Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal
mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Il remake di “La parola ai giurati”
MICHALKOV RILEGGE LUMET di Anselma Dell’Olio l film 12, remake di La parola ai giurati di Sidney Lumet, è un sontuoso ri e su schermi giganti. Ha, però, vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino e ha “12” banchetto per gli appassionati del cinema-cinema e della prova d’atavuto tre candidature all’Oscar.) Michalkov e i suoi cosceneggiatori hantore. Il titolo geniale (tanto breve quanto il film è lungo: due ore no mantenuto la robusta struttura classica, i profili del reato da giuè ambientato e mezzo senza un attimo di troppo) richiama quello dell’aldicare e i dodici giurati, modificando e adattando il tutto con elein una Mosca nevosa, trettanto geniale sceneggiatura originale di Reginald Rose, gante perizia alla realtà russa. I giurati vengono rinchiusi in dove una giuria è chiamata 12 Angry Men (12 uomini arrabbiati). Nata come teleuna stanza per giudicare una grave accusa di parriciplay, come si chiamavano le fiction negli anni dio: un ragazzo poco più che adolescente avreba pronunciarsi su un’accusa di parricidio. Sullo Cinquanta, l’epoca d’oro della televisione be ucciso a coltellate il padre. Sembra «un sfondo l’antica inimicizia tra russi e ceceni con splendidi americana, è poi stata girata come opera pricaso aperto-e-chiuso» come lo definiscono gli flashback sulla guerra. Ma chi immagina ma per il grande schermo dall’intramontabile Sidanglosassoni, una faccenda talmente chiara da ney Lumet nel 1957, con Henry Fonda protagonista. non richiedere nemmeno una vera discussione, ma di trovarvi una critica nei confronti Uno dei più coinvolgenti e amati courtroom drama (dramma appena un’unica votazione: tanto l’obbligatoria unanimità di Putin si sbaglia processuale) di tutti i tempi, non si resiste alla tentazione di rifarverrà raggiunta subito al primo turno. lo, nonostante la delusione al botteghino del film di Lumet. (Era di fordi grosso... continua a pagina 2 mat tradizionale, in bianco e nero mentre iniziavano a imporsi i film a colo-
I
9 771827 881301
80628
ISSN 1827-8817
Parola chiave Hobby di Rino Fisichella La nuova pelle dei Coldpaly di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Villon, la forza antica e moderna della compassione di Roberto Mussapi
Tre donne, tre storie sul futuro del mondo di Maria Pia Ammirati La carica dei milleuno di Massimo Tosti
Il talento di Sambonet in mostra a Torino di Marco Vallora
Michalkov rilegge
pagina 2 • 28 giugno 2008
lumet
A sinistra alcune foto di scena di “12” A destra Nikita Michalkov, regista del film e attore nel ruolo del giudice. In basso una scena di “La parola ai giurati” di Sidney Lumet con Henry Fonda protagonista
segue dalla prima Non sarà così, naturalmente. Un unico uomo (Henry Fonda nell’originale, qui l’ugualmente raffinato e mite Sergej Makovetskij, nel ruolo del protagonista descritto solo come «giurato n. 8» nel copione) si oppone a un verdetto tanto frettoloso, e sono i suoi dubbi rocciosi che scatenano l’ira degli altri giurati e danno l’avvio alla storia. Quel che segue non è soltanto un dibattito sui diversi elementi del caso che argomenta la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, ma dialoghi e monologhi che finiscono per rivelare esperienze, cultura, pregiudizi, carattere, meschinità e/o larghezza di spirito dei giurati stessi.
Il film di Lumet è ambientato a New York, i giurati si riuniscono in un’aula standard abitualmente adibita alle deliberazioni delle giurie, l’imputato è latino americano e rischia la sedia elettrica. Nel film di Michalkov siamo a Mosca sotto la neve, i giurati sono fatti accomodare nell’enorme palestra di una scuola ancora in ristrutturazione adibita provvisoriamente ad aula, e l’accusato è un giovane ceceno, figlio adottivo della vittima, un ex ufficiale dell’esercito russo di stanza in Cecenia. Invece della pena di morte, rischia l’ergastolo. La straordinaria bravura degli attori russi non ha nulla da invidiare al pur eccellente cast di Lumet, dunque riesce a far dimenticare la minore drammaticità della pe-
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
na potenziale. Infatti la perorazione iniziale dell’unico giurato dissenziente ruota intorno alla necessità di dare all’imputato, che potrebbe passare il resto della vita in galera, almeno la dignità di un dibattito serio prima di condannarlo, tanto più che le prove contro di lui sono esclusivamente circostanziali. E meno male che in giurisprudenza c’è la possibilità del «ragionevole dubbio», che se esiste altrove è grazie al diritto anglosassone. In Italia, fino ad anni non così lontani, c’era l’obbrobrio giuridico della «insufficienza di prove», che ledeva il diritto di ogni cittadino a essere ritenuto pienamente innocente fino a prova contraria. Michalkov, con un’onorata carriera d’attore in parallelo a quella di regista, ha riservato per sé il ruolo piccolo ma incisivo di presidente della giuria, che guarda caso si esibirà nell’arringa finale. Tutti, tranne il giurato n. 8, entrano nell’aulapalestra esprimendo una gran fretta di andarsene e la certezza che il ceceno è colpevole. Sono tutti presi dalla necessità di rispettare appuntamenti irrinunciabili: chi deve vedere un certo programma tv, raggiungere una tournée, un treno, un aereo, una colazione
fondamentali. Come in tutte le giurie che si rispettano i componenti sono variegati: uno è produttore televisivo, un harvardiano in doppiopetto gessato e pochette che ha studiato management (Jurij Stojanov, un Edmund O’Brien russo); un altro è un tassista razzista (Sergej Garmash) che dà i brividi raccontando come i suoi bestiali tormenti hanno portato il figlio a un tentativo di suicidio evitato per puro caso; un chirurgo caucasico, provocato da una tirata razzista sull’efferatezza innata dei ceceni, si esibisce in un meraviglioso e inquietante numero da circo con un coltello affilato. Né poteva mancare un anziano ebreo llituano, il secondo a du-
bitare della colpevolezza del ceceno. È lui che dice di aver notato che l’avvocato difensore era annoiato, distratto, con tutti i segni dell’alcolista, e non metteva alcun impegno nella difesa del
Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551
suo assistito. Quando il folletto lituano dice di essere ebreo grazie a un solo genitore, un altro osserva che «non esistono ebrei a metà». E lui, con sardonica ironia yiddish, ribatte: «È cosa buona o cattiva?».
L’antica inimicizia tra russi e ceceni è lo sfondo che arricchisce il film, con splendidi flashback sulla guerra cecena, i genitori dell’imputato e la loro morte in un conflitto a fuoco, la sua adozione da parte dell’ufficiale russo, antico amico della sua famiglia. Era inevitabile che alcuni critici (specie italiani) ritenessero di vederci una critica, più o meno larvata, alla politica di Putin, ma si sbagliano di grosso. Michalkov è un nazionalista russo, noto sostenitore e apologeta del discusso leader, tanto da aver prodotto un programma tv in onore dei 55 anni di Putin, e aver aggiunto la sua firma a una lettera aperta dell’ottobre del 2007, che chiedeva al leader di non ritirarsi alla scadenza del suo mandato. Ha dato anche il suo sostegno diretto al diritto della Serbia alla sovranità sul Kosovo. Il regista ha attraversato tutti i passaggi politici del suo paese con un’abilità da funambolo.
Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69920542 • fax 06.69922118
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817
12 Genere Commedia Durata 153 minuti Produzione Russia 2007 Distribuzione 01 Distribution Regia Nikita Michalkov Interpreti Nikita Michalkov Sergej Makovetskij Segej Garmash Aleksej Petrenko Valentin Gaft Jirij Stojanov Michail Efremov Sergej Gazarov Aleksandr Adabashjan Viktor Verzhbitskij Aleksej Gorbunov Roan Madjanov Sergej Artsybashev
Ha fatto parte, come i genitori, dell’élite letteraria e d’apparato del regime comunista, è atterrato indenne, attivissimo e carico di gloria nel presente turbolento. A 65 anni il vecchio marpione conserva un fascino erotico irresistibile e una creatività che smentisce la massima di Quentin Tarantino che i registi diventano mediocri dopo vent’anni di carriera. 12 avrebbe meritato il Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2001 invece del mediocre film di Ang Lee, che nessuno più si ricorda. Da vedere subito, prima che sparisca.
La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it
MobyDICK
parola chiave
28 giugno 2008 • pagina 3
HOBBY come hobby. Parola inglese che in origine indicava il cavalluccio di legno con il quale si divertono i bambini, da qui il valore semantico è passato a esprimere un passatempo. Il termine si sta imponendo sempre più per i ritmi frenetici della nostra vita; ognuno ha bisogno di un hobby e lo esprime in diverso modo. Indica l’attività dell’uomo a organizzare il proprio tempo libero per dedicarsi a ciò che realmente piace, appassiona e si ama. Possiamo tradurre il termine con diversi sinonimi che riproducono la tessa realtà: divertimento, gioco, svago… non sono altro che svolgimento dello stesso tema. L’uomo ha bisogno di esprimere se stesso anche nel gioco perché lì trova lo spazio per provare piacere e dare benessere alla sua esistenza. Questa gioia viene sentita come necessaria in quanto permette di esprimere se stessi con la propria fantasia, il rispetto delle regole, l’evasione momentanea dalle preoccupazioni quotidiane. Il divertimento, per alcuni versi, appartiene alla natura dell’uomo perché gli consente di rapportarsi alla natura e al mondo in modo diverso quasi a voler addestrare se stesso alle attività che garantiscono la conservazione dell’organismo. Questa comprensione dell’hobby attraversa l’intera storia del pensiero. Filosofi del peso di Aristotele e Kant si sono confrontati con il gioco; gli psicologi e pedagogisti ne hanno voluto interpretare il ruolo soprattutto nello stadio dell’infanzia, come la forma mediante cui si inizia a prendere coscienza di sé e a imporre la propria presenza nella società, ma anche i teologi hanno accennato a qualche riflessione in proposito vedendolo come lo spazio per poter meglio contemplare la bellezza del creato. Homo ludens, quindi, appartiene di diritto alla descrizione di noi stessi e di ciò che siamo; come intravediamo in noi l’homo faber, religiosus, viator… così non possiamo scrollarci di dosso anche l’orizzonte ludico del nostro essere nel mondo.
H
Nel mondo contemporaneo il divertimento ha acquistato un ruolo spesso dominante. Non tanto la cultura del gioco, quanto quella del guadagno mediante il gioco ha segnato non poco il comportamento delle persone. Se l’hobby viene vissuto fuori dal necessario equilibrio che deve contraddistinguere la vita personale, allora diventa una fuga e un’alie-
In origine la parola inglese indicava il cavaluccio a dondolo dei bambini. Ma oggi la cultura del gioco ha perso l’innocenza e il necessario equilibrio. Il bisogno di svago che ci domina è spesso una fuga. Un’alienazione…
Non cogito ergo sum di Rino Fisichella
Filosofi del peso di Aristotele e Kant si sono confrontati con il gioco e anche teologi lo hanno visto come uno spazio per poter meglio contemplare la bellezza del creato. L’homo ludens appartiene di diritto alla descrizione di noi stessi e di ciò che siamo. Non possiamo scrollarci di dosso l’orizzonte ludico del nostro essere nel mondo nazione. Ritornano con forza le parole estremamente provocatorie di Pascal quando riflettendo sul tema scriveva: «La sola cosa che ci consola nelle nostre miserie è il divertimento e, tuttavia, è la più grande delle nostre miserie: perché è proprio quello che ci impedisce principalmente di pensare a noi e che ci porta inavvertitamente alla morte. Senza il di-
vertimento noi saremmo immersi nella noia e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più sicuro per venirne fuori, ma il divertimento ci piace e così ci fa arrivare inavvertitamente alla morte». Il problema, dunque, sta tutto qui: perché cerchiamo il divertimento? Vediamo giovani che non attendono altro che il fine settimana per gettarsi tra
le braccia di un insano divertimento. Rimanere per ore in una discoteca storditi dai decibel di musiche elettriche, dimenticare se stessi per rincorrere sogni illusori, frutto di miscele micidiali non è altro che una fuga dalla quotidianità a cui non si riesce o non si vuole dare senso. Forse, ha ragione proprio Pascal quando scrive in un altro pensiero: «Gli uomini non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci».
Il dramma di questo tipo di divertimento è sintetizzato in questo «non pensare», come se fosse la soluzione a tutti i nostri mali. Se il divertimento rincorre questa prospettiva ci porta fuori strada. Sarebbe simile a un bolide guidato a tutta velocità da un ubriaco che alla prima curva si schianta, lasciando solo rottami. La vita non può essere distrutta in un gioco che porta alla dissoluzione di sé, sarebbe assurdo e non sarebbe più neppure «divertimento». Attendere il fine settimana solo per «non pensare» non è umano. Esso diventa alienante alla pari del lavoro che si vuole dimenticare per qualche ora. La vita non è fatta a scompartimenti stagno, per cui se ne chiude uno e se ne apre un altro senza alcuna relazione con il precedente. È solo nella misura in cui consideriamo noi stessi come un’unità fondamentale in cui ogni realtà dipende dall’altra e la determina che possiamo giungere a comprendere il valore fondamentale che ogni persona possiede in tutte le sue manifestazioni. Non viviamo del frammento, ma della totalità e, in ogni caso, il frammento deve appartenere al tutto altrimenti non ha possibilità di esistenza. Questa prospettiva vale anche per il divertimento. Lo possiamo vivere come ricerca e spazio di felicità solo nella misura in cui lo identifichiamo come un momento che insieme ad altri ci relaziona e ci completa. Non possiamo farne un assoluto, ma neppure privarcene per l’assillo del lavoro e del guadagno. Il corpo, la mente, lo spirito vivono di equilibrio e riescono a esprimere al meglio la loro funzione quando sono posti nella condizione di non sopraffarsi a vicenda. Il sano divertimento, pertanto, quello che si vive per dare ristoro alla mente e al corpo, è uno spazio che ci appartiene e di cui non possiamo fare a meno.
MobyDICK
pagina 4 • 28 giugno 2008
ROCK
musica
Coldplay Viva la vita in technicolor D di Stefano Bianchi
alla nuda semplicità alla grandeur. Ve la sintetizzo così, la nuova «pelle sonora» degli inglesi Coldplay. Ben visibile, ancor prima d’averli ascoltati, sulla copertina del loro cd che riproduce La libertà che guida il popolo, ottocentesco dipinto di Eugène Delacroix con la Marianne francese in prima linea. E poi il titolo del disco: Viva la Vida. Legato a doppio filo all’omonimo quadro pieno di cocomeri carichi d’un rosso vivo, che la messicana Frida Kahlo dipinse nel 1954 pochi giorni prima di morire. Scelte còlte, coltissime. Che il vocalist e pianista Chris Martin, leader della band da 30 milioni di dischi venduti, giustifica così: «Abbiamo voluto uscire da un mondo in bianco e nero per scoprirne uno a colori». Raggrumato, aggiungo io, in un viavai d’ottimismo e di pessimismo, enfasi mistica, vita, morte. E dopo Viva la Vida, guarda caso, c’è un significativo Or Death And All His Friends che chiosa la frase. E allora dimentichiamoci quei Coldplay che nel 2000 misero il silenziatore al rock sbandierando con Parachutes il bello d’una musica ete-
rea, soft, sottotraccia. Voce e pianoforte su tutto il resto, quasi sempre: per zittire il furor di decibel del Britpop, inclusa quell’insopportabile cagnara fra Oasis e Blur. Il quartetto di oggi (con quel ragazzo della porta accanto d’un Martin, che nel frattempo ha sposato l’attrice Gwyneth Paltrow togliendo ogni pia illusione alle fan) mastica suoni più densi e sanguigni, frutto non solo di decisioni condivise ma dall’aver pe-
in libreria
scato due produttori, Markus Dravs e Brian Eno, capaci di cavalcare la «rivoluzione». Ed è proprio quest’ultimo il «responsabile» della svolta: l’inventore dell’ambient music, lo «stratega obliquo» bravo a sollecitare band e solisti a ridisegnare il proprio suono rendendoli comunque riconoscibili. È successo col David Bowie di Low, Heroes, Lodger e Outside, e con gli U2 di The Unforgettable Fire e The Joshua Tree. Forse, Eno, ha calcato un po’
troppo la mano se i Coldplay di Life In Technicolor e di Cemeteries Of London sguazzano come pesci fuor d’acqua nella classica epicità di Bono & Co. Ma sono gli unici difetti del disco: gli U2 sono gli U2 e basta, diffidate dalle imitazioni. Per il resto, il feeling fra lo stratega e i quattro condottieri londinesi fila via liscio come l’olio: il primo confeziona le proverbiali stratificazioni elettroniche, mentre loro disegnano con Lost! una ballata dal retrogusto Pink Floyd, e con 42 una melodia per piano, voce e orchestrazioni che si evolve in un progressive rock anni Settanta. E oltre a rivelarsi azzeccate la classicheggiante Viva la Vida e la folkeggiante Strawberry Swing, spiccano i brani dal titolo «sdoppiato»: Yes/ Chinese Sleep Chant, fra accenni mediorientali e rock battente; Lovers In Japan/ Reign Of Love, fra strappi chitarristici e momenti di quiete. Quella quiete, un tempo assoluta, che forse rimpiangeremo un po’. Ma la vita dei Coldplay, si sa, ormai è in technicolor. Coldplay, Viva la Vida, Parlophone/Emi, 20,60 euro
mondo
riviste
QUEI FAVOLOSI ANNI... SETTANTA
“THE FINAL TWO” PER GEORGE MICHAEL
FIOCCO ROSA PER GLI INTERNAUTI
D
opo il successo di Ballarono... dedicato agli anni Sessanta, Alberto Tonti sforna una nuova fatica e ci conduce in un «viaggio nel ”lato B”» della musica leggera italiana dei fatidici Settanta. E, come dice Leda Costa nella prefazione di Ballarono una sola estate (Rizzoli, pagine 134), riesce «a rendere, più e meglio di tanti saggi, il senso di un’epoca».Tenendo per una vol-
D
opo The Final, ultimo concerto dal vivo allestito a Wembley nel 1986 con cui i Wham! si congedarono dalle scene, George Michael replica l’addio alla carriera di solista con The Final Two doppio spettacolo organizzato all’Earl’s Court di Londra per il 24 e 25 agosto. Estenuato da vicende umane e professionali che lo hanno condotto attraverso scandali, cadute e trionfi nel corso di una carriera
i chiama PopOn la una nuova rivista online dedicata solo alla Musica Italiana e nasce dalla fusione di «Pop», cioè popolare, e «On» ossia online. Notizie in tempo reale, interviste agli artisti del momento, concerti, recensioni, biografie, sondaggi e classifiche sono solo alcuni degli ingredienti della novità editoriale, cui si può accedere tramite il sito www.popon.it. In PopOn, nato da un’idea delle giornalista e Paola De
La prima guida a cura di Alberto Tonti sui gruppi meno famosi e dimenticati di quarant’anni fa
L’addio alla carriera come solista previsto il 24 e il 25 agosto con un doppio spettacolo a Londra
Da un’idea di Paola De Simone nasce “PopOn”, dedicata solo alla musica italiana
ta come sfondo il ritratto di un paese in cui risuonano sinistri echi di pallottole, latinismi (referendum) e neologismi (austerity), slogan femministi e operai, il libro restituisce storie esemplari di illustri sconosciuti e gruppi quasi dimenticati, come i Delirium di un Ivano Fossati ancora lontano dalle vette di La costruzione di un amore, «ma non per questo meno lirico», o gli Albatros di un Toto Cutugno «poco patriottico». Nel cd che accompagna il libro, quindici canzoni che hanno fatto ballare, sognare, innamorare un’intera generazione, ma che si erano perse nella nebbia della memoria.
costellata comunque da un costante ritorno al botteghino e l’immutato affetto dei fan, Michael lascia dopo settanta concerti tenuti in Europa nell’ultimo anno e mezzo. A turbare sul nascere la prospettiva del buen retiro, è arrivato però l’ex manager degli Wham! Simon Napier-Bell, che dopo aver firmato il consenso per la realizzazione di un documentario sulla band di Wake me up, ha del tutto stravolto i piani della rock-star. Infastidito e turbato da possibili mistificazioni, Michael ha infatti preteso di aver parte attiva nella stesura della sceneggiatura, e sarà inoltre, obtorto collo, presente nelle fasi di ripresa del lavoro.
Simone, trovano spazio anche gli addetti ai lavori, non solo per attingere informazioni, ma per farsi meglio conoscere grazie a due sezioni specifiche: «Voci» e «Dietro e dintorni». La prima è uno spazio messo a disposizione di chi lavora nel settore per proporre riflessioni, fare appelli, lanciare messaggi o condividere pensieri. Il secondo è uno spazio a cura della redazione, chiamata a scegliere di volta in volta i professionisti da intervistare. Se poi si vuole lasciare un messaggio nel Forum o più semplicemente ricevere la newsletter per essere sempre aggiornati sulle novità della musica italiana, basta un click per effettuare la registrazione al sito.
S
MobyDICK
28 giugno 2008 • pagina 5
zapping
LA COVER PEGGIORE Céline Dion batte gli Ac/Dc di Bruno Giurato econdo il lettori della rivista Total Guitar, la peggiore cover della storia è You shook me all night long degli Ac/Dc rifatta da Céline Dion in un concerto a Las Vegas. Presi dal gusto del trash siamo corsi a vedere su youTube. Niente di terrificante, dopotutto. La signora del pop e del canto di classe si agita sul palco mimando le schitarrate, duetta con una ben più grintosa Anastacia. Niente di peggio della cover non dichiarata di Amy Winehouse ammannita al pubblico televisivo da Giusy nella puntata finale di X Factor. Poi però abbiamo dato un’occhiata al testo della canzone, il racconto di una scioccante notte di sesso nell’originale è cantato da un uomo, quindi dedicato a una donna, mentre in questo caso i generi si invertono. Gli «she» in bocca alla Dion diventano «he» dando origine a una fantastica parodia involontaria. Un verso come she’s the fastest woman I’ve never seen (lei è la donna più eccitabile che abbia mai visto) mercé l’aggettivo fast si trasforma in una bislacca lode (ebbene sì) dell’eiaculazione precoce. E non si vorrebbe insistere più di tanto su metafore tecniche, ma bisogna notare che il già piuttosto sconcio «lei tiene il suo motore pulito» riferito a un maschio si carica di una qualche ambiguità impertinente. E insomma, la cover premiata qui ci mostra che la parità dei sessi è per fortuna ancora un’illusione. Se mai avremmo la curiosità scientifico/sociologica di ascoltare un cambio di genere ugualmente comico in una canzone italiana. Per esempio una Donna con te di Anna Oxa riarrangiata in Uomo con te da un cantante. Ci spelleremmo le mani di fronte a «sarò un uomo che ritrova la sua mascolinità/e te la regalerà».
S
CLASSICA
La clemenza di Tito ai tempi del Duce di Jacopo Pellegrini difficile credere che La clemenza di Tito, ultima fatica teatrale di Mozart (Praga, 6 settembre 1791; ampie porzioni del Flauto magico, andato in scena qualche giorno più tardi a Vienna, erano state composte in precedenza), sia apparsa tanto di rado in Italia quanto risulta dalla cronologia pubblicata sul programma di sala del nuovo allestimento, direttore Roberto Abbado regista Graham Vick, andato in scena al Teatro Regio di Torino. Una trentina di esecuzioni in tutto, dal 1809 a oggi: non dunque la prima nazionale vantata dall’anonimo, e asinino, estensore d’una presentazione apparsa su un settimanale allegato a un importante quotidiano, ma una quasi rarità sì. Gravano sul Tito, o almeno gravavano fino a non molto tempo fa, pregiudizi legati ora alla sua origine «ufficiale» per l’incoronazione di Leopoldo II a re di Boemia (quasi che le tre opere viennesi su testo di Da Ponte non fossero anch’esse il frutto d’una commissione dall’alto), ora alla fonte librettistica aulica, un’altrettanto «ufficiale» tragedia per musica di Metastasio (1734) rifatta alla moderna da Mazzolà, ora ai tempi ridotti disponibili per la composizione. Un incarico svolto di malavoglia, si diceva; un esercizio d’alta accademia, «la cui bellezza - dove c’è - è marmorea» (Massimo Mila). Tutt’al contrario, l’opera seria italiana stava salda in cima ai pensieri e ai desideri di Amadé fin dai tempi d’Idomeneo (1781). E anche il soggetto aulico gli si attagliava a puntino, nel suo ergere a baluardo contro il potere devastante delle passioni (Vitellia, Sesto) i valori eterni di equilibrio temperanza elevazione spirituale (Tito): Mozart era un figlio dei Lumi e cantore dell’assolutismo illuminato, non un giacobino né un romantico. Per distinguere, diciamo pure contrapporre i valori in giuoco (incarnati nelle figure agenti) il compositore ricorre a un espediente semplice quanto eloquente: assegnare ai personaggi arie di taglio diverso in base non solo alla gerarchia interna dei ruoli, ma anche all’indole e alla funzione drammaturgica di ciascuno: semplici arie doppie per i caratteri schietti lineari buoni (Servilia, Annio), la complessa, frastagliata struttura «a rondò» per quelli emotivamente instabili e lacerati (Vitellia, Sesto), la tradizionale forma col «da capo», salda regolare razionale, per l’Imperatore. Osservato da questa prospettiva, Tito, personaggio volentieri sottovalutato, riconquista il centro del quadro.
È
A patto che il tenore incaricato della parte sia all’altezza del compito gravosissimo: a Torino Giuseppe Filianoti, eccellente nella recitazione scenica e, limitatamente ai recitativi, in quella vocale, costituiva il limite di uno spettacolo non esente da difetti, nondimeno prodigo di spunti rivelatori, ben degno nell’insieme del cartellone imbastito dal Regio, tra i più allettanti della Penisola. Inappuntabili la Harnisch e la Pini, buono Orfila, sopraffina l’aulica eppur fervidissima Bacelli, non si capisce perché la Remigio voglia infliggere ai suoi maestosi mezzi di soprano lirico la sferza di ruoli da drammatico. La sostenutezza classica, asciutta e tagliente, perseguita da Abbado odora un po’ di prassi esecutive originali e conferisce magnifico rilievo ai recitativi accompagnati dall’orchestra e agli interventi dei fiati, momenti entrambi delegati a svelare il non detto. Un po’ più di abbandono qua e là avrebbe forse giovato al canto e a una più intima sintonia colla gestualità febbricitante voluta da un Vick ben conscio della piena sentimentale sottesa alla musica. Qualche sospetto di pretestuosità, invece, per l’ambientazione nella Roma fascista, tra squadristi in fez e signore in lamé (scena fissa e costumi Jon Morrell): la progressiva alienazione, fisica e mentale, cui va incontro un Tito vittima della propria incontaminata e indefettibile clemenza (notazione psicologica sottile) mal s’attaglia alla figura storica del Duce, pazzo forse, assassino di certo.
JAZZ
“Tenderly” e l’inimitabile voce di Sassy
di Adriano Mazzoletti na piccola città del Sud, Montemiletto in provincia di Avellino passata alla storia del jazz per aver dato i natali a Francesco Saverio Guarente che negli anni Venti fu uno dei più importanti jazzmen a New York, ha deciso di dedicare un concorso internazionale per il miglior dvd. Ovviamente di jazz. Ormai questo supporto è diventato elemento insostituibile per tutti gli appassionati di musica. Concerti, biografie, documentari vengono pubblicati con grande regolarità. Uno dei più recenti dvd uscito per la serie Jazz Icons della Ducale, contiene i momenti migliori dei concerti che Sarah Vaughan diede in Europa nel corso delle due tournées del 1958 e 1964. Registrazioni realizzate con grande professionalità da parte delle televisioni di mezza Europa, Inghilterra, Svezia, Germania, Olanda, Belgio, Dani-
U
marca, Francia, Norvegia. Manca come di consueto l’Italia. Le teche Rai custodiscono gelosamente le registrazioni di molti grandi del jazz effettuate dagli anni Sessanta. Recentemente però, come abbiamo già riferito, due concerti integrali di Miles Davis a Milano e Art Blakey a Sanremo registrati dalla Rai, sono stati pubblicati, senza ovviamente il consenso del nostro Ente radiotelevisivo, da una misteriosa «Impro-Jazz». In attesa che la Rai pensi a realizzare una collana dedicata ai
grandi momenti del jazz nel nostro paese, occupiamoci di Sarah Vaughan. La sua prima tournée europea ebbe luogo fra maggio e giugno 1958. Sassy giunse con un trio che comprendeva eccellenti musicisti, anche se all’epoca pressoché sconosciuti, il pianista Ronell Bright, il contrabbassista David Morgan e il batterista Richard Davis. Il successo fu straordinario. Il suo stile legato, caldo, così diverso da quello di Ella Fitzgerald al tempo sua maggior rivale, è messo in risalto nelle versioni
di Lover Man, Body and Soul, That Ol’ Devil Moon. In How High the Moon spazia con grande facilità nelle due ottave di cui è dotata. Il finale di Tenderly, con un salto di due ottave realizzato con grande sicurezza e facilità, è fuori dalla portata di qualsiasi cantante. La seconda tournée realizzata a cavallo fra luglio 1963 e i primi mesi del 1964, fu assai lunga. Sarah Vaughan rimase oltre tre mesi in Scandinavia, dove si esibì nel corso di numerosi concerti, fra cui uno al Tivoli di Copenaghen il 18 luglio. La registrazione di quel concerto venne pubblicata da Mercury in un disco rimasto giustamente famoso. Nel dvd Ducale appare anche la grande disinvoltura della Vaughan in scena, la grazie con cui annuncia e commenta i brani che interpreta, la soddisfazione quasi fanciullesca che dimostra nel ricevere gli applausi di un pubblico sempre entusiasta durante quei concerti sui palcoscenici di mezza Europa.
MobyDICK
pagina 6 • 28 giugno 2008
NARRATIVA
libri
Tre donne, tre storie sul futuro del
mondo
di Maria Pia Ammirati l primo figlio, ultimo romanzo di Isabella Bossi Fedrigotti, opera un sostanziale cambiamento dagli ultimi libri della scrittrice passando dal presentare la stessa persona da più punti di vista, a più personaggi che vivono un’identica fase della vita. La struttura tripartita del romanzo segue infatti, adattandosi ai tipi, le storie di tre donne che a metà del loro percorso esistenziale si incontrano, e meglio sarebbe dire si incrociano, sulla necessità comune della maternità. Necessità comune, ma estremamente diversa tra loro, perché Teresa, Maria e Sofia appartengono a mondi e geografie diverse ma soprattutto hanno avuto infanzie molto lontane tra loro. Il tema dell’infanzia è un tema caro alla Bossi Fedrigotti, in più in una versione non certo edulcorata, più volte la scrittrice ha avuto modo di dire che l’infazia come età dell’oro è una falsità. E anche nel Primo figlio balza subito all’attenzione il clima patologico delle famiglie e la crudeltà a cui le bambine sono sottoposte. Ripetiamo con accenti diversi tra loro, le vite da piccole delle protagoniste sono una palestra a volte paurosa di quello che potrà essere la vita adulta. In questa gradualità del dolore certamente la prima storia, quella di Teresa, ha coloriture più forti e una passionalità che piano piano si diluisce nelle altre due storie. Teresa è la ragazza più povera delle tre, nata alla fine della prima guerra mondiale in una famiglia numerosa di poveri contadini, perde l’infanzia non appena la mamma muore. Faticosamente studia alla scuola elementare da cui apprende appena il necessario per scrivere brevi frasi e a tredici anni - «così magra da dimostrarne otto o nove» - il fratello maggiore la manda a servizio da una padrona che ha bottega in paese. Malvagità di stampo ottocentesco caratterizzano il la-
I
voro di serva di una bambina che non sa nemmeno riconoscere i cicli del suo corpo. Fino a quando con estrema pena seguiremo Teresa come perpetua in uno scassata chiesa di campagna dove il giovane prete le farà violenza. Dalla violenza che dura mesi, e forse anni, nasce un bimbo mai riconosciuto, che le viene letteralmente strappato e rubato dalla sorella maggiore, Anna. Ma veniamo all’incontro, che ha anche valenza salvifica per le tre donne che si ritrovano attorno alla necessità di prendersi cura dei figli di Sofia, che borghese e placida partorisce cinque bambini: Maria ne diventa la bambinaia e Teresa la cameriera. Le tre si appoggiano a vicenda colmando le diverse mancanze d’affetto: Teresa per la sua amara storia, Maria perché non riesce a costruire una sua famiglia e per essere passata attraverso la seconda guerra mondiale come figlia di madre ebrea, Sofia perché mai amata dal padre e mai veramente rispettata dal marito. Questo libro è una grande riflessione sulla maternità, quella non voluta, quella negata e quella in apparenza normale, ma è soprattutto un libro sulla cura dei figli. Dei figli, come tanta letteratura anche scientifica ha scritto, bisogna occuparsi, per la prima regola basilare che i cuccioli di uomo diventano autosufficienti molto tardi. Ma non basta occuparsene per le primarie necessità, il cibo e il caldo. I figli sono il futuro dell’umanità e nella loro crescita possiamo intuire il futuro del mondo. Per questo è un libro che parla di oggi, delle nostre difficoltà di crescere i figli e della loro cura, e delle donne, tante, che lasciano i propri figli in altri paesi per allevare i nostri. Isabella Bossi Fedrigotti, Il primo figlio, Rizzoli, 189 pagine, 17,00 euro
riletture
Immagini e parole: la scrittura fotografica di Carla Cerati di Giancristiano Desiderio opera della fotografa Carla Cerati andrebbe riletta. Il suo ultimo romanzo, L’emiliana (Marsilio) è una piacevole sorpresa per chi non ha letto i suoi precedenti libri. Un piccolo romanzo di formazione, lo si può definire. Dove a formarsi - attraverso la storia individuale della protagonista del racconto, Emilia - è un’intera famiglia: quella in cui nasce e cresce e quella che fa nascere e crescere. Il progetto letterario della Cerati è ambizioso: in pratica passa attraverso le vite dei personaggi del romanzo - Emilia e Albino, Angelo e Maria, Rosalba, Ilde - la storia di tre generazioni che vivono la seconda metà del Novecento. La storia si svolge tra l’Emilia, la Ligu-
L’
ria, la Lombardia e parte dell’Europa: la Svizzera, la Francia, la Germania. Emilia è figlia di Angelo e Maria e, prima educata dal padre come un «maschiaccio» quindi dalla madre che ne coltiva la femminilità e il saper stare al mondo da donna, sposandosi con Albino che ha un istinto nomade lascia il suo paesino a due passi da Fidenza per cercare la sua maturità e la sua strada. Inizia così una storia che la porterà a spostarsi e a cambiare città e lavoro più volte, ma anche una storia di formazione che la ricondurrà, sia pur diversa, alle sue origini e alla sua famiglia. Il bisogno di Emilia - Emy - è la libertà, il voler affermare se stessa. Ci riesce, ma la crescita della libertà passa inevitabilmente attraverso le fatiche, i lavori, le necessità, le esperienze positive e negative della
protagonista. Tanto che la «protagonista» del romanzo sembra essere proprio l’esperienza che è quel luogo strano della vita umana in cui le cose accadono. Vale la pena citare gli altri libri di questa fotografa con il gusto della scrittura o, forse, questa scrittrice con il gusto della fotografia. Il testo sembra essere un’immagine fermata dall’obiettivo della macchina fotografica e le sue foto ricambiano: sembrano essere degli scatti che altro non chiedono di mettere nuovamente in movimento l’immagine fermata. Nel 1973 la Cerati esordì nella scrittura con Un amore fraterno, finalista al Premio Strega. Due anni dopo fu la volta di Un matrimonio perfetto, ripubblicato nel 2005 nei Tascabili Marsilio.Seguirono: La condizione sentimentale (anche questo titolo ora è nei Tascabi-
li Marsilio), Uno e l’altro poi diventato Il sogno della bambina per Marsilio, quindi La cattiva figlia, La perdita di Diego, Legami molto stretti, L’amica della modellista, Grand Hotel Riviera, La seconda occasione, L’intruso. Una collana di storie, romanzi e racconti che forse hanno un filo che inanella come perle i titoli: l’esperienza della formazione. L’occhio della fotografa-scrittrice si posa su i suoi personaggi con l’intenzione di farli diventare delle persone. La commistione dei generi, che è cosa forse naturale, senz’altro professionale in Carla Cerati, foto e parole, immagini reali e fantasia letteraria, hanno come «obiettivo» un realismo letterario che pur lascia spazio all’idealità dell’invenzione della scrittura. E i personaggi appaiono più veri.
MobyDICK
28 giugno 2008 • pagina 7
BENI CULTURALI
L’humanitas che edifica la nostra identità di Renato Cristin e indagini statistiche relative alla situazione degli investimenti pubblici per la ricerca vedono l’Italia collocarsi nelle posizioni più basse della graduatoria europea. In questo dato si riflette il rapporto fra scelte politicoeconomiche e risorse destinate alla ricerca, problema annoso e ancora irrisolto. In tale prospettiva, il lavoro compiuto da Roberto de Mattei nel quadriennio in cui è stato vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche ha saputo collegare l’autorità politico-istituzionale con quella tecnico-specialistica, con un effetto positivo per la crescita della ricerca e per le sue ricadute generali, i cui risultati sono ora condensati in un libro che de Mattei ha da poco pubblicato (Il Cnr e le scienze umane. Una strategia di rilancio. Attività della Vice-Presidenza 2004-2007). La rassegna dei progetti avviati e la serie degli eventi realizzati sono da leggersi come un insieme di tappe di una «strategia» precisa e proiettata verso il futuro, riguardante un campo del sapere di particolare rilevanza socioculturale come quello delle «scienze umane». La distinzione ottocentesca tra scienze della natura e scienze dello spirito, che aveva di mira la diversità di oggetto e di metodo fra i due grandi campi del sapere, resta valida ma in un’ottica di reciproca cooperazione. L’ambito di quelle che Dilthey definiva «le scienze storico-sociali» rappresenta, come rileva Tullio Gregory nella prefazione al libro, la maggior parte di quel «capitale immateriale che costituisce la vera ricchezza delle nazioni». Il ruolo fondamentale che le scienze umane svolgono all’interno dei processi formativi non è oggi
L
in discussione, ma c’è il rischio costante che esse vengano emarginate all’interno della maggiore istituzione italiana della ricerca. È un rischio tanto reale che la prima bozza di riforma dell’Ente elaborata tra il 2002 e il 2004 le aveva compresse in un asfittico recinto e soltanto, come testimonia Gregory, l’intervento del vicepresidente de Mattei, «con la creazione del dipartimento Identità culturale, ne ha salvato l’effettiva presenza nel Cnr». Questo dato di fatto è l’esito di un lungo percorso di elaborazione, che de Mattei presentò nel 2004 con il libro L’identità culturale come progetto di ricerca (liberal edizioni), nel quale tracciava le linee guida teoriche di quello che sarebbe stato poi il lavoro effettivo della sua vicepresidenza al Cnr. De Mattei ha pazientemente e caparbiamente cercato le condizioni di possibilità di rinvigorire il ramo delle scienze umane, quasi rinsecchito per la carenza di investimenti e per lo squilibrio nella ripartizione interna, prefiggendosi «una progettazione che trascenda interessi e polemiche» e che, dunque, avesse come obiettivo primario la crescita generale di quel «campo di ricerca che appare più difficile da definire, giacché meno tangibile». Il successo della sua azione si misura in due dati precisi: il Cnr ha dimostrato, su un piano nuovo e rispondendo a sfide inedite, di possedere vitalità e autorevolezza, e ha definitivamente consolidato al suo interno lo spazio delle humanities. Esempi concreti sono la costituzione del già citato «Dipartimento Identità culturale» e del «Dipartimento Patrimonio culturale», con l’avvio di numerosi nuovi
progetti operativi, come quello su Memoria storica, valori, istituzioni e quello sul Paesaggio culturale. Sul piano delle relazioni internazionali, accanto a importanti accordi di collaborazione con istituzioni prestigiose nel campo delle scienze umane, spicca il progetto dedicato alla catalogazione multimediale del patrimonio artistico-archeologico iracheno. Il Museo virtuale di Baghdad rappresenta infatti un’innovazione tecnico-scientifica ma anche una testimonianza di solidarietà politicoculturale con un popolo - e con la sua nazione - che sta faticosamente cercando la strada della democrazia e della libertà. Coerenza e trasparenza sono i concetti che hanno guidato l’azione di Roberto de Mattei durante il suo mandato al Cnr e che, anche alla luce di questo bilancio preciso e dettagliato, si sono rivelati
vincenti, perché se da un lato hanno fornito criteri pragmatici ed etici per un’azione coordinata e finalizzata, dall’altro lato hanno mostrato come il campo della ricerca debba essere «una fucina di senso per la collettività nazionale», che ha come scopo «la formazione di una coscienza diffusa» in grado di lasciare al Paese «un’eredità di consapevolezza e di fiducia nel futuro». Detto ciò, a nessuno sfuggirà il fatto che con la sua intelligenza e la sua determinazione, de Mattei ha reso un grande servigio non solo alle scienze umane e alla ricerca scientifica in generale, ma anche all’Italia. Roberto de Mattei, Il Cnr e le scienze umane. Una strategia di rilancio. Attività della vice-presidenza 20042007, Edizioni Cnr, 174 pagine, 20,00 euro
STORIA
rrivarono in tre, la notte del 16 aprile 1973, con una tanica di benzina alla porta dell’appartamento della famiglia Mattei, nel popolare quartiere di Primavalle. Tre giovani militanti di Potere operaio che avevano deciso di dare una lezione a una famiglia che osava proclamarsi apertamente missina e che dunque rappresentava una provocazione vivente, intollerabile. E così Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo non ci pensano due volte a versare due litri di benzina sotto la porta dell’appartamento dei Mattei e ad appiccare il fuoco. Il rogo che si scatena trasforma in un forno crematorio casa Mattei e uccide Virgilio di 22 anni e Stefano di dieci. La notte brucia ancora di Giampaolo Mattei, che aveva 4 anni quando Lollo, Clavo e Grillo bruciarono la sua casa, ricostruisce non solo la
A
Tradizioni in subbuglio (Rubbettino, 236 pagine, 16,00 euro) è una raccolta di saggi di Mary Ann Glendon, una delle principali studiose americane di diritto costituzionale, comparsi su alcune riviste giuridiche americane che vanno dalle riflessioni teoriche e storiche sulle condizioni per lo sviluppo della democrazia al ruolo dei giudici nei sistemi di common law, dalle tematiche generali dei diritti umani alla libertà di religione e al diritto di famiglia. Il nucleo del pensiero della Glendon è il grande valore attribuito a quelle che lei chiama i vivai delle virtù civiche: la famiglia, il vicinato, le associazioni, le confessioni religiose e le formazioni sociali: vere e proprie fondamenta della democrazia liberale oggi minacciate dall’individualismo e dall’assolutismo del mercato. Nel vasto ontesto delle eresie dualistiche che fiorirono in Europa nell’età medievale il catarismo occupa un posto a sé. La dottrina catara si diffuse in una vasta area dell’Occidente cristiano che comprendeva la Linguadoca fino alle sue propaggini pirenaiche estendendosi anche in Lombardia e in Piemonte. Malcom Barber nel saggio I Catari. Origini e dottrina (Ecig editore, 396 pagine, 25,00 euro) individua il percorso storico che ha segnato il passaggio da un dualismo assoluto e radicale a forme più mitigate e stemperate che non servirono però a risparmiare la civiltà occitanica dalla furia implacabile delle crociate dell’inquisizione. Nella Francia occupata
Il rogo di Primavalle brucia ancora di Riccardo Paradisi
altre letture
dinamica dell’attentato di Potere operaio ma soprattutto il clima di copertura politico e istituzionale che si creò immediatamente intorno agli stragisti dell’organizzazione. Tanto che su autorevoli giornali cominciò a circolare l’ipotesi dell’autoattentato. Lotta Continua arriva a scrivere che i fascisti sono così amorali da dar fuoco ai propri figli per colpevolizzare la sinistra. Siamo ai confini della realtà evidentemente, ma l’allucinazione ideologica degli anni Settanta produce mostri. I dubbi istillati da certa stampa troveranno forma e argomenti in un libro pubblicato un anno dopo la strage: è Primavalle, incendio a porte chiuse pubblicato dall’editore Savelli nel 1974, un libro che vuole dimostrare che Virgilio e Stefano Mattei sono morti per mano fascista. L’Italia ha rimosso per anni l’orrore di Primavalle: troppo atroce quell’attentato e troppo infame il clima di copertura degli assassini che si
era creato grazie a un conformismo ideologico plumbeo. A riportarlo alla coscienza le dichiarazioni del febbraio del 2005 di uno degli assassini di Primavalle: Achille Lollo, che in tutti questi anni ha vissuto in Brasile prima da latitante e poi, dopo la prescrizione della pena, da libero cittadino. A organizzare quell’attentato, rivela Lollo, siamo stati in sei: non c’erano solo Grillo e Clavo (anche loro latitanti e oggi liberi) dietro il rogo. Perché Lollo parla solo ora? Perché chi lo ha coperto anche economicamente fino a oggi, scrive Giampaolo Mattei, con la prescrizione sopraggiunta ha smesso di farlo, e Lollo dovrebbe cominciare a lavorare per vivere. Una pena in fondo tollerabile, diciamo noi, rispetto a quella che chi non scorda si aspetta ancora per un assassino così infame. Giampaolo Mattei, La notte brucia ancora, Sperling & Kupfer, 173 pagine, 14,00 euro
dai tedeschi, poco prima della liberazione di Parigi, Jules Tillon giunge ferito in riva a un lago. Gli salva la vita Lucia, una giovane donna spagnola che vive in un circo itinerante di esuli attivi nella resistenza. Jules però non ricorda nulla del passato: la ferita alla testa gli ha provocato un’amnesia. Qualcuno lo saluta come un eroe della resistenza partigiana ma non ci si può sentire davvero eroi quando non se ne conserva la memoria. E allora chi è Jules Tillon? E perché ha rischiato di morire? Il settimo velo di Juan Manuel Prada, (Longanesi, 641 pagine,18,60 euro) è un romanzo che attraverso l’amnesia di Jules racconta l’amnesia di un’Europa dimentica delle proprie colpe e frettolosa di autoassolversi, senza assumersi le proprie responsabilità.
MobyDICK
pagina 8 • 28 giugno 2008
letteratura
UN PROFESSORE INGLESE DELL’UNIVERSITÀ DEL SUSSEX CON 150 ESPERTI DI VARIE NAZIONALITÀ HA COMPOSTO UN CATALOGO DEI ROMANZI CAPOLAVORO DA LEGGERE PRIMA DI MORIRE. COME PER TUTTE LE GUIDE, LE SCELTE SONO OPINABILI, MA È UN TESTO UTILE OLTRE CHE AI SEMPLICI LETTORI ANCHE A SPECIALISTI E BIBLIOFILI
La carica dei milleuno di Massimo Tosti li scaffali delle librerie sono pieni di manuali utili: dal giardinaggio al fitness, dal bricolage di qualsivoglia genere al modellismo. Aiutano giardinieri in erba, signori (o signore) con la pancetta, falegnami-fai-da-te e fabbricanti pacifici di corazzate e spitfire. Ce n’è per tutti i gusti e tutti i palati. Meno frequente è che gli editori mettano sul mercato manuali che si occupino del loro stesso prodotto: i libri. Era ora che qualcuno si ricordasse dei lettori per orientarli nelle scelte. Ci ha pensato un professore di Letteratura inglese (all’Università del Sussex), Peter Boxall, che, con l’ausilio di centocinquanta esperti di varie nazionalità, ha dato alle stampe un ponderoso volume intitolato 1001 libri da leggere prima di morire. Una rassegna completa dei capolavori della narrativa mondiale (Atlante editore, 960 pagine, 35 euro), che offre una guida completa (anche se discutibile, come è inevitabile in casi del genere) ai titoli che dovrebbero formare il bagaglio culturale di chiunque si nutra di libri più che di qualunque altro alimento commestibile.
G
Una particolarità di questa raccolta è data dal fatto che gli illustri selezionatori hanno messo insieme i classici dei secoli passati con le novità fre-
paese delle meraviglie di Lewis Carroll, Il piccolo principe di Antoine de Saint Exupery, e dagli adolescenti (Il giro del mondo in 80 giorni e Viaggio al centro della Terra di Jules Verne, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, David Copperfield di Charles Dickens, ma anche Le tigri di Mompracem di Emilio Salgari). Dispiace che i selezionatori abbiano dimenticato Pinocchio di Collodi che merita di essere comunque annoverato fra i grandi capolavori della letteratura mondiale, nonostante il film di Disney. L’assenza di Pinocchio (complice Benigni che, forse, gli ha fatto più danni di Disney) potrebbe spiegarsi anche con quel pizzico di sciovinismo che contraddistingue sempre i lavori degli inglesi, affezionati alle loro opere (e più in generale a quelle scritte nella loro lingua), ma questo fa parte del gioco. Se si chiedesse a un critico d’arte italiano di elencare i cento (o i mille) dipinti più importanti della storia, dimenticherebbe - probabilmente qualche fiammingo a scapito di pittori italiani del XV secolo, semisconosciuti, ma da rivalutare. Così va il mondo. E tuttavia l’elenco degli autori italiani presenti nella Top 1001 di Boxall non è poverissimo. Gli scrittori sono 36, con 46 titoli. Il più citato è Italo Calvino, del quale gli austeri giudici
La particolarità di questa raccolta è data dal fatto che i selezionatori hanno messo insieme i classici dei secoli passati con le novità fresche di stampa. Si va da “L’uomo che cade” di Don De Lillo, alle “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij, passando per Dickens e Mark Twain sche di stampa (ci sono tre titoli del 2007: Il fondamentalista riluttante del pakistano Mohsin Hamid, L’uomo che cade di Don De Lillo, e Animal’s People dell’indiano Indra Sinha). La seconda riguarda i criteri di scelta: non soltanto la letteratura «alta», le scelte che verrebbero condivise dai critici di tutto il mondo, ma anche quelle commerciali: Via col vento di Margaret Mitchell, Quo vadis di Henryk Sienkewicz e Casino Royale (per limitarsi a tre esempi), romanzoni popolari nobilitati da successi sesquipedali nel box office cinematografico. E ci sono anche (legittimamente) alcuni dei libri più amati dai ragazzi, come Alice nel
hanno scelto ben quattro opere: Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore; Le città invisibili; Il sentiero dei nidi di ragno. Primo Levi e Alberto Moravia sono presenti con tre titoli ciascuno: I sommersi e i salvati, Se non ora quando?, Se questo è un uomo (Levi); Gli indifferenti, La disubbidienza, Il disprezzo (Moravia). Con due romanzi ci sono Umberto Eco (Il nome della rosa, Il pendolo di Focault), Cesare Pavese (Paesi tuoi, La luna e i falò) e Italo Svevo (La coscienza di Zeno, Senilità). Gli altri trenta eletti sono: Vittorio Alfieri (Vita scritta da esso), Niccolò Ammaniti (Io non ho paura), Alessandro Ba-
ricco (Seta); Giorgio Bassani (Il giardino dei Finzi Contini); Giovanni Boccaccio (Il Decamerone), Dino Buzzati (Il deserto dei Tartari), Andrea Camilleri (La concessione del telefono), Carlo Cassola (La ragazza di Bube), Giulio Cesare Croce (Bertoldo e Bertoldino), Gabriele D’Annunzio (Il piacere), Andrea De Carlo (Due di due), Federico De Roberto (I viceré), Elena Ferrante (L’amore molesto), Galileo Galilei (Dialogo dei massimi sistemi), Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli), Alessandro Manzoni (I promessi sposi), Dacia Maraini (La lunga vita di Marianna Ucria), Elsa Morante (La storia), Ippolito Nievo (Confessioni di un italiano), Giovanni Papini (Storia di Cristo), Pier Paolo Pasolini (Ragazzi di vita), Luigi Pirandello (Uno nessuno e centomila), Vasco Pratolini (Metello), Emilio Salgari (Le tigri di Mompracem), Leonardo Sciascia (A ciascuno il suo), Mario Soldati (La sposa americana), Antonio Tabucchi (Sostiene Pereira), Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il gattopardo), Giovanni Verga (I Malavoglia), Elio Vittoriani (Conversazione in Sicilia).
C i s i p u ò d o m a n d a r e a chi sia realmente utile la consultazione di un tomo come questo messo insieme da Boxall & soci. Prescindendo dall’opinabilità (e, in qualche caso, dalla stravaganza) delle scelte, può confortare molte categorie di lettori. In primo luogo i bibliofili. Nessuno - sicu-
MobyDICK
ramente nessuno è al riparo da qualche lacuna nella propria fornitissima biblioteca. Quanti (fra i collezionisti più appassionati di narrativa) possono giurare di avere nei propri scaffali una copia di Anima, di Natsume Soseki (pubblicato nel 1914) o Melmoth l’uomo errante di Charles Robert Maturin (1820)? È venuto il momento di cercarne una copia nelle librerie (impresa titanica) o nelle bancarelle dell’usato (ci vuole una gran fortuna). I lettori meno assidui - sfogliandolo avranno ottimi consigli per gli acquisti: invece di rincorrere l’ultimo bestseller (destinato spesso a rivelarsi molto deludente), meglio rifugiarsi in qualche romanzo che ha superato l’usura del tempo e che ha comunque meritato di essere inserito in una collezione di libri «da leggere prima di morire». «Il romanzo - promette Boxall nell’introduzione - viene qui rappresentato in tutta la sua varietà, la sua inventiva, il suo genio, mentre si fa strada dagli antichi Chaucer, Boccaccio o Chrétien de Troyes - fino alla narrativa moderna di Amis, De Lillo o Houllebecq. Ma allo stesso tempo il romanzo in quanto entità completa e al di fuori della nostra portata, rifiutandosi di essere sistemizzato completamente, offre sempre qualcosa in più che la semplice somma delle
28 giugno 2008 • pagina 9
sue parti». Perché 1001 e non 1000? La cifra è stata suggerita a Boxall dal primo titolo (in ordine cronologico) contenuto nella raccolta: le Mille e una notte, che risalgono al IX secolo. 1001 è un numero aperto, e non conclusivo: promette di arrivare a 2000, e poi oltre. Sherazade ne aveva di storie da raccontare al re Shahryar, per salvare la propria pelle. Noi lettori di storie da leggere ne abbiamo, a nostra volta, infinite. Basta entrare in una libreria per rendercene conto. Basta sfogliare i cataloghi delle case editrici per sapere che ogni giorno (ogni giorno) esce un numero di novità che nessuno stacanovista riuscirebbe a leggere in un anno (in un anno). Bisogna scegliere, dunque. È ineluttabile. Oltre ai bibliofili e ai lettori normali esiste una terza categoria di individui che può trarre frutto dalla lettura (non consultazione) di «1001 libri da leggere prima di morire»: quelli che non hanno alcuna intenzione di leggerli, ma che sbirciando una scheda di 250 parole potranno vantarsi di averli letti. Non necessariamente cialtroni o imbroglioni. Parlare di un libro che non si è
rarsi nella conversazione salottiera senza basi di conoscenza diretta. Il pamphlet si intitola, appunto, Come parlare di un libro senza averlo mai letto. Nel frontespizio cita una battuta folgorante di Oscar Wilde: «Non leggo mai libri che devo recensire: non vorrei rimanerne influenzato». Spiega i trucchi e le trappole, ma senza elogiare l’ignoranza (che sarebbe un delitto). Sottolinea come il contesto di un autore e di un romanzo sia più importante del contenuto del romanzo stesso. Una persona colta, che sappia tutto - per dire - di Emile Zola (e del verismo francese di fine Ottocento), non faticherà molto a domare una platea affamata di notizie e particolari su Germinal o La bestia umana, pur senza averli letti.
S e v o l e t e p r o v a r e , Boxall vi darà una mano. Ecco un esempio: la scheda delle Memorie dal sottosuolo (un mattone particolarmente indigesto di Dostoevskij), tutta intera. «Come suggerisce il titolo, Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij è una voce dal mondo delle tenebre, una coscienza travagliata che filtra attraverso una fessura del pavimento della società russa. Il romanzo rappresenta al contempo l’apologia e la confessione di un impiegato statale misantropo che vive solo a San Pietroburgo. Diviso in due sezioni, riflette altrettante fasi chiave della vita intellettuale russa del XIX secolo: l’utilitarismo razionale degli anni Sessanta dell’Ottocento e il romanticismo letterario sentimentale degli anni Quaranta. In entrambe le parti, il narratore sferra una serie di attacchi provocatori ai molti ordini mutevoli della sua vita: estetico, religioso, filosofico e politico. È un animo colto, ma molto disilluso, che critica aspramente il romanticismo “bello e altezzoso” della sua gioventù e i nuovi
Trentasei gli scrittori italiani tra cui Calvino, Primo Levi, Moravia, Eco, Pavese, Svevo, Alfieri, Bassani, Buzzati, Cassola, D’Annunzio, Galilei, Manzoni, Morante, Papini, Pasolini, Pirandello, Pratolini, Salgari, Sciascia, Verga, Tabucchi, Vittorini, Camilleri. Ma Collodi non c’è… letto è un aristocratico esercizio intellettuale che richiede cultura, sensibilità, intelligenza, capacità dialettica e doti comunicative. Un professore di Letteratura francese (che differenza con quelli che insegnano Letteratura inglese, così pedanti e privi di fantasia) ha pubblicato lo scorso anno un delizioso saggio a uso e consumo dei cialtroni, truffatori, vanesi e impudenti che vogliono misu-
principi socialisti della mezza età. Nessun bersaglio è immune dal dileggio. Se da un lato quest’opera cupa e strana è una sorta di “casistica”; un’analisi puntuale dell’alienazione e del disprezzo di sé, un romanzo che si colloca al confine tra società e individuo, dall’altro è un tragicomico teatro di idee che offre un’efficace confutazione dell’idealismo illuminista e delle promesse dell’utopismo socialista. Memorie dal sottosuolo è un libro oscuro, difficile ma anche avvincente, e merita di essere considerato ben più del preludio critico alle opere successive e più celebrate dell’autore russo». Ce n’è abbastanza per tenere una conferenza al Rotary. Se non ve la sentite di affrontare la prova, fate un tentativo con il cinema (anche se non entrate in una sala da una decina di anni). Leggetevi il Morandini e buttatevi nella mischia. Siete giusto in tempo per farvi notare da Gianluigi Rondi e conquistarvi un ruolo da consulente per la festa del Cinema di Roma.
MobyDICK
pagina 10 • 28 giugno 2008
SAGGI
libri
Voci della natura da Svetonio a D’Annunzio di Mario Bernardi Guardi
cilp» o «dip dip bilp bilp» è l’onomatopea del verso dei passeri nella poesia Dialogo di Giovanni Pascoli. «Videvitt», risponde la rondine. Così,invece, «tintinna» l’usignolo in Nozze: «tiò tiò tiò…torotorotorotics… torotorotorolilililics». Mentre il notturno assiuolo dell’omonima poesia sembra singhiozzare col suo tetro «chiú». «Parlano» gli uccelli nella poesia pascoliana e ognuno col suo verso; e parla la natura tutta, gli animali, le piante, il sole, il vento, il lampo, il tuono. E quella pioggia che, per chi si immerge nel Pineto dannunziano, produce sonorità diverse da una pianta all’altra, «stromenti/diversi/ sotto innumerevoli dita». Le voci della natura. A porger l’orecchio, nel frastuono della modernità, è ancora possibile sentirle. Ma è il mondo antico a essere, per eccellen-
«S
za, una fonosfera. Maurizio Bettini, ordinario di Filologia greca e latina all’Università di Siena, ci ripropone quel «tempo perduto», cercando nei testi classici le «immagini» e le «voci», che gli antichi avvertivano come familiari e gli uomini d’oggi ritrovano, quando riescono a isolarle tra i rumori, come segno di una primordiale, incrinata fraternità. Se poi sono poeti come Pascoli e d’Annunzio, la rivisitazione diventa suggestiva fruizione estetica: la quotidianità si intreccia col numinoso, l’orecchio propone trame simboliche, le cose tangibili, visibili, udibili sfumano nell’arcano. E quante lingue da deci-
frare più che mai tra quegli uccelli ai quali Leopardi dedica un memorabile Elogio nelle Operette morali! Perché, come insegna Svetonio nel Liber de naturis rerum, proprio dei corvi è il «crocitare», delle aquile il «clangare», dei cigni il «drensare», delle civette il «cuccubire»,delle rondini il «fritinnire», delle oche il «gliccire», dei pavoni il «paupulare», dei galli( e questo lo sapevamo!) il «cantare»… E sono solo poche «voci» di un lungo elenco. Viaggiando tra poeti e sapienti, attingendo alla filologia come al mito e alla saggezza popolare che tanti tesori conserva, Bettini traccia dunque una mappa del mondo antico in cui il suono si propone come segno, linguaggio, messaggio. Le voci accompagnano le stagioni, ci danno indizio, col loro variare, dei passaggi e dei paesaggi che mutano;resuscitano nel cuore e nella mente scenari mitici di cui cogliamo vaghi contorni; ed entrano, con sottile complicità, nella nostra vita, «commentandola». Con l’autorevolezza di chi «partecipa» del Sacro. E chiede attenzione. Maurizio Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Einaudi, 309 pagine, 24,00 euro
PERSONAGGI
Ritratto di Pindemonte, uomo del Settecento di Filippo Maria Battaglia meno giovani se lo ricordano per una magistrale traduzione dell’Odissea di Omero studiata sui banchi di scuola, i giovani probabilmente non sanno nemmeno chi fosse. Eppure, Ippolito Pindemonte resta un prezioso tassello della letteratura italiana degli ultimi due secoli, oltreché l’amico (stimatissimo) di Ugo Foscolo. A restituirne il ritratto, ci pensa ora una biografia di Enrico Emanuelli, altro carneade per le nuove generazioni, protagonista del giornalismo letterario del secolo scorso, nonché scrittore e consulente editoriale. «Un librino gracile - scrive nella prefazione il critico letterario Beppe Benvenu-
I
to, che lo ha ripescato dalla damnatio memoriae, suggerendolo all’editore Aragno - ma di una gracilità luminosa…Un libro medaglione, un ritratto da fine acquarellista, dove l’uomo con le sue piccole pene, i suoi entusiasmi, le sue dolci mollezze è al centro del quadro, mentre la storia scorre a lato, periferica, più o meno influente». Il tutto scritto con uno stile netto, senza compromissioni con certe fughe sperimentaliste. Proprio Emmanuelli, anni dopo aver pubblicato la sua
biografia, circa la propria idea di scrittura sarà infatti piuttosto chiaro: «È facile far colpo, e abbindolare con uno stile vistoso, che non con un vero stile. Se uno stile mi piace molto al primo incontro, ho imparato a diffidare. Apparenza dello stile; la sostanza, si sa, è nel come si concepiscono i pensieri, nel come si traducono i sentimenti. Il che non può mai essere vistoso. E poi la natura di uno stile
è nella psicologia dell’autore». Emanuelli - ricorda Benvenuto - scrive il suo libro intorno ai ventidue-ventitrè anni, basandosi prevalentemente sulle confessioni del protagonista che si intrecciano, sporadicamente, con i suoi versi. Tra biografo e biografato, si crea così un legame fortissimo, speculare, quasi di piena identità. Per il giornalista novarese, Pindemonte è «uomo del Settecento», così fortunato da vivere «in un’epoca bellissima». Il risultato è un medaglione stilisticamente ineccepibile, capace di restituirci un «perfetto gentiluomo e un bon vivant». Anzi, due. Enrico Emanuelli, Ippolito Pindemonte. Uomo del Settecento, Aragno, 121 pagine, 13,00 euro
AUTOBIOGRAFIE
La conversione (politica e religiosa) di Lifschitz di Vito Punzi utore di una preziosa serie di testi sul chassidismo, sulle feste d’Israele e sull’umorismo ebraico, nonché di sceneggiature e testi per il teatro, Daniel Lifschitz s’è guardato alle spalle e ha deciso di raccontare la propria vita. Ne è nata un’opera in due volumi, a testimonianza del duplice binario sul quale viaggia il rapporto tra il Creatore e l’uomo: Dio sceglie l’immondizia e L’immondizia ama Dio, entrambi per Edizioni Parva (Melara 2008). Di famiglia ebraica svizzera assimilata, Lifschitz (classe 1937) racconta con semplicità un’esistenza segnata da un’infanzia difficile, con un padre «senza la minima educazione religiosa», per lo più assente. Prima d’intraprendere la strada della ricerca di Dio, Lifschitz ha voluto verificare la via marxista e del comunismo sionista: «mi piaceva tanto tramare per cambiare e migliorare il mondo». A quell’ateismo che pretende-
A
va d’interpretare tutti i fatti della Salvezza in chiave marxista non avrebbe resistito a lungo. La conversione al cristianesimo avvenne nel 1966, quando ricevette il battesimo a Cortona, accompagnata dalla scoperta del talento per la pittura, scoperto con il tentativo di rappresentare l’inaudito, il Crocifisso. Di queste memorie colpisce il coraggio con il quale Lifschitz scrive della sua liberazione dalla schiavitù della pornografia e della sua omosessualità. Senza nascondere nulla della sua condizione, Daniel grida la propria invocazione a Cristo, perché «è sempre attraverso la propria debolezza, lo scandalo, la croce che ci possiamo relazionare con Cristo
e Lui con noi». Lifschitz attacca chi pone sullo stesso piano ciò che è secondo natura e ciò che non lo è: «Chi pretende la “normalizzazione” dell’omosessualità nella società, la sua equiparazione alla famiglia tradizionale, distrugge la società, quindi anche se stesso». Lifschitz si è sposato nel 1974 con Angela, da cui ha avuto cinque figli, scoprendo così finalmente, per Grazia, la bellezza del generare: questo libro ne è una preziosa testimonianza. Daniel Lifschitz, Dio sceglie l’immondizia, 240 pagine, 12,00 euro; L’immondizia ama Dio, 224 pagine, 12,00 euro, Edizioni Parva
TV
video
MobyDICK
pagina 11 • 28 giugno 2008
Concorso per veline osteria da piccolo schermo
web
di Pier Mario Fasanotti ica si scelgono così, o con leggerezza o seguendo il caso o sul tracciato imperativo di una raccomandazione politica. No, le veline, almeno per Striscia la notizia (Canale 5) ha il suo bravo concorso. Ad Abano Terme. Con tanto di giuria composta da giornalisti: la teoria della comunicazione trasloca dalle parole al corpo e alle sue movenze. Presidente è la rediviva (dopo il crack sentimentale con il furbetto del quartierino) Anna Falchi. In splendida forma, va detto. E a presentare il circo Barnum dei fianchi, delle gambe e delle bocche maliziose è il patron di Striscia, Ezio Greggio: battuta pronta, con uno humour ripetitivo ma in grado di reggere, sia pure con poche varianti. Sei le sfidanti, tutte alte (è la nuova razza italiana), molte con i calzoncini che questa estate paiono quasi soppiantare la mini-minigonna. Disinvolte tanto da supporre che abbiano sorbito il latte attraverso una presa scart e non dall’obsoleta mammella. Tra il pubblico le inevitabili mamme, felicemente disfatte da un orgoglio facciale, tanto diverso dalla cupezza trepidante di Anna Magnani del famoso film. L’enfasi fa parte del programma. La giuria viene definita da Greggio «straordinaria», manco ci fosse Helmut Newton
M
games
DIVENTARE ARTISTI? ORA BASTA UN CLICK
o Andy Wharol. Quello che sulla seggiola mostra maggiore agio è senza dubbio l’abbronzatissimo (ma anche in novembre non cambia) Roberto Alessi della rivista Diva Donna. Era proprio contento, quasi dovesse ricevere il premio Campiello. C’è Maddalena di Firenze, 23 anni, cassiera in un minimarket: è lei la sintesi della ragazza che sogna il gran balzo. Fa il tiptap, senza convincere. Ma con lo «stacchetto» - alias un accenno di ballo da discoteca - recupera terreno, anche se il suo viso, per rigidità espressiva, sarebbe scartato da Tinto Brass. Elena da Lodi ha un accento basso-lombardo, il contrario della seduzione: pazienza, mica deve recitare, al massimo una parolina, anzi un sì o un no, a comando. Comunque la mamma le urla «brava!». Convincente, e molto, è la romana Chiara, 1,77 di altezza, 21 anni, che aiuta i genitori nel negozio di alimentari. E qui Greggio non resiste: «E se ti chiedono due etti di pere, dai…fai vedere come ti muovi!». È l’osteria televisiva: un darsi di gomito, un ammiccamento sessuale da reclute, il mondo ridotto a una falcata da pantera. Greggio ci da dentro: «Ho solo una cosa corta: la memoria». E via col cabaret per uomini in canottiera. Uno spettacolo lieve. Edificante se lo si paragona all’appuntamento di tarda notte (su Sky) con Maurizia Paradiso, promoter di porno-attrici e di trans con ospite fisso il giallista Andrea Pinketts (all’anagrafe Pinchetti), con bicchiere davanti, cravatta rossa, giacca nera, toscano in bocca. Come tutti sanno è un frequentatore di bar. Si vede che a Milano chiudono troppo presto. E lui va lì. Per solitudine.
dvd
GUERRA MUSICALE IN EUROPA
ERCOLANO: DIARI DEL BUIO E DELLA LUCE
S
u una collinetta canadese ricoperta d’erba se ne sta una scultura che si trasforma ogni notte. E chiunque, anche a distanza, può suggerirle l’aspetto da assumere. Si chiama Solar collector, è stata inaugurata nel giorno del solstizio d’estate e funziona grazie a due fonti di energia: la creatività degli utenti di internet e la luce del Sole. Quando la Regione di Waterloo
I
videogiocatori europei stanno ancora aspettando - con trepidazione - l’uscita di quel capolavoro annunciato (e già sperimentato, almeno negli Stati Uniti) che risponde al nome di “Rock Band”. Il ritardo rispetto alle previsioni e - soprattutto - il prezzo previsto per il “pacchetto completo” (gioco, chitarra, batteria e microfono), però, ha già parzialmente compro-
i volle una lenta ed estenuante opera di persuasione per dimostrare che Ercolano andava considerata come una città e non come una miniera di opere d’arte. Una città minore e diversa da Pompei, ma non per questo meno importante. Con una sua fisionomia urbanistica, una sua civiltà e quel che più importa, un suo volto umano». Amedeo Maiuri, leggendario ar-
Inaugurata in Canada una scultura che cambia aspetto attraverso giochi di luce ideati su internet
Il lancio di “Rock Band” è in ritardo. E Activision ne approfitta con “Guitar Hero 4”
Un documentario su Amedeo Maiuri, l’archeologo che ha lavorato per trent’anni agli scavi della città romana
ne ha commissionato la costruzione, gli artisti Matt, Rob e Susan Gorbet hanno messo a punto una scultura interattiva che ogni giorno, all’arrivo del buio, dà vita a una serie di giochi di luce decisi dalla comunità attraverso il sito www.solarcollector.ca. L’opera è costituita da 12 aste metalliche, la cui angolazione riflette la posizione del Sole nel corso dell’anno. Di giorno la scultura si ricarica e nel frattempo raccoglie su internet idee provenienti da tutto il mondo. E grazie a una semplice serie di comandi, è possibile decidere ritmo e ordine con cui far accendere le luci.
messo le potenzialità di vendita del musical game di Harmonix. E questo “raffreddamento” europeo potrebbe essere accentuato dalle voci, sempre più insistenti, di un nuovo capitolo (il quarto) della saga “Guitar Hero” che, sulla scia della concorrenza, dovrebbe prevedere l’utilizzo di strumenti aggiuntivi oltre alla chitarra (la batteria, sicuramente, e forse anche il microfono). L’aspetto singolare della vicenda è che il brand “Guitar Hero”, oggi nelle mani di Activision, è stato creato proprio da Harmonix (oggi distribuiti da Electronic Arts). Guerra fratricida a colpi di riff.
cheologo italiano che dedicò trent’anni nel riportare alla luce la città romana seppellita dalla lava vesuviana due millenni prima, raccontò la propria opera di scavo in diari e interviste. Raccolte da Marcellino de Baggis in Herculaneum: Diari del buio e della luce, imprese quotidiane e intuizioni dell’archeologo di Veroli fondano il nucleo di un lavoro documentario che assembla tra l’altro immagini di repertorio e sequenze inedite. Un viaggio nella memoria che fa di Ercolano la metafora di un passato che sempre riaffiora, per dirci chi siamo, da dove veniamo, come eravamo.
«C
MobyDICK
pagina 12 • 28 giugno 2008
François Villon
BALLATA DELLE DONNE DEL TEMPO PASSATO Ditemi dove, in quale paese è Flora, la bella romana, Alcibiade e Taide, sua cugina germana, Eco parlante quando scorre una voce sul velo di un fiume o di uno stagno, Eco, bellezza molto più che umana? Ma dove, le nevi dell’anno passato?
poesia
di Roberto Mussapi a famosa ballate delle donne del tempo andato, o della bellezza femminile, la più bella, che svanisce. Pochi poeti hanno saputo farci tremare con la potenza dei nomi: le donne del bel tempo andato, i signori, i grandi personaggi storici che aleggiano sulla bolgia di Villon (Parigi 1431-1463) come aure della bellezza passata, sono palpitanti emblemi della condizione umana nel suo essere nome, volto nominato a tenerlo in vita. E Villon nomina, chiama tanti nomi, di gente passata e lontana, per adunarli accanto a sé e ai suoi compagni di taverna e di bolgia, per averli accanto e salvarli dalla distruzione del tempo, per cantare i loro nomi nella nostra memoria, per collegare nel ricordo i vivi ai morti, per contrapporre al nulla della morte la pronuncia del nome, l’agonistica e infine vincitrice compassione della poesia. Che è la forza resistente al divenire del tempo, che tutti porta via. E questo tempo dal passo incessante e dal respiro divoratore, mentre agita gli uomini alla vita, li consuma e li conduce rapidamente alla vecchiaia, alla visibile anticamera della morte. I derelitti, mossi dalle passioni elementa-
L
Dov’è la sapiente Eloisa per cui Abelardo fu castrato e chiuso in convento a San Dionigi? Per amore subì tale destino. Ditemi ancora, dov’è la regina che ordinò che Buridano fosse gettato nella Senna in un sacco e affogato? Ma dove, le nevi dell’anno passato? E lei come il giglio, Bianca la regina, che cantava con voce di sirena, Berta dal grande piede, Alice, Beatrice, Erembourg signora del Maine, la buona Giovanna di Lorena, che gli inglesi bruciarono a Rouan, dove sono, dove, Vergine suprema? Ma dove, le nevi dell’anno passato? Principe, è inutile cercare con affanno dove sono ora, nel corso dell’anno, se non vuoi che riprenda il motivo andato, dove, le nevi dell’anno passato?
ri, e i potenti, la fame, la lussuria, la voglia di arraffare, gli uni e gli altri, i ricchi e i poveri, cercano per tutta la loro vita (peraltro sempre breve, a quei tempi) la pacificazione dell’amplesso e l’estasi calda dell’ubriachezza, uniche forme di effimera quiete terrena, subito cancellata dal tempo che rinasce a ogni istante sulle proprie ceneri.
Villon è un uomo perennemente esule in una grande città, la Parigi del XV secolo, un uomo colto, che ha alle spalle non solo studi di alto livello, ma anche un talento straordinario e una gamma da poeta antico: perché alla disperazione si abbina, e vi convive, il riso, alla malinconia lo scherno, all’angoscia la gioia sfrenata del piacere dell’istante, al senso di prigionia (morale e sociale) quello di una libertà comunque insita nell’uomo, e che trova nella poesia il suo esito naturale. Mentre immaginiamo quindi il poeta dotato di poliedricità antica, che nello stesso tempo anticipa la condizione disperata che diverrà spesso, anche enfaticamente, un paradigma della poesia moderna, non dobbiamo dimenticare che questo poeta è anche un
QUELLA SIMBIOSI CON LA PITTURA in libreria
François Villon (Traduzione di Roberto Mussapi)
di Giovanni Piccioni
il club di calliope ALBERI DI NATALE Venendo su da Lucca, per la fondovalle, fin da bambina contavo gli alberi di natale illuminati nella notte: Marlia, Lammari, la montagna di Vinchiana, Borgo a Mozzano, la valle, di là dalla ferrovia, di Bagni di Lucca, Calavorno, ne contavo fino a settanta/ottanta. Ce n’era di luminescenti, di luci fisse, con faville colorate o luci argentate, alcuni giganteschi, altri che appena si vedevano. Ma, in verità, qualcosa non avevo visto: erano tutti davanti a case semplici, e nemmeno uno nel giardino di una grande villa. Meglio, mi dico, era lo sguardo di bambina che di quelle luci faceva una carrozza leggendaria che univa tutto dalla città fino a Lucignana. Alba Donati
n Quadreria dell’Accademia e altre poesie (Multimedia edizioni), Giancarlo Cavallo compone una pinacoteca immaginaria. Come nota nella prefazione Francesco Napoli, essa, nell’invenzione poetica di stampo espressionista, risale per lo più ai secoli XVI e XVII: l’untore, le streghe, il rogo e la peste compaiono nell’incipit di Angelo Maria Devoto, e analoga è la collocazione temporale di Giovanni Dragoni, capitano di ventura che non arretrò di fronte a nessun misfatto. Tale cronologia presenta due eccezioni: Autoritratto di Vincent, collocabile a fine XIX e Nadia d’inverno agli inizi del XX secolo. La galleria è un poema formato dalle vite straordinarie di personaggi immaginari. La poetica di Cavallo mira a ricercare la parola capace di colma-
I
“Quadreria dell’Accademia” di Giancarlo Cavallo è un poema sulle vite straordinarie di personaggi immaginari re la separazione tra la scrittura e la percezione delle cose e dell’uomo, definita dalla citazione iniziale di un passo tratto da Le parole e le cose di Michel Foucault. Nella tela che ritrae Narciso Patrizi l’autore ha introdotto più di un elemento della sua poetica: «l’arte/ d’incatenare parole/ alla tua volontà» implica l’abolizione dell’horror vacui del foglio bianco. Nello stesso ritratto si legge: «E il bianco del foglio/ finì per sembrarti/ giorno dopo giorno/ sguardo dopo sguardo/ uno sconosciuto/ mondo da esplorare». Narciso Patrizi, inoltre, è un probabile alter ego del poeta: ritrae uno scriba che traccia la propria «memorabile autobiografia», nell’apparenza poetica di silenzi e ombre, fra donne amate, il profumo sensuale del peccato, i nemici, i duelli, le avventure marittime e le foreste. I due segni, quello pittorico e quello poetico, procedono in simbiosi. Ma nell’Autoritratto (in forma di mano) pittore e poeta coincidono in una constatazione stupefatta: «nessuno conosce se stesso», e l’io non è rappresentabile compiutamente. Alla Quadreria fanno seguito tre poemetti, i primi due dei quali (Sarai Sarajevo e Poema a matita per Pier Paolo Pasolini) ricchi di tensione morale e due sezioni poetiche composte tra il 1998 e il 2006.
MobyDICK
28 giugno 2008 • pagina 13
la forza della compassione consapevole interprete della civiltà cristiana: non nel senso complesso, assoluto e ascensionale di Dante, ma certo al pathos rabbioso e misericordioso di Dante più affine che alla stoica e nobile disperazione del mondo classico. Villon invoca sempre la misericordia divina, e attua, nella pratica della poesia, quella concessa all’uomo… E qui la radicale differenza tra il classico Villon e il poeta classico dell’antichità: Villon non crede in un futuro cieco e buio, dopo la morte. Ma Villon, già così moderno nel tema ossesso del tempo che scorre, della morte incombente, dell’ingiustizia della Vita e della Fortuna, è diverso dal poeta moderno del Nulla e dell’Angoscia, perché non considera nulla e angoscia entità assolute. Villon è antico, per lo sguardo poliedrico con cui rappresenta le facce della vita, di quel mondo parigino che è uno dei grandi teatri del mondo. Ed è moderno per un senso di angoscia non rassegnata e fatta pensiero e ordine stoico e formalmente impeccabile nel mondo classico. Il Lascito e il Testamento, i due grandi libri di Villon, non sono un canzoniere, ma una sorta di poema e di commedia insieme. La prospettiva terrena si esaspera, il suo mondo vive attaccato alla
terra, semimmerso nei suoi loschi sotterranei dove si congiura, nelle cantine dove ci si ubriaca bestialmente, nei bassifondi dove la vita è brutale, e il vino in eccesso, e il sesso mercanteggiato e gli accessi di collera paiono tremiti tellurici, trasmessi a chi troppo a contatto con la pancia buia della terra. D’altro canto, se alza lo sguardo, Villon vede svolazzare, cupi e sinistri, i corvi, a segnalare corpi che penzolano, anch’essi in alto, anneriti, rinsecchiti. In cielo vede i corpi degli impiccati che evidentemente costituiscono una caratteristica del paesaggio urbano di quella Parigi del XV secolo, città enorme, popolosa, immiserita dagli esiti di una lunghissima guerra che ha opposto la Corona di Francia a quella d’Inghilterra. In questa città fosca e traumatizzata dalla paura (gli impiccati sono i condannati, anche di reati di cui Villon si macchia, furto, risse, una volta omicidio, seppur con l’attenuante delle provocazioni), quei corpi penzolanti indicano il cupo destino incombente sull’uomo.
Tranne che in alcuni casi, in cui lo nomina risplendente nei suoi Cieli, Villon non trova Dio in quel cielo troppo gelato dalla neve e troppo oscurato dai corvi e dai corpi penzolanti, neri come more, de-
gli impiccati. Lo trova dentro di sé, nel cuore del suo pensiero e della sua parola, lo scopre segreto metrico del suo verso. Siamo in una prospettiva abbassata, tutto si svolge sotto il livello del suolo perché quello è il livello sociale del poeta: sta in basso, all’ultimo posto, tra i diseredati, i disoccupati, gli sbandati. Sarà così, in basso, la sua ultima prigione. Così in basso, così umiliante e umiliata, che non condurrà alla morte sancita, all’impiccagione all’alba del giorno stabilito, ma, in quella stessa alba di quello stesso giorno, alla grazia. Poco prima dell’esecuzione, è ancora buio, dopo la sua ultima notte angosciato nella sua tana nera e gelata, il guardiano lo fa salire, gli comunica che è giunta la grazia. Qualcuno, nel mondo degli aristocratici, del clero, qualcuno che conta e che lo ammira, si è evidentemente occupato di lui. Villon è liberato nell’ora in cui avrebbe dovuto essere impiccato. Da quel momento non si sa più nulla di lui. Non è certo arbitrario dedurre che il potente protettore avesse programmato tutto, anche un repentino cambio di identità, per ritrovarsi da quel giorno un nuovo segretario o legato. Certo il grande poeta dei disperati e dei nomi trovò, almeno in senso giuridico, la Grazia.
UN POPOLO DI POETI Il gatto che si erpica lontano, fugge e guarda con dolore il suo padrone, fugge a un dolore, alla misurata casa, al suo cibo, al prelibato cibo, fugge e non sa dove, come gli uomini fugge, e non sa dove.
Quando nel disegno del fuoco lasci l’istante e ti riempi del colore dell’anima, nella solitudine pieghi i tuoi anni avvolti in una vecchiezza abbandonata, con una insonnia che si avvicina a suoni lontani, e ti lasci nella luce di una preghiera che sottile ti porta un soffio lieve come il bagliore della tua presenza, quando il nostro volto si fa sereno come un silenzio del cuore, guardo quel movimento del cielo e la tua certa figura mi segue, ci conforta.
Rosa Mangoni Renzo Fantacci
Parole tracciate da una mano che raccoglie un sussulto interiore e sente una sensazione che batte lenta nel cuore quasi come fosse una pace, un canto che è gioia si fissa nella finestra e più non si sentono i rumori della strada ma c’è una pace sconosciuta proprio mentre sopra il firmamento è pieno di stelle che ci fanno da tetto e ci inducono a pensare che quello non sia solo cielo ma il volto di Dio. Franca Donnici
«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
MobyDICK
pagina 14 • 28 giugno 2008
MOSTRE
arti
Sambonet
Il traguardo di (la linea come punto d’arrivo) N
el bel mezzo della fuffa assessoriale d’una confusa celebrazione del World Design Capital a Torino, al più qualche fotografia-stendardo spalmata sott’i portici o l’autentico scandalo mercantile del sovrano scalone di Juvarra, a Palazzo Madama, svenduto ai posticci pianerottoli fieristico-espositivi di Cassina, che finge di offrire pezzi autentici di Le Corbusier, e invece son lucide repliche, ancora odorose di fabbrica e di prossimo smercio, ebbene nello stesso violato Palazzo Madama, imperdibile, è la sorprendente multi-retrospettiva dedicata all’originale ingegno di Roberto Sambonet: grafico fantasioso, pittore anticonvenzionale (in un’Italia votata al conformismo della scolastica picassiana e all’astrattismo di riporto) e soprattutto designer essenziale e mai sufficientemente apprezzato. Mostra sorprendente, si diceva, perché colpevolmente e miopemente, il suo nome (eran gli anni della formula, molto Gropius-Bruno Munari, «dal cucchiaio alla città») è legato soprattutto alla multiforme attività di designer di posate e alle sue celebri pesciere a fagiolo, che devon molto alla sua devozione-amicizia con Brancusi, nitore lucido e taglio pulitissimo, quasi primordiale, stampate in moderne carrozzerie d’acciaio inossidabile (la sua meteora di vercellese, nato nel 1925, passa attraverso la ben nota ditta di famiglia, specializzata in posate e pentole, che dall’argenteria d’Ottocento si converte ai nuovi metalli inossidabili). Ma appunto, questa vivace rassegna di sorprese, concertata da Enrico Morteo, con abile arte e creativa d’accrochage, dimostra quali altri e molteplici e forse non meno stimolanti furono i vari talenti di Sambonet, una miriade di Compassi d’oro e di altri premi degni. Non si dimentichi il suo legame con il grande nordico Alvar Alto, che lo prende a ben volere, e soprattuttuo la sua fuga brasiliana, ben cinque anni, con la prima moglie d’origine sudamericana, e l’appoggio di quella figura singolare che fu Pier Maria Bardi, tra i fondatori della rivista Valori Plastici, che si rinnova poi in ideatore del notevole Museo di San Paolo, accanto alla moglie-architetto,
di Marco Vallora
Lina Bo appunto Bardi, e quell’impagabile veggente che fu Emilio Villa (che scrisse, per i suoi ramificati disegni di vegetazione tropicale, meravigliosi pensieri critici, in un rarissimo volume 22 cause + 1, curato dal grafico Max Huber, che dovrebb’esser citato dalla prima riga all’ultima, tanto è strano e proteiforme e illuminante). Anche del carattere di Sambonet, disegnatore sopraffino (ma soprattutto diarista dei profili immaginosi di onde marine, che si rompono, nello sguardo d’un navigatore accanito) e grafico davvero infallibile. Quante volte si passa di fronte al logo essenziale della Banca Crt, o si ammira lo storico manifesto d’invito a Brera, col solo uovo pendente di Piero della Francesca, placcato nella sua abside genialmente pubblicitaria, senza ricordarsi del suo nome. Il suo è un modo inconfondibile di racchiudere una narrazione in pochi tratti, che rivelano anche la sua sapienza rara di ritrattista-ladro di fisionomie: basterebbero gli schizzi dei volti di Gregotti e Sottsass o l’olio di Gae Aulenti, ragazzina imbronciata e saputa, o la severità liturgica d’un Lamberto Vitali funerario, a tradire il vero maestro. Che non ha nulla a che fare con le stitichezze paradigmatiche dell’odierna moda minimalista, brulla d’ogni immaginario (lui «ruba» per esempio la firma di Klee e ne ricompone un variato, divertente, bachiano Gradus ad Parnassum della fantasia grafica, assai lontano dal rictus presbiteriano del teutonico Bauhaus, pur ben metabolizzato e omaggiato). Ma ha ragione Morteo, quando spiega che la sua linea essenziale è un punto d’arrivo, non di partenza: «un traguardo raggiunto attraverso un lavoro che distilla e riduce. Il semplice per lui non è sinonimo di elementare (...) è la capacità di svelare l’essenzialità senza per questo rinunciare a una forma di raffinata pienezza». Mostre come queste aiutano a guarire dalla prosopopea pregiudiziale di conoscere già tutto, su un argomento così ancora segreto quale il design.
Roberto Sambonet. Designer, grafico, artista, Torino, Palazzo Madama, sino al 6 luglio
autostorie
Quando mio padre Enzo Ferrari mi proibiva il motorino di Paolo Malagodi ulle glorie sportive e intorno alle vicende personali di Enzo Ferrari parecchio è stato scritto e molto si continuerà a pubblicare, specie in opere dalla carta patinata, con libri strenna di immancabile successo sui ricorrenti fasti delle «rosse». Mancava, nondimeno, un tassello fondamentale all’esplorazione di un complesso personaggio che, a lungo e segretamente, si divise negli affetti tra due donne e i figli da esse avuti. Tuttavia la prima unione, con Laura Garello, si andò esaurendo dopo la morte nel 1956 del ventiquattrenne primogenito Dino, mentre il secondo legame con Lina Lardi ha permesso la trasmissione del cognome Ferrari al figlio Piero, nato nel 1945 e oggi vicepresidente dell’omonima
S
azienda. Anch’egli imprenditore di successo e insignito di laurea honoris causa in ingegneria, l’erede del costruttore di Maranello ha preferito mantenere a lungo il più stretto riserbo sui rapporti con il mitico padre. Sino a quando non è scaturita, dai colloqui amichevoli con il giornalista Leo Turrini, una testimonianza esclusiva (Ferrari, mio padre, Aliberti editore, 208 pagine 18,00 euro) che offre una chiave di lettura del tutto particolare su chi seppe trasformare la vita in una straordinaria avventura, votata alla realizzazione delle più belle e potenti automobili del mondo. «Ma che nella dimensione familiare era atterrito dalle stesse cose che lo avevano reso grande, che gli avevano permesso di realizzarsi. Ho dovuto combattere a lungo - confessa il figlio Piero per convincerlo a comprarmi un motori-
no, quando avevo abbondantemente superato i quattordici anni». Parimenti sarà durissimo il rimprovero del padre all’ormai quarantenne Piero, colpevole di aver provato in pista un modello da corsa: «Lui lo venne a sapere e alla fine del test mi piantò una scenata clamorosa. Non dovevo guidare macchine da gara, punto a basta!». Molti sono i particolari inediti, a cominciare da «un’ammirazione per Guareschi che sconfinava nella venerazione. Si conoscevano e ogni tanto si vedevano. Papà ha sempre dichiarato che gli sarebbe piaciuto moltissimo saper scrivere come Guareschi e fu uno dei pochi a rendere omaggio alla salma di Giovannino». Così apprendiamo che, negli incontri con importanti esponenti politici, si manifestò sempre un notevole distacco e come quando a Enzo Ferrari, già pilota
famoso, capitò di accompagnare Benito Mussolini su un’Alfa Romeo lungo la via Emilia: «Pranzarono insieme a Sassuolo, poi ripartirono per Pavullo. Parlarono tanto di donne e di motori, due passioni che senz’altro avevano in comune. Ma poco di politica». Oppure quando, a metà degli anni Cinquanta, Palmiro Togliatti visitò Maranello «con gli operai della Ferrari che per il novanta per cento erano simpatizzanti comunisti e si spellavano le mani. Ma la conversazione tra mio padre e Togliatti non sfiorò le grandi questioni ideologiche». Fra cronaca e storia, le parole di Piero Ferrari tracciano così un lungo affresco che comprende ovviamente molti piloti, da Fangio a Lauda e Villeneuve, descritti però non come eroi con il casco in testa ma quali persone in preda a normali paure e banali gelosie.
MobyDICK
28 giugno 2008 • pagina 15
ARCHITETTURA
Roma e la pietra, da Vespignani ai Martinori iazza del Quirinale è congegnata come un palcoscenico configurato dal Quirinale, la Consulta e le scuderie pontificie, palazzi barocchi che orchestrano, intorno al gruppo dei dioscuri, l’irregolarità della piazza, intersecata da prospettive contrapposte. Questa sistemazione risale all’Ottocento: precisamente al 1864, quando l’architetto Virginio Vespignani regolarizza il clivo scosceso di Monte Cavallo - così era denominato il Quirinale dall’antico gruppo statuario - in funzione della nuova stazione ferroviaria di Termini e del tracciato di via Nazionale.Vespignani interpreta con geniale sensibilità lo spazio barocco e riscatta la prevedibilità della sua produzione, generalmente sul filo di un gracile classicismo, con veniali incursioni eclettiche. Si pensi al fronte sulla Nomentana di Porta Pia o a Porta San Pancrazio: declinazioni dignitose quanto monotone di un lessico esausto. Tuttavia il ruolo di Vespignani è fondamentale, non solo per i tanti edifici costruiti a Roma, quanto per la sua capacità di interpretare e compiere l’immagine complessiva di Roma rinascimentale e barocca, quale la percepiamo, nonostante i sovvertimenti degli anni Trenta. La figura e l’opera di Vespignani, pur essendo fondamentali per la storia e l’immagine architettonica di Roma, così come apparve ai bersaglieri da Porta Pia, sono state
P
di Marzia Marandola trascurate dalla storiografia. Il vuoto è finalmente colmato da uno studio dettagliato e denso di novità di Clementina Barucci, con un corredo iconografico vasto e godibile, che affianca la scorrevolezza narrativa del testo come un autonomo percorso di conoscenza. Dagli ampliamenti e dai restauri, che costituiscono la sezione più corposa e interessante della produzione edilizia di Vespignani, accanto alla disinvolta familiarità con i modelli classici, rinascimentali e barocchi, si evince un’eccezionale sapienza costruttiva, che viene da lontano: dalle botteghe tardomedievali, dalle sperimentazioni rinascimentali e barocche che fecero di Roma la
capitale dei marmi e delle pietre, fossero esse di cava, di scavo o di stucco. Questo vivacissimo aspetto della cultura romana del costruire, è gestito in primo luogo dai marmorari, scalpellini, artigiani e imprenditori, depositari di un sapere che ha lasciato memorie rilucenti nel corpo fisico della città fino agli inizi del XX secolo.Tra i marmorari il cui destino professionale si intreccia ripetutamente con quello dell’architettoVespignani, spicca l’intraprendente genia dei Martinori. Alla poliedrica attività e alle variegate esistenze dei fratelli Fortunato, Pietro e Domenico Martinori è dedicata una brillante ricerca, curata da Simonetta Ciranna e, per felice coincidenza, pubblicata in contemporanea con il volume di Barucci. Lo studio di Ciranna, accurato e seducente sotto il profilo narrativo, sorprende e affascina per lo smalto iconografico e la vivacità critica, per la capacità di restituire il sapore di una Roma brulicante di uomini, operosa, minuta e sontuosa, seppure al tramonto della sua grandezza. Clementina Barucci, Virginio Vespignani. Architetto tra Stato Pontificio e Regno d’Italia, Argos, 382 pagine, 75 euro; Simonetta Ciranna, I Martinori. Scalpellini, inventori, imprenditori dalla città dei papi a Roma capitale, Camera di commercio di Roma, 385 pagine, 34,00 euro
ARCHEOLOGIA
Il tesoro dei siriani nello Wadi Natrun
na collezione libraria ricchissima di testi siriaci e di tesori artistici è, ancora oggi, conservata in Egitto. E un intervento pianificato di consolidamento e di restauro dei manoscritti è ormai considerato indispensabile. Il progetto vedrà impegnate le attuali e le nuove generazioni di monaci che custodiscono tali tesori, adeguatamente formati e coadiuvati dalla Levantine Foundation. Da più di tremila libri e da molti altri documenti in siriano, aramaico, copto e arabo, datati tra il V secolo dopo Cristo e il presente, è, infatti, costituito il patrimonio del «Monastero dei Siriani» il Deir al-Suryan, nello Wadi Natrun, la
U
di Rossella Fabiani «Valle del Sale»: una depressione del deserto libico, a metà strada tra il Cairo e Alessandria, a Ovest della cosiddetta desert road. Il convento dei siriani era famoso per l’insegnamento, possedeva infatti una biblioteca ricchissima; mille volumi furono trasferiti nel XIX secolo al British Museum. Anche Shenuda III, attuale papa della Chiesa copta ortodossa e patriarca di Alessandria ha studiato in questo monastero. Il prezioso patrimonio librario si formò a partire dal secolo X, quando l’abate della comunità, Mosè di Nisibi, letterato e uomo di cultura, nel 927 si
recò a Baghdad per ottenere dal califfo abasside Al Muktadir bi’llah l’esenzione fiscale per il monastero. Soddisfatte le sue richieste, l’igùmeno (l’abate del convento), colse l’occasione per viaggiare in Siria e in Mesopotamia dove raccolse importanti testi religiosi. Dopo tre anni di ricerche ritornò in Egitto nel suo monastero con una collezione di duecentocinquanta antichi manoscritti siriaci che vennero custoditi nella biblioteca del cenobio facendone un punto di riferimento fondamentale per la storia e la cultura della Siria. La biblioteca si arricchì ulteriormente grazie all’incessante e feconda attività letteraria dei monaci, soprattutto nel XV e nel XVI secolo, tanto da attirare le attenzioni della Biblioteca Vaticana; nel 1707 un suo inviato, Elias Assemani, vi acquistò 40 volumi di manoscritti in siriano. Da allora cominciò la diaspora dei tesori del Deir alSuryan, parte dei quali trovarono colloVeduta del monastero dei siriani a Wadi’n Natrun
cazione nel già citato British Museum, nella Bibliothèque Nationale di Parigi e, appunto, nella Biblioteca Vaticana. In questa località, gli antichi egizi vi estraevano il natron (carbonato di sodio), usato per mummificare i defunti, da qui il nome di Wadi Natrun. Oggi, invece, il suo uso è limitato al candeggio del lino e alla produzione del vetro. I greci chiamarono l’area Nitria o Nitriotis, i romani Scyatiaca regio e i copti Shiet. Nei primi anni del cristianesimo il deserto dell’area di Scete (attuale denominazione del luogo dove si trova lo Wadi Natrun), come anche quello di Nitria (Kellia), sempre nel Delta egiziano, si popolò di anacoreti. Nel 330, San Macario fonda la vita monastica (cenobitismo) e con una rapidità straordinaria il deserto si coprì di monasteri: quasi settecento. Le fonti raccontano che «la durezza della vita a Scete era al limite dell’umana sopportazione». Nel V secolo vi si rifugiarono i monaci origenisti perseguitati dal patriarca Teofilo. Ma in seguito ai numerosi attacchi dei predatori del deserto, i conventi furono distrutti e i monaci massacrati. All’inizio del VII secolo i persiani invasero l’Egitto distruggendo una buona parte dei monasteri. Oggi soltanto quattro conventi (fondati nel IV secolo e restaurati) sono ancora attivi.
pagina 16 • 28 giugno 2008
FANTASCIENZA
razie al Freedon of Information Act, la legge sulla libertà di informazione dei paesi anglosassoni, e all’ostinazione di alcuni ufologi britannici, così come è già avvenuto negli Stati Uniti per i dossier conservati dalla Cia, così anche i National Archives di Londra stanno per rendere pubblici i 24 faldoni in cui sono conservati circa settemila verbali sugli «oggetti volanti non identificati» raccolti in trent’anni da un ufficio del servizio segreto militare, di cui sino a ora non si conosceva nulla, il DI55. Il che vuol dire che da decenni il ministero della Difesa inglese aveva un apposito dipartimento incaricato di seguire la questione di cui sino a ora aveva negato l’esistenza. I verbali su carta velina e a quanto pare contaminati dall’amianto, saranno scannerizzati su files e messi a disposizione «a rate».
G
Già qualcosa è trapelato sui giornali, anche se in sunto. Due le considerazioni da fare. La prima è che le testimonianze di semplici cittadini e di militari (in genere aviatori) non si discostano da quelle sino a oggi conosciute: gli Ufo sono lunghi cilindri scuri, o oggetti lenticolari brillanti, o punti verdi fluorescenti, o fusi color arancione. Siamo nella norma, insomma. Il secondo punto è che questi avvistamenti si sono verificati fino all’altro ieri, ma sui media praticamente nulla è trapelato: l’argomento non è più considerato giornalisticamente appetibile, oppure le autorità hanno pensato bene di non passare alla stampa le notizie? Sta di fatto, però, che la settimana scorsa su tutti i quotidiani inglesi è uscita la notizia che un elicottero della polizia ha avuto un «incontro ravvicinato» con un Ufo che è stato anche fotografato... Il particolare che, almeno in Gran Bretagna, sino a pochissimo tempo fa fosse un organismo dei servizi segreti militari a raccogliere le testimonianze e a vagliarle,
MobyDICK
ai confini della realtà
Gli Ufo di Sua Maestà Gianfranco de Turris vuol dire che, nonostante le minimizzazioni ufficiali, la questione non è mai stata considerata una sciocchezza o una fantasia popolare. Da qui una deduzione quasi ovvia: ancora non si sa dare una spiegazione esatta e definitiva del «fenomeno Ufo» nel suo complesso. Nonostante siano state avanzate ponderose spiegazioni di tipo scientifico, sociologico, psicologico, culturale, ancora nessuno è perfettamente sicuro che gli Ufo siano soltanto, ad esempio,
neologismo flying saucer, a oggi. Sono veramente «oggetti» solidi o non lo sono? Sono un «mito moderno», mandala tecnologici, come affermava Jung, oppure
I National Archives di Londra stanno per rendere pubblici 24 faldoni con 7 mila verbali sugli oggetti volanti non identificati, raccolti in trent’anni. Un fenomeno ancora misterioso ma, evidentemente, non trascurato. E di cui molta letteratura ha dato conto: da Astolfo a Wells un fenomeno naturale, un’allucinazione singola o collettiva, un imbroglio in mala fede, un fraintendimento in buona fede, illusioni ottiche. A quanto pare una spiegazione definitiva e complessiva ancora non esiste, nonostante le migliaia di libri e indagini compiute in tutto il mondo dal 1947, l’anno del primo avvistamento «ufficiale» di Kenneth Arnold (Monte Rainer, negli Stati Uniti) e della nascita giornalistica del
no? Sono pilotati da extraterrestri o da esseri umani? Sono tutti, ma veramente tutti, fenomeni naturali, rifrazioni, eclissi, nuvole, aurore boreali, meteoriti? Sono tutti, ma veramente tutti, modi ideati da persone qualsiasi per mettersi in mostra e apparire sui giornali, intervistati e fotografati? Sono proiezioni inconscie del nostro immaginario influenzato dalla cultura scientifica, dalla letteratura di fantascienza? Sono ap-
parizioni improvvise dovute a squarci del continuum spazio-temporale o dimensionale? È il modo in cui oggi, nel secolo XX e XXI si mostra una «cultura» che secoli fa si manifestava invece sotto forma di demoni e dèi prima, e poi di fate e folletti, insomma il Piccolo Popolo?
Ancora nessuno sa dare una risposta definitiva e convincente al fenomeno. Ma se il DI55 l’ha catalogato e studiato ci sarà pure un perché, no? Ovviamente la letteratura dell’immaginario se ne è occupata da sempre, da quando è nata. Anzi, di «extraterre-
stri», degli abitanti degli altri mondi, come dimostra bene un recente saggio (Extraterrestri, Carocci, 2008) i filosofi ne hanno discettato sin dall’antica Grecia. Esseri alieni ce li hanno descritti spiriti illustri come Cyrano (Gli Stati e gli Imperi del Sole e della Luna, 1657-1662), Swift (I viaggi di Gulliver, 1726),Voltaire (Micromegas, 1752). Anche questi si muovevano nell’aria, magari su un pallone e su un’isola volante. Nulla di nuovo sotto il sole: a ogni società i suoi mezzi di trasporto: anche Astolfo andò sulla Luna con l’ippogrifo e non con un missile e un modulo di atterraggio... Bisogna aspettare i brutti marziani della Guerra dei mondi di Wells (1898) per vedere giungere sulla Terra macchine simili, appunto, ai «dischi volanti», per di più con intenzioni conquistatrici. Che sia questo adeguamento del fenomeno alla situazione e al punto di vista della nostra attuale civiltà la vera risposta?