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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Arrivano i videogiochi “buoni”

PIXEL SOUL di Roberto Genovesi e associazioni dei genitori possono tirare un sospiro di sollievo e le questo pezzo, potremmo dire che, finalmente, anche i protagonisti dei videogioC’è commissioni di censura cominciare a riporre i randelli. I videogiochi hanno scoperto di avere un’anima.Violenza e azioni di forza non manun nuovo chi di nuova generazione hanno deciso di fare i bravi e quel cano nelle storie interattive raccontate nei nuovi titoli proposti da Ubiche ci aspetta per la prossima stagione è un universo viSoft ma come dare torto a un soldato americano sbarcato in Noringrediente deoludico completamente nuovo dove gli avatar si sono mandia per portare di nuovo la libertà sul vecchio continennei games della prossima stufati di varcare le soglie usando il C4 invece di buste che voglia convincere i nazisti con un bazooka? sare. La buona novella arriva da Parigi dove la Non è forse ciò che è successo davvero dal quel annata: il senso di responsabilità. UbiSoft ha richiamato da tutte le parti del fatidico 6 giugno di oltre mezzo secolo fa? Che spingerà marines, agenti segreti e principi mondo qualche centinaio di giornalisti, nelPerché non voler mostrare a un ragazzino vendicativi più che a distruggere l’ormai classico appuntamento degli UbiDays, per che migliaia di giovani hanno lasciato le loro mostrare i nuovi titoli videoludici della prossima annata. tranquille fattorie dall’altra parte del mondo per a difendere e proteggere. Scordatevi strette di mano e sorrisi, si parla pur sempre di mavenire a morire a pochi passi da casa nostra per permetParola di rines, principi assetati di vendetta e agenti segreti in missione speterci nuovamente di respirare la democrazia? produttori... ciale ma da ora in poi, assicurano i vertici della UbiSoft, gli eroi in pixel continua a pagina 2 agiranno anche con coscienza. Insomma, se dovessimo trovare un titolo per

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Tolleranza di Sergio Belardinelli L’«album bianco» di Paul Weller di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

La disarmonia in Montale di Francesco Napoli

Cadono gli ostracismi su Ripellino di Filippo Maria Battaglia Un thriller sull’amnesia di Anselma Dell’Olio

Tre pittori per un miracolo di Marco Vallora


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soul

Il diario segreto della tween generation l costo del progetto è indicato genericamente in «qualche milione di euro». Alla UbiSoft non vogliono rivelare più di tanto sul versante della cifra economica ma lasciano intendere che si tratta del più ambizioso progetto videoludico mai prodotto su scala internazionale che provenga dal nostro paese. Ci hanno lavorato per quasi due anni circa trenta tra game designer, programmatori e grafici tutti rigorosamente italiani. Uscirà a settembre con il titolo Giulia presenta… Amiche & Segreti e, da quanto abbiamo potuto vedere, si tratta di un gioco destinato a rivoluzionare per sempre l’uso fatto fino a oggi di una consolle portatile di piccole dimensioni. L’interfaccia utente è sfruttata davvero al massimo e la capacità di rigenerazione quotidiana e di longevità vanterà un upgrading di almeno sei mesi. Guardando la versione beta di xxx non abbiamo avuto la sensazione di trovarci di fronte solo al capostipite di una nuova generazione di giochi di games for everyones ma del primo esempio in assoluto di diario segreto elettronico rigenerabile. In sostanza la Nintendo DS diventa protagonista di un’operazione di vera e propria crossmedialità trasformandosi, perfino nella struttura e nelle dimensioni, in un diario su cui poter annotare appunti, inserire disegni, generare profili e, in un prossimo futuro, assicurano i programmatori, perfino storare foto e filmati user generated. Una sorta di spazio MySpace in remoto che apre le porte a una notevole quantità di applicazioni sfruttando perfino la funzionalità di voice chat. Le capacità wireless della consolle vengono utilizzate per creare una comunità di ragazzine in grado di interagire, dialogare e costruire percorsi

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segue dalla prima Non è stato certo grazie all’eloquenza o alla dialettica che le divisioni americane e canadesi si sono fatte largo sulle spiagge della Normandia ed è giusto che, dopo averlo letto sui libri di scuola, un ragazzino provi con le sue mani quanto sia stato difficile riuscirci e quanta, pesantissima responsabilità abbiano avuto ufficiali e sottufficiali nel dover gestire contemporaneamente il raggiungimento dell’obiettivo e la preziosa vita del loro soldati diventati, dopo mesi di addestramento, dei veri e propri fratelli in arme. Brothers in Arms, appunto. Il titolo forse più «storico» della vetrina UbiSoft presentato dallo staff creativo capitananto dall’eccentrico colonnello John Antal, per quasi trent’anni presente in quasi tutti gli scenari di guerra moderna su cui abbia sventolato la bandiera a stelle e strisce, che alla presentazione si rivolgeva ai giornalisti in sala come fossero reclute di Full Metal Jacket. Brothers in Arms è la cronaca interattiva di dieci giorni e dieci notti oltre le linee del fronte per un mani-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

polo di soldati che vedono nel giocatore di turno l’uomo deputato a decidere la sorte delle loro vite e il successo delle loro missioni in quella che la storia ufficiale ci ha tramandato come l’operazione Market Garden. Scaltrezza, audacia, tattica ma anche tanto senso di responsabilità è stato infuso nell’engine di gioco di Brothers in Arms, quasi un simbolo della nuova generazione di videogiochi intelligenti dove non è più importante distruggere ma difendere e proteggere. Un titolo che può contare su un supporto multimediale fatto di fumetti (la serie è pubblicata da Dinamite Entertainment), di action figure (prodotte da Plan B Toys) e di libri (pubblicati da Zenith Press e Ballatine Books).

Ma uno dei protagonisti della prossima generazione di videogiochi sarà certamente anche il sistema di comandi vocali ormai di serie per molti prodotti di nuova uscita. Come nel caso di Endwar che ripropone il terzo conflitto mondiale partendo dalla spianata della Torre Eiffell in un ipotetico periodo che va dal 2011 al 2014. Il gioco è stato pensato per essere

Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551

ed esperienze comuni. I tool grafici messi a disposizione sono pressoché infiniti e dunque la tween ager può customizzare il suo diario in modo esclusivo. In più il programma ne valuta l’umore quotidianamente attraverso un minitest che consente al diario di adattarsi, nei colori, nei suoni e nelle prerogative ai bioritmi sempre mutevoli della sua padroncina. Una sorta di amica del cuore virtuale, sempre discreta e mai invasiva, capace perfino di sopperire alle sempre più frequenti carenze affettive di genitori sempre più impegnati e assenti. «Abbiamo lavorato per quindici mesi sul sistema di gioco - spiega Davide Soliani, game designer e capo progetto di Amiche & Segreti - e ancora oggi, a poche settimane dal lancio, stiamo proseguendo il testing di prodotto con l’idea di immaginare nuovi sviluppi multimediali fin dal giorno successivo alla distribuzione sul mercato». Il diario che nasce come costola della fortunata serie Giulia presenta… non è ovviamente una mamma virtuale ma rappresenta un modo per dimostrare quanto un videogioco possa uscire rafforzato dalle esclusive peculiarità didattiche dell’interattività in pixel. Una prova, forse la migliore e sicuramente al momento la più interessante, del cammino dei videogiochi verso scenari di [R.G.] collaborazione con le attuali agenzie educative.

giocato interamente attraverso comandi vocali attraverso l’uso di cuffia e microfono. Movimenti alla velocità del pensiero al servizio di una grafica mozzafiato che rendono particolarmente realistica la simulazione di comando in pieno conflitto in cui un movimento comunicato troppo presto o troppo tardi può decidere degli equilibri in campo e le sorti dello scontro. E dalla terra al cielo la musica non cambia, anzi, se vogliamo, il ritmo diventa ancora più frenetico con il mondo visto dalla plancia di comando dei caccia futuristici di Hawx. In questo caso a colpire non è tanto la riproduzione degli scontri tra velivoli ma la capacità dello staff creativo di mostrare gli strumenti in dotazione al pilota per il dominio dell’aria. Un vero capolavoro. Ma non c’è solo guerra nel futuro di UbiSoft. Prendete il motore di gioco di Assassin’s Creed, ragionateci sopra e ne verrà fuori uno splendido gioco di snowboard. Shaun White si avvale della consulenza e della presenza in pixel della medaglia d’oro olimpica di questa disciplina particolarmente amata dalle nuove generazioni di skater. Ordinaria ammini-

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strazione, anche se d’eccellenza sia dal punto di vista grafico che da quello di programmazione, per il franchise di Prince of Persia che sbarca finalmente su Xbox e Ps3 e per l’ennesima avventura dei ravin rabbids del brand Rayman. L’Africa delle bande di trafficanti e dei regimi totalitari è invece protagonista di Far Cry 2, un first person shooter che si avvale di scenari immensi e graficamente super realistici in cui tutto, dalle foglie ai branchi di elefanti, diventa interattivo grazie a un’intelligenza artificiale di nuova generazione.

Tuttavia il vero piatto forte della kermesse ha un sapore tutto tricolore e arriva dai rinnovati UbiStudios di Milano. E, per una volta, il target non è quello classico del giovane adulto maschio. Questa volta a gioire, da settembre 2008, saranno tutte le ragazzine in possesso di un Nintendo DS. Il diario segreto della tween generation non avrà più bisogno di lucchetti o di libri scritti in italiota. Con Friends e … .basterà una piccola consolle portatile e un codice pin. Al resto penserà il cuore del computer.

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parola chiave

21 giugno 2008 • pagina 3

TOLLERANZA l Cancelliere tedesco Angela Merkel ha affermato di recente che «l’anima dell’Europa è la tolleranza». Mi sembra in effetti un’affermazione molto importante. Vorrei però domandare: che cosa significa oggi, in Europa, la parola tolleranza? Ho l’impressione che tolleranza sia diventata da noi soprattutto un’arma da usare contro il lessico dell’identità. Solo coloro che non hanno convinzioni, che non si sentono radicati in una cultura o in una terra possono essere tolleranti: è questo il nostro pregiudizio. Il sociologo Ulrich Beck lo dice espressamente: per essere tolleranti occorre coltivare soprattutto la «virtù della mancanza di orientamento». Se però è vero che la tolleranza è una virtù, allora occorre cambiare prospettiva. La tolleranza non può consistere in una sorta di sincretismo infinito, fondato sul «disorientamento» e quindi, in ultimo, sull’indifferenza (tutte le posizioni sono uguali). Per essere tolleranti ci vogliono convinzioni forti, una profonda consapevolezza di se stessi e degli altri; ci vuole insomma educazione, ovvero il radicamento in un ethos che non si sviluppa spontaneamente, ma soltanto attraverso un lento e faticoso processo di assimilazione. Ecco l’Europa. L’Europa è precisamente questo ethos. Come ha mostrato in modo assai incisivo Christopher Lasch, la mancanza d’orientamento non conduce all’apertura nei confronti dell’altro; produce piuttosto diffidenza, paura e una sostanziale incapacità di comprendere sia ciò che è «altro» rispetto a noi stessi, sia ciò che ci è familiare, creando in questo modo i presupposti della chiusura e dell’intolleranza. Più invece siamo consapevoli della nostra identità e più ci viene facile dialogare con tutti, avere un atteggiamento inclusivo e rispettoso dell’altro, praticare davvero quell’«universalismo sensibile alle differenze», di cui parla Habermas e che certamente costituisce una delle caratteristiche dello spirito europeo.

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L’universalismo, la bellezza, la verità, la stessa idea di Dio che costituiscono intimamente la cultura europea possono certo risuonare in determinate epoche storiche come stantie ripetizioni; possono certo diventare aggressivi o sclerotizzarsi in tante copie di un originale che non è più capace «di destare un’effettiva comprensione», come direbbe Husserl; possono entrare in crisi, magari assopirsi, ma mai morire del tutto. Nessuna crisi della cultura europea potrà essere l’ultima. Come dice Maria Zambrano, «l’Europa è forse l’unica cosa nella storia che non può morire del tutto. L’unica cosa che può risuscitare». E forse è questo, aggiungo io, il vero motivo per cui storici, filosofi e scienziati sociali convergono sul fatto che l’Europa non abbia un’identità geografica né politica, ma rappresenti soprattutto una realtà spirituale che, in quanto tale, incominciamo a capirlo oggi, non è riconducibile in modo esclusivo ed esaustivo a nessuna realtà geopolitica. Del resto guai se lo fosse; sarebbe come dire, cosa che purtroppo è ac-

È dall’idea cristiana di persona che si deve partire se si vuole stabilire davvero un dialogo pluralista, rispettoso dell’altro, sensibile alle differenze. Un ethos che appartiene all’Europa, di cui però si sta smarrendo il senso

È l’uomo il vero fondamento di Sergio Belardinelli

Il primo obbligo dell’Occidente è quello di abbandonare le secche del relativismo nel quale ci siamo impantanati riprendendo consapevolezza della nostra identità. Solo così sapremo prendere sul serio l’“umanità” che si rivela in ogni cultura. E tornare a esprimere uno “splendido tutto”, cioè qualcosa di universale caduta nella storia, che l’universale e l’assoluto sono diventati possesso privilegiato di alcuni e magari, peggio ancora, strumenti di conquista… L’Europa, in quanto tale, è una realtà spirituale che non può essere fissata in nessun contenuto. Essa è strutturalmente «aperta», pluralista, quindi tollerante. Ma ciò non significa che l’Europa può diventare una sorta di Babele dove tutti i contenuti e tutti i discorsi sono ugualmente possibili. La realtà spirituale dell’Europa non espri-

me un «gioco linguistico» tra tanti altri; esprime piuttosto uno «splendido tutto», come direbbe Hugo von Hoffmanstahl, qualcosa cioè di universale. E questo universale che sta nel cuore dell’Europa è l’idea cristiana di persona. L’Europa è universale non perché è eurocentrica, ma perché è antropocentrica. È questa idea di uomo, la sua dignità e trascendenza, che costituisce il vero fondamento, la vera condizione di possibilità della tolleranza, del rispetto di tutti gli uomini e tutte le culture…

Ogni uomo è un essere socio-culturale. Ma nessun uomo è riducibile alle condizioni socio-culturali o biologiche della sua esistenza. Per quanto il mondo nel quale siamo nati rappresenti per noi un destino che ci rende inevitabilmente degli esseri socialmente e culturalmente condizionati, la relazione che instauriamo con esso è tuttavia sempre più o meno creativa, proprio perché, in quanto uomini, trascendiamo costantemente noi stessi e quindi le condizioni socio-culturali della nostra esistenza. È grazie a questa trascendenza che nessuna cultura, pur esprimendo una totalità di significato, può pretendere di coprire tutto lo spazio di dicibilità di ciò che è «umano». L’uomo è dunque il vero fondamento della pluralità e della strutturale «apertura» di ogni cultura, senza le quali nessuna tolleranza sarebbe veramente possibile.

In modo un po’ schematico, potremmo dire che la pluralità delle culture è diventata oggi un problema particolarmente scottante a seguito soprattutto di due eventi: da un lato la globalizzazione, dall’altro l’attentato terroristico alle torri gemelle di New York. Se la globalizzazione aveva costretto (e costringe) le culture del mondo a guardarsi da vicino negli occhi come mai era accaduto prima, riproponendo in modo anche drammatico il problema dell’identità e del conflitto tra culture; l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 sembra soprattutto volerle estraniare, spingendole addirittura verso quanto Samuel Huntington considerava già prima dell’11 settembre come ineluttabile, ossia «lo scontro delle civiltà». In entrambi i casi abbiamo a che fare con un dato che considero piuttosto preoccupante: la difficoltà da parte delle culture oggi dominanti a prendere sul serio l’«umanità» che si esprime in ogni cultura, quale premessa di un dialogo nel quale la tolleranza sia qualcosa di più che la semplice sopportazione dell’altro. Se è vero che la tolleranza, il dialogo e il rispetto dell’«altro» debbono diventare i pilastri su cui appoggiare le relazioni interpersonali e interculturali della società globale; se è vero altresì che quest’ultima, con la sua crescente differenziazione, costringe non soltanto le diverse culture, ma gli stessi individui che si riconoscono in una medesima cultura, a essere, diciamo così, «aperti» alle ragioni dell’altro, vista la pluralità di relazioni in cui ciascuno di noi costruisce ormai il proprio io; allora, e qui mi riferisco soprattutto agli occidentali in generale e a noi europei in particolare, il primo obbligo che abbiamo, nei confronti di noi stessi e degli altri, è precisamente quello di abbandonare le secche del relativismo nel quale ci siamo impantanati, riprendendo consapevolezza della nostra identità… Al centro dell’identità europea, lo ripeto, sta un ideale antropologico. Il compito dell’Europa e dell’intero Occidente è quello di testimoniare in modo credibile la dignità di ogni uomo, il vero fondamento della tolleranza.


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ROCK

musica

I ventidue sogni del modernista

Paul Weller di Stefano Bianchi on è che così, di punto in bianco, chiunque possa entrare in sala d’incisione per poi uscirne con un disco da vertigine, enciclopedico, zigzagante come il White Album di beatlesiana e sessantottina memoria. Perché le cose sono due: o si è baciati dal genio come Lennon & McCartney, o si è semplicemente Paul Weller. Già, il bizzoso e borbottone Weller. Che mette ancora una volta tutti sull’attenti con l’ora e passa di 22 Dreams. Me lo ricordo bene, tutt’altro che scontroso, sedici anni fa. Dopo l’intervista, ci rifilammo robuste pacche sulle spalle felici di aver scoperto d’essere entrambi nati nel 1958. Paul, all’epoca, aveva appena iniziato la carriera solista dopo l’esperienza punk (ma non solo) nei Jam e l’estetizzante new cool architettato con gli Style Council. Per tutti, nella natìa Inghilterra e nel resto del mondo, era l’azzimato mod che si contrapponeva ai volgarotti rocker di pelle vestiti. Il musicista/modernista (mod = modernist, vocabolo che negli anni Cinquanta definì gli appassionati del jazz moderno) innamorato del soul e & del rhythm blues, degli Small Faces e dei Traffic, del vestire sciccosamente su misu-

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in libreria

ra e delle due ruote formato scooter, Lambretta o Vespa che fossero. Nulla è cambiato, da allora. Mod più che mai. Di più, Modfather. Padre di tutti i mod, ora che ha raggiunto la cinquantina e non avendo più nulla da dimostrare ha calato l’asso del suo imprevedibile «album bianco». Il Santo Graal di Paul Weller. Filosoficamente sintetizzato nella canzone Why Walk When You Can Run (Perché camminare quando puoi correre?) e in Light Nights e Night Lights, che aprono e chiudono 22 Dreams a mo’ di visionari raga indiani lasciando liberamente fluire le stagioni della vita. In mezzo - a strappi, umoralità, voglia di correre dappertutto - c’è l’approdo sicuro di quel Cappuccino Kid che rese grandi gli Style Council (nel soul jazzato di Cold Moments, negli arpeggi di Empty Ring e nel fascino melodico di Invisible), il fine dicitore di memorabili ballate (Have You Made Up Your Mind, Sea Spray) e il navigato mestierante del rock: che sia Sixties (22 Dreams), «rollingstoniano» (Push It Along) o psichedelico (Echoes Round The Sun). I «welleriani» duri e puri, quindi, avranno di che gioire. Dopodiché, appagati, apprezzeranno senz’altro la matura indisciplinatezza del loro mod favorito: che in 111 si dà all’elettronica spinta citando la musica cosmica tedesca; tratteggia in Song For Alice un jazz da manuale dedicato alla moglie di John Coltrane; chiama idealmente a raccolta Van Morrison e Tom Waits (Where’er Ye Go); si dà alla musica argentina con One Bright Star e al music hall, pensando forse a un giovane David Bowie, con Black River. Confeziona, per pianoforte e archi, una Lullaby Für Kinder da promuovere a Que reste-t-il de nos amours dei nostri tempi. Fra squilibri e caos vitale, narcisismi e grande verve compositiva, qui c’è tutta la disarmante sincerità di Paul Weller. Prendere o lasciare. Paul Weller, 22 Dreams, Island/Universal, 20,90 euro

mondo

riviste

LA MUSICA? TUTTA “UN’ALTRA COSA”

GAUDINO: NEMO PROPHETA IN PATRIA

BERLINO FA BENE A JOE JACKSON

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he cosa hanno in comune Linda, Chicco&Spillo, Sally, Danny, Gabry, Silvia e Alice? Sono solo alcuni dei più noti personaggi della canzone italiana, immaginati dalle menti e interpretati dalle voci di Battisti, Bersani, De Gregori e molti altri indimenticabili artisti italiani. Due amici sono andati alla ricerca delle loro tracce, mettendo a punto «quasi una storia sulle sto-

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i chiama Alex Gaudino, di professione fa il dj e mentre in Italia è del tutto misconosciuto, da circa sessanta settimane ha spodestato dal trono delle chart inglesi fenomeni del marketing musicale come Madonna, Robbie Williams e la sempre rinascente, sempre più ridondante Britney Spears. Salernitano di nascita, aria sorniona e talento musicale inversamente proporzionale alle strabilianti

ndispettito dalla feroce campagna antifumo scatenata da Bloomberg a New York, Joe Jackson vive in esilio a Berlino da qualche tempo, dove ha realizzato A place in the rain. Un album memoriale, quello del cantautore britannico, di cui musicclub.it mette in rilevo la «sapienza compositiva che rimanda a Cole Porter e a Burt Bacharach» e la «perizia strumentale messa al servizio dell’arte di scrivere belle canzoni

Il romanzo di Cattelan e Agliardi ispirato alle storie narrate da Battisti, De Gregori e Co. nelle loro canzoni

Misconosciuto in Italia, il dj spopola all’estero dove è in vetta, con due hit, alle classifiche

In esilio volontario, il cantautore britannico realizza “A place in the rain”. Presentato da “musicclub.it”

rie della canzone italiana». Nessuna inchiesta, ma un romanzo vero e proprio: questo è Ma la vita è un’altra cosa (Mondadori, 246 pagine, 15,00 euro), scritto a quattro mani da due autori che, in modo diverso, hanno costruito sulla musica le basi della loro vita. Alessandro Cattelan è un giovane e famoso Vj, prima per il canale AllMusic, poi per Mtv; Niccolò Agliardi invece è un cantautore (che recentemente ha pubblicato il suo secondo album Da casa a casa). «Amici fraterni nella vita, hanno trasformato il loro legame in una storia dove realtà e finzione si confondono, sullo sfondo dell’immaginario creato dalla musica italiana».

vendite, Gaudino spopola da più di anno con il pezzo dance Destination Calabria, cui si è aggiunta da poco la nuova perla intitolata Watch out. Accompagnato da un video in cui calciatrici virtuali improvvisano improbabili cross-over tra l’arte pedatoria e quella dello strip, il disc jockey coniuga la penuria danzereccia della console a quella ludica di un videogame di cattiva qualità. Di Gaudino il Guardian scrive che «è il volto dell’Italia che vince», mentre il New Musical Express si limita a un sobrio «Genio da noi, ma gli italiani lo ignorano, tutti presi da fenomeni musicali localì come sono». Se ne vanno sempre i migliori.

pop». Riallacciati i ponti timbrico espressivi che gli conferirono attenzioni e successo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Jackson sceglie un impatto sonoro limpido scandito da linee di basso, batteria e pianoforte, rinunciando a ninnoli e ghirigori troppo insistiti che ne avevano appesantito lo stile nel corso degli anni Novanta. Spruzzate di un sound rinfrescato, e per niente obsolete, le tracce di in A place in the rain filano via tra le sincopi ritmiche di King pleasure time e la composta plasticità di Solo. Un album di soli 47 minuti, che ce ne fa impiegare molti di meno, per comprendere come il biglietto di sola andata per Berlino, sia stata per Jackson una benedizione.

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zapping

LANOIS E SCERBANENCO meglio degli Afterhours di Bruno Giurato arlasi di Afterhours. Secondo tutti i critici rock I milanesi ammazzano il sabato sarebbe un lavoro epocale. Universalmente lodato il titolo preso da Giorgio Scerbanenco, generalmente elogiato il tenore compositivo (si tratta di un disco «difficile», «coraggioso»). Ovviamente i testi «frutto di elaborazione intellettuale» mietono la loro parte di successo, in vista di un glorioso rinascimento del rock italiano che «finalmente non ha niente da invidiare alle migliori produzioni internazionali». E chi siamo noialtri per opporci alla forza della Storia che hegelianamente invera l’ideale o al Fato che stoicamente trova da solo le sue vie? Nessuno, chiaro. Quindi ci si preparava a curvarsi sotto il peso della Storia, in altre parole ad apprezzare musica, testi, arrangiamenti afterhoursiani, magari a condire la rassegnazione meridionale con un proverbio tipo «calati juncu ca passa la china». Ma poi per caso è arrivato l’ultimo disco di Daniel Lanois (produttore di Bob Dylan e U2) dal titolo Here is what is. Con la giusta dose di diffidenza per il titolo troppo poco letterario (qualcosa come «ecco quello che è») abbiamo tentato l’ascolto. Sorpresa. Un giorno dopo l’altro siamo entrati nel mondo di questo cantautore del Quebec, ne abbiamo apprezzato i testi (non tanto intellettuali, piuttosto di vena narrativa schietta), i suoni e gli arrangiamenti tra il rock e il country. La produzione meravigliosa. Poi siamo tornati agli Afterhours e alla fine abbiamo deciso per un compromesso. Rileggere I milanesi ammazzano al sabato di Giorgio Scerbanenco con in sottofondo Daniel Lanois. Con tutto il rispetto per i destini del rock italiano, beninteso.

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TEATRO

Monologo al femminile sul nostro Sud di Enrica Rosso

do parole fitte come un rosario, ci mette a parte dell’incontro che ha cambiato il corso della sua esistenza, il giorno in cui non riconosce più gli occhi del suo amato che - non sono più due castagne sono due spine - per confessarci poco dopo affranta - non sono più intatta, non sono più niente. E lui che come è venuto è sparito l’abbandona al suo destino di zitellona con la pancia ripiena, vergogna e disonore della famiglia che penserà bene di darle fuoco lasciandola con la pelle del collo incollata al torace a contare per sempre le pietre del selciato come una terra promessa. Uno spettacolo quasi spiazzante che ci mette in contat-

na sedia vuota, un altare a cui verrà immolata la vittima sacrificale. Lei già lo sa, lo sente, ha la consapevolezza che dovrà scontare l’essere venuta al mondo in una famiglia numerosa preceduta da troppe femmine in un Sud arido che non lascia scampo. Eppure il saperlo non l’aiuta a salvarsi. Lei è lì che macina, rimugina, tormenta senza tregua la stoffa della sottana, la cincischia, non si dà pace, non trova soluzioni. Una vita di solitudine a cui non è riuscita a sottrarsi, unica compagnia il sole che filtra dalle serrande chiuse, un calore amico quasi un abbraccio, unico segnale di scambio con l’esterno. A tratti i ricordi prendono il sopravvento e lei proprio non ce la fa, sembra che si debba spezzare così blindata nel suo dolore e allora viene in suo soccorso la musica, i fiati, a segnare la tregua, a permetterle di governare le emozioni per un poco. E riparte, gli occhi furbi e vivaci quando «conta» del giovanotto che le piace tanto e con cui sogna un matrimonio salvifico, giusto coronamento di una giovinezza irreprensibile, tutta casa e pascoli. Una donnina abituata a fare capo al maschio di casa senza porsi troppe domande, una Saverio La Ruina autore e interprete che se deve uscire lo fa - cu a capa vadi “Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria” sciata a cuntà i petri pi ‘nterra ca si ‘nziammai si scontrinu cu quiddi ‘i ‘nu masculu tuttu ‘u paisu mi chiami puttana - che chiede to con un’intimità compromessa e totalmente esposta, e solo di coronare il suo sogno d’amore per non entrare che in alcuni momenti ci fa anche sentire un po’ respona far parte della schiera delle zitellone lasciate sole sabili della cattiveria degli altri. Un racconto delicatisdalla guerra, le signorine che si sono fatte vecchie simo e vivido che Saverio La Ruina interpreta con grandentro alle case senza sposare. de amore e perizia e che gli è valso il premio Ubu 2007 Una giovane donna antica che si schernisce regalando- come miglior attore e miglior novità italiana, finalista al ci il ricordo del primo sguardo scambiato con il moro- premio Eti-Gli olimpici del Teatro 2007 miglior interpreso, durato il tempo di mangiare una noce, carico d’in- te di monologo. Insomma una prova d’attore di rara tenzione lubrica. Di nuovo la voce si incrina e lei si don- preziosità che dà voce a una storia emblematica rappredola, si culla in un moto autoconsolatorio, quando le sentativa del profondo Sud in cui affondano le radici parole non bastano a descrivere il vuoto, parte la gam- del nostro vivere. ba sinistra che non riesce a fermarsi come a voler percorrere tutte le strade che le sono state negate, le pas- Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria, di e con Saveseggiate mai godute. Poi prende coraggio e snocciolan- rio La Ruina, Padova, Festival Teatri delle Mura 26 giugno

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JAZZ

Il “Dictionnaire” aggiornato ma non troppo di Adriano Mazzoletti stata pubblicata la seconda edizione italiana del Dictionnaire du Jazz che Philippe Carles, André Clergeat e Jean-Louis Comolli avevano consegnato per i tipi dell’editore Robert Laffont nel lontano 1988. A quella prima edizione ne era seguita una seconda sei anni dopo. Nel frattempo, nel 1989, Armando Curcio Editore, presentava la prima traduzione italiana in sei eleganti volumetti raccolti in un contenitore. Quella edizione di diciotto anni fa era assolutamente soddisfacente. A loro favore la tempestività con cui la Curcio Editore aveva pubblicato l’opera in Italia. I tre autori francesi sono fra i maggiori esperti europei. Philippe Carles, già direttore della rivista Jazz Magazine fondata nel 1954 da Frank Tenot e Daniel Filipacchi è anche l’autore con Jean-Louis Comolli dell’importante Free Jazz-Black

È

Power, pubblicato nel 1971, da considerarsi il lavoro definitivo sul free jazz e i suoi maggiori esponenti. André Clergeat dopo essere stato redattore capo di Jazz Hot, l’altra rivista francese nata nel 1935 a opera di Hugues Panassié e Charles Delaunay che reBrad Mehldau centemente ha chiuso i battenti dopo settantadue anni, è stato direttore artistico di Vogue casa discografica che annoverava fra i suoi artisti Django Reinhardt e Sidney Bechet. Ma Clergeat, è doveroso ricordarlo, ha collaborato alla Grande Enciclopedia del Jazz della Curcio, al New Grove Dictionary of Jazz e recentemente ha pubblicato un pregevole vademecum con le date e gli avvenimenti che

hanno caratterizzato il jazz dalle origini ai giorni nostri. Era dal 1989 che in Italia mancava un Dizionario e ben ha fatto la Mondadori a pubblicare l’opera dei tre autori francesi, sebbene la nuova edizione italiana aggiornata dal giovane Luca Conti pur piena di pregi abbia anche numerose pecche. L’aver inserito diverse biografie dei musicisti italiani che si sono rivelati dopo il 1990 o che mancavano nell’edizione francese - pedaggio che si era dovuto pagare per l’edizione originale quando il jazz di casa nostra non era così popolare come oggi - è stata opera doverosa e significativa. Ma perché nel contempo non sono state aggiornate le discografie sele-

zionate, come nel caso di Gianni Basso, le cui incisioni successive al 1990 o quelle di Dino Piana al 1976 sono state tralasciate? Ma non solo. La bibliografia è rimasta ferma al 1994. Omissione assai grave perché molte sono le opere di grande importanza pubblicate in questi ultimi quattordici anni. Infine, nel Dizionario di Carles, Clergeat e Comolli a differenza di molti lavori del genere, ogni biografia è corredata da un giudizio critico estremamente utile, tralasciato - non se ne capisce la ragione nelle schede aggiunte di musicisti italiani come Furio Di Castri o Stefano Di Battista. A proposito perché sono stati dimenticati Renato Sellani e Rosario Giuliani? Ambedue in ottima compagnia, perché in questo Dizionario del Jazz 2008, manca addirittura Brad Mehldau!! Philippe Carles, André Clergeat e JeanLouis Comolli, Dizionario del Jazz, Mondadori, XXV-1409 pagine, 30,00 euro


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NARRATIVA

libri

Martha Medeiros Storie di vita in forma di lettera A di Pier Mario Fasanotti

vvertenza ai lettori: non divorate in una sola giornata questo libro. Primo perché è bellissimo e, come si sa, il cioccolato buono non s’ingoia, ma si scioglie sul palato, e ci vuol tempo. Secondo perché è una serie di lettere, ciascuna delle quali contiene un emozionante grumo di storia. Insomma, è un libro da centellinare. Martha Medeiros, brasiliana di Porto Alegre (1961), è già stata apprezzata in Italia, così come in tutto il mondo, per il suo Lettino, la storia di una quarantenne che davanti allo psicoanalista vede la propria vita sgretolarsi. Con la stessa cadenza narrativa - ogni capitolo una tappa saliente - la Medeiros colleziona lettere di donne (in gran parte) e di uomini, tutti sull’orlo di un corto circuito emotivo, oppure già dentro fino al collo. In poche pagine il mittente lancia un grido, disegna una confessione intima. Spesso il dolore e l’indignazione s’intrecciano con aspetti comici o grotteschi ma sempte ammantati di pietas. Il tutto sotto la lente della verità più coraggiosa. Raramente capita di leggere un romanzo a forma di lettere così intenso. La tradizione epistolare europea ha felicemente varcato il grande oceano. Una donna anziana che odia la sua lenta età, in imbarazzante contrasto con il «mondo dei frettolosi», si rivolge al marito defunto prematuramente e gli racconta del proprio decadimento fisico: «Sono un corpo al servizio dell’umiliazione». E poi l’amorevole rimpianto di sopravvissuta: «Non saprai mai quanto è duro dirsi addio tutte le sere, prima di addormentarsi, temendo di morire da soli durante il sonno». Leila scrive all’amato/odiato «una lettera di licenziamento». Dopo aver elencato i vizi e le banalità del destinatario della missiva, lo invita a «bussare a un’altra anima, che la mia è già consumata… voglio che mi lasci, perché mi piaci sempre di più». L’autrice fa delle radiografie emotive mai opache o tagliate con l’accetta, soprattutto perché coglie bene le contraddizioni dell’animo delle donne, che spesso si sentono attratte e respinte nel medesimo tempo. L’artista sessantenne Padua comunica amarezza all’amico Celso dopo

che un critico ha stroncato la sua mostra con l’arroganza tipica di certi critici, attratti dal veleno e dimentichi dell’aspetto umano: «Smetterò di fornire munizioni a quei topi di fogna, a quei semidei da inserto domenicale, a quei mangiatori di sushi che confondono la cafonaggine con lo humour». Cecilia smaschera l’innamorato: «Tu sprechi i tuoi giorni con il superfluo». Prorompe l’insulto, e l’uomo è ridotto a «un abbozzo di uomo perfetto, a un layout». Quasi sempre nelle lettere dell’autrice si fa luce quella linea sottile che separa una certezza da un dubbio: qui sta il tormento. Il lettore, in poche righe, vede mondi complessi e può facilmente immaginare un lungo racconto dietro una frase, un’esclamazione, un aggettivo. Martha Medeiros, Tutto quello che volevo dirti, Cavallo di ferro, 151 pagine, 14,00 euro

riletture

Raymon Aron e i paradisi artificiali degli intellettuali di Renato Cristin ubblicato nel 1955 e tradotto in italiano nel 1958, questo saggio di Aron, che fornisce un’analisi storico-politica della figura dell’intellettuale e ne definisce le strutture specifiche nei vari contesti culturali e nazionali, è fondamentale per conoscere i percorsi della cultura politica europea, per capire i miti della sinistra e smascherarne i procedimenti di manipolazione delle coscienze. A distanza di cinquant’anni il testo conserva tutta l’attualità delle sue analisi e, più in generale, mostra la rilevanza della riflessione di un grande maestro della verità storico-sociale. A partire da un’energica e incisiva interpretazione degli intellettuali francesi, articolati fra «révoltés e nichilisti» e capeggiati da Sartre, egli getta luce sui proces-

P

si di persuasione pubblica e, prima ancora, di autoconvincimento personale che hanno determinato le idee e la prassi degli intellettuali europei, nel dopoguerra quasi tutti raggruppati nelle file della sinistra e schierati a difesa di un’ideologia la cui realizzazione statale nei Paesi comunisti si dimostrava fallimentare, al punto da negare quei principi di uguaglianza e libertà che gli intellettuali occidentali perseguivano. La loro falsa coscienza ha creato i miti della loro legittimazione e della loro sopravvivenza, quello della rivoluzione sopra a tutti, il quale «serve da rifugio al pensiero utopistico, diventa il legame misterioso tra il reale e l’ideale», ma poiché nasce dal fanatismo politico e dall’integralismo etico di gruppi dogmatici e viene realizzato per mezzo della violenza di masse strumentalizzate, esso «getta un

ponte fra l’intransigenza morale e il terrorismo». Diffondendo il mito del proletariato, con il pretesto di migliorare le condizioni di vita delle masse popolari, gli intellettuali conducono quelle masse «a un’oppressione peggiore di quella contro cui hanno combattuto». Infatti, la contraddizione etica della sinistra rivoluzionaria consiste nel coniugare cinismo e umanismo, con il risultato che la pretesa umanizzazione del mondo diventa una strategia disumana di saccheggio materiale e di sottomissione delle persone. L’intellighenzia di sinistra preferisce, dice Aron, non vedere le conseguenze reali dei suoi miti, creandosi un paradiso artificiale con le loro teorie, le loro scoperte sulla direzione anticapitalista della storia, producendo dunque da sé il proprio oppio. Auspicando, ma anche prevedendo (nel 1955!) «la fine dell’età delle

ideologie», Aron tenta di dare voce all’«intellettuale non fanatico», che rifiuta la rivoluzione senza però accettare «ciò che non si può giustificare», un intellettuale che «non abbandona la sua anima a un concetto astratto di umanità, a un partito tirannico, a una scolastica assurda, perché ama persone vere, rispetta la verità». Bene fa dunque Angelo Panebianco, nelle sue pagine introduttive, a invitare la sinistra a riflettere su questo libro, convinto che esso possa aiutarla a «sbarazzarsi di quelle categorie» devastanti sul piano morale e materiale, perché «nonostante il ripudio (tardivo) del comunismo, la sinistra intellettuale italiana non ha mai davvero fatto i conti con le ragioni dei propri errori di allora». Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, Lindau Editore, 427 pagine, 24,00 euro


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CLASSICI

altre letture

Pellegrinaggio sui Vosgi per decifrare Lenz

Oasi del gioco

(Raffaello Cortina editore) di Eugen Fink è un piccolo classico del filone che prende appunto il gioco come oggetto di analisi sociologica e filosofica. Fink in questo pamphlet piacevolissimo e intenso tenta di rispondere a domande come: che cosa è il gioco? Come si rapporta alla vita? Perché è importane e addirittura essenziale all’esistenza umana? Allievo di Husserl Fink trae molto anche da Heidegger e Nietzsche. Il gioco, secondo lui, è una dimensione che si aggiunge a tutte le nostre esperienze, compresi l’amore e la morte, arricchendole di una distanza, di un’oasi appunto.

di Vito Punzi ono rari i testi narrativi la cui brevità risulti essere così efficace. Il Lenz di Georg Büchner (1813-1837), riproposto ora nella bella versione di Giulio Schiavoni è davvero un condensato d’energia, deflagrante oggi come lo è stato per oltre due secoli, visto che su di esso hanno lavorato, ritessendolo in sempre nuove trame, autori come Franz Wedekind, Hugo von Hofmannsthal, Robert Musil, Robert Walser, Paul Celan ed Elias Canetti. Perenne fuggiasco di cui, a parere del contemporaneo Goethe, non era rimasta «traccia nella vita», Jakob Lenz (1741-1792) era figlio di pastore luterano (verrebbe da citarlo come dato patologico, se si pensa che la stessa sorte toccò a Nietzsche ) e dopo aver seguito le lezioni di Kant a Königsberg, nel 1771 si trasferì con i fratelli von Kleist a Strasburgo, dove l’incontro con Goethe, Herder e l’ambiente alsaziano, così ricco di fermenti innovativi, ne fece uno dei più significativi uomini del cosiddetto Sturm und Drang, grazie alla sua esaltazione di naturalezza e sensualità e al suo modo di pensare il teatro al di fuori degli schemi di unità di tempo, luogo e azione. Furono proprio questi ultimi elementi a renderlo così interessante al giovanissimo Büchner, che nel 1833 si ritrovò sui Vosgi a ripercorrere le sue tracce, memore del soggiorno che Lenz trascorse nel 1778 presso la casa del pastore

S

Johann Friedrich Oberlin. Ridotto alla fame, il ventisettenne Jakob era stato assalito appena pochi mesi prima da incontrollabili turbe psichiche e su quel suo soggiorno montano pesò il costante rischio di suicidio. In perenne ricerca di una «patria», si fosse trattato anche di un «rifugio estremo», come lo chiama Schiavoni, al Lenz preda di un progressivo decadimento psichico non restò che una vita da viandante (la figura del Wanderer fu tanto cara anche a Goethe), fino alla morte, che lo colse, misero e solo, a Mosca. Questa preziosa narrazione di Büchner non fa che riprendere e rielaborare uno scritto del citato pastore Oberlin, nel quale Lenz viene descritto nel suo breve soggiorno sui Vosgi. La potenza del testo büchneriano è tutta nella radicalità della scrittura, capace di leggere nella follia del poeta la condizione umana primigenia, quella che trova il proprio nutrimento essenziale nella domanda sul destino: «qualcosa urgeva in lui, egli inseguiva qualcosa, come dei sogni perduti, ma non trovava niente». La stessa natura indistinta («cielo e terra si confondevano») non rappresentavano che il palcoscenico della paura: «era come se qualcosa lo inseguisse, e come se qualcosa di orribile lo dovesse raggiungere, qualcosa che gli umani non riescono a reggere, come se la follia con i suoi destrieri lo stesse braccando». È propria

tuttavia di questo Lenz, ormai incapace di distinguere sogno e realtà, un’infinita nostalgia di bellezza, da ricercarsi non solo in natura ma anche tra le pieghe della memoria cristiana. Così viene descritta la commozione suscitata dalla visione di un quadro (probabilmente dell’olandese Carel von Savoy) riproducente l’incontro tra Cristo e i discepoli di Emmaus: «È il crepuscolo di una sera fosca, all’orizzonte una striscia rossa uniforme, la strada immersa nella semioscurità, ed ecco venire loro incontro uno sconosciuto, discorrono, lui spezza il pane, allora in quel gesto semplicemente umano essi lo riconoscono». Il progressivo sfaldarsi di questa memoria ridotta a forma conduce però Lenz al «folle piacere» pro-

vocato dalla sosta sul limitare dell’abisso: «Nel suo petto l’inferno intonava un canto di trionfo». Lo stesso cielo, non più veicolo di bellezza, è solo «uno stupido occhio azzurro» e la luna si rivela «ridicola e sciocca». Il canto di colui che nulla più riesce a cogliere di diverso da sé («era come se egli fosse doppio») volge al culmine: «Lenz fu costretto a ridere forte, e con il riso s’insinuò in lui l’ateismo, che l’afferrò con pugno sicuro, quieto e fermo». Da segnalare, infine, l’ottima cura del libro, comprendente anche Il Diario del pastore Oberlin, note puntuali e aggiornati riferimenti bibliografici relativi a Lenz e Büchner. Georg Büchner, Lenz, Marsilio, 140 pagine, 12,00 euro

STORIA

Perché portavano la camicia nera di Riccardo Paradisi chivi, silenziosi, appartati e però fieri, come chi ha fatto qualcosa che il mondo esecra ma che loro credevano giusta. I reduci della repubblica sociale sono apparsi spesso così ai loro figli o nipoti in questo lungo e interminabile dopoguerra italiano. Figure enigmatiche di testimonianza vivente di un passato recente che la storia dei vincitori raccontava scindendo i campi tra uomini e no. Dove i non uomini, gli abietti erano, ça va sans dire, proprio loro: gli sconfitti, i fascisti. Sconfitti, fascisti certo, ma perché abietti si domandava chi quegli uomini li conosceva e ci parlava. Scoprendo che l’Italia e il fascismo in cui avevano creduto e per cui avevano combattuto non aveva niente a che fare con la citazione grottesca e caricaturale che fino agli strali di Renzo De Felice non ha avuto contraddittorio ufficiale. È questo mondo in ombra e ancora tutto da scoprire che Mario Bernardi Guardi

S

racconta nel suo Fischia il vento infuria la bufera. Perché portiamo la camicia nera, attraverso cinque ritratti di protagonisti e testimoni della breve stagione di Salò. I ritratti di Marco Laudato, Carlo Mazzantini, Roberto Vivarelli, Enrico De Boccard, Mario Castellacci. Storie diverse che raccontano modi diversi di essere stati fascisti e repubblichini: per caso, per paradosso, per irriverenza, per amore. Soprattutto per la vergogna del tradimento, per lo schifo e la rabbia che provarono di fronte a un Paese che si sbandava. Una sfida, la loro, alla prepotenza degli uomini e allo strapotere degli eventi. Storie lontane, inattuali: non ci son più categorie oggi, nemmeno in qualche angolo di quella che fu la destra, per comprenderle, per capire che vuol dire battersi per l’Onore, senza nessuna prospettiva se non la sconfitta. E una sottile vena di questo rimprovero attraversa le pagine del libro. «Mario Bernardi Guardi», scrive nella prefazione al libro Franco Cardini: «vedo che il libro esce in una collana in-

titolata “Idee della destra” ed è evidentemente la destra di questi nostri tempi del primo decennio del XXI secolo e mi scappa quasi da ridere. Perché ho la sensazione che certe pagine di questo libro, oggi, quasi quasi saranno più apprezzate e comprese in qualche nicchia della sinistra che non da parte del popolo della destra». Mario Bernardi Guardi, Fischia il vento infuria la bufera. Perché portiamo la camicia nera, Nuove Idee, 87 pagine, 10,00 euro

Il sunnismo è una delle grandi famiglie in cui si divide l’Islam. Comprende il 90 per cento dei musulmani e in un certo senso rappresenta l’ortodossia rispetto alla corrente sciita, fortemente minoritaria all’interno del magmatico mondo musulmano. Massimo Campanini, docente di Storia dei Paesi arabi presso l’Istituto Orientale di Napoli, delinea con il suo Sunniti (Il Mulino, 123 pagine, 8,80 euro) il quadro della formazione storica del sunnismo e il ruolo svolto dalle varie dinastie di questa corrente spirituale. In un secondo momento affronta gli aspetti dottrinari e giuridici della tradizione religiosa islamica e chiarisce i punti di convergenza e divergenza tra sanniti e sciiti. Magistrati e poliziotti che scrivono. Il filone è fortunato e fecondo. Vi si iscrive anche L’ultimo indizio di Piernicola Silvis, dirigente della Polizia di Stato che esordì nella narrativa con il romanzo Un assassino qualunque (Fazi editore). Ora Silvis torna in libreria con un romanzo che racconta il 1992, l’anno cruciale di guerra tra lo Stato e la mafia, dove l’attuale capo della polizia Antonio Manganelli, Gilberto Caldarozzi e altri colleghi di Piernicola Silvis sono protagonisti di una lotta senza quartiere a Cosa nostra. Che conduce alla cattura di Giuseppe Piddu Madonia ma a un prezzo esistenziale altissimo per gli inquirenti. Che consumano anche la loro vita privata in notti bianche di appostamenti, intercettazioni pedinamenti.


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ritratti

ANGELO MARIA RIPELLINO

A TRENT’ANNI DALLA MORTE CADE LA “DAMNATIO MEMORIAE” SU UNO DEI PIÙ ACUTI OSSERVATORI DEL NOVECENTO. LE SUE POESIE OGGI RISTAMPATE E DUE RACCOLTE DI SAGGI E ARTICOLI CI RESTITUISCONO LA FIGURA E L’OPERA DELLO SLAVISTA CHE NON ESITÒ A DEFINIRE IL REGIME COMUNISTA UNA CRUDELE “CRICCA CHE MASCHERA DI IDEOLOGIA IL PROPRIO GANGSTERISMO”…

Il semiboemo di Filippo Maria Battaglia rent’anni dalla morte, trent’anni di damnatio memoriae. Per pochi, pochissimi scrittori, la vecchia condanna romana può essere vera come per Angelo Maria Ripellino (1923-1978). Ecco perché la sua tardiva riscoperta, coincisa con il trentennale della morte, giunge quasi insperata. Restituendo alla letteratura e alla poesia uno dei più acuti osservatori dell’ultimo mezzo secolo italiano. A rievocarne la figura e l’opera, ha iniziato qualche mese fa la casa editrice Einaudi, decidendo di ristampare le tre grandi raccolte di poesia dello scrittore siciliano. Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Splendido violino verde, a cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela, sono ritornate in libreria quasi in punta di piedi, preceduti dal volume di Aragno Poesie prime e ultime. Un «guazzabuglio poetico», come ebbe a definirlo lo stesso Ripellino in una rara intervista, dove va di scena «la prodigalità inesauribile di metafore» che lo slavista stesso ammirava nell’opera di uno scrittore come Boris Pasternak: «Ogni metafora, appena scritta - si legge in una poesia di Sinfonietta - si dissolve / come una bolla di sapone. Ma che importa? / Mentre parlo di cielo, la mia stessa pagina / diventa una cala di nuvole con mongolfiere. / Basta la fiamma giallo-

T

che lo slavista compie i primi passi di studioso in erba. Come racconta Antonino Cusumano nell’introduzione alla raccolta, «Angelo Maria Ripellino ha vissuto a Mazara dal 1930 al 1937 e ha frequentato tre classi delle elementari e quattro del ginnasio, dall’età di sette anni ai quattordici». È lì che nel 1930 suo padre Carmelo ottiene l’incarico di supplente di «lettere italiane e latine et historia dell’arte» al liceo comunale siciliano. E già da subito Ripellino sembra essere tagliato per lo studio: «nell’anno scolastico 1933-34 - scrive Cusumano - dentro la prima classe ginnasiale (oggi equivalente alla prima media), allora numerosissima, composta di circa cinquanta allievi, Angelo, appena undicenne, spiccava per la sua vivacità intellettuale, la profondità delle conoscenze e la chiarezza delle esposizioni. Nelle classi successive aveva imparato a recitare a memoria i versi dell’Odissea e dell’Eneide, sapeva leggere il greco prima ancora di apprenderlo a scuola, svolgeva i temi in pochi minuti e direttamente in bella copia». Passano gli anni, e per il padre Carmelo arriva la notizia attesa da anni: il ministero gli comunica che la cattedra al Liceo Giulio Cesare di Roma gli è stata finalmente assegnata. Nella capitale, il precocissimo Ange-

Appena undicenne spiccava per la sua vivacità intellettuale, la profondità delle conoscenze e la chiarezza delle esposizioni: recitava a memoria i versi dell’Odissea e dell’Eneide, leggeva il greco ancor prima di impararlo a scuola, svolgeva i temi in pochi minuti gnola di una candela, / perché nella stanza fiorisca un immenso ghiacciaio, / e una risata, perché dalla porta che dà sulle dune / entri uno squamoso pagliaccio in bombetta / con un fascio di èrica».

Ma le quattro riedizioni poetiche non sono solo le uniche novità editoriali. Dopo anni di tacito ostracismo, a queste ristampe si sono affiancate altre due pubblicazioni. La prima, Oltreslavia è una raccolta di saggi del Ripellino preslavista, studioso della Spagna e dell’Italia letteraria, pubblicata dall’Istituto euroarabo di Mazara del Vallo. Nell’antologia c’è un po’ di tutto: saggi su Govoni e Cardarelli, qualche pagina su Anceschi e Oreste Macrì, studi su Nicola Lisi e sul petrarchismo spagnolo. Luogo di pubblicazione Mazara, perché le prime tracce de Ripellino studioso vanno proprio ricercate in Sicilia. È infatti nella città isolana

lo trova presto il modo di mettersi in evidenza. È lì che matura un interesse sempre più spiccato nei confronti dell’universo slavo. Ed è per questo che diventa allievo di Ettore Lo Gatto, da cui anni dopo erediterà la cattedra di lingua e letteratura russa all’Università La Sapienza di Roma. Nel frattempo, inizia a lavorare come consulente di Giulio Einaudi, divenendo ben presto un’autorità assoluta nel suo campo. Collabora con quotidiani e riviste nazionali, tra cui L’Espresso, che gli pubblica poco più di un centinaio di articoli, ora raccolti in L’ora di Praga ( a cura di Antonio Pane, Le Lettere, 325 pagine, 22,00 euro). Ripellino ha ora poco più di quarant’anni. Come scrive Nello Ajello nell’introduzione all’antologia, è «alto, magro, lievemente baffuto». La sua collaborazione, all’inizio, è tutta incentrata sugli scrittori di lingua ceca e sui loro temi letterari più ricorrenti: tra un articolo e l’altro, c’è spa-

zio per «“le famiglie di manichini ciarloni” che si agitano nelle commedie di Vàclav Havel» così come per «“l’irrefrenabile brama di ciarle” d’un Bohumil Hrabal». Ma la descrizione dello slavista è anche il ritratto vivido di una capitale scapigliata, da poco liberatasi da una cappa ideologica e conformante: «Praga è oggi più che mai una città dell’assurdo, densa di suggestioni kafkoidi… Negli anni del Culto la parola ceca aveva perduto la sua tangibilità e non si identificava più con l’oggetto. Correvano frasi come: “Colera, peste e formiche - di Truman son le amiche”. Si era costituito un trans-linguaggio parassitico, un repertorio intoccabile di locuzioni a vànvera.“Per un luminoso futuro, per un luminoso futuro, per un luminoso futuro”. Caduto lo stalinismo, crollò come un muro di cartone anche quel formulario pomposo e schioccante».

Un’indagine, quella di Ripellino, che non tralascia nessun aspetto, neppure quello legato al dettaglio architettonico: «Nel momento in cui si accorse che una bidonville è più vera di un’architettura-blockhaus, si vide anche come il dissiparsi degli slogans, che imbottivano l’esistenza quotidiana, avesse lasciato un terribile vuoto semantico. Il linguaggio stesso si offrì, umiliato, agli artisti per una serie di esperimenti. Si fece in tutti imperiosa la necessità di smontare e sminuzzare le frasi, di bistrattarle in una sorte di operazione castigo, di palesare con giochi combinatori quanta nullità avesse espresso il loro sonante sussiego». Poi, Ripellino diventa reporter, raccontando una città percorsa da fremiti libertari. E, di certo, non è un corrispondente asettico, anche perché, come ricorda Ajello, «della primavera di Praga il grande slavista aveva condiviso fin dall’inizio, sul posto, vicende e attese». È per questo che negli articoli pubblicati sull’Espresso scrive dell’«infausto rotolio dei carri armati», quasi «nulla fosse cambiato dalla crudele epoca di Ivan il Terribile». Un amore - quello del «semiboemo Ripellino», co-


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Da sinistra in senso orario: Ripellino in una foto di Agnese De Donato; Dubcek sul trampolino; carri armati russi a Praga nel 1968; lo slavista con Ela; il castello di Praga

Come un reporter appassionato raccontò i fremiti libertari che annunciavano la Primavera di Praga, di cui condivise, sin dall’inizo, vicende e attese: “il rotolio dei carri armati”, la letteratura che “si batte contro il potere politico”, il “chapliniano cammino della speranza” me amava lui stesso definirsi - che resisterà negli anni e che si riverserà plasticamente nella chiusa di una delle più importanti opere della neoavanguardia italiana, quella Praga magica (Einaudi, 373 pagine, 11,50 euro) per molti anni ingiustamente dimenticata: «Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga. Svaniranno in un bàratro i persecutori, i monatti. E io forse vi ritornerò. Certo che vi ritornerò. In una bettola di Malá Strana, ombre della mia giovinezza, stappate una bottiglia di M\u011Blník. Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi.Vi porterò i miei nipoti, i miei figli, le donne che ho amato, i miei amici, i miei genitori risorti, tutti i miei morti. Praga, non ci daremo per vinti. Fatti forza, resisti. Non ci resta altro che percorrere insieme il lunghissimo, chapliniano cammino della speranza». Ma torniamo agli articoli e ai saggi raccolti nel bel volume della collana Le Lettere diretta da Andrea Cortellessa. La prima corrispondenza («È l’ora della Cecoslovacchia. Fogli di diario praghese») è datata 1963. Ripellino racconta la vivacità culturale dei teatri praghesi, specie degli artisti di piccolo e medio cabotaggio, spesso semiclandestini e comunque quasi sempre sconosciuti agli studiosi nostrani. Registra, con proverbiale sensibilità, tutti i fremiti che sembrano segnare il disgelo reale e la soluzione di continuità dal decennio precedente, quello condizionato dalla violentissima e conformante cappa stalinista. Come ricorda Alessandro Catalano, «il biennio 1963-

1964 rappresenta dunque un reale spartiacque nella cultura ceca, contemporaneamente e in ogni campo emergono fenomeni ancora pochi anni prima osteggiati: oltre alla pubblicazione di una serie di autori che avrebbero cambiato profondamente l’immagine della prosa ceca. Sono questi anni di rotture non solo nel teatro ma anche nel cinema». Momento centrale, il IV congresso degli scrittori del 1967. Ripellino è con loro, ma è anche uno di loro: condivide le ansie e le attese, e si sforza di essere interprete dei disagi in un Occidente troppo distratto e impegnato in tutt’altro. Ma soprattutto percepisce con nettezza che è lì che si gioca la partita più importante. La conferma arriva dal primo articolo del 1968: quando, dalle pagine dell’Espresso, lo slavista scrive di una «rivoluzione cecoslovacca», la sua attenzione si concentra quasi esclusivamente sulla letteratura che «si batte contro il potere politico».

Ha ragione: «la rivoluzione delle penne» trova la sua prima reale concretizzazione il 5 gennaio, giorno della nomina del nuovo segretario Alexander Dubcek. Ed è il suo tuffo, immortalato in una celebre fotografia scattata a Santovka nell’estate del 1968, a testimoniare la rottura dalla più recente eredità comunista. Ma l’illusione è destinata a durare pochi mesi. L’atto finale è datato 21 agosto, quando i carri armati varcano le frontiere cecoslovacche. La

delusione trasuda dalle cronache del poeta siciliano. Il copione, come scrive Catalano, «sarà in realtà molto simile a quello già visto in passato: espulsioni dal partito, epurazioni, sostituzioni del personale, questionari di affidabilità politica e processi politici. Molto diverso sarà invece il torpore assoluto nel quale precipiterà nel giro di pochi mesi la società ceca». Con il suo ipersensbile sismografo, Ripellino ne registrerà quasi settimanalmente le ormai brevi scosse di assestamento: «È difficile rassegnarsi a quello che è accaduto in Cecoslovacchia, a questa sequela di soprusi e di trappole e di beffe e di delitti e di brutali imposizioni. È difficile, in quest’ora tristissima, rassegnarsi al fatto che il risorgimento socialistico del popolo cecoslovacco, a malapena risalito dall’abisso di vent’anni di disastri, sia stato così bestialmente troncato dalla prepotenza di un regime truculento, dalla crudeltà di una cricca che maschera di ideologia il proprio gangsterismo e si regge solo sui cingoli dei carri armati. Non mi interessano le vuote parole reboanti sull’unità della classe operaia, se quelle parole devono solo coprire il delirio e la ubriachezza e la perfidia di tiranni feudali. La terminologia che essi sfoggiano serve soltanto a nascondere i loro propositi di brigantaggio e di sterminio. È chiaro che la Russia non ha perduto la sua vocazione schiavistica e che la presente politica di oppressione ricalca quella dei tempi degli zar». L’amore dello slavista per la capitale boema resterà comunque impresso in uno dei capolavori della letteratura contemporanea europea. Nel 1973 uscirà Praga magica. Con esso cambierà il modo di raccontare una città e un’atmosfera in costante fermento. Ripellino morirà a Roma nella primavera del 1978, a causa di un collasso cardiocircolatorio. Le sue poesie e i suoi articoli, per troppi anni dimenticati, resteranno il testamento muto di uno tra i più acuti osservatori del Novecento europeo: «Vivere è stare svegli/ e concedersi agli altri,/ dare di sé sempre il meglio/ e non essere scaltri./ Vivere è amare la vita/ coi suoi funerali e i suoi balli,/ trovare favole e miti/ nelle vicende più squallide».


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TV

Nell’elasticità del Corano il dramma del terrorismo

web

video

di Pier Mario Fasanotti i sono già segnali dello sciocchezzaio televisivo di mezza estate. In agguato le veline. Come alternativa, le intramontabili repliche di Don Camillo e Peppone. Se proprio va bene nel pomeriggio qualche film anni Cinquanta: il bianco e nero come antidoto contro quiz, gossip-spettacolo e passerelle per ragazze che appendono i loro sogni all’antenna tv. Per fortuna ci sono canali informativi come History Channel. Sono la dimostrazione di come si può fare cultura senza essere ammorbanti, senza coniugare i temi storici con un modo di vivere da parrucconi. Conosco adolescenti che si sintonizzano su Sky e apprezzano. Tra le ultime proposte Le donne di Hitler. Il plurale è forzato visto che si conosce ormai bene - ma a quei tempi i tedeschi per niente - la bionda e paffutella Eva Braun. Il Führer la sposò nel bunker, quando le bombe alleate frantumavano il sogno sanguinario del Terzo Reich. Fu allestito un altare. Curioso un particolare: Eva appose la firma ma nello scrivere il cognome iniziò con la «B». La cancellò e finalmente aggiunse quell’«Hitler» inseguito per una vita. Filmati a colori la ritraggono civettuola e amante della ginnastica, nel rifugio montano di Berkhov. Fu sempre costretta a restare in disparte. Hitler voleva dare di sé l’immagine del capo solitario. Così le donne tedesche s’illudessero di poter fidanzarsi col «padrone del mondo». A lui premeva diffondere questo messaggio: io ho sposato la Germania. Documentatissimo il programma dedicato al Corano. E quanto mai attuale visto che l’islam è la religione a più elevato tasso di crescita nel mondo. In arabo Corano significa «la recitazione». L’orfano Maometto, diventato ricco mercante alla Mecca, ebbe crisi mistico-epilettiche in una grotta. E memorizzò le parole di Allah, «misericordioso e adirato». Un diktat etico-morale che non era nuovo rispetto alle Scritture cristiane ed ebraiche. Ma Maometto lo diffuse contro la proliferazione degli idoli, la miseria e la disuguaglianza nella penisola arabica. I toni guerreschi (coerenti alla situazione locale dell’epoca) comparvero quando il Profeta si trasferì a Medina e da lì invase la corrotta Mecca. Maometto forse era analfabeta. L’eleganza linguistica del Corano - dicono - è prova della sua derivazione divina. Fu una commissione formata dal terzo Califfo a verificare l’autenticità dei frammenti scritti o su pergamena o su schegge d’osso, e a confrontarla con le testimonianze. Di qui la versione ufficiale del Corano, un «testo elastico»: nelle sue diverse interpretazione sta il dramma dell’islam terroristico.

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games

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ONLINE 81 ANNI DI BBC

MGS4: LE ARMI DEI PATRIOTI

IL SOGNO DELL’ARGONAUTA

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81 anni suonati, la televisione pubblica britannica Bbc smette le vesti canoniche e seriose che la contraddistinguono per indossare quelle «più giovani» del web. La tivù ha infatti deciso che tutto il suo catalogo sarà digitalizzato e messo a disposizione degli utenti, con una pagina dedicata a ogni episodio di ogni show. In soli tre mesi già sono state create 160 mila pagine web, ognuna colle-

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possessori di Playstation3 aspettavano da tempo un motivo - reale - per vendicarsi degli sgarbi subiti nel corso di questa ultima console war. Questo motivo, finalmente, è arrivato. E risponde al nome di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots. L’ultimo capitolo della serie di “spionaggio tattico” creata da Hideo Kojima rende giustizia alla potenza della console next-

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Tutto il catalogo della televisione pubblica britannica digitalizzato. Già create 160 mila pagine

Il nuovo episodio di Metal Gear Solid è la prima vera killer application per la Ps3

La storia di Angelo D’Arrigo, il campione mondiale di volo libero scomparso due anni fa

gata alla registrazione di un particolare episodio e visibile attraverso il programma iPlayer, il sistema di web video lanciato un anno fa che ha dato «grandissime soddisfazioni al network britannico»: «Lo scopo delle pagine è anche quello di far conoscere agli utenti i programmi più all’avanguardia, come iPlayer, Kangaroo o iTunes» ha dichiarato Jana Bennet, direttore del reparto Vision di Bbc. Un accordo con l’etichetta Emi permetterà al servizio pubblico britannico di sfruttare le registrazioni di artisti come Pink Floyd, Beach Boys, Kylie Minogue, David Bowie o Coldplay, e all’etichetta di creare Cd e Dvd con lo stesso materiale.

gen di Sony come nessun gioco aveva fatto finora. Oltre ad essere uno stealth shooter di qualità eccelsa, con una storyline all’altezza della sua fama, MGS4 può essere considerato il vero successore Metal Gear Solid originale, uscito nel 1998 per la prima console Sony che sconvolse le fondamenta del panorama videoludico, inventando un genere e creando miriadi di cloni, più o meno riusciti. Il mitico protagonista, Snake, questa volta riesce a “mescolarsi” con il territorio in cui si muove, per dare vita ad una esperienza di gioco senza precedenti. Killer Application.

pione mondiale di volo libero, dopo aver toccato la cima dell’Everest in deltaplano e aver planato su oceani e deserti, D’Arrigo sognava di riportare una coppia di condor sulle Ande. L’argonauta siciliano aveva progettato di addestrare Inca e Maya, i due volatili cresciuti in cattività al Breeding Center di Viennaha, all’uso delle ali da tempo atrofizzate, per poi ricondurli di persona in deltaplano sino alla cordigliera andina. Un’impresa fiabesca cui D’Arrigo ha dedicato anni e passione, fallita d’un soffio. A coronarla ci ha pensato però sua moglie, Angela Mancuso. L’uomo, contro ogni retorica epica o legge accidentale, continua a sognare di volare.

dispetto del titolo non troppo originale, Nati per volare di Marco Visalberghi racconta la parabola di un uomo che ha fatto degli slanci pindarici il fine ultimo della sua esistenza. La storia di Angelo D’Arrigo, nato a Catania nel 1961 e morto in volo nel marzo di due anni fa, aggiorna il mito di Icaro all’era della documentabilità, traducendo l’antica ubris tragica nel commovente lirismo di un atto incompiuto. Cam-


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Identità sospette di Anselma Dell’Olio

dentità sospette è un thriller indipendente che arriva sui nostri schermi a un anno e mezzo dalla sua uscita statunitense. Ritardo inspiegabile, visto un pubblico sempre assetato di questo genere, il forte impianto narrativo e l’eccellente cast di attori, tra nomi conosciuti e caratteristi stimati. Jim Caviezel (il Gesù di La passione di Cristo di Mel Gibson, Greg Kinnear (Little Miss Sunshine), Barry Pepper (Le tre sepolture) e Peter Stormare (il killer psicotico che maciulla Steve Buscemi in Fargo). La premessa manipola con intelligenza le trame di Saw-l’enigmista (il primo della serie, di James Wan), Reservoir dogs - Le iene di Quentin Tarantino, e I soliti sospetti di Bryan Singer. Simon Brand, regista di spot e video clip, è all’opera prima, come lo sceneggiatore Matthew Waynee, romanziere. Unknown (titolo originale) non arriva alla folgorante ispirazione dei titoli succitati, ma i suoi 86 minuti sono ben calibrati in quanto a ritmo e suspense. È bene tenere presente che Identità sospette è un debutto dignitoso, ma non un’opera che trascende il genere come le altre, che sono entrate nel pantheon dei film assoluti. Potrebbe, però, vantarsi di essere il primo film su un’amnesia multipla.

gliata per terra intorno a due sedie) che due di loro erano legati insieme? I liberi sono i cattivi o i buoni? L’uomo ammanettato e l’uomo legato sono vittime degli altri o carnefici sopraffatti prima che tutti perdano conoscenza? Il primo a svegliarsi è Giacca Jeans. Basta questo perché gli altri, soprattutto Naso Rotto, diffidino di lui.Tanto più che lo hanno sentito rispondere a una telefonata, dunque è immediatamente accusato di fare parte della banda dei sequestratori. Abbiamo, però, visto Jeans mentre rispondeva al telefono, ed era chiaro che non sa-

Cinque uomini malmessi si svegliano in un enorme, fatiscente padiglione industriale, in cui sono state bloccate tutte le vie d’uscita. Nessuno dei cinque sa chi è, né perché si trova lì. Per mantenere il mistero e la tensione, i nomi dei personaggi sono tenuti nascosti fin quasi alla fine, e sono indicati nella sceneggiatura da elementi che li rendono riconoscibili. Caviezel è Giacca Jeans, Kinnear è Naso Rotto, Pepper è Camicia da Cowboy, Joe Pantoliano è Uomo Legato, Jeremy Sisto è Uomo Ammanettato. Ecco il primo rebus da risolvere: perché gli ultimi tre sono liberi, anche se ci sono indicazioni (una corda ta-

peva di che cosa stesse parlando l’interlocutore, né ha riconosciuto i nomi riferiti durante la chiamata, tra cui «Coles» e «Woz». Chi era al telefono ha chiesto anche se aveva visto una pistola che uno dei rapitori aveva lasciato sul posto. Jeans aveva frugato nella scrivania alla quale era seduto, trovando solo una custodia. Da subito sembrerebbe uno buono (è ovviamente il protagonista). E poi ha tentato di liberare l’Uomo Ammanettato, tanto più in quanto il poveraccio era appeso a una ringhiera ed era ferito alla spalla da un colpo di arma da fuoco. Jeans lo sistema in modo che stia più comodo, ma non riesce a

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trovare una chiave né altro che serva a togliere le manette. L’Uomo Legato è furioso perché non viene liberato, ma i tre uomini sciolti non si fidano. Jeans trova la pistola, che stava per terra; da questo e altri indizi se ne deduce che c’è stata una lotta furibonda che ha coinvolto i cinque uomini: resta da capire chi stava con chi, e chi sono i buoni e chi i cattivi.

Le alleanze cambiano di volta in volta, in base alle paranoie che sorgono al momento. Abbastanza presto è risolto uno degli enigmi che si possono rivelare senza

“Unknown”, opera prima di Simon Brand, regista di spot e videoclip, è un thriller indipendente basato su un’amnesia multipla. Cinque personaggi, di cui si ignorano i nomi, si risvegliano in un fatiscente padiglione industriale, senza sapere chi sono e perché si trovano lì... Soddisfacente anche se sbrigativo rovinare le sorprese finali. Nel magazzino industriale, usato per lo stoccaggio di prodotti chimici, ci sono in giro dei bossoli. I cinque sequestrati si rendono conto che durante la colluttazione uno o più di questi bossoli si sono aperti, liberando un gas nervino che (c’è scritto sull’etichetta) provoca nausea, tosse (tossiscono tutti, specie all’inizio), perdita di coscienza e amnesia. L’azione si sposta ogni tanto sulla polizia che indaga sul sequestro di due uomini: Mr. Coles, un ricco imprenditore, e Mr. McCain, un suo collaboratore. Al comando di polizia c’è la signora Coles (Bridget Moynahan), comprensibilmente agitata per la

sparizione del marito. «Vi prego, riportatemelo: è tutto quello che ho». Si scoprirà che la moglie di Coles ha più ragioni per essere preoccupata, non tutte confessabili alle forze dell’ordine. Ma intanto gli sbirri hanno teso una trappola. I rapitori hanno chiesto un’ingente somma di denaro in contanti dentro una sacca. La signora ha istruzioni di depositare la borsa in un certo armadietto della stazione ferroviaria. I poliziotti si sono organizzati con telecamere e franchi tiratori, pronti per saltare addosso ai malviventi quando verranno a ritirare il malloppo. Quando un uomo delle pulizie si attarda davanti all’armadietto, i poliziotti appostati lo atterrano. Ma è solo un poveretto che lavora lì veramente, un ritardato mentale. Scoprono aprendo l’armadietto che la borsa è caduta dentro un buco che finisce nel sottosuolo, creato per aggirare la trappola. Scatta la rincorsa: poliziotti in borghese inseguono più camion e camioncini senza sapere bene quale sia quello dei rapitori. Nel frattempo anche i cinque uomini intrappolati hanno trovato un giornale che racconta il rapimento e i nomi dei due rapiti - ma senza fotografie. Si alternano le scene dell’inseguimento poliziesco all’esterno e quelle dei bisticci tra gli uomini internati e dei loro tentativi di trovare insieme una via d’uscita. Loro sanno solo che i malfattori sono in arrivo e intendono «finire il lavoro». Dunque la tensione aumenta, nessuno può essere certo di chi fidarsi, e nell’incertezza decidono di contrastarli insieme. I piccoli flash che ognuno ha del passato s’infittiscono, fino al diapason risolutivo. È vero che c’è poco approfondimento dei personaggi e che le scene iniziali tra gli uomini sono un po’ troppo brevi e tagliuzzate. Ma ribaltamenti e rivelazioni finali sono soddisfacenti anche se sbrigativi. In finale di stagione, quando i distributori svuotano i magazzini degli avanzi di bottega, non è poco.


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Eugenio Montale

MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.

poesia

di Francesco Napoli ensando al Novecento italiano si deve riconoscere, e non è nemmeno così difficile, in Eugenio Montale (Genova 1896-Milano 1981), con Giuseppe Ungaretti, la voce forse più nota presso le fasce di lettori poco avvezzi ai territori della poesia. Sarà forse per alcune espressioni passate ormai in forma quasi proverbiale, «spesso il male di vivere ho incontrato»; o per l’emblematico titolo della sua prima raccolta, Ossi di seppia (1925), tra le più antologizzate nei testi scolastici; o, ancora, per aver vinto il premio Nobel della letteratura nel 1975, suscitando come sempre in questi casi, polemiche in parte alimentate proprio dai sostenitori di una candidatura Ungaretti, l’altro corno della poesia italiana dell’epoca con il quale si guardava con rispetto e certa diffidenza. I due erano agli antipodi, poetici e caratteriali: timido al limite della scortesia Montale, esuberante e caldo l’altro, non si sarebbero mai potuti intendere fino in fondo. E si sa, la poesia italiana - ma non solo quella nel nostro paese - ha vissuto di dualità (da DantePetrarca ai nostri due passando almeno

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Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Eugenio Montale da Ossi di seppia

il club di calliope

da Leopardi-Manzoni e Pascoli-D’Annunzio). Ma l’importanza dell’opera di Montale rimane imprescindibile per l’intero Novecento poetico italiano: con lui hanno fatto i conti tutti i poeti nostrani, indistintamente, chi per seguirne fin troppo da vicino le tracce e chi per rapidamente superarlo. «L’argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia». Così Montale confessa nel 1976 la sua visione poetica, visione per altro molto ben evidenziata proprio nella poesia, anche questa pluriantologizzata, qui riportata e raccolta in Ossi di seppia, quei relitti che tanti hanno preso sulla riva del mare una volta abbandonati e che il poeta assimila alle sue poesie. Montale sente sin dall’esordio con nitida

VOLGERSI A ORIENTE PER SFUGGIRE AL DEGRADO in libreria

di Loretto Rafanelli

NESSUNA FERITA E questa lunga notte bianca dove ci porta? Restiamo qui ad aspettare un segno, ma non c’è niente intorno, qualcuno si affretta all’uscita prima della resa, ma nessuna ferita potrà cambiare l’orizzonte ultimo dell’ultimo nostro mare

Roberto Veracini

ono numerosi i poeti (da Luzi a Caproni a Saba) che hanno dato al tema del ricordo un fondamento poetico assoluto, quasi l’origine della nascita della loro poesia, o almeno una ragione decisiva di essa. Ci è parsa quindi familiare la prospettiva posta dalla poetessa Marina Moretti nel suo nuovo libro Ri-oriente (Hammerle Editori, 58 pagine, 8,00 euro). Una poesia che pare tesa a oggettivare il ricordo, operazione già seguita da altri autori ma che l’autrice triestina porta avanti fino alle estreme conseguenze. Nei suoi versi questa materia diviene la giustificazione del discorso poetico, la motivazione prima e ultima, perché paio-

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Il viaggio negli affetti di Marina Moretti attraverso il ricordo: rimpianto ma anche ragione storica che irradia valori forti no di secondario interesse alcuni riferimenti che possiamo definire civili. Pur tuttavia questo ricordare non è fine a se stesso, in quanto assume una valenza oppositiva rispetto alla situazione sociale presente, che porta in sé il pesante degrado di principi umani decisivi. Colpiscono i versi che guardano al vuoto doloroso di questa perdita (che è immensa e plurale); soprattutto nella prima parte del libro, vertiginosa e non didascalica. Ovviamente, nulla si può fare per riportare in vita quel lontano mondo. Non si può rivedere «…le sorelle Breschi //… nel prato dei merletti/ e le mani ricollocate in grembo». Si può solo ri-orientare il nostro sguardo. E pare forse di intendere che la Moretti si rifugi a Oriente perché lì si salva ancora la società contadina. Ma noi nutriamo dei dubbi. Meglio affidarsi alla poesia per far fronte al «barcollare dell’epoca». La parola che ci restituisce il «Bambino di brace stellata/ in vetta all’Appennino». Con la forza di uno «spaccato» che alimenta e dispera il cuore. Un viaggio negli affetti attraverso il ricordo, che nella Moretti è rimpianto ma pure ragione storica che versa il suo profumo e irradia ancora i suoi forti valori.


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la disarmonia come ispirazione lucidità il venir meno nel messaggio poetico della possibilità di fornire un’interpretazione compiuta della vita e dell’uomo. Le poesie, al pari degli «ossi», galleggiano e poi approdano alla riva come per caso, frutto di momentanee illuminazioni, spesso dettate dall’occasione. Situazioni ed episodi della vita del poeta, un paesaggio, come quello della Liguria, danno lo spunto per esprimere temi più generali: l’ormai riconosciuta rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Lo stesso testo riproposto ruota attorno al tema dell’impossibilità della parola poetica di raggiungere la dimensione dell’«oltre» («il palpitare/ lontano di scaglie di mare» che si intravedono oltre il muro, tra le fronde degli alberi), e della rinuncia da parte dell’io lirico a travalicare la dimensione terrena e il contingente (il «muro d’orto» e la «muraglia»). È quanto mai distante il modello dannunziano, peraltro negli anni di composizione della poesia ancora fortemente influente, del poeta-vate che era in grado di comunicare agli uomini che lo leggevano dei lampi di verità anche metafisica. Nonostante

Eugenio Montale visto da Tullio Pericoli (da “I ritratti”, Adelphi 2002)

la grande distanza che separa Montale dai modelli precedenti, e in particolar modo da Gabriele D’Annunzio, va però sottolineato come il poeta ligure non operi una rottura frontale della tradizione letteraria, ma preferisca di gran lunga procedere alla corrosione della tradizione stessa dal suo interno, forse seguendo quel modello crepuscolare di rinnovamento, movimento che lui ha sempre stentato a riconoscere tra i suoi riferimenti. La lingua poetica rimane infatti quella piana e lucida della tradizione ma viene immersa in un’atmosfera così bassa si potrebbe dire, quasi prosaica, da ottenere un effetto di totale straniamento della lingua dal contesto. In Meriggiare pallido e assorto il sole pomeridiano non è rivelatore di verità, quanto elemento funzionale alla presa di coscienza da parte del poeta della necessità di un’accettazione della condizione umana, di cui sono chiara metafora le brulicanti «file di rosse formiche» che, pur non avendo un obiettivo preciso, continuano a muoversi. L’andirivieni di questi insetti emblematizza con straordinaria efficacia e attualità una condizione di vanità dell’esistere che non è certo venuta meno nell’uomo di oggi. Anche lo stesso

muro, che si oppone in maniera quasi frustrante a ogni visione, sembra confermare questo stato d’animo. L’immagine ha un riconoscibile antecedente nella siepe di Leopardi ma con una differenza sostanziale, e filosofica quasi. Se nel poeta di Recanati l’ostacolo alla vista produceva un surplus di fantasia e un anelito forte di andare oltre, in Montale quel muro d’orto e i suoi «cocci aguzzi di bottiglia» sono un insormontabile ostacolo e il poeta, e l’uomo tout-court, resta lì, immobile a fissare quell’ostacolo verticale nella sentita impossibilità di poterlo scavalcare e, in qualche misura, andare incontro all’esistenza. Il «male di vivere», eredità delle letture baudelariane e dell’ennui de vivre del poeta francese, coglie l’uomo e lo rende incapace a reagire. Il poeta, tornando infine al nostro testo, paragona la vita dell’uomo, piena di travagli e sofferenze, al camminare lungo un muro nell’ora più calda del giorno; allo stesso tempo l’uomo cammina, vive, osserva ogni aspetto della natura, ma non è più in grado di individuare il senso vero della vita, cerca continuamente il senso vero della natura, ma nella sua condizione non è mai, o non è più, in grado di trovarla.

UN POPOLO DI POETI <

<

L’odore del vento acre nel porto

L’abito stinto ritto come un santo

il fuoco metallo tenebroso

cinto nel tempo fedele

distante quando scendono lumi

barcolla nello scuro della sera

un soffio lambisce la bocca

lacero immerso negli ulivi

posandolo sul verde tronco della vita

nella clessidra dove inciampa

un riflesso giunge sulla linea

il tempo, febbre che si aggiunge

della collina e danza la cavalletta

a noi con stupore, antico

sui vetri della spoglia camera

il gesto del santo, uniti in preghiera

e un’ora distrutta si compie.

attendiamo vicini alla speranza.

Vera Nobili

Tommaso Pisi

< L’acqua viene con la vita l’isola d’alba negli occhi di pace, luce senza peso, la rondine va al passo delle nevi al respiro dei venti, sentinella leggera del cielo, fedele all’amore, nell’abbraccio dei musicanti con gli occhi di pace, respiro di luce, miniere d’oro di nuovi tramonti, nei campi ritemprati dal sole, le nebbie che stanno alle spalle nell’inverno buio, sento che aspettare è il mio compito segreto e vero, per altro tempo, per sempre. Giacomo Frisoni

«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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MOSTRE

arti

Francesco

Le stigmate di Tre pittori per un miracolo di Marco Vallora re diverse tipologie di stigmate di san Francesco, letta di Tanzio, è giunta ora al museo, in dono, da un geche si rispondono urlanti, in un piccolo ma prodi- neroso collezionista torinese, uso a villeggiature in Val di gioso museo, cosiddetto di provincia (viva i dialet- Sesia, che ha destinato al museo la sua notevole scelta ti, avrebbe urlato da par suo il «poeta dei Sacri d’opere, che farà oggetto di una mostra a sé, a settembre. Monti», Gianni Testori... con quell’attributo gl’han dedica- Ma in attesa, ci si può deliziare con questo piccolo scorto una piccola ma significativa piazza di paese). Sono que- cio montano, che ha avuto un lungo restauro e che s’amste le mostre che vanno appoggiate e consigliate: senza mira qui per la prima volta: un azzurro di roccia assai tanto sfarzo e uso di trombe (in epoca di risparmio, anche nordico, memore di certe carte di Altdorfer, la luna che debito) con utili serrati confronti scientifici (senza transu- graffia animale la scena e i pastori che si impaurano: c’è mananza cioè insensata e «giapponese» di capolavori) e dentro tutta la poesia sofferta e recitata del Seicento. Del giusta rivalutazione dei «piccoli» musei trascurati, che invece van proprio fatti conoscere, attraverso la trappola bonaria della mania delle mostre. In occasione della «tre giorni» di Imago Veritas (intensissima d’appuntamenti e visite guidate, con Sgarbi, predicatore d’arte alla Basilica di Varallo, che riceve, con aplomb vaticano, il Cardinal Bertone, in umile visita pastorale e condiscendente abbraccio) «triduo», ch’è una sorta di pellegrinaggio verso «l’arte come via spirituale», in quello spettacolare «gran teatro montano» che è il Sacro Monte di Varallo, il piccolo museo-gioiello di città, che vanta capolavori assoluti di Gaudenzio e di Tanzio da Varallo (esemplarmente disposti da un ottimo, discreto architetto) ha pensato di mettere a confronto tre differenti teatri del dolore. Ospitando un declamante, barocco miracolo delle stigmate di Guercino, imprestato dalla Diocesi di Novara (dopo che il quadro, rubato, è stato ritrovato in Svizzera, nel 1998) che dialoga ora con due capolavori d’epoche differenti: una scena analoga, e assai boschiva, di Gaudenzio Ferrari, stella locale, e uno spettrale notturno con stigmate di Tanzio. La piccola, ma magistrale (di elettricità e terrore) te- San Francesco riceve le stigmate nel dipinto di Gaudenzio

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resto - è lo si intuisce con evidenza in Guercino - la Controriforma ebbe molto da suggerire e sentenziare, sul significato pure pietistico-spettacolare delle stigmate, che planano da cieli tenebrosi. Mentre molto più serafico e magistralmente «vernacolare» risulta il cielo non indifferente, ma affettuoso, abbracciante, di Guadenzio, con l’incandescente valva-ferita, quasi femminile, del cristo-serafino. Difficile lasciare il museo senza gettare uno sguardo al portentoso e dolente Compianto, detto la Pietra dell’Unzione, dei fratelli De Donati, che faceva dire a Testori: «Gaudenzio, il nostro Gaudenzio, gli occhi li aprirà proprio su questo“coro”, una sorta di rimbombo sotterraneo che allarga echi su echi, memorie su memorie, parentele su parentele». Giustamente protetto ora al museo, questo affascinante concerto ligneo era un tempo prigioniero in una delle oltre quaranta cappellete disseminate nello straordinario «cammino» del Sacro Monte. Che in tempo di turbolenze politiche sostituiva il pellegrinaggio a Gerusalemme e che giustamente Testori, con la sua tempra da predicatore invasato, trovava assolutamente d’obbligo da visitare per i cultori della fede d’arte. Come una visita alla Mecca: una volta almeno nella vita. Altre istituzioni della bellissima cittadina premontana sono arricchite da mostre di documenti e memorie, che raccontano il culto della martire locale - ammazzata dalla matrigna cattiva - che ha un nome spettacoloso come Santa Panacea. Oppure incentrati sul rapporto grafico tra Varallo e Gerusalemme omaggiato da secoli di devozione e fantasia.

Le stigmate di Francesco, Varallo Sesia, Pinacoteca, fino al 15 agosto

autostorie

Quando Mr. Pavesini inaugurò l’era degli autogrill di Paolo Malagodi el 1947 l’industriale Mario Pavesi, che un decennio prima aveva avviata la produzione industriale dei tipici biscottini di Novara, realizzò il primo punto di ristoro sull’allora esigua rete autostradale italiana. All’altezza del casello di Novara, sulla Milano-Torino, l’edificio era composto da «un bar con grande nicchia di tipo paesano, spazi per mostra di prodotti dolciari e un pergolato esterno con tavoli e poltroncine». Preceduto da un’arcata pubblicitaria alta 14 metri, l’ambiente venne concepito come veicolo promozionale per il vicino biscottificio, che nel 1952 lanciò il marchio Pavesini e con l’aggiunta al primo locale di «un vero e proprio ristorante, improntato all’americana come

N

auto-grillroom». Termine subito abbreviato nel neologismo «autogrill», registrato come marchio commerciale nel 1952 e con nuove aperture di ristoranti autostradali: nel 1955 a Bergamo sulla Milano-Brescia nel 1958 a Lainate sulla Milano-Laghi e a Ronco Scrivia sulla Genova-Serravalle. Intanto erano partiti, nel maggio 1956, i lavori per l’Autostrada del Sole e tra gli studi preliminari uno, redatto da tecnici statunitensi, raccomandava particolare attenzione a tutti i bisogni del viaggiatore e del veicolo, in quanto a differenza della «strada normale che lambisce i centri abitati, l’autostrada necessita di una sua autonomia. Deve quindi disporre di aree di servizio comprendenti distributori di carburante e officine di manutenzione, ristorante e bar, bazar di articoli vari, toilettes, telefoni

pubblici, rivendite di tabacchi e giornali». Sulla scorta di tali criteri vennero individuate aree da affidare, in cambio di royalties sul venduto, alle maggiori compagnie petrolifere che si rivolsero, peraltro, a efficaci partner sul versante della ristorazione. La inglese Bp siglò così l’intesa con la Motta e il primo punto della catena Mottagrill venne aperto nel 1960 a Somaglia, tra Casal Pusterlengo e Piacenza; in parallelo l’Agip, già operativa nei motel, trovava in Alemagna la diretta rivale della Motta. Fu invece la statunitense Esso a farsi alleata la Pavesi, con l’inaugurazione alla fine del 1959 a Fiorenzuola d’Arda del primo autogrill europeo a ponte, tutto in acciaio e cristallo; anche se non tarderà la risposta della Motta, con una struttura similare nell’aprile 1961 a Cantagallo, pochi chilo-

metri sotto Bologna. «Dietro lo scintillio di quelle vetrine però, a partire dalla congiuntura del 1964, anche un’altra storia tutta italiana si andava svolgendo: quella del declino di un modello di capitalismo familiare interpretato dalle tre aziende Motta, Alemagna e Pavesi». Come osserva Simone Colafranceschi, nell’analisi (Autogrill, una storia italiana, Il Mulino, 128 pagine, 16,00 euro) di un fenomeno che vide il successivo coinvolgimento della Sme, finanziaria dell’Iri, con la costituzione nel febbraio 1977 della «Autogrill spa». Poi confluita a metà degli anni Novanta, per la privatizzazione delle autostrade statali, nel Gruppo Benetton che ne ha esportato il modello d’impresa oltre i confini e con un attuale fatturato della società Autogrill più importante all’estero che in Italia.


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ARCHITETTURA

L’eleganza dell’abitare che viene dal Nord

architettura dei paesi nordici ha sempre suscitato un’attrazione particolare sugli architetti italiani. L’esiguità dei segni, le geometrie semplici, gli asciutti volumi e l’incombenza di una natura selvaggia e a tratti ostile, sono elementi che caratterizzano questa architettura, realizzata con materiali semplici e naturali, con la predominanza di legno e laterizio, indifferente alle esuberanti soluzioni tecnologiche proposte dall’odierna industria delle costruzioni. Da tempo i paesi scandinavi sono consapevoli del valore propagandistico dell’architettura e di conseguenza promuovono con grande impegno, attraverso finanziamenti e concorsi pubblici, i giovani e i meno giovani architetti, offrendo loro non solo l’opportunità di progettare e di costruire, ma anche di far conoscere all’estero, attraverso mostre itineranti, conferenze e video, i propri lavori. Testimoniano questa intelligente politica promozionale due mostre allestite in questi giorni alla romana Casa dell’Architettura, dedicate alla Norvegia e patrocinate direttamente dall’ambasciata norvegese a Roma. L’una, promossa dal National Museum of Art, Architecture and Design e sponsorizzata dal Ministero norvegese degli Affari Esteri, è dedicata alle migliori architetture realizzate tra il 2000 e il 2005: essa è curata, nella tappa italiana, da Antonello Alici, docente all’Università di Ancona, spe-

L’

di Marzia Marandola cialista di architettura moderna del Nord Europa. L’architettura norvegese del secondo Novecento è inevitabilmente associata all’ultraottantenne Sverre Fehn, il più importante e talentoso architetto norvegese, al quale quest’anno sarà dedicato il padiglione dei paesi nordici alla Biennale di Architettura di Venezia. La mostra presenta, con fotografie, disegni, modelli e filmati, 50 progetti, che vanno dalle residenze unifamiliari al riuso di edifici industriali; da palazzi per uffici, a scuole, ponti e chiese. Le opere sono caratterizzate e accomunate da un uso elegante di volumetrie semplici, ordite su

impianti planimetrici complessi e sofisticati, da tecniche di costruzione particolarmente accurate, da dettagli costruttivi eseguiti con minuziosa perizia. Tra esse si segnala, oltre al suggestivo Museo nazionale della Fotografia a Horten, che Fehn ricava all’interno di un edificio industriale, il piccolo hotel a Kirkenes di Sami Rantala. L’edificio in legno, di 6 metri per 2,5, alto 5, ideato sul mare come rifugio di velisti e pescatori, disegna un elegante parallelepipedo che alterna fronti ciechi a grandi vetrate ed è stato realizzato in solo otto giorni. Non tutte le opere esposte convincono: tra le meno riuscite spicca l’elefantiaca biblioteca di Alessandria in Egitto di Snohetta AS, le cui mastodontiche dimensioni derivano dalla banale intersezione di volumi elementari, che non riescono a diventare architettura. La seconda mostra dal titolo Lost in nature, curata da Francesca Argentero, mette a fuoco la produzione dello studio di Oslo, JVA, fondato nel 1996 dai giovani Jarmund, Vignaes e Kosberg. Debitori all’insegnamento di Fehn, soprattutto nei progetto del Governor of Svalbard, i giovani architetti declinano con sommesso lirismo l’elegante tradizione scandinava dell’abitare.

Contemporary Norwegian architecture 2000-2005, a cura di A. Alici; Lost in nature, a cura di F. Argentero, Casa dell’architettura, Roma, fino al 26 giugno

MODA

Tutte al mare ma all’insegna di un ritrovato pudore asta con le scostumate, era ora. Dal tempo del bikini, esplosione atomica dello scandalo, i costumi da bagno hanno avuto il curioso destino di rimpicciolirsi sempre più, sino a pochi centimetri, per raggiungere il minimalismo assoluto del tanga di Gucci, o di un famoso due pezzi Chanel, cinquanta grammi di cotone o maglia al massimo, dove con

B

di Roselina Salemi tutti gli sforzi creativi possibili, c’era poco spazio (e non in senso figurato) per inventare qualcosa. Forse c’è una ragione se la parola d’ordine delle collezioni mare 2008 è «rivestirsi», almeno in spiaggia (in discoteca non ancora). E mai come in quest’estate che fatica a cominciare, sono arrivati costumi interi, costruiti, sartoriali, con bottoncini, cristalli Swarovski, ciondoli d’oro, incroci, oblò, spirali, laccetti e castigatissime citazioni vintage. Victoria Secret’s poi, ha lanciato il «Tankini», una maglietta che copre l’ombelico, coordinata allo slip che volendo, può trasformare il costume quasi-intero in un topless. E così, andiamo dalla lingerie, rivista e corretta (Wolford) al due pezzi da sera, con sopra un lungo caftano o un pigiama palazzo (li ha mandati in passerella Blumarine), dalla famosa mutanda alta dei film anni Cinquanta alle nostalgie di Saint-Tropetz, nell’indimenticabile stagione di Brigitte Bardot. E tutti si voltano indietro, come se fosse meglio non guardare il futuro negli occhi, salvo essere cautamente barricati dietro occhiali da sole con lenti colorate. Ora, a parte l’ovvia considerazione che le donne normodotate e non chirurgicamente trattate per adeguarsi

al modello Naomi Campbell hanno qualche speranza in più di trovare un modello e una taglia, c’è già chi ha visto in questo mutamento (il sociologo americano Norman Westbrook) un segnale di recessione economica, uno dei tanti. Insomma, sembra che ai periodi di ricchezza si accompagni l’esibizionismo (minigonna, nude-look, tanga/filo interdentale) e a quelli di crisi, di ripiegamento sul privato, l’interesse per la lingerie, più che per i vestiti, e una qualche forma di ritrovato pudore. L’erotizzazione dell’abbigliamento, che ha tolto di mezzo il superfluo (bustini, corsetti, sottovesti) e ha svelato tutto lo svelabile, ha reso le donne molto sexy, ma meno desiderate. Più sono rimodellate, plastificate, perfette, più si presentano come corpi intercambiabili, senza mistero, perciò senza interesse. La moda intuisce e provvede. Non è detto che dietro gli stilisti e il marketing ci sia questa gran sociologia. Può anche essere intuizione, semplice buonsenso. O un altro modo per dettare regole anche nel luogo della libertà per eccellenza, uno degli ultimi rimasti, la spiaggia. Beachwear per tutti. Perché ogni costume ricrea un mondo: lustrini, sciarpe, frange, cavi-

gliere e bag in vinile per miss Bikini, cinture luccicanti, occhiali verniciati a mano e trench di spugna per Fisico, collane di resina, piastre metalliche e persino piume per la Perla, cappelli, catene e tocchi tribali un po’ ovunque, in uno sforzo estremo di body decoration che significa semplicemente «guardami».


MobyDICK

pagina 16 • 21 giugno 2008

I MISTERI DELL’UNIVERSO

Ötzi? Sopravvisse

lla domanda nei Promessi Sposi «Carneade, chi era costui?» rispondere non era difficile a quei tempi, quando la conoscenza del mondo classico era assai più approfondita di oggi, gli studiosi leggevano senza difficoltà il latino con cui spesso comunicavano fra loro. Ma alla domanda «chi era Ötzi» probabilmente mai si potrà rispondere con certezza, essendo passati oltre 5000 anni dalla sua morte. E tuttavia alcune ipotesi ragionevoli e anche suggestive è possibile farle. Ötzi è il nome dato al corpo che circa vent’anni fa fu scorto emergere dal ghiaccio in via di scioglimento a circa 3200 m. di altezza sul passo di Similau, che collega la Val Venosta all’Austria. Si tratta di un passo utilizzato da tempi immemorabili dai pastori. All’inizio si ritenne che il ritrovamento fosse avvenuto Austria, per cui il corpo fu portato a Innsbruck per una serie di esami, che hanno dato origine almeno a un libro. Poi, accertato che il luogo del ritrovamento era situato in Italia, fu restituito e ora si trova nel museo di Bolzano.

A

ai confini della realtà

al diluvio universale

Il corpo è una mummia conservata dal freddo e dal ghiaccio. Ben noti sono i corpi perfettamente conservati che si ritrovano nel permafrost della Siberia e dell’Alaska, anche di animali grandi come i mammut (uno recentemente ritrovato nella penisola del Taymir - dove Krusciov esplose la famosa bomba all’idrogeno da circa 50 megatoni - è stato lentamente scongelato con la speranza, andata delusa, di ricavarne dna per una clonazione). Mummie di bambini, immolati in sacrifici umani, conservate dal freddo si sono ritrovate sulle cime delle Ande. Mummie possono essere prodotte anche da un clima molto secco, come

di Emilio Spedicato quelle di personaggi tocarii, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, nel Lob Nor, nel cuore dell’Asia; o anche da processi di salinizzazione, come quella perfetta di epoca romana in una delle antiche miniere di sale presso Salisburgo. Le mummie egiziane sono invece solitamente il prodotto di un processo artificiale, ben descritto da Erodoto, in cui si utilizzavano materiali vari, fra cui tabacco di provenienza quasi certamente americana. Il corpo di Ötzi era quasi intatto, salvo la scomparsa degli organi genitali, probabilmente asportati da qualcuno degli scopritori. In sua prossimità sono stati ritrovati una tunica con tasche contenenti materiale per accendere il fuoco e medicinali; un impermeabile fatto con un tipo di erba ad alto fusto, virtualmente del tipo usato a fine Ottocento

(la cui provenienza non è stata ancora analizzata). Quindi un personaggio con una dotazione importante, che doveva corrispondere a un ruolo speciale. In un primo tempo la morte fu considerata avvenuta all’inizio dell’autunno, ora si parla dell’inizio dell’estate. La presenza di una punta di freccia nella spalla ha fatto pensare che fosse stato ferito, e fosse fuggito in luogo alto per morire. Tuttavia appare strano che il corpo non fosse stato spogliato, o ritrovato e seppellito nel modo solito, o comunque non attaccato dagli animali, quando le Alpi erano piene di linci, orsi e lu-

Molte le ipotesi sull’uomo di ghiaccio, morto cinquemila anni fa e ritrovato sul passo Similau. Forse legato da parentela al Mannu dei Germani di cui parla Tacito, potrebbe essere stato inviato oltre le Alpi a informare i vicini dell’imminente pericolo. Ma sulla via del ritorno… sui monti del Piemonte e a metà Novecento in Manciuria; un grande arco con dodici frecce prive di punta e due con la punta; un pugnale e una scure di rame

pi… Fra le recenti proposte per spiegare la morte di Ötzi ricordiamo quella di Hempsell, Università di Bristol, secondo cui potrebbe essere morto per gli ef-

fetti dell’esplosione di un oggetto asteroidale che avrebbe formato il quasi cratere di Koefels, non molto lontano. Tuttavia tale cratere è datato a migliaia di anni prima e l’esplosione dovrebbe avere mutilato il corpo per effetto del calore, del terremoto, dell’onda atmosferica; e quella di Nisi, Museo di Trento, secondo cui la morte sarebbe avvenuta per un sacrificio rituale, di una persona di grande spicco.

Il sottoscritto, osservando che la data proposta corrisponde grosso modo a quella dell’atteso diluvio biblico, e che uno dei sopravvissuti, il Manu dell’Avesta, è presumibilmente il Mannu dei Germani di cui parla Tacito, signore dei Camuni (ka-manu, popolo di Manu), ritiene che Ötzi potesse essere un parente di Manu, anche lui grande saggio, inviato oltre le Alpi a informare i vicini del pericolo imminente. Al ritorno sarebbe stato sorpreso dall’arrivo del diluvio, che sulle Alpi avrebbe generato una nevicata di cento o più metri. Ötzi avrebbe capito di non potere salvarsi, si sarebbe sdraiato sul sacro menhir a forma di triangolo-piramide trovato vicino a lui, attendendo la dolce morte sotto la coltre di neve. E quindi in Ötzi avremmo l’unico uomo il cui corpo sia sopravvissuto, i cui occhi abbiano visto arrivare, dall’Atlantico, l’immensa nube che Utnapishtim vide arrivare nera nel cuore dell’Asia….


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