un libro dal titolo: Sopravvivere e vivere. Denise parla della sua solitudine e della compagnia che le fa la memoria. «Le foto mi sono di conforto - osserva -, mi dicono che nella vita dei miei ci sono stati momenti felici, anche se brevi; permettono di fantasticare a chi era troppo piccolo per avere ricordi, come mia sorella Elisabeth. Mia madre ha avuto una gioventù solitaria e infelice, una vita da studentessa, quasi francese, un po’ folle e scatenata, e poi una vita familiare che l’ha soddisfatta appieno. Nelle foto si vedono questi passaggi impressi sul suo volto». E Denise passa il suo tempo a scrutare le immagini del teleobiettivo per capire come stava la mamma e quanto papa l’amasse e la stimasse, perché il volto vero non lo può più guardare e teme che il tempo ne cancelli persino il ricordo. E quella valigia che conteneva la cosa più importante scritta da Irene: «Era pesante e per portarmela dietro avevo dovuto abbandonare la bambola Bleuette, grande tragedia per una ragazzina». Il coraggio che c’è voluto per aprirla, racconta Denise, e prima ancora la narrazione più crudele: quella di due bambine che vanno alla Gare dell’Est dove rientrano i deportati: «Gli occhi di quelle persone non avevano più niente di umano. Così non sono tornata alla stazione e io e mia sorella abbiamo cominciato una lunga attesa davanti all’Hotel Lutetia... Poi un giorno dici basta... Cominci a fantasticare, ti rifiuti di vedere la realtà, non puoi né capire né accettare: dopo una

libri

Denise Epstein SOPRAVVIVERE E VIVERE Adelphi, 181 pagine, 13,00 euro

Quel che resta di Irène La figlia della Némirovsky, custode e divulgatrice delle opere della grande scrittrice, racconta l’assenza e la presenza della madre nella sua vita

Riletture

di Gabriella Mecucci

cosa del genere come si può diventare una donna equilibrata, normale?». E in questo bel libro Denise parla di tutti i suoi dolori, delle paure, delle angosce di una ragazzina e di una donna «devastata» dall’orrore della Shoah. E poi della rivendicazione, subito dopo la fine della guerra, del suo essere ebrea, vissuta come un modo per rispettare «i nostri morti» e per chiedere il riconoscimento del loro sacrificio a tutti. Le piccole, grandi nevrosi trascinate dall’infanzia sino all’adolescenza, sino alla giovinezza: la paura delle cassette della posta vuote: quante volte aveva cercato invano un messaggio, un segnale di Irène o di chi l’aveva incontrata. Il timore di avere figli perché «il bambino nasceva e io non avevo praticamente mai avuto accanto mia madre». Il senso, dunque, della perdita e la responsabilità gigantesca verso la creatura che veniva al mondo e che non doveva «soffrire quello che avevo sofferto io». E la ricerca continua di un sentimento materno, la rabbia perché Irene, che pure aveva compreso l’entità del rischio, non era scappata. Aveva preferito restare in Francia a scrivere il suo Guerra e Pace ed era scomparsa nel gorgo della Shoah. Ma di tutti i momenti della vita di Denise, il più toccante è la consegna del manoscritto, custodito nella valigia, all’editore. È il 2004 e la figlia, invecchiata dagli anni e dalle sofferenze, chiede una sola cosa: «Trattate mia madre come una scrittrice non come una vittima. Lei avrebbe voluto così». Il successo travolgente di Suite française è stata la più chiara e la più calda delle risposte che il pubblico potesse dare alla richiesta di Denise e di Irène. Ma la Némirovsky, seppur coperta di gloria, fu anche criticata, talora, contestata. Denise racconta di quando andò a Gerusalemme a presentare la Suite e delle polemiche che qualcuno sollevò verso la scelta di sua madre di battezzarsi. Dopo le voci di aperto dissenso, ci furono però anche gli applausi. Sopravvivere e vivere è una dolorosa cavalcata nella storia del Novecento che termina, nonostante tutto, con un filo di ottimismo: «A voi enfants cachés degli anni bui così conclude Denise il suo drammatico racconto -, bambini feriti di ogni paese, vorrei dire che i nostri genitori scomparsi avrebbero certamente voluto che noi restassimo in piedi. Se talvolta sopravvivere è difficile, basta guardarci attorno per vedere che cosa abbiamo cercato di ricostruire... in fondo non è poi così male».

Marabini indagatore delle strade dell’anima

i mancherà Claudio Marabini. Ci piace ricordarlo come effettivamente è sempre stato: gentiluomo. Così il vuoto che lascia è ancora più vasto nella società intellettuale che oggi sfiora frequentemente l’urlo e lo sciatto, la polemica di cortile e la bolla di sapone alzata a gonfalone narcisistico. Errore grave ricordarlo solo come saggista e giornalista. La sua competenza di studioso della letteratura, di interprete delle tematiche dei narratori che esaminava con scrupolo e che intervistava, gli servì, come un giorno ci disse, per essere scrittore di romanzi, nei quali ha sempre cercato di spiare il percorso misterioso dell’uomo e comprendere le sue radici, ben lontano dal bozzettismo della provincia. «Il giornalismo» sono parole sue «è una grande scuola, è abitudine alla sintesi e a contenere lo scritto nei limiti della rubrica». Mancherà molto a noi di liberal, quotidiano del quale da più di un anno era collaboratore. È morto nella natia Faenza, dove era nato nel 1930. La percorreva sul sellino della sua bicicletta rossa, con una curiosità mai appannata dall’abitudine ultradecennale di osservare persone e mura, strade e contiguità tra antico e nuovo. «Sulle pietre rosse e sgra-

C

di Pier Mario Fasanotti nate c’è anche la mia pelle» scrisse. La sua prosa era profonda ma anche limpida, in obbedienza alla convinzione «che le cose più difficili si possono raccontare in modo semplice». Lui che aveva scritto migliaia di recensioni sul Resto del Carlino e in altre testate, sorrideva e insisteva: «Non comprendo perché un libro “serio”debba diventare insopportabile». Fiero di essere romagnolo, respingeva però i luoghi comuni appiccicati alla sua terra. Per esempio quello di «mangiapreti». Lui stesso, di famiglia laica (ma noi laicista) raccontava di avere nel suo Dna la ricerca religiosa. E s’adirava un po’ quando qualcuno osava assimilare la Romagna all’idea di una Padania feroce con i deboli e diffidente con gli «altri». I suoi stessi saggi erano la dimostrazione che questo meridionale spicchio del Nord sia sempre stato aperto alla commistione etnica e culturale. Ricordiamo il suo Voci e silenzi di Romagna, gli studi su Pascoli, Letteratura bastarda, ossia indagine sugli svariati modi del narrare. Lente di ingrandimento che s’avvia dal suo diagonale percorso tra giornalismo e roman-

La figura e l’opera dello scrittore scomparso nei giorni scorsi a Faenza

zo. Perché «bastarda»? Lo spiegava così: «Per bastarda intendo una sorta di via di mezzo tra Proust e i grandi cronisti. Per “bastardia”, invece, intendo la menzogna voluta, ideologizzata, maliziosamente distruttiva». Era grato ai giornali: aveva imparato a leggere sulle ginocchia di suo padre che sfogliava il quotidiano. Interrogò scrittori di valore. Di Leonardo Sciascia disse che era «un gran signore», a proposito di Giuseppe Berto sosteneva che «scriveva articoli che potevano diventare pagine di libro». Marabini, come erroneamente ha scritto qualcuno, non era «recensore bonario». Incontrò Fellini e disse che era un bugiardo. Certo, non aveva l’orribile vezzo di compilare pagelline. Gli importava capire: il testo e il suo autore. E non fu certo bonario quando scrisse che il romanzo di Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, era gelido pur nella sua perfetta geometria.Tra i suoi romanzi sono certo da riprendere in mano I sogni tornano, Malù, Il passo dell’ultima dea, La notte che diventa giorno. In Qualcosa resta c’è una frase che illumina la personalità del narratore-saggista: «Restano gli umili passi, la quotidiana fatica e l’occhio cercante di chi non si risolve a credere che i passi dell’uomo abbiano una direzione». Marabini indagava sulle strade dell’anima.


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poesia

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Marino in cerca dell’attimo eterno di Filippo La Porta l napoletano Giambattista Marino alla profondità e all’interiorità proprio non ci crede. Vogliamo fargliene una colpa? Se nei suoi versi cercate introspezione o meditazione morale avete sbagliato indirizzo. La condanna del marinismo e della poetica della meraviglia è stata unanime, nel Settecento illuminista e perfino nell’Ottocento romantico. Paradossalmente fu proprio Croce a rivalutarlo, almeno per quanto concerne la poesia sensuale, in quanto sincera, non per quella ingegnosa (il lambiccato concettismo), ed entro un giudizio complessivo comunque negativo. Si preferì talvolta a Marino il Chiabrera, considerato meno «barbaro» ma in realtà assai più arido. Già, perché Marino non era arido. La stessa simulazione delle passioni, il loro volgere in gioco fatuo, intessuto di audaci metafore, è trasparente. E poi soffermiamoci sulla sua attenzione minuziosa alla realtà esteriore, di cui ci offre precisa fenomenologia. Volti femminili, oggetti domestici, capi di abbigliamento, gesti quotidiani, sono ritratti con una esattezza che non può non essere anche attenzione del cuore. Come ha osservato Giovanni Getto è Tasso il nostro vero grande poeta barocco (con qualche decennio di anticipo), insuperabile nell’arte di cantare la caducità estrema del tutto, mentre Marino alla consistenza e durata delle cose terrene ci crede molto di più. Non rappresentano solo il sigillo fugace di una vita autentica, che si troverebbe altrove, magari in una dimensione misticoreligiosa. Il Seicento è stato un secolo irreligioso, malinconico, impietosamente realistico. E Marino lo ha abitato senza gli eccessi stucchevoli dei marinisti e con una fondamentale inclinazione al buon umore. Nel sonetto XXIII - Piano e riso assistiamo a una singolare competizione tra gli occhi e la bocca della donna. In questa messinscena, teneramente frivola, occhi e bocca rivendicano rispettivamente i propri diritti: a vincere è la bocca ridente. E sapete perché? Perché il riso è sempre da preferire al pianto.

I

L’immagine deteriore del Seicento fu ribadita da tutti i nostri poeti e scrittori: gli arcadi, e poi Manzoni, Foscolo, Leopardi, De Sanctis, Carducci, etc. Bisogna arrivare fino a D’Annunzio per una prima riabilitazione,

il club di calliope

PALLORE DI BELLA DONNA Pallidetto mio sole, ai tuoi dolci pallori perde l'alba vermiglia i suoi colori. Pallidetta mia morte, a le tue dolci e pallide vïole la porpora amorosa perde vinta, la rosa. Oh piaccia a la mia sorte che dolce teco impallidisca anch'io, pallidetto amor mio!

passata attraverso i simbolisti. In fondo è in quel secolo, decadente e per definizione privo di anima, che si forma il carattere degli italiani nella modernità, almeno come oggi viene normalmente riconosciuto: amoralità, dominio della retorica, ipocrisia, mancanza di interiorità, estetismo (e una certa freddezza, pur nella sensualità). Le considerazioni severe di Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani (1824) riprendono alcuni temi della polemica protestante contro il nostro paese (da Sismondi in poi). Il barocco è stato anche definito «gesuitismo» dello spirito. Leopardi osserva che gli italiani, privi come sono di «società stretta» (di legame sociale) e immersi in una «dissipazione giornaliera», sentono più di altri popoli la «vanità reale delle cose umane», né riescono a dissimularla attraverso una vera solidarietà. Ma non stiamo parlando del barocco, della sua dissipazione, del suo (gioioso o disperante) nichilismo? Bisognerebbe rassegnarsi. O meglio, come una volta suggerì Carlo Levi, gli italiani dovrebbero smettere di pensare a correggersi (impresa vana, in cui volevano cimentarsi sia Mussolini che Gobetti) e invece tentare di valorizzare gli elementi di questa tradizione. Ad esempio l’amore per la bellezza, che nel Seicento si esteriorizza ma non scompare del tutto. E poi un mix di tolleranza cosmopolita e saggezza conviviale: in un sonetto dedicato a una schiava nera Marino, incurante di pregiudizi razziali, ne elogia la bellezza, la «luce» che vede uscir dal «tenebroso inchiostro». Marino ritrova ovunque quei caratteri del mondo che predilige e che ha illustrato nella sua opera, e per i quali non è arbitrario parlare di una diretta influenza dell’Ovidio delle Metamorfosi, che amò molto (identica suggestione agì su un altro scrittore del Seicento, Basile). Si ribella al petrarchismo e alle regole del Bembo non per gusto dello sberleffo ma per rappresentare quella realtà metamorfica senza selezionarla. In una lettera da Parigi nota che quella società è caratterizzata da stravaganze, mutazioni continue ed «estremi senza mezzo». E le stravaganze «fanno

Giambattista Marino da La lira

bello il mondo» (1615). Eppure nel suo canzoniere è così forte la presenza della notte (amica «de’ladri e degli amanti»), del sonno che dà conforto, dell’ombra, del silenzio, che ci viene un sospetto. Non sarà che la sua aspirazione più profonda, al di là di questo variopinto, sfibrato arsenale di preziosità e meraviglie e sfarzosità non sia quella della quiete? Marino vuole soprattutto dormire, riposare, assopirsi nella notte salvifica e celestiale, in una felicità immemore e incosciente.

Nel madrigale che ho scelto, ispirato ad analogo del Tasso («Al tuo vago pallore/ la rosa il pregio cede, / che per lo scorno or più arrossir si vede…») e composto di endecasillabi e settenari, il poeta alla fine dichiara il suo desiderio di «impallidire», cioè di morire con la sua amata. Ma qui non vi è niente di drammatico, anche se il poeta fa trasparire un po’ le sue emozioni. Quelle «dolci e pallide viola» potrebbero essere le occhiaie (una volta Pasolini parlando del viso di Fellini, ne sottolineò le occhiaie violette…). Il segreto sta tutto nel mantenersi rigorosamente in superficie, lì dove i colori stingono di fronte al pallore della donna, e lì dove non si è mai agitati da passioni disturbanti ma solo avvolti da porpora amorosa. Se il barocco è categoria dello spirito e atteggiamento verso la vita (opposto a classico), che privilegia varietà, squilibrio, instabilità, certo in Italia si espresse meglio attraverso la musica. Però la «musica» dei versi di Marino, a volte goffa o capricciosa, ci commuove perché si sofferma sulle cose quasi per trattenerle prima che svaniscano. Come prima accennavo: la vita viene simulata oltre se stessa, per durare un po’in più, la realtà esteriore sembra estenuarsi fino a diventare, per un attimo, eterna.

FRAGILITÀ È... UN BAMBINO MALATO in libreria

Devo scrivere bava e dopo perla e poi collana chissà se mai compaia controsole la pagina spiegata che le avvolga qui tutto si dipana da due occhi che nel bruciare si scavano una tana ne va di un mondo un punto che lo aspetta e lo pretende senza aver ragione devo scrivere bava e dopo perla e poi collane. Silvia Bre

di Loretto Rafanelli

na poesia forte quella di Daniele Mencarelli (Bambino Gesù, edizioni nottetempo), che non dà spazio ad artifizi linguistici o a manierismi, ma nasce da uno stato di disagio, di necessità, e va al cuore del dolore e delle tragedie umane. Un libro che nella parte dedicata ai bambini malati, spesso terminali, dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, dove il poeta ha lavorato per lungo tempo, sicuramente sconvolge il lettore. Daniele Mencarelli ci racconta una realtà terribile, quella lotta quotidiana dei piccoli e dei loro genitori contro la malattia e ci avverte di una fragilità umana che spesso dimentichiamo. E indica anche una cristiana speranza. La sezione dedicata alle vicende dell’automobilista compresso nella quotidiana follia, con la sequela di ingorghi, di risse, di morti e feriti, ci pare una perfetta metafora della nostra società. Ci sono poi i lievi ricordi di una recente giovinezza (è del 1977), con le dolci espressioni affettive e i luoghi di una irrimediabile lontananza. Mencarelli, col suo sguardo attento e sensibile, merita un posto di rilievo nel panorama della giovane poesia nazionale.

U


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di Enrica Rosso

«Q

uanto tempo occorre per raccontare una storia? Quanto tempo siamo disposti a concederci per seguire una storia?». Renato Quaglia, direttore del Napoli Teatro Festival 2010, lascia aperti gli interrogativi e noi vi invitiamo a farne esperienza diretta per trovare le vostre personali risposte. Bizarra è il titolo della prima soap opera teatrale per un totale di trenta ore, prodotta dal Festival.Tenuta a battesimo dalla regista Manuela Cherubini che ne ha curato anche la traduzione, andrà «in onda» sul palcoscenico del Teatro Sannazaro dalle 19 alle 20.10 con cadenza quotidiana, inesorabilmente, come da manuale, fino al 26 giugno. Un’operazione ardita che coinvolge 33 attori a interpretare più di cento personaggi, più alcune guest star prese in prestito dalle telenovelas nostrane di grido. Scritta dall’argentino Rafael Spregelburd è interamente recitata in napoletano in un inventario di stili e si svolge in un’Argentina impoverita dalla crisi (prima connessione con il Bel Paese). Le immagini del palazzo Reale di Napoli proiettate sul fondale saranno quindi, idealmente, la Casa Rosada di Buenos Aires. Indipendentemente dal valore della storia che gira intorno alla vita di due giovani donne segnate da opposti destini,Velita e Candela, (che si scopriranno essere sorelle, separate alla nascita, nonché figlie di una delle due soliste dei mitici Abba), il tempo della narrazione è condotto con ritmo e supportato da un’ottima prova interpretativa. La struttura ripetitiva degli avvenimenti tanto cara alle soap quanto alla sceneggiata riconforta gli aficionados del genere che sono disposti a sopportare un evento fortemente drammatico sì, ma solo per il tempo provvisorio di una puntata. Uno spiccato senso ludico sposato a una pungente ironia sottolineano la fratellanza di due popoli allineati nella capacità di svoltare la giornata che ha spesso del miracoloso. Quindi quale miglior location per presentarlo se non Napoli? Per chi invece pensa di non trovare proprio il tempo da dedicare all’andare a teatro scatta il piano B. Portare il teatro fuori

Televisione

Teatro

MobyDICK

spettacoli DVD

Dieci art attack

invadono Napoli

GUIDA ILLUSTRATA AL FENOMENO DA VINCI ome il ferro in disuso arrugginisce, così l’inazione sciupa l’intelletto». Pittore, scultore, architetto, inventore, lui, Leonardo da Vinci, non ne sciupò neppure una goccia. Genio del Rinascimento, come pochi ne contemplò la storia dell’umanità, il grande toscano rivive in Leonardo da Vinci - L’arte e la scienza. In sapiente equilibrio tra racconto biografico e illustrazione delle opere più celebri, il documentario prende le mosse dalla bottega del Verrocchio, dove l’artista apprese i primi rudimenti, per poi condurci alla corte di Ludovico il Moro e infine al castello di Francesco I. Consigliato agli studenti.

«C

PERSONAGGI

EUNICE WAYMON, IN ARTE NINA SIMONE Storie brevi, interpretate, all’improvviso, negli spazi della città. È “L’Attesa” in corso fino al 26 giugno dagli spazi deputati, far vivere gli scenari naturali della città offrendo delle performance lampo, imprevedibili, preferibilmente in quei luoghi in cui si vive una sospensione temporale coatta, un disciplinato non fare. Questi gli ingredienti dell’Attesa. Per questo progetto il Festival ha chiesto a dieci scrittori italiani (Dacia Maraini, Vincenzo Consolo, Andrea De Carlo, Maria Pace Ottieri, Milena Agus, Sandra Petrignani, Elisabetta Rasy e Paolo di Paolo) di immaginare delle storie brevi, delle narrazioni di tutti i giorni, teatralizzabili ma non riconoscibili, in grado

di confondersi con la realtà di una città iperteatrale come Napoli. Il teatro vi coglierà quindi a vostra insaputa: non sono stati, infatti, comunicati gli orari degli art attack. Unica certezza è che si esauriranno il 26 giugno. Li vivrete, forse, attraverso lo stupore degli altri. La confezione è affidata a cinque diverse compagnie che si alterneranno nella realizzazione di queste invasioni di micro teatro. Vi trasformerete vostro malgrado in guardinghi guardoni, testimoni di piccole guerriglie private o di azioni rarefatte. Una forma di teatro invisibile in grado di scalzare la noia e scatenare la «post drammaturgia automatica», quella che da sola immagina come va avanti la storia dopo aver rubato una parola in più o un gesto rivelatore di uno stato d’animo esacerbato. Attenzione quindi ai vostri vicini, il teatro è ovunque.

acque Eunice Waymon, ma il mondo la conobbe con lo pseudonimo di Nina Simone. Non proprio un vezzo artistico, considerato che nacque nera nell’America segregazionista degli anni Trenta. Appassionata di musica classica sin da bambina, il conservatorio le negò l’accesso per questioni razziali. Ma lei, pianista prodigiosa e voce incalzante, non si perse d’animo, e semmai non ne risparmiò neppure un’oncia. David Brun-Lambert ne ripercorre la parabola artistica in Nina Simone - Una vita (Feltrinelli, 448 pagine, 12,00 euro). Ruvida nell’agone pubblico, fragile nel privato, Eunice è rievocata tra gli altri da Charles Aznavour e Toni Morrison, in un lavoro puntuale che rifugge i facile cliché.

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di Francesco Lo Dico

Via D’Amelio e la credibilità di Ciancimino jr.

er saperne di più, ma anche per sapere perché in Italia non si sa mai abbastanza, è molto utile seguire il programma Complotti in tarda serata su La7. Conduce in studio (è anche uno degli autori) Giuseppe Cruciani, giornalista romano la cui voce è nota a molti di quelli che se-

P

guono La zanzara su Radio 24. Cruciani è svelto, arguto, documentatissimo. Se alla radio appare sbrigativo e un poco arrogante di fronte a dichiarazioni di gente che proprio in linea con il

governo attuale non è, sullo schermo, non avendo interlocutori se non se stesso, è sobrio, essenziale. Ha un volto da mediano che non esita a passare la palla o a intervenire sull’avversario. Il suo è un modo di fare rude, diretto. A volte, alla radio, pare non ammetta obiezioni. Allontana immediatamente i gomitoli delle lamentazioni. E non nasconde la sua preferenza per il centro-destra. Una delle sue puntate televisive è stata dedicata alla strage di via D’Amelio (1992) in cui un’autobomba uccise il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Una ricostruzione buonissima, che non esclude alcuna interpretazione. Ciò che successe in quel giorno apre una voragine di interrogativi, ora rinvigoriti dalla dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il quale ci ha abituati a pronunciare una parola strana: «papello». Il papello è un documento scritto a mano in cui sarebbero elencati i punti-chiave della trattativa tra istituzioni e mafia. Come

dice l’ex procuratore generale Pier Luigi Vigna, occorre fare attenzione alle «dichiarazioni a rate, frazionate nel tempo, del figlio dell’ex sindaco il cui scopo sarebbe proprio quello di verificare, poco alla volta, le impressioni suscitate per adattarle alle successive esternazioni». Riflessione acuta. Cruciani si pone la domanda che a tutti noi viene spontanea: «Massimo Ciancimino è credibile?». Sarà solo una sensazione, ma a vedere la sua faccia furba e sorridente in tribunale ci sarebbe da esitare, e molto. Un giornalista esperto di mafia afferma che «Massimo fa parlare un morto, ossia il padre». Un altro ci informa che Don Vito non aveva alcuna stima per il figlio, figurarsi se gli avrebbe affidato compiti così delicati. Riscontri? La storia è ingarbugliata. In sostanza è questa: ci sarebbe stata una trattativa tra «pezzi» dello Stato e «pezzi» di mafia per porre fine allo stragismo. In cambio di alcune conces-

sioni. Favorevole al «canale aperto» sarebbe stato Bernardo Provenzano. Contrario Totò Riina. Ma l’oppositore per eccellenza sarebbe stato proprio Borsellino. Ed ecco che i mafiosi alzano per così dire il prezzo della trattativa uccidendo il giudice amico di Falcone. Solo loro o anche agenti corrotti e deviati dei servizi segreti? Indagini lacunosissime, all’inizio. La domanda è destinata a ripetersi quando si ricorda che Borsellino aveva nella sua borsa la famosa agenda rossa, in cui scriveva tutto. La borsa, intatta, è stata prelevata dalla polizia. Ma dentro non c’era l’agenda. A rubarla ovviamente sarebbe stato uno che poteva, anzi doveva, stare nel luogo della strage. Questa è una delle più terribile pagine della contorta storia italiana dal dopoguerra a oggi. Desolante l’ipotesi che non s’arrivi mai alla verità. Desolante, pure, la constatazione secondo cui i nostri figli (salvo eccezioni) ignorano fatti e per(pmf) sonaggi così inquietanti.


Cinema

MobyDICK

bout Elly è un film iraniano da non sottovalutare. Si spera che i premi vinti da Asghar Farhadi Orso d’argento per la migliore regia a Berlino, miglior film narrativo a Tribeca - non confermino il pregiudizio del pubblico verso i «film da festival». È la storia di un weekend al Mar Caspio di tre coppie con figli piccoli, vecchi amici appartenenti alla borghesia benestante di Teheran. La protagonista, a dispetto del titolo, è Sepideh, una straordinariamente bella e brava Golshifteh Farahani, che merita una carriera internazionale. Ahmad (Shahab Hosseini) è un bell’uomo divorziato dalla moglie tedesca, tornato in patria per pochi giorni, nella speranza di trovare una moglie adatta del suo paese prima di rientrare in Germania. Sepideh invita Elly (Taraneh Alidoosti, perfetta), maestra dell’asilo frequentato dalla sua bambina, a passare il weekend con loro per conoscere Ahmad. (Un misterioso prologo, con un rettangolo di luce che sembra una buca delle lettere vista dall’interno, suggerisce segreti scomodi da riferire.) Poi parte il viaggio, con urla felici nelle gallerie tra le diverse auto: amici esaltati all’idea di qualche giorno di riposo in compagnia. All’arrivo si scopre che la villa prenotata non è disponibile, e dopo un attimo di smarrimento decidono di arrangiarsi in una casa grande e fatiscente, però proprio sulla spiaggia. È Sepideh cha ha organizzato tutto. Sono abilmente costruiti gli elementi del suo carattere decisionista e fattivo, che nella seconda parte del film le saranno rinfacciati, quando la festosa gita si trasforma in angoscia collettiva per una tragedia sfiorata e una preoccupante scomparsa. Sepideh inventa una bugia bianca per rabbonire la custode delle ville: loro sono vecchie coppie che possono arrangiarsi, ma Ahmad e Elly sono sposini e si meritano la privacy. Elly è subito turbata dallo scherzo di Sepideh, ancor più quando gli altri tornano a scherzarci su durante la cena. Gli altri la giudicano timida e ingenua, meno evoluta di loro. La serata continua con Elly che si dimostra abile nel gioco di società «Indovinello», in cui si comunica solo con gesti la frase che gli altri devono indovinare. Ahmad è mandato in paese a fare la spesa e Sepideh abilmente infila Elly in auto con lui perché si conoscano meglio, e nonostante le ritrosie della ragazza, il primo approccio è beneaugurante per il futuro. L’unico neo è la ferma decisione di Ely di ripartire nel pomeriggio per Teheran. Sepideh non ne vuole sapere e le nasconde la borsa per impedirglielo. Durante una partita di palla a volo, Elly resta sulla spiaggia con i bambini, aiutandoli a far volare un aquilone. Nella scena successiva la bimba di Sepideh e Amir accorre chiedendo aiuto per il piccolo Arash. I maschi si precipitano verso il mare, vedono il corpo galleggiare e si gettano in acqua. Dopo momenti di terrore sulla spiaggia, Arash apre gli occhi e torna a respirare. Solo allora si accorgono che Elly è sparita. Era in spiaggia con i bambini, è possibile che sia annegata nel tentativo di salvare Arash? O è ripartita senza avvisare, «a piedi se necessario», come aveva promesso? Sulla snervante incertezza è costruita la seconda metà del film, trasformato in giallo avvincente e teso fino alla fine. Ricorda L’avventura di Antonioni, ma con finalità molto diverse. Il regista sostiene che il ritratto psicologico dei personaggi e le loro accuse, bisticci

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A

Un’auto insabbiata per raccontare l’Iran di Anselma Dell’Olio e meschinità sono universali. È vero solo in parte. Non si racconta il finale, ma le rivelazioni sulla scomparsa - la madre ammalata di cuore alla quale la ragazza dice «Non dire a nessuno dove sono andata» -, e poi un fidanzamento di cui si sente prigioniera, i sensi di colpa che le coppie attenuano criticando reticenze e «leggerezze» di Elly, il fidanzato che si spaccia per fratello, i maschi che non possono accoglierlo senza donne, sennò chissà cosa s’immagina, e altre cose simili, si sommano per formare un sottile atto d’accusa al regime iraniano che potrebbe sfuggire ai disattenti. Anche la reazione violenta di Amir (Mani Haghighi), il marito moderno di Sepideh che la strapazza e la picchia, accusandola di protagonismo e mettendola a tacere, appartiene a un codice patriarcale antico che riaffiora anche nei più evoluti, se incombe il terrore di Stato. Da noi, ci sono maschi che picchiano le mogli e fidanzati gelosi violenti, ma al contrario che in Iran, sono in violazione del codice penale. L’immagine finale del film, un’auto insabbiata che non si riesce a liberare, è metafora calzante dello sforzo immane della parte pensante di una nazione per liberarsi dai diktat opprimenti e misogini di un regime teocratico integralista e liberticida. Da vedere.

In questo scorcio di stagione cinematografico ci sono alcuni ottimi film che sarebbe un peccato perdere. Il segreto dei suoi occhi, un meraviglioso film argentino, ha meritatamente vinto l’Oscar come miglior film straniero. È un giallo, un noir e una splendida storia d’amore tra persone di classi sociali diverse. Benjamin Esposito (l’affascinante Ricardo Darin) è un funzionario del tribunale di Buenos Aires. È ossessionato da un efferato crimine irrisolto di venticinque anni prima: lo stupro e il brutale assassi-

nio di una bella e giovane sposa. È un cold case che il neo-pensionato ha deciso di riaprire per poi scrivere un romanzo. Il caso era stato insabbiato per esigenze di regime, e il film sfiora l’epoca della dittatura militare, senza affogarci dentro. Sono tanti i «segreti» del titolo, non ultimo quello della passione profonda e discreta tra il funzionario piccolo borghese e il suo capo altolocato: il magistrato Irene Menéndez Hastings (una splendida e credibilmente aristocratica Soledad Villamil). Juan José Campanella è un ottimo regista e sceneggiatore. Il racconto prende svolte curiose e insolite che funzionano; i flashback degli anni Settanta sono risolti con maestria. Da non perdere.

“About Elly” di Asghar Farhadi, film premiato a Berlino e a Tribeca, dai risvolti gialli, è costellato di elementi che formano un sottile atto d’accusa al regime. Anche “Il segreto dei suoi occhi”, Oscar come miglior film straniero, è insieme un giallo, un noir e una storia d’amore. Poi c’è “Il padre dei miei figli”...

Il padre dei miei figli è la storia di un produttore di film colti, marito e padre affettuoso, talmente succube dei suoi autori e incapace di controllarli, che alla fine annega nei debiti. È di famiglia ricca che disapprova il volgare ambiente del cinema, e quando è al fallimento, pur di non chiedere il loro aiuto, si uccide. La moglie, l’eccellente Chiara Caselli, rimane a consolare le figlie e a raccogliere i cocci della vita e dei segreti del marito. È un bel film, ben recitato e girato, e più illuminante e meno triste di quanto non potrebbe sembrare. Qualche critico lo ha stroncato come una lagna fastidiosa per i produttori d’essai di una volta, che non hanno più spazio nella nostra era degradata, mercificata e filistea. Non siamo d’accordo: una lettura più attenta svela il produttore come artista mancato e uomo d’affari irresponsabile, troppo bisognoso dell’affetto dei «geni» che finanzia per tenerli con le briglie al collo e limitare i loro capricci costosi. L’uomo fallisce unicamente grazie a un aristocratico disdegno per l’unione d’arte e commercio che è il business del cinema, film d’autore non esclusi. Da vedere.


Fantasy

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orges usava dire che tutta la narrativa è fantastica. Da un lato un’affermazione sorprendente forse in difesa di quel che scriveva, dall’altro però qualcosa su cui meditare. Infatti, la narrativa contiene sempre una parte notevole d’invenzione anche se descrive la vita di tutti i giorni, e l’immaginazione esiste anche nel romanzo storico - perché appunto di romanzo si tratta con la descrizione di personaggi e situazioni ideate dall’autore che si mescolano a personaggi e situazioni realmente esistenti e avvenute - altrimenti saremmo di fronte a un saggio storico che con documenti e testimonianze ricostruisce la Storia con la esse maiuscola (come noto in lingua inglese c’è la distinzione tra novel e romance). E allora il fantastico, o anche l’immaginario? Esso si ha, si verifica, si produce, quando un alcunché di inimmaginabile, di incredibile, di sorprendente irrompe nella Realtà Effettuale e la distrugge o la modifica (Roger Caillois), ovvero quando nella Realtà Effettuale vengono a interrompersi per poco o molto tempo quelle leggi fisiche che stanno lì a puntellarla (H.P. Lovecraft). E poiché, ormai da decenni, siamo personalmente d’accordo con questa interpretazione e discriminante e non accettiamo la vaga tesi della «incertezza» todoroviana, pensiamo che il romanzo di Roberto Genovesi edito da Newton Compton, La legione occulta dell’Impero romano (già entrato, a un mese dall’uscita, nella classifica dei 25 più venduti, ndr) sia da considerarsi un romanzo fantastico e non un romanzo storico come l’editore, e forse anche l’autore, preferirebbero (a parte l’orribile titolo didascalico che gli è stato imposto: meglio sarebbe stato La legione occulta di Augusto, o un semplice e fulminante Legio Occulta. Ma valli a capire gli editori…).

MobyDICK

ai confini della realtà ci. I quali, è utile ricordarlo, utilizzavano un rito, l’advocatio, tramite il quale, quando era necessario, scoprivano il nome segreto delle divinità nemiche e in questo modo cercavano di portarle, per così dire, dalla parte di Roma, che poi le accettava nel suo pantheon, sottraendo la loro protezione agli avversari. Era un «onorare» gli dèi, come afferma a un certo punto il Rex sacrorum, non un «combatterli» come invece a suo parere faceva la «legione senza nome». Genovesi sviluppa e porta alle estreme conseguenze questo metodo, partendo dal punto di vista che le divinità minori dei barbari sono molto «umane», con gli stessi difetti dell’uomo (vanagloria, cupidigia, ira, permalosità ecc.) e quindi è possibile sia trattare con esse, giungere a accordi e compromessi, mediante una specie di do ut des, anche combatterle, allo scopo di far loro abbandonare i patti assunti con i popoli barbari avversari di Roma e privarli di ogni riferimento sovrannaturale. Questo lo scopo della Legione Occulta, i cui esponenti affiancano le legioni e le traggono spesso da situazioni difficili volgendo le sorti di battaglie e assedi a favore delle armi imperiali.

B

Certamente nel romanzo c’è una certa ricerca storica che riguarda non solo gli eventi documentabili, ma anche la vita dell’epoca, il modo di mangiare e di vestire, la strategia e le armi dell’esercito repubblicano e poi imperiale e così via, ma poi c’è una cospicua parte più immaginaria e poi decisamente fantastica, o meglio mitico-fantastica come si spiegherà, che mette in secondo piano l’altro aspetto.Vale a dire che Roberto Genovesi si è inventato ovviamente personaggi non storici accanto a quelli storici (Giulio Cesare, Ottaviano Augusto ecc.), episodi bellici inesistenti accanto a quelli esistenti (la sconfitta della selva di Teotoburgo, ad esempio), e una legione, quella del titolo, che non è mai esistita. Ma questa legione, la Legione Occulta che ha per motto Vigiles in Tenebris e che con i suoi membri accompagna le legioni «ufficiali» nei momenti più difficili risolvendoli a loro favore, non è un corpo militare, come dire?, ortodosso. Non sono gli esploratori, non sono i genieri, ma un corpo di legionari che combatte su un piano diverso, un piano immateriale, anche se poi usa anche le armi vere, concrete. Intendiamoci: in latino occultus ha il senso di «nascosto», «celato», «segreto», il contrario di apertus, spiega il mio vecchio e usurato Dizionario Calonghi del liceo, e, riferendosi al carattere di una persona, di «chiuso», «non aperto» (tale è infatti il capo della Legio Occulta). Nulla a che vedere con il senso che oggi ha la parola «occultismo», un piano ad-

L’Impero romano nello slang del Duemila di Gianfranco de Turris dirittura più basso di magia, esoterismo, sovrannaturale, almeno nel senso comune e popolare. Quindi la legione immaginata da Genovesi è una legione segreta alle dirette dipendenze dell’imperatore Augusto, ma non è soltanto questo: è stata creata e viene comandata dal prefetto Victor Julius Felix che ne ha scelto, almeno inizialmente, uno a uno i com-

nome, va alla ricerca di bambini e bambine che dimostrino qualità fuori del comune: veggenti che vedono il futuro più o meno lontano, telecineti che muovono i metalli, negromanti che possono entrare in contatto con la dimensione sovrannaturale, ad esempio. Ecco, dunque, l’elemento mitico-fantasti-

È l’azzardo tentato da Roberto Genovesi, autore di un romanzo su una Legione Occulta al servizio di Augusto che combatte con armi “sovrannaturali”. Un mix tra storia e immaginario già nella classifica dei più venduti ponenti quando erano ragazzini intuendone e poi sviluppandone le facoltà. Quali? Le stesse che in origine aveva lui, quando piccolo celta assiste a eventi straordinari: l’evocazione da parte dei druidi delle ombre dei guerrieri celti morti per utilizzarle contro i legionari di Cesare in Gallia, e che invece si rivoltano contro gli stessi evocatori. Da allora il piccolo Madron, salvato da un tribuno, fatto schiavo e poi libero con il nuovo

co che caratterizza decisamente il romanzo. Ecco, quindi, qual è effettivamente il loro compito: fedeli a Roma, alla romanità e all’Impero romano al quale hanno prestato giuramento, li difendono con mezzi diversi dalle armi materiali, ma anche dalle armi per così dire spirituali, quelle che usano secondo tradizione i collegi sacerdotali, gli auguri, gli aruspi-

Come è possibile ottenere questo contatto? Giungendo sullo stesso piano «esistenziale» delle divinità: e questo in genere riesce a fare Jago, il lusitano divenuto cieco proprio per un patto con una divinità locale per uscire vivo dall’arena. Ma questo metodo viene visto molto negativamente dai sacerdoti ufficiali di Roma, come si è accennato, che per difendere il loro modo di rapportarsi con gli dèi e lo stesso imperatore, cercano con un complotto di disfarsi della legione e dei suoi membri. Ci riusciranno solo in parte, come il lettore vedrà. Un romanzo estremamente originale, anche ambizioso, che coniuga la storia e la fantasia mitica, che affascinerà i lettori ma che, a mio parere, poteva essere realizzato assai meglio, con una maggiore attenzione al linguaggio e alla verosimiglianza. In altri termini, quel che gli nuoce è far spesso operare e parlare i personaggi che agiscono fra il 54 a.C. e il 14 d.C., quasi come persone del XXI secolo, il che produce (almeno a me ha prodotto) un senso di frustrazione per una storia che, forse per star dietro a scadenze editoriali stringenti, è stata scritta con troppa precipitazione. Eppure i personaggi sono molti e ben delineati, le vicende si susseguono incalzanti, scene di notevole scrittura evocativa non mancano (il rito per i soldati celti morti; il volo dell’aquila; la riunione del collegio sacerdotale durante il temporale su Roma; il colloquio di Felix con il pretoriano, solo per fare qualche esempio). Una maggiore accortezza nella scelta dei vocaboli più attinenti all’epoca e meno influenzati da «suggestioni cinematografiche, videoludiche e fumettistiche», lo avrebbe reso uno dei romanzi migliori e più originali degli ultimi anni.


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