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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“L’Arte della gioia” un caso editoriale

IL GATTOPARDO DI GOLIARDA di Pier Mario Fasanotti occasione poteva essere colta dall’Adelphi, così attenta ai successi degli Ancora una volta l’editoria italiana prende schiaffi da quella europea, soprattutto italiani all’estero e agli scritti dei defunti dell’Europa centrale, opdai francesi che hanno avuto il coraggio di definire L’arte della gioia (edito a Simile pure dall’Einaudi, che pone molta attenzione al catalogo e alParigi nel 2005) un grande evento letterario. Prima tiratura: ottomila coal capolavoro le opere che durano nel tempo. È arrivata per prima la pie. Ne vende duemila il primo giorno, via libera alle ristampe. Nel di Tomasi di Lampedusa casa editrice torinese, rimediando così a un suo «peccato» vigiro di due mesi le vendite salgono a 80 mila. Seguono le trasto che il romanzo di Goliarda Sapienza, L’arte della duzioni in tedesco, portoghese, catalano, olandese, greco, il destino del romanzo coreano (addirittura). Un passaparola internazionagioia, l’aveva rifiutato nel 1979 senza fornire alcudella Sapienza. Rifiutato nel ’79 dallo stesso le che ha trovato completamente distratti gli na motivazione. Ora anche i lettori italiani poseditore che ora si redime pubblicandolo, editori italiani. Fino a pochi giorni fa, quando la sono apprezzare un libro denso e originale che Einaudi ha mandato in libreria l’impresa di quella alcuni critici avevano accostato a Il Gattopardo di è stato a lungo circondato donna che ironicamente veniva chiamata «la gattoparda». Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Non tanto per l’impianto dall’indifferenza. In 511 pagine (prezzo di 20,00 euro) l’avventura a tinte forti di narrativo, quanto per la passione e l’originale complessità che ci Ma non in stanno dietro. Anche Il Gattopardo è stato un caso: rifiutato da molti una donna, Modesta, nata il primo gennaio del 1900. editori (tra cui la Mondadori), divenne poi uno dei long-seller italiani e monFrancia... continua a pagina 2 diali della seconda metà del Novecento. E «caso» è il romanzo della Sapienza.

L’

9 771827 881301

80712

ISSN 1827-8817

Parola chiave Illuminismo di Sergio Belardinelli Ry Cooder, le radici dell’America di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Aborto e progresso: l’impegno civile di Giacomo Leopardi di Leone Piccioni

Acraia, il Sud e il mare come fatalità di Maria Pia Ammirati Vitaliano Brancati e il cinema di Orio Caldiron

Il Secondo Futurismo di Nicola Diulgheroff di Marco Vallora


Il Gattopardo di

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segue dalla prima

mazioni esatte». La Sapienza nel 1979 «rubò dei gioielli in casa di un’amica napoletana, una donna ricca della quale era stata innamorata e da cui si sentiva ormai umiliata, presa in giro per la sua povertà (aveva tre anni di affitto arretrato e aveva già venduto i quadri e i mobili di valore). Goliarda voleva mettere alla prova l’amicizia, ma voleva anche provare il carcere. C’erano parecchi motivi, non tutti chiari, nemmeno a se stessa». La Sapienza vende i gioielli a un commerciante milanese senza preoccuparsi di non lasciare tracce.Viene arrestata ai primi del 1980. Certi quotidiani che rincorrevano chiassosamente il gossip, come per esempio L’Occhio (diretto da Maurizio Costanzo) mise in prima pagina la foto della narratrice sotto una gran freccia nera che le punta il centro del cranio.Titolo: «È la moglie del regista “Citto”Maselli. La scrittrice va in carcere». Il Corriere della Sera è più ferocemente sobrio: «Catanese di nascita, romana di formazione, “pariolina” per scelta di costume, “intellettuale di sinistra e chic” (quale lei si definisce con arrogante ironia), cinquantasei anni, ex moglie di un regista cinematografico, sceneggiatrice, attrice di Visconti nei primi decenni del dopoguerra, tre anni in analisi dopo due tentativi di suicidio, la biografia di Goliarda Sapienza mostra i segni di una predestinazione “maledetta”, ha le cadenze di una esistenza drammatica, si offre a interrogativi inquietanti».

Una donna intimamente anarchica, sia sentimentalmente che ideologicamente, che attraversa decenni difficili (c’è il fascismo e anche la mafia) e ingloba dati biografici e affettivi dell’autrice. La quale, con un’operazione insolita, parla di sé e dei suoi genitori prima della sua stessa nascita. Un meccanismo, come ha notato un critico, al limite dell’«incestuoso». Dal punto di vista letterario, ovviamente.

Goliarda Sapienza smentisce con la sua stessa prosa le etichette politiche che, quando era in vita, le furono appiccicate addosso: «pariolina della sinistra chic», per esempio. L’ideologia non sventola mai come manifesto o bandiera. Faceva forse comodo a chi non intendeva stampare il romanzo, magari senza averlo nemmeno letto. Mi riferisco all’allora direttore editoriale della Rizzoli, Sergio Pautasso. Al quale la Sapienza replicò così: «…lei non ha letto una sola riga del manoscritto, e la posso capire: ho visto quale inferno è il suo ufficio-galera a Milano…. si legga la mia Modesta quando potrà. Forse riprenderà la forza di non essere più il forzato del suo lavoro, o del suo talento o del suo dovere». Non le mandava certo a dire, la signora Goliarda («donna sì, ma senza artigli»), sia pure con garbo all’arsenico. Correva l’anno 1979. E la Rizzoli di oggi, che ha pure nei tascabili altri due romanzi della Sapienza? La casa editrice milanese è tutta impegnata a lanciare un altro tipo di narrativa, per esempio il Mi tengo le curve di Bernarda Del Vecchio, che fece (un po’) parlare di sé con un libro (Castelvecchi editore) sull’erotismo dei piedi. In ogni caso la Rizzoli è refrattaria a presentare autori con i capelli ingrigiti, figuriamoci se morti, anche se i loro scritti hanno magari chances di vendita proprio per un valore intrinseco. Il fast-food del marketing impone le sue regole. Salvo rare eccezioni, è chiaro. La prefazione dell’Arte della gioia è scritta, nell’edizione einaudiana, da Angelo Pellegrino. Che fu marito della Sapienza. Racconta il percorso del libro, anteponendo i fatti a un pur comprensibile rancore personale. Goliarda per scrivere il suo Gattopardo si isolò alla sua maniera, senza però rinunciare al lavoro di attrice. Ci impiegò dieci anni e nel 1976 diede a Pellegrino mille pagine scritte con la biro. Questi pubblicò a sue spese il romanzo: un migliaio di copie per i tipi di Stampa Alternativa. Era il 1998, due anni dopo la morte della moglie. Fu spedito a vari critici: silenzio. Passarono tre anni e una dirigente di Rai 3, Loredana Rotondo, mandò in onda un documentario sula vita della Sapienza, infilandolo nella serie intitolata Vuoti di memoria. Qualcosa (poco) si mosse. Stampa Alternativa ripubblicò L’arte della gioia nel 2003. Ma, annota Pellegrino, «cominciò a farsi strada un certo interesse, più di costume che propriamente letterario, come è sempre stato nel destino dell’opera di Goliarda».Vergogna per grandi editori italiani quando la critica francese si espresse così: …c’est vraiment merveilleux. Un dirigente editoriale italiano aveva scritto un commento bilioso: «È un cumulo di iniquità. Finché io sarò vivo non permetterò la pubblicazione di un libro simile». Un suo collega, più sbrigativo, fece una sorta di recensione telefonica: «Ma che c’ho a che fare io con questa roba?!». Per colpa delle batoste del mercato librario e di altre disavventure, Goliarda Sapienza visse alcuni anni nella povertà assoluta, dopo aver confidato così tanto in ciò che aveva scritto («rubando il tempo alla felicità»). Pellegrino conclude con queste parole la sua prefazione: «Sono certo che i lettori vedranno la gran quantità di vita racchiusa in questo romanzo, come se Goliarda si fosse rivalsa sulla sorte che non aveva voluto che avesse figli, lei che ne desiderava tanti quanti la madre, che ne ebbe otto. Non dimenticherò mai la dedica che il poeta Ignazio Buttitta appose su un volume di poesie che le regalò: «A G.S. ca è matri di tutti e un havi figghi». Ma quali sono state le tribolazioni di Goliarda? Un intreccio di mondanità intellettuale e di guai giudiziari. Le riassume il critico Domenico Scarpa, indignandosi su come sia «facile maltrattare la vita di una persona, ancora più facile riuscirci diffondendo sul suo conto infor-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

goliarda

Dall’alto: Goliarda Sapienza; Elsa Morante che incontrò con la sua “Storia” non poche avversità; Tomasi di Lampedusa; Giorgio Manganelli che negli anni Settanta condannava la forma romanzo; Alberto Moravia estimatore su “Nuovi argomenti” della prosa di Goliarda Sapienza

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

Chi scrisse questa notarella, potrebbe leggersi quanto ha dichiarato un critico spagnolo: Hay autores cuya vida es tan fascinante come su obra literaria. Gli iberici afferrano al volo che talvolta fortuna e disgrazia vanno a braccetto: El caso de Goliarda Sapienza es paradigmàtico. A parte i fatti della sua esistenza quotidiana, c’è da registrare quanto si pensava del romanzo negli anni Settanta, un decennio che molti hanno definito «devastante» per la cultura. La Sapienza si affacciava in quel mondo, imbrigliato dai pregiudizi della moda marxista, con già alle spalle dei libri pubblicati. La sua Lettera aperta venne edito nel 1967 dalla Garzanti (che in seguito rifiutò L’arte della gioia). Le sue poesie inedite ebbero l’apprezzamento di Attilio Bertolucci. Alberto Moravia pubblicò su Nuovi Argomenti alcune sue prose, elogiate da Enzo Siciliano e Pier Paolo Pasolini. Lettera aperta si ritroverà in gara per lo Strega. I «presentatori» furono Bertolucci e Natalia Ginzburg.Vinse, in quell’anno, Anna Maria Ortese con Poveri e semplici. Quando L’arte della gioia è uscito in Francia, nella prima pagina di Le Monde Des Livres il critico René Ceccatty ha scritto: «Che cos’era l’Italia letteraria nel 1976 quando Goliarda conclude questo romanzo sbalorditivo? Un paese che provava disagio a guardarsi e a scegliere un linguaggio romanzesco». C’era, per esempio, Giorgio Manganelli che insinuava che ogni romanzo è un «romanzone», sostenendo che più di 40 righe sono un eccesso. Eppure l’«eccesso» comparve in varie forme. Si pensi a La storia di Elsa Morante (stroncata da il manifesto che intervenne ben 14 volte sullo «scandalo» letterario, Pasolini e Siciliano complici), a Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, a Corporale di Paolo Volponi, a Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino. Il «romanzo italiano» era proprio l’esempio vivente di un ossimoro, come qualcuno acutamente disse? Osserva Domenico Scarpa: «L’autore che vuole riemergere, il romanziere che parecchi anni or sono ha già pubblicato un paio di opere di medio successo, costituisce uno spauracchio per ogni redazione editoriale».Valeva una volta, vale anche oggi. I cosiddetti lettori professionisti sbirciano i dattiloscritti oppure ascoltano solo le sirene dell’ufficio marketing? Nel ’76 certamente non si soffermarono su un’involontaria lezione letteraria contenuta a pagina 135 dell’Arte della gioia: «…studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali…ve poi ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne di nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce…».

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ILLUMINISMO illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». Questo il celebre incipit dell’altrettanto celebre Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. Seppure per motivi diversi da quelli che avevano in mente i fondatori della «Scuola di Francoforte», credo che oggi, a sessant’anni di distanza dalla pubblicazione di quella loro opera, si riproponga con urgenza lo stesso compito: salvare l’illuminismo dalla sua «autodistruzione». E questo nella precisa consapevolezza che le cause di questa possibile «autodistruzione» vadano cercate «nell’illuminismo stesso paralizzato dalla paura della verità» (sono sempre parole di Horkheimer e Adorno).

«L’

Viviamo in un’epoca sempre più indifferente se non addirittura ostile alla verità; ciò che soprattutto ci affascina è la libertà; una libertà che vorremmo come unica misura di se stessa, proprio nel senso del relativismo vigorosamente stigmatizzato da Benedetto XVI. Paradossalmente però appare sempre più evidente come questa ipertrofia soggettivistica della libertà stia producendo non tanto e non solo maggiore autonomia, maggiore capacità di scelta o maggiore democrazia, bensì la loro crisi, diciamo pure la crisi della libertà. Paradigmatiche in proposito certe derive naturalistiche della cultura contemporanea, per le quali l’uomo non sarebbe altro che l’esito dell’evoluzione di antiche comunità batteriche, oppure la pretesa di poter fabbricare l’uomo su misura, grazie alle biotecnologie, oppure il progressivo confinamento dell’uomo nell’«ambiente» di sistemi sociali (la tecnica, l’economia, la stessa politica) che sembrano funzionare sempre di più come se l’uomo non esistesse. Incominciamo a imparare a nostre spese che non può esserci passione per la libertà se non c’è passione per la verità. La vera Dialettica dell’Illuminismo si gioca insomma su questo tema e, sia detto per inciso, l’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II e i discorsi di Benedetto XVI all’Università di Regensburg e di Roma (dove purtroppo non ha potuto leggerlo), ne rappresentano senz’altro uno dei livelli di consapevolezza più alta. Si tratta di una dialettica, dietro la quale sta precisamente l’illusione di certa cultura moderna che ritiene di guadagnare in libertà accantonando la verità e che si ritrova invece a fare i conti con il rischio di perderle entrambe, e comunque con una diffusa e preoccupante indifferenza sia nei confronti dell’una che dell’altra. In altre parole, ci siamo dimenticati che l’illuminismo viveva principalmente del pathos di una ragione capace di cogliere la verità. Di conseguenza, come peraltro aveva già intuito Friedrich Nietzsche, venuto meno questo pathos, finisce per venir meno anche l’illuminismo. Ben lungi dal rappre-

La forza di un pensiero in continuo progresso risiede nella passione per la verità che la ragione non si stanca di ricercare. Ma oggi domina l’illusione che si guadagna in libertà quanto più si accantona la verità. Ecco perché la ragione si va autodistruggendo

Il pathos perduto di Sergio Belardinelli

Una ragione che spinge le grandi domande della religione nell’ambito dei desideri privati, non è capace di promuovere alcuna forma di autentico dialogo sentare una gabbia per l’autonomia e la libertà degli individui, solo la verità è in grado di dare il giusto senso alle nostre scelte e alla dialettica democratica stessa. È quasi stucchevole trovarsi a discutere di tutto, anche di questioni di vita e di morte, senza la fiducia che esistano argomenti più validi di altri - più validi perché più vicini alla realtà delle cose, non certo perché condivisi da un maggior numero di persone. E credo che sia proprio questa mancanza di fiducia nella verità la causa «prima», anche se non molto «prossima», di gran parte dei problemi che gravano sulla nostra cultura e sulle nostre istituzioni liberaldemocratiche. Come diceva molto bene la nota della Congregazione per la dottrina della fede sui cattolici e la politica, pubblicata nel

2003 e oggi ritornata d’attualità proprio sulla scorta delle discussioni sulla laicità delle nostre istituzioni, «in una società dove la verità non viene prospettata e non si cerca di raggiungerla, viene debilitata anche ogni forma di esercizio autentico della libertà, aprendo la via a un libertinismo e individualismo, dannosi alla tutela del bene della persona e della società intera». Solo la verità rende possibile la tolleranza e il pluralismo. Senza la verità perde ogni forza anche la ragione; non restano che la demagogia, lo scontro tra posizioni ritenute per principio incommensurabili tra loro e quindi la lotta per il potere fine a se stesso. Oggi, come tutti sappiamo, il pluralismo e la tolleranza vengono fondati per lo più sulla convinzione che non esista alcuna ve-

rità o, che è lo stesso, sulla convinzione che esistano tante verità quanti sono gli individui. Una sorta di pirandellismo preso alla leggera domina in questo senso gran parte della nostra cultura. Un campione dell’Illuminismo, Immanuel Kant, ci direbbe invece che bisogna essere tolleranti, non perché la verità non esiste, quanto piuttosto perché nessuno di noi sbaglia mai totalmente in ciò che dice. Come si legge nelle sue Lezioni di logica, «non si dà alcun giudizio senza un ingrediente di verità; da ciò segue necessariamente che dobbiamo moderare di molto i nostri giudizi intorno agli errori degli altri». I singoli individui, al pari degli Stati, tendono spesso al dispotismo. Ma il Kant del famoso scritto Per la pace perpetua direbbe che «la natura vuole altrimenti». E come ha creato molti uomini (non l’uomo!), ognuno dei quali unico e irripetibile, così ha creato diverse lingue e diverse culture, affinché cerchino «un accordo e una pace che, a differenza del dispotismo, vera tomba della libertà, non sono prodotti e garantiti dall’indebolimento di tutte le energie, ma dal loro equilibrio nei contrasti della più viva emulazione».

«Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio», ci ha ricordato Benedetto XVI nel suo grande discorso all’Università di Regensburg. «Nel profondo», come dice il papa, qui si tratta davvero «dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione». Ed è da questo incontro che soltanto può scaturire un vero dialogo tra persone, tra culture e tra religioni diverse. Una ragione che, anziché cimentarsi con la verità o con le grandi domande della religione, le spinge nell’ambito dei desideri «privati», non è capace di promuovere alcuna forma di autentico dialogo. Al contrario. Una tale ragione può solo generare diffidenza e ostilità; e questo non soltanto da parte di coloro che magari identificano tout court la verità con la propria cultura e la propria religione, ma anche da parte di coloro che, pur sensibili alla differenziazione di religione e politica, religione e scienza, religione e arte, diciamo pure fede e ragione, non si rassegnano ad accettare un concetto troppo angusto di ragione, che consideri magari «irrazionale» tutto ciò che non rientra nei rigidi canoni di ciò che è semplicemente ragione scientifica. Ancora con le parole di Benedetto XVI: «L’Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire un grave danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza: è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente». Ma aggiungerei che questo deve essere anche il programma di una laicità e di una modernità che vogliano uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciate, allorché hanno smesso di prendere sul serio sia la verità sia la religione.


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rock

musica

Ry Cooder l’esploratore dei suoni d’America Q di Stefano Bianchi

uello del Buena Vista Social Club. Pronunci Ry Cooder e pensi subito allo scopritore degli arzilli vecchietti cubani. Chapeau. Ma la carriera del chitarrista slide con un debole per la Fender Stratocaster è anche (e soprattutto) altro: lo sanno bene i cinefili, che fra le colonne sonore di culto citano Paris, Texas, fiore all’occhiello nella discografia del sessantunenne originario di Los Angeles. E lo sanno bene i virtuosi del plettro, che recitano a memoria la classifica dei 100 migliori chitarristi redatta nel 2003 dalla rivista Rolling Stone. Ry Cooder, che si piazzò ottavo, viene anche ricordato insigne sessionman dei Rolling Stones in Let It Bleed e Sister Morphine. Oltre a essere il classico «uomo per tutte le stagioni», insomma, il talentuoso Cooder è l’esploratore ideale del suono americano: roots music, anzitutto. A dimostrarlo ci sono i suoi dischi, da Into The Purple Valley (’72) a Get Rhythm (’87), cui va aggiunto I, Flathead, degno epilogo della trilogia iniziata con Chavez Ravine (2004) e proseguita con My Name Is Buddy (2007) ragionando sulla multietnica California retrodatata a metà del Ventesimo secolo. La terra, cioè, del Barrio e delle strade polverose, dei night club e delle taverne. I, Flathead (Io, testa piatta) si riferisce ai blue-collar bianchi che a Los Angeles, dopo la seconda guerra mondiale, si contrapponevano agli inamidati white-collar in giacca e cravatta. Erano gli operai del faida-te, che manuali alla mano sapevano aggiustare tutto. Compresi i motori, facili da

truccare per poi lanciare in folli corse automobilistiche. Motori che filano a pieno regime in questi 14 brani fatti di blues, afrori messicani, country, meticciato sonoro. In poche parole: il tipico stile vintage di Ry Cooder, che per l’occasione si alterna alla chitarra, al mandolino e al basso coadiuvato da Jim Keltner (batteria), Jon Hassell (tromba), Flaco Jimenez (accordeon) e da altri strumentisti d.o.c. E in più, mette in mostra una voce calda, pastosa, persuasiva. Kash Buck, l’immaginaria testa piatta protagonista di questo concept album insieme al gruppo musicale The Klowns e a Shakey l’alieno, sgommano negli anni Cinquanta del country puro e semplice inanellando delizie come Spayed Kooley, Johnny Cash (il titolo dice già tutto) e 5000 Country Music Songs; accelerano nella passionalità «chicana» di Fernando Sez e Filipino Dancehall Girl ; si abbandonano alla solarità di Drive Like I Never Been Hurt, alla suadente melodia di My Dwarf Is Getting Tired e ai sussurri di Flathead One More Time. E non perdono neppure il gusto del passo felpato e jazzato (Can I Smoke In Here?), dello swing (Steel Guitar Heaven) e del rock blues d’impronta rollingstoniana (Ridin’ With The Blues). E laggiù all’orizzonte, per i leggendari manovali del do it yourself, il traguardo è il suono riverberato e desertico di Little Trona Girl, che accarezza il canto coi controfiocchi di Juliette Commagere. Ry Cooder, I, Flathead, Nonesuch/Wea, 20,60 euro

in libreria

MAX PEZZALI “SI RIPRENDE LA VITA”

mondo

riviste

IL RITORNO DI ARETHA FRANKLIN

LA TOURNÉE ITALIANA DI SERGIO CAPUTO

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uattro amici, una Mini e un concerto a Londra: è il 1988, l’ex leader dei Clash riappare sulle scene e per i quattro ragazzi inizia un viaggio alla scoperta del mondo. Per Prendersi una vita (Baldini Castoldi Dalai Editore) è il primo romanzo di Max Pezzali, «una storia crudele giocata tra passato e presente», ha spiegato il cantautore. Il pretesto del viaggio è il concerto di

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rima donna a fare ingresso nella Rock’n’Roll Hall of Fame, vincitrice di quindici Grammies e una carriera artistica cominciata a tredici anni nel 1956, Aretha Franklin tornerà a calcare le scene il prossimo 9 agosto a Newport, dove si esibirà all’omonimo festival come headliner. La regina di Memphis, tornata a una fervida attività quest’anno con la fondazione di una

raffiante chansonnier che ha saputo infondere nei suoi testi tic e paradossi della metropoli, tessitore di pregevoli arabeschi latini, raffinato esule che saputo guadagnarsi in America la fama di apprezzato cultore dello smooth jazz, e persino scrittore brillante con il suo recente Disperatamente (e in ritardo cane). Sergio Caputo torna in Italia per una tournée che lo ve-

1988: quattro amici, una Mini e un concerto a Londra. Arriva il primo romanzo del cantautore

Il 9 agosto si esibirà al Festival del Rhode Island insieme a Wayne Shorter e Sonny Rollins

Su “musicalnews.com” notizie e informazioni sui concerti del re dello swing anni Ottanta

Joe Strummer, l’ex leader dei Clash. Ma i tempi cambiano, il punk e il post-punk a poco a poco svaniscono, la cultura hip-hop inizia a raccontare al mondo la rabbia dei ghetti americani. E mentre Joe Strummer sta affrontando una nuova vita artistica con un progetto solista, i quattro amici si trovano all’improvviso a dover compiere una scelta da cui dipende la possibilità di avere un futuro. «Vent’anni dopo, tre di quei ragazzi sono diventati adulti, si sono fatti una famiglia e una posizione, ma sentono il bisogno di ”ritornare” sul cruento rito di passaggio che ha sancito la fine della loro giovinezza».

propria etichetta discografica e il nuovo album A woman falling out love, condividerà il palcoscenico del noto jazz festival del Rhode Island insieme a Wayne Shorter, Chris Botti, Herbie Hancock e soprattutto, altro big refrattario agli applausi, il settantasettenne Sonny Rollins. Dopo una breve apparizione alla Radio City Music Hall di New York lo scorso marzo, l’indimenticata interprete di Respect e Chain of fools potrebbe concedersi al pubblico europeo nel prossimo ottobre, quando a Parigi verrà replicato il Festival di Newport con qualche parziale variazione del cartellone.

drà impegnato per tutto luglio, carico della sua nuova vita californiana e di una mai perduta ispirazione, che gli ha dato il successo con Un sabato italiano e una perdurante ammirazione delle élites musicali con That kind of thing. Troppo bravo per essere italiano, il re dello swing anni Ottanta e Novanta rieseguirà tra l’altro Bimba se sapessi, L’astronave che arriva e Italiani Mambo. Su musicalnews.com notizie e informazioni sui concerti, contatti e lo spazio personale del cantante, in cui Caputo tiene le fila con amici e fan italiani (www.myspace.com/sergiocaputoitalia).

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zapping

Caro Ligabue, tutto ECOLOGIA & LEGALITÀ di Bruno Giurato aro Luciano Ligabue, ti scrivo perché ero un tuo fan quando eri all’inizio, raccontavi storie d’avventura sospese ancora una volta tra la Via Emilia e il West, e lo facevi con grinta ruspante da balera rock. Raccontavi di Ballerine e Barracuda, le chitarre di Max Cottafavi ballavano coi digital delay degli U2. Ero un tuo fan perché negli speranzosi anni Novanta a noi tutti capitava di voler ballare sul mondo e tu eri un fratellone con un solido curriculum, fatto di mistica un po’ bukowskiana e un po’ da feste dell’Unità. Un bel tipo, insomma. Ero un tuo fan, purtroppo non lo sono più da quando hai smesso di fare il cantante e sei diventato un cantautore, un regista, un autore di libri, e anche un pensatore. Ma conservo della simpatia nei tuoi riguardi. Ho letto del debutto della tournée estiva a Milano (in cui hai mandato sui maxischermi i primi dieci articoli della Costituzione e hai messo sul palco i pannelli solari e le pale eoliche, una bella lezione di Ecologia & Legalità) e ho pensato che potevo darti qualche consiglio. L’idea c’è, caro Ligabue, ma bisogna andare alla radice. Ecco due strade da seguire per il prossimo tour. 1) Proposta cultural-teorica: al posto del concerto, sul megapalco mettici direttamente un bel dibattito sulla Costituzione, con Giovanni Sartori e Lucia Annunziata, più qualche costituzionalista. 2) Proposta pratico-meritocratica: numero chiuso per gli spettatori, con prova di ammissione su Costituzione, dichiarazione dei diritti dell’uomo e soprattutto mandar via con ignominia chi è arrivato al concerto a bordo di un’auto a benzina o diesel. Non vedo l’ora di tornare a essere un tuo fan. Grazie.

C

jazz

classica

L’incomunicabilità in scena alla Scala di Jacopo Pellegrini opportunità e la riuscita degli accoppiamenti non obbedisce, nella vita come a teatro, a regole definite, incontrovertibili. Per limitarmi al campo di mia pertinenza, l’opera in musica, se il dittico Cavalleria rusticana-Pagliacci funziona da sempre, quantunque non sulla base della (presunta) matrice verista, sibbene per l’intrinseca natura di esotismo meridionalista che accomuna i due titoli, quasi tutti gli altri innumerevoli atti unici fioriti un po’ ovunque tra Otto e Novecento, quand’anche siano sopravvissuti all’implacabile selezione del tempo, incontrano parecchie difficoltà ad accasarsi sulla scena. Premessa lunghetta anziché no, atta a lumeggiare i rischi corsi da Peter Stein, l’insigne regista tedesco, nel proporre a Stéphane Lissner, sovrintendente e direttore artistico della Scala, di riunire sotto un unico tetto - quello appunto del teatro milanese - Il prigioniero di Luigi Dallapiccola e Il castello del duca Barbablù di Bartók Béla, due riuscite emblematiche nell’accidentata ricerca di alternative alla drammaturgia operistica tradizionale sviluppatasi lungo il Novecento (l’«opera in un atto» dell’ungherese prende forma nel decennio 1911-21, il «Prologo e un atto» dell’istriano, tra il ’44 e il ’48). Basta il tetro destino di segregazione e morte, valevole tanto per il Prigioniero (dell’Inquisizione spagnola durante la rivolta delle Fiandre contro Filippo II) che per Judith (quarta moglie di Barbablù), a giustificare l’apparentamento? Somiglianza troppo generica, intaccata per di più dalla marcata differenza dei linguaggi musicali: serialità dodecafonica (Schönberg, Webern, soprattutto Berg) piegata a evidenze emotive desunte dalla tradizione italiana (Verdi, Puccini) per Dallapiccola, armonie e timbri del simbolismo francese (dal cui côté letterario discende anche il testo di Balász Béla, il futuro teorico del cinema) in comunione con una vocalità basata sugli accenti e le inflessioni dell’ungherese parlato per Bartók. A guardare oltre la superficie, si scoprono però legami più profondi e tenaci: l’impianto dialogico apparente presuppone in realtà un ostinato monologare di personaggi incapaci di parlare tra loro: un tema centrale nella riflessione filosofica ed estetica del se-

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colo passato, l’incomunicabilità, diviene, in ambo gli spartiti, il mezzo per dar voce al pessimismo immedicabile che investe e travolge la persona umana. Intuizione preziosa, dunque, quella di Stein, svolta con mano maestra nelle scene I e II (i confronti Madre-Prigioniero e Prigioniero-Carceriere) di Dallapiccola, ma inspiegabilmente contraddetta da scivolate nel didascalico (le proiezioni nella Ballata della Madre), nel realismo descrittivo (le processioni di stendardi e incappucciati durante gli intermezzi corali del Prigioniero) o nella clownerie para-espressionista (il Prologo del Barbablù recitato in tono da imbonitore circense, al modo della Lulu di Wedekind-Berg). Oltre-

Foto Marco Brescia tutto, l’impianto scenografico distinto per ciascun titolo (memorabile la mano-mappa topografica pensata da Gianni Dessì per la vista sui possedimenti di Barbablù) provoca un intervallo sterminato. In Dallapiccola le incoerenze della messinscena risultavano anche più evidenti in ragione dell’analisi timbrica capillare e raffinatissima svolta da Daniel Harding su una partitura che finiva quasi coll’apparire altrettanto parigina che viennese; meno personale e significativa, anche per qualche falla in orchestra, la direzione in Bartók. Compagnia più apprezzabile in Barbablù che nel Prigioniero, dove, a dispetto del presupposto seriale, intonazione esattissima (non sempre tale nella Marrocu), dizione scolpita (idem in Begley) e corpo vocale ben tornito (idem in Priante) sono prerequisiti indispensabili.

Ascoltando Herbie Hancock a bordo della Westerdam di Adriano Mazzoletti entre l’Italia è percorsa in lungo e in largo da centinaia di musicisti che partecipano ai molti festival del jazz, forse troppi specialmente a Roma e dintorni, c’è chi pensa già al prossimo inverno. È la rivista Playboy che dal 9 al 16 novembre e dal 25 gennaio al 1° febbraio 2009, organizzerà due crociere jazz per il trentennale. Infatti Playboy già nel 1978 varò la prima crociera nel mar dei Carabi. Anche per le prossime due la motonave Westerdam della Holland American Line partirà da Fort Lauderdale in Florida e per una settimana toccherà Gran Cayman, Belize, St. Juan di Portorico, Nevis, St.Barth e altre piccole isole di quel mare che oltre cento anni fa assistette alla nascita della musica più straordinaria del Ventesimo secolo. L’idea del-

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le jazz cruise nacque però in Europa. Le prime infatti risalgono a quasi mezzo secolo fa e si svolgevano nel mare del Nord. Naturalmente in estate. Cos’è che spinge gli appassionati di jazz e non solo a partecipare a queste crociere? Non solo la vacanza in posti di grande fascino, ma la possibilità di

vivere per una settimana a fianco di grandi musicisti che per dodici ore al giorno partecipano a concerti e jam session. Incontri casuali da cui possono scaturire eventi spesso irripetibili. Alle prossime due crociere parteciperanno oltre duecento musicisti. Alla prima, solo per citare i più noti, la violinista Regina Carter, l’unica artista jazz ad aver suonato sul celebre «cannone» di Niccolò Paganini messo a sua disposizione dal Comune di Genova. Neppure Stéphane Grappelli o Joe Venuti ebbero questo privilegio. L’elenco dei musicisti che saliranno a bordo della motonave è davvero imponente. La cantante Nnenna Freelon, il pianista Benny Green, il sassofonista Jimmy Heath e suo fratello Albert «Tootie» Heath, il

clarinettista Ken Peplowki, il Monk Legacy Septet di Ben Riley, la tromba Claudio Roditi e decine d’altri. Ancor più ricca la seconda. Lo special guest sarà Herbie Hancock, vincitore del Grammy per il miglior album del 2008. Le cantanti Dianna Reeves e l’italiana Roberta Gambarini, i sassofonisti James Carter e James Moody oltre a Marcus Miller e moltissimi altri. Insomma una vacanza a suon di jazz, ma assai differente da quello che siamo soliti ascoltare nel corso dei festival o dei concerti dove tutto o quasi è previsto e organizzato. A bordo della Westerdam sarà invece la totale improvvisazione a rendere avvincente una settimana assolutamente inusuale. Infine la presenza delle «conigliette» renderà il tutto ancor più seducente.

playboyjazzcruise. com


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narrativa

a morte per acqua di Fabrizia Ramondino è stata ampiamente commentata a partire dalle coincidenze messe in scena dal suo ultimo romanzo La via, uscito il giorno dopo la scomparsa della scrittrice. Simmetrie, coincidenze, fatalità tra l’autrice e il protagonista del romanzo, un uomo di mare che approda in un paese del Sud, Acraia, in una sorta di simbolico naufragio, e lo spiaggiamento fisico e reale della Ramondino, stroncata dall’amato mare dopo la nuotata pomeridiana. La via è un libro densissimo di parole e di storie che si stratificano una sull’altra, complice la logorrea dei tanti, parcellizzati personaggi. Densità dovuta anche a una strana mescolatura dei tempi dovuta a un’alterazione della percezione del protagonista: «la causa di quelle mie difficoltà… di distinguere tra passato futuro e presente», che lascia il lettore ubriaco. Acraia è un paese dove veramente il miscuglio delle voci, delle lingue e dei tempi (perché lo spazio è invece fortemente connotato e delimitato) ha un significato strutturale. Coaugulo di passato e presente, questa cittadina meridionale confonde a bella posta i due tempi per darci il terzo tempo dell’irrealtà. Acraia ha molti caratteri del paese di provincia del Sud, pigrizia nell’azione e velocità della parola che si deteriora rapidamente in pettegolezzo, in una specie di deriva che destruttura il senso dei dialoghi ma anche il senso profondo delle relazioni tra i vari personaggi. In fondo La via è la tessitura di un grande racconto orale di un’intera comunità, per questo zeppo di digressioni e di particolari secondari e irrilevanti, nonché di minuzie che seguono il verso del racconto ozioso, come quando più di una volta il personaggio, Ri-

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libri

Acraia il Sud e il mare come fatalità di Maria Pia Ammirati Fabrizia Ramondino tuzza, torna sulla differenza tra il caffè per i signori che è Illy, e quello per la gente comune che è il Kimbo, giusta combinazione di costo e qualità. Il centro fisico di questo magmatico mondo è la Via che divide in due il paese, quello alto e quello basso. La Via era come il mare, poteva contenere tutto e tutto mescolare, veder nascere e veder

morire, tenere insieme questo singolare mondo arcaico con pezzi di straniata modernità: il bar Nazionale dinanzi al quale «sostavano in piedi una ventina… di vecchi… i quali… parevano contemplare il loro passato e la vita che si svolgeva nella piazza», e una macelleria allestita come un algida rivista Vogue. Può dare il senso di una terra rie-

mersa, Acraia, dove il protagonista arriva come un naufrago per riparare dal mondo e rimettersi dalla malattia. Come una terra riemersa, in più isola, cioè scontornata e isolata, appartata e lontana, non ha spinte epiche né semplicemente eroiche virtù ma necessità primarie (ne sono d’esempio le accurate e sostanziose descrizioni di cibi e di cucina) . Quando il protagonista se ne allontanerà, anche per la necessità di non restarvi invischiato, sentirà a lungo il peso di quelle chiacchiere e di quei contorti racconti, e andando per mare lontano da tutto si ritroverà tuttavia a parlare di Acraia, a quel punto lui stesso involontario narratore. La via resterà probabilmente, all’interno della produzione della Ramondino, un romanzo bifronte: per un verso enigmatico, dall’altro pura testimonianza di una narrazione originaria.

Fabrizia Ramondino, La via, Einaudi, 237 pagine, 19,00 euro

riletture

Istruzioni per accedere all’assoluto di Renato Cristin ora tradotto il saggio che Schürmann pubblicò nel 1972 sul domenicano Meister Eckhart (12601327), considerato uno dei padri sia della filosofia tedesca («padre della speculazione germanica» fu definito nell’Ottocento) sia della lingua tedesca, come testimoniano i Sermoni scritti appunto nella lingua della classe elevata teutonica del Medioevo, tre dei quali sono qui al centro dell’interpretazione («Gesù entrò…», «Donna, viene l’ora…», «Vedete quale amore…»). Se nelle opere latine Eckhart è imbrigliato nella lingua e nel ragionamento della Scolastica, in quelle tedesche può liberare tutte le proprie energie meditative, portando l’intuizione mistica fin nel territorio della filosofia. In questa chiave Schürmann, filosofo apprezzato per i

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suoi lavori sul «principio d’anarchia» e deceduto nel 1993, presenta l’opera di quello che è forse il più importante fra i mistici tedeschi. «Bisogna, dunque, che impariamo daccapo a leggere Eckhart». Fra i concetti e le figure analizzate spicca la Gelassenheit (o Abgeschiedenheit) - abbandono, distacco - su cui Heidegger sviluppò un’interpretazione fondamentale alla quale Schürmann dedica un capitolo («Identità peregrinale»). Il distacco è alla base dell’identità personale, il cui compimento è sempre in itinere. L’uomo nobile è colui che riesce a staccarsi da tutto ciò che lo circonda e attingere la conoscenza di Dio. Ma in questo distacco risiede pure l’essenza della conoscenza filosofica: la coscienza deve uscire da sé, negarsi in quanto tale, per conquistare infine la pienezza di sé in quanto io, coscienza dell’essere e dell’assoluto. Qui

fede e ragione si compenetrano. L’illuminazione si produce nell’allontanamento dalle cose in vista del ricongiungimento con l’essenza di Dio, ma poiché «Dio è in tutte le cose», anche in noi stessi, trovando Dio ritroviamo anche le cose che abbiamo abbandonato, e quindi anche il nostro io. Eckhart ricomprende l’assoluto in una relazione reciproca: «l’occhio con cui io guardo Dio è lo stesso con cui Egli mi guarda». La ragione non viene negata, ma assorbita in una dimensione in cui si afferma il pensiero puro nella sua molteplicità. Si tratta dunque di fornire le giuste istruzioni per l’uso della ragione al fine di comprendere l’assoluto. E in ciò consiste l’attualità di Meister Eckhart: nel mostrare che l’esperienza dello spirito è filosofica prima ancora che religiosa, perché implica la consapevolezza del superamento dell’alterità.

Solo l’esser-coscienti di conoscere Dio fa di quell’incontro un evento reale. La conoscenza, come l’identità, è dunque in cammino, ma il suo percorso riconduce all’origine: «la terra nuova è quella del nostro più antico radicamento», scrive Schürmann. Perciò, se l’essere va compreso nella sua identità con il pensiero (questa tesi è in Heidegger anti-idealistica e in Eckhart antiscolastica) e se la comprensione dell’essere avviene in base all’automanifestarsi della verità, il «pensiero dell’essere» in quanto comprensione del senso dell’essere si svela a un soggetto che si è posto in cammino verso l’essere. Di tale peregrinare Eckhart mostra il senso divino, Heidegger quello profano. Reiner Schürmann, Maestro Eckhart o la gioia errante, Laterza, 244 pagine, 23,00 euro


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società

Socrate, il primo consulente filosofico di Giancristiano Desiderio a consulenza filosofica è roba nuova, ma la filosofia è roba vecchia o, meglio antica o, meglio ancora, classica. Dunque, anche moderna, meglio, contemporanea. La consulenza filosofica altro non è, invece, che il ritorno all’essenza più autentica della filosofia: saper vivere o, almeno, provare a saper vivere. Il padre della consulenza filosofica è un tedesco e si chiama Gerd B. Achenbach, il quale nell’ormai lontano 1981 cominciò a praticare la cosiddetta consulenza filosofica. La cosa andò subito bene e un anno dopo fondò la Internazionale Gesell-

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storia

schaft fur Philosophische Praxis e poi tante altre cose. Il consulente filosofico non è un medico, né uno psicologo o uno psicanalista: è un uomo che parla con un altro uomo avendo come obiettivo la ricerca del senso delle cose che accadono. Achenbach ha scritto vari libri sul tema attingendo direttamente alla sua esperienza di consulente: La consulenza filosofica, Saper vivere (pubblicati da Apogeo). Ma questo suo ultimo libro, Del giusto nel falso è forse il migliore. Qui la filosofia è vista e fatta proprio come una pratica, non come una teoria astratta e cervellotica. E anche quando ci si rapporta al pensiero, anche in questo caso si tratta di un pensie-

ro concreto che riguarda l’esistenza del singolo uomo: del consulente, del suo «cliente», del rapporto tra i due. Qual è il vero senso della filosofia? Diciamolo con chiarezza e con parole classiche: è la vita buona, la vita giusta. E non è questo un obiettivo comune agli uomini? La filosofia è proprio questo: è quell’affare un po’ strano che si chiama «vita» e che riguarda tutti i mortali. Gerd

B. Achenbach ha un dono: rende palpabile la contemporaneità dei filosofi antichi: Socrate, Platone, Aristotele, Parmenide, Eraclito, Epicuro. La storia della comprensione della condizione umana inizia quando il primo saggio disse di non essere saggio. Socrate, in fondo, faceva consulenza filosofica ad Atene. Gerd B. Achenbach, Del giusto nel falso, Apogeo, 156 pagine, 13,00 euro

Le ultime ore del Duce secondo Cancogni di Massimo Tosti a sessant’anni a questa parte gli storici continuano a scavare per ricostruire minuto per minuto - gli ultimi giorni di vita di Benito Mussolini. Di libri ne sono usciti fin troppi, tralasciando le biografie che hanno raccontato la vita del duce, dalla nascita fino alla macabra esposizione di piazzale Loreto. A parte i memoriali firmati dai componenti del plotone di esecuzione (primo fra tutti, In nome del popolo italiano di Zalter Audisio, il comandante Valerio), tre sono stati i testi che hanno messo a fuoco i giorni della fuga, dell’arresto e della fine a Giulino di Mezzegra: Le ultime 95 ore di Mussolini di Franco Bandini, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini di Giorgio Pisanò, e il recente Le ultime ore di Mussolini, di Pier Luigi Baima Bollone. La casa editrice Le Lettere (nella preziosa Picco-

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personaggi

la Biblioteca di Nuova Storia Contemporanea) riporta oggi alla luce una vecchia inchiesta di Manlio Cancogni viaggio di (L’ultimo Mussolini), pubblicata nel 1957 dal settimanale L’Espresso. Dal punto di vista storico non aggiunge nulla (semmai toglie, perché non tiene conto di testimonianze, confessioni e documenti raccolti in epoca successiva), ma ha il pregio della scrittura «alta», di uno dei migliori scrittori italiani dell’ultimo mezzo secolo. È un testo - scrive Francesco Perfetti nella prefazione - che «pur nella sua brevità, ma grazie alle doti letterarie dell’autore, è tutto godibile e riesce a proporre una lettura nuova e diversa, discutibile quanto si vuole, ma sug-

gestiva, degli ultimi tragici giorni di Mussolini». Ci racconta un uomo che - contrariamente a quanto si è scritto nell’immediato dopoguerra e si scrive ancora oggi - continuava a sentirsi «sempre pieno di illusioni, di fiducia in se stesso e nella fortuna». Ci offre (ed è un elemento che non compete agli storici, forse neppure ai testimoni) un profilo psicologico dell’uomo che - di lì a poche ore - sarebbe stato ucciso insieme con la fedele Claretta e alcuni suoi collaboratori. E ce lo offre in poche pagine di autentica letteratura. Il che non è poco. Manlio Cancogni, L’ultimo viaggio di Mussolini, Le Lettere, 60 pagine, 7,50 euro

Wagner? Era un pazzo (parola di Grillparzer) di Vito Punzi utore senza troppo fortuna in Italia (sebbene già tradotto quand’era ancora in vita), Franz Grillparzer (1791-1872) viene ora proposto nella sua veste di coraggioso scrittore epigrammatico. Ottima l’idea di Artemio Focher, traduttore e curatore del libro, perché utile a superare gli stereotipi legati all’immagine di uno scrittore troppo facilmente etichettato «epigono» e «acre conservatore» (così Magris nel 1978). Grillparzer usò con efficacia la scrittura breve per dare una forma incisiva ai propri giudizi sulla realtà, culturale e politica, di cui fu attento osservatore e critico: qualcuno (Peter

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von Matt) vi ha letto perfino qualcosa di simile a una «fenomenologia della stupidità», mentre altri l’hanno valutata tra quelle di maggior valore della letteratura mondiale. Sostenitore di un’Austria unitaria, cosmopolita e multiculturale (non lo si confonda con il mito «multiculti» nostro contemporaneo), fu certo «conservatore», eppure non rinunciò a battersi contro la censura. Alieno ai sistemi filosofici, e tuttavia estimatore di Kant e Schopenhauer, Grillparzer mal sopportava in particolare quello hegeliano: «Hegel», si legge in un epigramma del 1939: «Ci insegni, forse, profeticamente, che pensiero ha in mente Dio, ma intanto demolisci

totalmente quello umano, amico mio!». Non meno dura fu l’avversione alla musica di Richard Wagner e alle sue riflessioni sulla stes-

sa, tanto che finì per accostarle, sotto il segno della pazzia, al sistema filosofico hegeliano. In realtà ce n’è un po’ per tutti, in questi epigrammi: per i tedeschi in generale (per la loro rozzezza e cavillosità in particolare), per Litzt, per gli eruditi, per i creatori di sistemi («Il singolo fiore è più importante della botanica» ha scritto Grillparzer), per i gesuiti e per la Chiesa, per i sostenitori del realismo. Uno spettro d’interessi ampio, molto ampio, che pure nella sinteticità di questi epigrammi viene affrontato sempre con la giusta energia, chiarezza ed efficacia.

Franz Grillparzer, Epigrammi, Marietti, 179 pagine, 14,00 euro

altre letture L’epoca

contemporanea è contrassegnata da movimenti politici giovanili e da nuove forme di aggregazione sociale basate sull’età che ambiscono a definire nuovi spazi politici. La generazione è vissuta come un attore politico capace di cambiamento. Ma cosa fa di una generazione un motore di innovazione? A capire in che modo una distanza anagrafica diventa distanza culturale e politica aiutano le pagine di Generazioni, di Karl Mannheim, (il Mulino, 126 pagine, 9,00 euro) unanimemente riconosciute come il punto da cui partire per cogliere la natura del legame sociale che unisce le generazioni. Perché l’affinità degli individui dipende anche dal disporre di uno spazio storico sociale limitato di esperienze possibili che comporta la tendenza a comportarsi sentire e pensare secondo modalità o «stili» specifici e riconoscibili.

«Un resoconto

completo e ampiamente accessibile di duemila anni di storia della magia, della religione e della superstizione»: questo, secondo Erik Midelfort, dell’Università della Virginia, è il saggio Magia e superstizione in Europa dall’Antichità ai nostri giorni (Lindau, 26,00 euro, 396 pagine) un’analisi che considera anche i modi in cui le nostre tradizioni hanno stigmatizzato le pratiche e le credenze che costituivano una minaccia per la società. Un tema di grande rilievo, anche se rimosso, per la civiltà europea visto che magia e superstizione hanno sempre costituito categorie fondamentali per definire i confini culturali e sociali le idee di arretratezza e di modernità del nostro continente.

Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu di Maurice Joly, edito nel 1864, (e pubblicato ora per le edizioni Ecig, 202 pagine, 12,50 euro) è una preziosa testimonianza che un contemporaneo sulla Francia del Secondo Impero offre della situazione politica e sociale francese venutasi a creare in seguito all’avvento al trono di Napoleone III. Nell’immaginario dialogo tra i due teorici si scontrano la politica del diritto e la politica della forza, l’idea di democrazia e l’idea di tirannide, la pratica della libertà e quella dell’oppressione. Due visioni del mondo, due progetti antitetici che consentono di cogliere le peculiarità del pensiero politico del tempo e acquisire elementi di riflessione utili anche oggi.


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ritratti

BRANCATI E IL CINEMA

“ANNI DIFFICILI”, “ANNI FACILI”, “L’ARTE DI ARRANGIARSI”: DALL’INCONTRO NEL 1948 TRA LO SCRITTORE SICILIANO E LUIGI ZAMPA NACQUE LA TRILOGIA CHE ATTRAVERSO L’EPOS DELLA QUOTIDIANITÀ E DEL “PICCOLO UOMO” SEGNÒ LA COMMEDIA ALL’ITALIANA

La lente smisurata di Orio Caldiron empre più ci si accorge che i risultati alti e importanti del cinema d’autore meno effimero e le fortune dei film italiani più popolari le dobbiamo anche all’estro dei nostri maggiori sceneggiatori. Sarebbe però un errore promuovere d’ufficio gli sceneggiatori nella rubrica degli autori, auspicando frettolosamente riabilitazioni sul campo, mettendosi a cercare bastoni di maresciallo nei loro cassetti. La tentazione è forte, anche perché la figura dello sceneggiatore implica un alto grado di ambiguità, rischia sempre di apparire qualcosa di più e qualcosa di meno del regista. Sempre sospeso tra l’essere soltanto un collaboratore che avvia il processo di realizzazione del film di cui però ignora l’esito ultimo, o piuttosto un superautore che regge le fila di vari progetti nei quali è possibile riconoscere la coerente continuità dei modelli narrativi e strutturali. Se si tratta di uno scrittore e, in particolare, di uno scrittore come Vitaliano Brancati le cose non sono affatto diverse o migliori. Nella ventina di film che ha ideato da solo o in collaborazione con altri, raramente è riuscito a far affiorare il suo contributo personale, sopraffatto dalle ambivalenze di «una

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re accanto a un vicesegretario federale dicendogli mentalmente: “Gran coglione”e mentre quello si piantava in posa statuaria, e sollevava col respiro, come un’ampia mammella, il mucchio di nastrini, medaglie, medagliette, teschi, pugnali, Aldo Piscitello a un passo da lui, con la faccia umile e magra, gli diceva mentalmente: “Ladro!… Ladrone di passo!… Sì, ladro!”». Nella «lente smisurata», che capovolge l’atteggiamento del piccolo uomo, si ritrova il meccanismo stesso della comicità che esorcizza le maschere del conformismo, facendo incontrare Bergson e Gogol’. Nella sua personale lettura del saggio di Bergson, nel rapporto tra il riso e la libertà, tra l’apparenza e il gioco, lo scrittore siciliano sottolinea il ruolo del comico nei regimi totalitari, nei quali «basta un minimo di coscienza critica a farci vedere tutta la società come una moltitudine di marionette i cui fili sono in mano, non del fato ma di un’entità più meschina: il dittatore». Quanto a Gogol’, alla forza irridente del suo grottesco, si sa che il comico paradossale di Brancati gli deve molto, anche quando non esclude la simpatia che «fa il solletico» ai personaggi. E se la «lente smisurata» fosse una metafora del cinema? Non è un caso che

Nel lavoro di sceneggiatore era sopraffatto dalle ambivalenze di “una scrittura in vista di un’altra scrittura”. Nella sua narrativa, invece, l’irrompere di un altro occhio era in grado di rovesciare le situazioni. Come nel “Vecchio con gli stivali”... scrittura in vista di un’altra scrittura», e dalle contraddizioni della macchina cinema che spesso condiziona il suo lavoro.

Se facciamo invece il percorso contrario e andiamo a cercare il cinema nella narrativa di Brancati, ci accorgiamo che nel bellissimo racconto Il vecchio con gli stivali, che risale al ’44, c’è un momento di rottura in cui la passività del protagonista, il suo viaggio acquiescente dentro l’ottusità del regime, cambia totalmente fino a sembrare la storia di un «altro», l’irruzione improvvisa e spiazzante di uno «sconosciuto»: «Come attraverso una lente smisurata, egli era in grado di vedere quanto fossero imbecilli, quanto fossero balordi, quanto fossero prepotenti a destra e vigliacchi a sinistra, quanto fossero scavezzacolli, corti, malpartoriti, sconci! Per lui era di un gusto inaudito potere striscia-

quando, dopo varie sceneggiature su commissione, il rapporto con il cinema diventa più intenso, rispunti Aldo Piscitello, il «piccolo uomo» disarmato e insieme agguerritissimo di Il vecchio con gli stivali, il primo personaggio brancatiano a passare sullo schermo con Anni difficili di Luigi Zampa. Il film segna nel 1948 l’incontro con un acuto osservatore del costume che sa cogliere gli umori del momento. Il rapporto con la cronaca, lo spunto d’attualità, lo scatto dell’indignazione sono i tratti distintivi del cinema di un abile artigiano che sta dalla parte del pubblico, non seguendolo passivamente, ma interpretando e talvolta dirigendo le sue opinioni con un moralismo tra lo scettico e il romanesco. Spesso sottovalutato, Zampa è un regista di grande interesse ancora tutto da studiare. Anni difficili - uno dei primi, amari viaggi a ritroso nel ventennio - suscita all’epoca un grande polvero-

ne e rischia persino di essere sommerso dalle polemiche se non trovasse paradossalmente due difensori d’eccezione in Giulio Andreotti e Palmiro Togliatti. Nel dibattito, avviato su Vie Nuove da alcuni articoli di segno opposto, avrebbe dovuto intervenire anche Italo Calvino con uno scritto rimasto finora inedito, dove il giovane scrittore vede l’aspetto più interessante del film nella rappresentazione dei giovani cresciuti sotto il fascismo: «Tutto il film potrebbe essere definito un atto di denuncia delle nuove generazioni contro quelle che le hanno immediatamente precedute». L’accusa di qualunquismo rimbalza da una recensione all’altra: ma è sbagliata. «Io non sono d’accordo con quelli che hanno definito “qualunquista” Anni difficili. Mi sembra al contrario un film antiqualunquista per eccellenza, un film in cui viene gridato ben alto: “Se non vogliamo uccidere i nostri figli non bisogna dire: “Non m’impiccio di politica”, per poi subire la politica degli altri, ma bisogna essere tutti d’un pezzo, e lottare, e organizzarsi!”. Piscitello, che ha l’esperienza dell’altra volta, cosa farà Piscitello?».

Negli altri film in cui prosegue la felice collaborazione tra Brancati e Zampa - da Anni facili (1953) a L’arte di arrangiarsi (1954) - s’impone la ricognizione del malcostume dilagante ai vari livelli della vita sociale, della corruzione e del clientelismo che rendono sempre più difficile l’esercizio dell’onestà e della coscienza civile. La rappresentazione sarcastica del trasformismo fa tutt’uno con la radiografia del ritorno del fascismo nel comporre l’itinerario grottesco di una discesa agli inferi, in cui i mostri sono in noi e con noi. Le disavventure del piccolo uomo, proiettate nello scenario della storia italiana, acquistano l’incisività di un viaggio impietoso dentro l’autobiografia d’una nazione, popolato di volti, figure, situazioni di corrosiva vivacità. La commedia all’italiana di lì a poco farà tesoro degli umori beffardi della trilogia per dispiegare l’epos della quotidianità, in quanto ha di sfuggente e insieme di essenziale, di magmatico e di spiazzante, che costituisce uno dei contrassegni più riconoscibili della sua vasta fioritura, della sua stessa presenza nel cinema nazionale. Si direbbe che la componente «politica» della commedia trovi nell’epos brancatiano del piccolo uomo una sorta di privilegiata chiave d’accesso alla inafferrabile vischiosità del quotidiano, all’inesauribile miniera di storie e personaggi che rappresenta. Sull’incrinatura tragica richiama l’attenzione Ge-


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Tre immagini di Brancati con la moglie Anna Proclemer e la figlia. A destra, Marcello Mastroianni indimenticato protagonista di “Divorzio all’italiana”. Sotto due locandine di “Anni difficili” il primo film della trilogia firmata da Brancati con Luigi Zampa. A sinistra, la copertina del “Bell’Antonio” da cui è stato tratto il film di Bolognini

sualdo Bufalino, che lo considera uno scrittore tragico fra i più imprevedibili e sconcertanti della letteratura italiana. «Le figure della sua delusione civile e sentimentale non solo i divulgati attori di un’opera di pupi provinciali e borghesi», ma piuttosto «i martiri di un ingorgo senza speranza, le spie d’una tetraggine che talvolta si vorrebbe perfino dir metafisica». La tetraggine dell’ultimo Brancati trova una singolare conferma in Dov’è la libertà…? (1954) di Roberto Rossellini, stracciato dalla critica dell’epoca. L’esperimento, in parte incompiuto, è invece di grande interesse e merita una riconsiderazione. Si tratta di una lettura inconsueta del personaggio di Totò, dell’approdo drammatico dell’epopea del piccolo uomo comico, della tragedia dell’uomo ridicolo. Il barbiere

cario - nelle quali è dominante il motivo del gallismo. Secondo Leonardo Sciascia il «dongiovannismo siciliano, l’erotismo esistenziale dei siciliani si può dire approssimativamente, consista nel pensare e sognare la donna con tale assiduità e intensità, e talmente assottigliandone e sofisticandone il desiderio, da non reggere poi alla presenza di lei, da essere umiliati e come devastati». Sarebbe assurdo vedere o rivedere con i libri in mano questi, e altri film d’ispirazione letteraria, per verificare la corrispondenza tra romanzo e film con il criterio del questo c’è/questo non c’è. Il gioco della fedeltà/infedeltà, è migliore il romanzo/è migliore il film è un gioco antico ma non per questo meno futile della critica giudiziaria che confonde il rapporto tra cinema e letteratura con il

Alcuni romanzi di Brancati, dopo la sua morte, sono arrivati sullo schermo in trasposizioni molto libere. Ma tracce brancatiane si possono trovare in altri film indirettamente a lui ispirati. Primo tra tutti “Divorzio all’italiana” di Germi che esce di prigione sembra sopravvissuto al naufragio della sua vita, un morto in permesso destinato a muoversi come un pesce fuor d’acqua nella insensatezza del gratuito al di fuori di ogni riconoscibile identità. Sono straordinarie le sequenze dell’infimo dormitorio dalle pareti sbrecciate dove il protagonista trova un primo rifugio, della balera suburbana dove si avvia la maratona di danza, del reincontro con la famiglia degli strozzini arricchitisi alle spalle degli ebrei deportati. Solo la riapparizione fantasmatica di uno degli ebrei truffati, mette il personaggio dinanzi alla soglia del senso, lo costringe a rispecchiarsi nell’orrore incontenibile.

La performance di Totò, maschera della quiescenza disillusa e della ribellione al mondo com’è, anima una delle interpretazioni più sofferte e inquietanti del grande attore, che consegna alla commedia italiana avvenire gli umori neri, i cupi rintocchi della riconciliazione impossibile. Nei decenni successivi alla morte dello scrittore alcuni dei suoi romanzi più noti sono arrivati sullo schermo in trasposizioni spesso molto libere - da Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini a Don Giovanni in Sicilia (1967) di Alberto Lattuada e Paolo il caldo (1973) di Marco Vi-

match di pugilato. Se invece l’avvio letterario è visto come suggestione ideale, fonte immaginativa, spunto creativo, le tracce brancatiane possiamo andarle a cercare anche (soprattutto?) in film dove il nome dello scrittore non appare neppure nei titoli di testa, ai quali sappiamo del resto che non bisogna credere più di tanto. Il più brancatiano è allora Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi. Sin dalle prime immagini in cui il barone Cefalù guarda fuori dal finestrino l’accecante pianura e rievoca «le serenate del Sud, le calde, dolci, snervanti notti della Sicilia», il film trova la sua folgorante caratterizzazione nello scenario storico, geografico, antropologico scoperto sin da In nome della legge e Il cammino della speranza. Ma la «Sicilia frontiera sociale» cede ora, secondo Sciascia, alla «Sicilia frontiera passionale»: «la materia passionale vi è deliziosamente rovesciata sotto i segni dell’eros comico brancatiano». La coincidenza con lo scenario siciliano è il tramite per assicurarne il significato universale, dal momento che il regista è convinto che nell’isola tutti i difetti, le remore, gli errori della società italiana si ingigantiscano e si esasperino. «La Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana, è come un pretesto o, più esattamente, come una specie di palcoscenico in

cui una vicenda reale ma paradossalmente articolata trova quegli elementi di paesaggio, di architettura, di clima che servono a esasperarla».

Straordinaria è in tutto il film la capacità di identificazione spaziale, l’attitudine felicissima a far lievitare gli spazi fisici in cui si svolge il racconto. Dalle grandi sale vuote del palazzo avito alle stanze che rimandano una all’altra come in un cannocchiale, dalle imposte socchiuse in cui gli occhi osano e si ritraggono alle veneziane che si alzano e si abbassano in un armeggiare di esibito voyerismo, al cortile che si affaccia sull’ala dell’ex-massaro via via fino alla grande piazza deserta, alle strade provinciali in cui le automobili convivono con i muli, agli affollati andirivieni del passeggio domenicale, dove il gioco illusionistico del barocco teatralizza lo spazio, generalizza lo spettacolo, cosicché siamo tutti attori, non c’è più distinzione tra pubblico e palcoscenico. Nel rimbalzo tra spazi chiusi e spazi aperti, tra talamo e tribunale, apatia e revêrie, palazzo e passeggio, moglie e amante, amante della moglie e moglie dell’amante, lo scenario si restringe nel caldo torrido, nel torpore appiccicoso in cui divampa il desiderio. Più brancatiano di così.


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tv

Appassiona Enigma C dedicato alle stigmate

video

di Pier Mario Fasanotti

orrado Augias non indossa più il consueto abito marrone. Ha scelto il blu rigato. Che importanza ha, direte? Ce l’ha, visto che un famoso critico televisivo, nel recensire il programma Enigma (Rai 3) ha ironizzato, in vena di spiritosaggine, sull’aspetto e sul comportamento di un giornalista che certamente non nasconde mai il piacere di stare sotto i riflettori, sornione dentro il suo modello anglosassone, ma che è oggi uno dei pochi che sa affrontare con sobrietà e preparazione argomenti scottanti. Ben venga l’abito blu di Augias (con cravatta, ovviamente) nell’estate televisiva, prevalentemente ascellare o inguinale. Enigma tratta dei misteri dell’uomo. Con ospiti-esperti, filmati d’epoca, domande e risposte. Appassionante è stata la puntata dedicata alle stigmate: autosuggestione,autolesionismo, segno soprannaturale, scienza che spiega con affanno? Natuzza Evolo, analfabeta della Calabria tirrenica, è ancora viva. Sessant’anni fa il cinegiornale si occupò di lei. Mostrò ai cronisti le ferite alle mani e alle ginocchia, spiegò di avere il dono dell’ubiquità («grazie agli angeli»), di parlare con i defunti. L’antropologo Luigi Lombardi Satriani indagò nell’84, con un documentario eccezionale. S’è venuto a sapere che Natuzza prima di mettersi in contatto con i morti deve

web

games

aspettare 40 giorni dal decesso. E prima le anime dove sono? «Non lo dicono», ha spiegato lei, con candore. Il suo corpo funziona come «una macchina tipografica a sangue» nel senso che nei fazzoletti posati sulle ferite compaiono scritte anche non in italiano e croci. Lombardi Satriani ha insistito sulla vita normale della contadina Natuzza. Se da un lato è stata segnata dalla sofferenza, dall’altro non ha mai abbandonato la sua quotidianità di sposa e madre. «Il sacro» ha spiegato l’antropologo «comprende tutte le richieste di aiuto della gente». Infatti Natuzza è assediata da sessant’anni da persone che «vogliono sapere». Lei si definisce «un verme di terra». E ancora: «Non faccio miracoli, sono una poveraccia, mi impegno solo per pregare». Augias: fenomeni allucinatori? «Direi straordinari» risponde l’esperto. «Natuzza è organica a una società semplice, e questo è un tratto distintivo della tradizione mistica. Gente come lei ha costruito il ponte con il divino, mai in maniera arrogante. Attenzione a non farci ingabbiare nella visione intellettualistica della vita e della società. Guai a rischiare di applicare a tutto i nostri schemini mentali urbano-centrici». Anche l’epistemologo Giulio Giorello è stato cauto: «Realtà soprannaturale? È un interrogativo che resta. Bisogna aspettare».

dvd

QUEL FILM INTROVABILE? DA OGGI ONLINE

TORNANO I CLASSICI DEGLI ANNI ’80

LE ALPI COME LUOGO DELL’ANIMA

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ai cortometraggi inediti di un David Lynch d’annata alle chicche della seconda ondata del cinema di Taiwan. Documentari osannati ai festival del settore e presto finiti nel dimenticatoio, ma anche video educational di tutto rispetto e film d’arte (come l’introvabile, almeno in Italia, cult-movie di Edo Bartoglio, Downtown81). C’è voluto l’impegno di un’associazione no-profit co-

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rmai i budget messi a disposizione degli sviluppatori di un videogioco superano quelli, mastodontici, dell’industria cinematografica. A questa valanga di denaro, però, non sempre corrisponde un risultato all’altezza delle aspettative. Tanto che i videogiocatori di una certa età, che sono cresciuti con i classici della cosiddetta “età dell’oro” degli anni Ottanta, spesso rimpiangono i

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Ecco ”e:frame”, il sito che permette di scaricare pellicole meno commerciali e difficili da reperire

Sulle console di nuova generazione i titoli che hanno fatto la storia dei videogiochi

La raccolta di 8 film che Folco Quilici ha dedicato alla corona montana. In una prospettiva inedita

me il Tribeca Film Institute di New York per realizzare il sogno dei cinefili più incalliti: re:frame, un archivio online da cui poter accedere a buona parte di quella ”produzione off”che difficilmente ce la fa ad arrivare nelle sale cinematografiche e, sempre più spesso, non trova neanche una seconda vita nella distribuzione home-video. Grazie ad un accordo con Amazon, i video potranno essere affittati o acquistati (a seconda degli accordi con le case di produzione) direttamente sul portale di ecommerce. Che in questo modo allungherà ancora di più la coda del suo catalogo online. L’indirizzo? http://reframecollection.org.

videogame antichi con pochi “effetti speciali” e tanta “giocabilità”. Questi nostalgici, ormai da qualche anno, si dilettano con gli emulatori dei vecchi videogiochi, ma più di recente hanno a disposizione anche i canali di distribuzione digitali delle console next-gen. Tra tutti, spicca il più maturo, quello di Microsoft per la sua Xbox 360, da cui è possibile scaricare le versioni “remix”di classici arcade o home computer come Pac Man, Jet Pac, Frogger, Sensible World of Soccer, Prince of Persia, Galaga, Asteroids, Double Dragon, Gauntlet, Bomberman, Centipede, Crystal Quest, Gyruss e Paperboy. Back to the Future.

ideale che fa dell’arco alpino un luogo dell’anima. Notazioni faunistiche, rilievi antropologici e scaglie di pura letizia visiva convivono in un’opera costruita con perizia e notevoli sforzi produttivi. Riprese aeree in Helivision, lenti capaci di cogliere il visibile contro ogni intemperia e avventure in profondità nel cavo delle rocce impreziosiscono il filmato secondo sfumature percettive pressoché irripetibili. Mosaico di tessere antiche e moderne, piccolo vademecum della terra che cambia e di quella che sopravvive distante da essa, Le Alpi di Folco Quilici sono ormai un luogo dell’anima.

articolarmente godibile in questi giorni di calura estiva, la maestosa raccolta di otto film che Folco Quilici ha scelto di dedicare alle Alpi, immortala la corona montana secondo una prospettiva inedita. Lo storico filmaker italiano ricrea nel suo girato la complessità di un mondo topografico venato di notevoli differenze paesaggistiche, restituendole però a un’unità


cinema Funny Games e Smart… MobyDICK

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è tempo di ritorni di Francesco Ruggeri opo essere uscito in sala nell’ormai lontano 1997, Funny Games rimase un fenomeno di nicchia. Intendiamoci, i cinefili di tutto il mondo non l’hanno perso di sicuro, ma tutti gli altri (o quasi) sì. Di che si trattava? Di un ferocissimo e scioccante apologo sulla violenza. Di un’agghiacciante riflessione sul male. Ma anche di un potentissimo pamphlet che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto riflettere «la cosmogonia del dolore umano». Responsabile di tutto il cineasta tedesco Michael Haneke, autore con ambizioni a dir poco alte che fanno rima con uno sguardo violentemente pessimista su vita, uomo e destino. Non fatevi ingannare dal titolo: funny sta per carino, divertente, allegro, ma vi assicuriamo che nel film in questione di simpatico non c’era davvero nulla.

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Torniamo al presente. Dopo qualche titolo francamente non memorabile (La pianista, Niente da nascondere, Il tempo dei lupi), Haneke ha avuto una soffiata dal suo agente che gli ha spifferato la notizia bomba: gli Studios stavano per mettere in cantiere il remake del suo film. Contattato a riguardo subito dopo, Michael è stato chiarissimo: non avrebbe mai permesso a nessuno di avvicinarsi alla sua opera. Lo avrebbe potuto fare solo lui. Insomma, si è imposto e l’ha spuntata, dettando anche un’altra condizione: quella di avere nel film Naomi Watts. Condicio sine qua non, motivata dalla consapevolezza che l’attrice americana sarebbe stata una delle pochissime in grado di esprimere al massimo certi stati d’animo. Risultato: Funny Games, targato 2008 e in versione americana. Film da record. In primis perché è capitato pochissime altre volte nella storia del cinema che un regista realizzasse il remake di un suo vecchio film. E poi perché non si tratta di un semplice remake come quelli di cui pullulano le sale di tutto il mondo da diversi anni a questa parte. Funny Games è l’autentica fotocopia del film precedente. Un esercizio affrontato con carta carbone e grafia precisissima, capace di non uscire mai fuori dal tracciato originale. Un vero film clone insomma, molto vicino all’esperimento affrontato da Gus Van Sant nel memorabile remake dello Psycho hitchcockiano. Le uniche differenze sono quelle relative agli attori e quelle offerte dall’ambientazione. Cosa sono dunque questi funny games? Sono quei giochi con cui un paio di giovanotti di bianco vestiti

(uno dei due è il bertolucciano Michael Pitt) intendono «intrattenere» una famigliola della media borghesia americana composta da padre (Tim Roth), madre (la Watts) e un figlio (il piccolo Devon Gearhart). In un giorno come un altro, entrano in casa con una scusa che più banale non si può e da quel momento in poi non se ne vanno più. E cominciano a torturare i malcapitati di turno. Prima solo psicologicamente, poi anche fisicamente. Un vero gioco al massacro. Inutile, gratuito, efferato come poche altre cose. Il racconto della trama finisce qui. Certe esperienze d’altronde non si raccontano, si fanno. Ecco, Funny Games va visto, anzi, affrontato. E poi ragionato e magari (ma non è semplice) metabolizzato. Haneke fa letteralmente a brandelli l’immaginario cartolinesco della provincia americana. Quella adombrata dai pini che costeggiano le villette a schiera, quella dei bambini che giocano tranquilli di fronte casa, quella della sicurezza domestica. Il suo film comincia cullandosi nella quiete ordinaria più assoluta, per finire in un cul de sac che sa d’inferno. Non ci sono sconti. Non ci sono indietreggiamenti, non c’è redenzione o catarsi. Il viaggio nelle viscere del male è di quelli solo andata.

Per rilassarvi a dovere, vi suggeriamo infine una full immersion nella comicità più dirompente. Basterebbe il nome di Steve Carell (40 anni vergine, Un’impresa da Dio) a stuzzicare i palati, ma stavolta c’è anche dell’altro. Bisogna tornare indietro con la

Impressiona il remake del film di Michael Haneke, da lui stesso nuovamente diretto in questa versione 2008: un clone dell’originale. E diverte anche sul grande schermo l’agente segreto inventato da Mel Brooks per la celebre serie tv memoria ai primi anni Settanta e ripensare alla gloriosa serie televisiva che rispondeva al nome di Get Smart. Come ricorderete, si trattava di una satira in piena regola del genere spionistico scritta da Mel Brooks, condita da battute al vetriolo e potenziata da una bella movimentazione interna. Il protagonista, assolutamente irresistibile, era l’agente segreto Maxwell Smart, casinista di prim’ordine capace di combinarne di tutti i colori. Dopo quasi quarant’anni, eccoci giunti al passaggio del testimone. Dalla tv al cinema e da Don Adams (interprete originario di Smart) a Carell. Il risultato è Agente

Smart-Casino totale, il che già la dice lunga su quello che potete aspettarvi. Una sequela ininterrotta di gag al fulmicotone e un’impressionante catena di incidenti causati dalla leggerezza del «buon» Smart. Il quale, dopo un lungo periodo di completa inattività, viene reclutato per sventare un temibile complotto teso a distruggere Los Angeles e a vendere potentissime armi atomiche in giro per il mondo. Ma affidarsi a Smart non è proprio la cosa più saggia del mondo... Diciamo subito che il film funziona piuttosto bene. Peter Segal (regista feticcio di Adam Sandler, nonché autore dello struggente e simpaticissimo 50

volte il primo bacio) riesce ad adattarsi subito all’atmosfera pimpante e stralunata della serie, restituendone perfettamente lo spirito originario e giocando beatamente con gadget super tecnologici, inseguimenti furiosi e siparietti accattivanti. E poi era da un bel po’di tempo che il cinema americano non si avventurava nella parodia del genere spionistico, la cui vetta continua a essere il cameroniano True Lies. Una delle carte vincenti del film sono gli interpreti. Carell conferma d’essere uno dei comici più interessanti della sua generazione, Anne Hathaway (vista nel Diavolo veste Prada e nel più recente Havoc) dimostra ancora una volta di saper alternare diversi registri, per non parlare di un Terence Stamp dagli occhi sempre più vitrei e di uno straordinario James Caan il cui presidente degli Stati d’Uniti sembra vagamente ricalcato su George W. Bush. Insomma, c’è da divertirsi…


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(…) Tal fra le vaste californie selve nasce beata prole, a cui non sugge pallida cura il petto, a cui le membra fera tabe non doma; e vitto il bosco, nidi l’intima rupe, onde ministra l’irrigua valle, inopinato il giorno dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro scellerato ardimento inermi regni della saggia natura! I lidi e gli antri e le quiete selve apre l’invitto nostro furor; le violate genti al peregrino affanno, agl’ignorati desiri educa; e la fugace, ignuda felicità per l’imo sole incalza. da Inno ai Patriarchi

(…) Del cor l’ambascia si riversa e muove, e sol da la pietà non trovo loco. Ahi non è vana cura; che s’altrui colpa è questo ond’io m’affanno peggio è la colpa assai che la sciaura. Forse l’empio tormento di tue povere membra a dir io basto o sventurata? E può di queste labbra uscir tanto lamento ch’al tuo dolor s’adegui allor che guasto t’ebber la bella spoglia? Tu lo sai, poverella, che non puote voce mortal cotanto. (…) Or io te non appello, carnefice nefando, uso ne’ putri corpi affondar l’acciaro: odimi, a te favello o scellerato amante. (…) Infelici sembianti: io grido o fera, io grido a te; quando cotal vedesti far la meschina, in quella non ti sovvenne dell’antico amore? Non quando al tuo desir la festi ancella? da Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo

GIACOMO LEOPARDI

poesia

L’impegno civile di Leopardi di Leone Piccioni ecentemente - si sa - è stata scoperta in Brasile al confine con il Perù una tribù di indigeni fin qui ignota, senza esser mai stata collegata a quella che viene chiamatà civiltà. Colorati con pigmenti in rosso e in nero, hanno per la prima volta visto un aereo sopra di loro e hanno cercato di colpirlo con le frecce dei propri archi. Di queste tribù - dicono - ce ne sono molte, specie in Australia, del tutto ignare della civiltà. Che fare? Lasciarli vivere nel loro stato, o colonizzarli aprendo a loro le comodità e gli usi della vita sociale? Ho le mie idee in proposito, ma faccio parlare Giacomo Leopardi attraverso l’ultima strofa dell’Inno ai Patriarchi (1822) che fa parte dei Canti qui accanto riportata. *** Fra le poesie composte nel ’17 e non pubblicate nei Canti ce n’è una molto interessante sull’aborto: un tema certamente discusso da secoli e secoli e che Leopardi stigmatizza e deplora con invettive molto forti e quasi con spirito di vendetta. Si intitola Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo e per motivi di spazio ne proponiamo al lettore solo una parte. Vi sono nel testo anche versi in cui Leopardi parla di «orrida pena», «ferri atroci»: «Il pianto miserabile né il molto / a dimandar pietate / e non le tristi grida, e non la bella sembianza / e il gener frale e non l’etate…».

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Tra il ’17 e il ’20 Leopardi scrisse tre Canzoni, quella che abbiamo citato e un’altra intitolata Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e nel ’20 Ad Angelo Mai. Leopardi sottopose al padre le tre composizioni chiedendo il permesso di pubblicarle: Monaldo mise il veto per le due luttuose canzoni e approvò l’Angelo Mai. «E non s’era accorto - scrive Leopardi - che il Mai era piena di orribile fanatismo». Angelo Mai era un grande studioso che aveva scoperto i libri di Cicerone della Repubblica. Il 27 ottobre del ’20 Leopardi scriveva al Mai: «Ella è proprio un miracolo di mille cose, d’ingegno di gusto di dottrina di diligenza di studio infatigabile, di fortuna tutta nuova ed unica». Il tema della Canzone, che diverrà una pietra d’angolo per la comprensione dei tanti altri Canti, mette a confronto l’ignavia del presente con quello che chiama «il clamor de sepolti». Che Leopardi volesse dare ai Canti inizialmente, almeno, un forte valore civile più che mai si vede dalle due Canzoni che aprono la raccolta poetica: All’Italia del ’18 e Sopra il monumento di Dante dello stesso anno. L’intenzione si rivela pienamente in un abbozzo scritto dal poeta intitolato Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia accomunando anche il soggetto di Sopra il monumento di Dante. E ancora dall’abbozzo: «O patria mia vedo i monumenti… se avessi due fonti di lagrime… passaggio agli italiani che hanno combattuto per Napoleone: alla Rus-

sia. Morendo i poveretti… si volgevano a te, o patria». Ma non sono certamente tra le Canzoni più belle; con quelle infatti si era proposto un linguaggio aulico, morto, pieno di echi classici, di traduzioni, di immagini statiche: mai vivo, mai inventivo. Il linguaggio che fece grandi altre Canzoni nasceva con l’Angelo Mai. Eppure le due Canzoni hanno un grande successo: Pietro Giordani, illustre letterato del tempo, le definisce «una cosa grande» e aggiunge, scrivendo a Leopardi: «Le vostre Canzoni girano per questa città come fuoco elettrico: tutti le vogliono, tutti ne sono invasati… Non ho mai (mai mai) - prosegue Giordani - veduto né poesia né prosa, né cosa alcuna d’ingegno tanto ammirata ed esaltante. Si esclama di voi come di un miracolo».

Nello schema delle dieci Canzoni leopardiane, quattro risultano davvero memorabili: il Mai, Alla primavera o delle favole antiche del ’22, l’Inno ai Patriarchi sempre del ’22 e Alla sua donna del ’24. Poi ci sarà una pausa nella produzione poetica leopardiana tanto da pensare che la sua indagine sia completamente fallita. Leopardi studia per sapere se in qualche modo, in qualche luogo esista la felicità. È nel Mai che celebra i grandi italiani, ma vede che Dante, Colombo, Tasso, Alfieri non trovarono felicità malgrado la loro gloria e la loro grandezza: la vita loro fu piena di dolori e di tormenti. Si rivolge allora Leopardi alla Primavera per studiare il mondo della mitologia. Straordinaria è la descrizione del pomeriggio quando i fauni si precipitano sulle fanciulle, ma anche qui i casi che Leopardi cita del periodo mitico assegnano a tutti destini infelici: Dafne, Filli, Climene, Eco, Filomena, Procne ed altri. Non si rifiuta Leopardi di indagare anche nel mondo biblico e lo fa con la Canzone che abbiamo più volte citato, Inno ai Patriarchi o de principii del genere umano. Ma s’accorge che deve ripartire descrivendo l’uccisione di Abele dovuta al fratello Caino e poi aggiunge altri nomi di patriarchi fatti segni di sfortuna e di patimenti: Abramo, per esempio, e Giacobbe. La partita pare finita ma l’unico tentativo, l’unica speranza è che sia l’amore a diffondere felicità: la Canzone del ’24 è dedicata alla sua donna. Nell’annuncio delle Canzoni Leopardi scrive: «La donna, cioè l’innamorata dell’autore è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno, o in una quasi alienazione di mente quando siamo giovani». «Se dell’eterne idee / l’una sei tu, cui di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita, / e fra caduche spoglie / provar gli affanni di funerea vita; / o s’altra terra ne’superni giri / fra’ mondi innumerabili t’accoglie, / e più vaga del Sol prossima stella / t’irraggia, e più benigno etere spiri; / di qua dove son gli anni infausti e brevi, / questo d’ignoto amante inno ricevi».


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il club di calliope O TEMPO O tempo come vento chiuso tormento sempre cresci e decresci, lento esercizio dei secoli. Buio tarlo, e marmorea cura, pioggia densa, scura di atomi sui molli corpi che si sgretolano. Ovario profondo dell’inintelligibile mondo: cesura, orlo sul delirante ignoto. Nome

Giancarlo Pontiggia

MARIO LUZI, AUTORITRATTO DI UN GRANDE MAESTRO in libreria

di Loretto Rafanelli sempre una immensa soddisfazione poter ritornare su un grande maestro come Mario Luzi. L’occasione ce la fornisce una splendida autoantologia (Autoritratto, Garzanti, 463 pagine, 27,00 euro). Nel libro, ideato e amorevolmente sollecitato al poeta fiorentino da Paolo Mettel (che ne fece una prima edizione per la Metteliana), che ne è anche curatore con Stefano Verdino, sono inserite le poesie che il poeta rite-

cendosi al titolo della raccolta ultima, Dottrina dell’estremo principiante, sottolinea come per Luzi il poeta debba «sempre essere all’inizio del suo domandare, del suo interrogare» ed essere teso a «ricercare la rifondazione nella poesia e nel pensiero»; di Verdino, che sistema criticamente il percorso poetico di Luzi (individuando tre fasi: la prima con la «ricerca dell’altrove», fino a Un brindisi, 1946; la seconda, con

I versi più rappresentativi del suo percorso scelti dal poeta fiorentino con Stefano Verdino, curatore dell’autoantologia pubblicata da Garzanti neva più rappresentative del suo lungo percorso creativo da La barca, alle ultime poesie inedite, poi ancora testi teatrali (tra cui l’eccezionale Opus Florentinum del 2002) e vari saggi critici. Inutile dire che il volume è una vera miniera e ci permette di conoscere più approfonditamente la complessa e luminosa poetica luziana, ma anche di riflettere sul senso della poesia oggi. Il libro è preziosamente accompagnato da interventi di varie personalità. Ricordiamo gli scritti di Cacciari, che rifa-

Cado. Trascino le coperte. Prendimi la mano e raccogli i nostri pezzi. Scorro nel tuo sangue e niente sarà come prima. Prendimi la mano come il primo giorno. Sfiora la mia pelle per capire che esisto. Antonella Berni

Ho la parola amore per te Strappata dalla carne E marchiata su ogni lembo di pelle

di niente, folgorante vuoto.

È

UN POPOLO DI POETI

la ricognizione del «principio metamorfico» fino Al fuoco della controversia, 1978; e l’ultima «verso il trascendente con il canto e l’attesa della luce»); di mons. Ravasi («Il suo è stato sempre un pellegrinaggio nel mistero di Dio, dell’uomo, dell’essere e dell’esistere, un andare verso un Oltre e un Altro…»). Ma soprattutto c’è la profondità delle sue parole, con la «identificazione tra letteratura e vita» e la necessità che i «poeti cerchino dentro il linguaggio questa ragione primaria».

Ristagna pensieri In una muta distrofia Che senza di me Mai sentirai La stessa libidinosa Crepa Separando Vizi sanguigni Da chi respira a fatica Aspettando Una ripetizione di mani Curarsi nel sale Riduce la fossa: Stare seduti distanti In una gabbia vuota Limati gli artigli Si sfiora il banale Lo ricopri di notte Fai finta che sia Anormale Un salasso continuo Riduce la morale Sostituisce lo sguardo Corrompe nel finale. Sofia Siepi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

Nicola Diulgheroff dal Bauhaus al Futurismo di Marco Vallora repariamoci già a un’offensiva, piuttosto «offensiva» e molesta, fine 20082009, di modeste e bagnate grandinate di mostrone e mostrette, inessenziali o farraginose, soprattutto in Italia, dedicate, incertamente, al mito Futurismo, che il prossim’anno compierà cent’anni. Ora, soprattutto in Italia (mentre Parigi, Londra e anche Mosca stan preparando rassegne generaliste ma ben calcolate, da molto tempo, che soffocheranno in qualità tutto il resto d’impreciso, che noi riusciremo invece a rattoppare) la nostra Italietta assessoriale, si diceva, ove pure il Futurismo è nato, appunto in reazione (anche se preveggentemente Marinetti scelse il Figaro francese, per darne notizia, avendo intuito che in quella metropoli «della luce» stava per nascere la nuova «Roma» dell’arte contemporanea, e alla moda), l’Italia dei ritardi non sta congegnando, a quanto pare, nulla d’organico, o di ben coordinato. Lo ammettono senza grandi problemi i curatori stessi, già stanchi di cercar opere che non vengono più promesse e men che mai mantenute, e che ormai si strappano l’un l’altro dei residui pseudo-presunti-capolavori, senza mai aver orchestrato in tempo e con coerenza le varie mostre in sfrontata concorrenza (Roma contro Milano e via dicendo). Molto meglio, allora, sarebbe stato e sarebbe ancora, di lavorare a sotto-capitoli stimolanti e a piccole mostre-studio, per esaurire certi temi minori, ma più realistici e utili. E non finire invece, come sarà, nel generico più disarmante e punitivo (anche la mostra milanese su Balla funzionava poco: non rispecchiava sensibilmente la qualità ben più alta del pittore, e lo annegava

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arti

entro un allestimento infelice, che dava solo le vertigini e contrastava con lo spirito stesso dell’artista). Meglio allora, questa piccola rassegna, ma realizzata con amore, e preceduta da tempo da altre interessanti avvisaglie, dedicata a un protagonista si dica così, minore, ma molto rilevante, per Torino, soprattutto per l’architettura e la grafica pre-design, quale fu Nicola Diulgheroff, nato in realtà in Bulgaria, a Kustandil, non lontano da Sofia, nel 1901, ma naturalizzato a Torino. Così bene, che certo se lo ricordano ancora i frequentatori di mostre (scomparse nel 1982) e gli studenti d’architettura, per la sua lucida, aristocratica, forse un poco burbera, disponibilità da uomo cosmopolita dell’Est. Dopo aver peregrinato per le capitali più propizie all’arte modernista, in quel clima di rinnovamento Jügendstil, tra Vienna e Dresda, il giovane Diulgheroff approda al Bauhaus, appena fondato da Gropius a Weimer, per poi stabilirsi definitivamente a Torino. Ove s’affianca rapidamente al clima del Secondo Futurismo locale (accanto a Farfa e Fillia, e all’aereopittore Crali, piuttosto che non al suo «dirimpettaio» d’architettura, Sartoris). Più che un vero futurista (se pensiamo alle opere utopiche di Sant’Elia e Chiattone, e «dimentichiando» la villa progettata per il ceramista Mazzotti, ad Albissola, considerata l’unica architettura realizzata e conservata del futurismo storico) Diulgheroff, oscillando tra il gusto déco e uno stile para-razionalista alla Mallet Stevens (case-somergibili, con armature di ferro e vistose pensiline aggettamti) disegna una sua individualità costruttiva assai particolare (celebri le sue esattissime presentazioni assonometriche). La mostra racconta anche il suo intenso rapporto con la ceramica (e l’amicizia influente con Tullio d’Albissola), il suo fecondo rapporto con la grafica pubblicitaria, Amaro Cora ecc. (allora le affiches si chiamavano, «futuristicamente», «pubblicità lanciate», come una macchina in corsa) il suo proto-annunzio di profeta del design (con vetri e ceramiche che, onestamente, sono molto più attraenti e sane, dell’esibizionismo Memphis). Corteggiatissimo da Biennali, Triennali, Quadriennali, Diulgheroff riserva ancora le sue sorprese. Come, forse, il Futurismo

Nicola Diungheroff, Torino, Galleria Narciso, sino al 30 luglio

autostorie

Grazia e bellezza applicate alle macchine di Paolo Malagodi

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uando l’automobile fu inventata, più di un secolo fa, le questioni di carattere estetico non interessavano certo chi, meccanici e ingegneri, si preoccupava perché un normalissimo carro con ruote riuscisse a muoversi, sospinto da un motore che bruciava petrolio e non più trainato da un cavallo alimentato a biada. Man mano che la nuova invenzione affinava le proprie qualità tecniche, trovando sempre maggiori estimatori, furono così i maestri carrozzieri a lavorare legno, metallo e altri materiali in forme scultoree; dando loro personalità espressiva e rendendo l’automobile un oggetto capace di trasmettere le sensazioni di una bellezza che rasenta, in diversi esemplari, autentiche espressioni d’arte.

I cui autori solo in alcuni casi sono noti e celebrati, mentre i nomi di molti altri restano appannaggio di pochi addetti ai lavori ed è raro che, a differenza di pittura e scultura, modelli di auto siano riconosciuti come espressioni artistiche, meritevoli di essere esposte nei grandi musei. Anche se non mancano i collezionisti pronti a pagare fior di milioni per aggiudicarsi all’asta i pezzi più pregiati, in chiave spesso di apprezzamento per le particolari doti meccaniche della vettura, piuttosto che per il suo carattere di scultura in movimento. Quale l’automobile cominciò a essere dagli anni Venti e Trenta, periodo che vide la realizzazione di meravigliose carrozzerie a Parigi, grazie a scelti artigiani francesi, con l’aggiunta di un paio di americani e di un espatriato russo, oltreché dagli italiani Giuseppe Figoni e

Ovidio Falaschi, che «insieme con la manodopera francese e sotto la forte influenza della cultura locale produssero straordinarie fuoriserie che avrebbero influenzato il design delle auto per molti anni a venire. Prima dell’avvento del computer, il disegno tecnico veniva infatti eseguito con l’ausilio di quella che era nota come la curva francese: uno stampo di riferimento in cui non linee rette ma curve, fluide e armoniose, collegavano il punto A al punto B, così da aggiungere grazia e bellezza alla freddezza delle linee essenziali e degli angoli acuti». Inizia da qui un lungo percorso, di spazio e di tempo, dedicato ai maestri del design dell’automobile e agli esemplari più belli creati dalla loro arte. Ne è autore Larry Edsall, giornalista specializzato sul tema, con uno splendido volu-

me (Auto e Design, i maestri dello stile, edizioni White Star, 320 pagine di grande formato, 40,00 euro) che traccia l’evoluzione dello stile automobilistico nei decenni scorsi, senza rinunciare a gettare uno sguardo sul futuro e sulle opere delle nuove leve asiatiche. Lavoro che risponde agli iniziali quesiti su «quali sono i maestri di quest’arte a volte dimenticata? Quali sfide hanno affrontato, e quasi sempre superato? Che cosa alimenta la loro vena creativa? E quali sono le motivazioni che li sostengono?». Il tutto in un libro ricco di quasi 400 fotografie, da materiale di archivio o appositamente commissionate, con l’aggiunta dei disegni che hanno dato origine a idee tanto geniali da far guadagnare ai loro autori un posto di rilievo nella storia dello stile automobilistico e non solo.


MobyDICK

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architettura

Sommesse armonie tra antico e moderno di Marzia Marandola Venezia, in Santa Marta, un’area appartata che prende il nome da un antico convento, è stata realizzato un intervento architettonico esemplare, che testimonia come, attraverso sapienti progetti di trasformazione, si possa conciliare la conservazione di edifici storici con le esigenze di un moderno riuso. La chiesa conventuale di Santa Marta, risalente al XIV secolo, è un piccolo manufatto sopravvissuto in un’area interamente adibita a servizio portuale e la chiesa stessa, sconsacrata, è stata per lunghi anni deposito materiali dell’Autorità Portuale. Quando nel 1994 si sono evidenziati gravi dissesti statici delle antiche murature in laterizio, è stato richiesto l’intervento della Sovrintendenza ai Monumenti di Venezia, che ha proceduto al consolidamento strutturale. Questo evento si è rivelato provvidenziale poiché ha costituito la premessa di un progetto di valorizzazione e restauro della chiesa. Il soprintendente Renata Codello coglie la disponibilità dell’Autorità Portuale, proprietaria dell’edificio, a procedere a una qualificazione architettonica del manufatto, affidando l’incarico a un capace e raffinato architetto qual èVittorio De Feo (1928-2002), napoletano di nascita, romano d’adozione, autore tra le tante opere, del romano circolo aziendale Rai (1965) e della cappella

A

Universitaria di Tor Vergata (2002). La chiesa di Santa Marta presenta un impianto planimetrico molto semplice: un grande spazio ad aula delimitato da una struttura muraria in laterizio a vista, nella quale sono incastonati il bel portale dell’ingresso, scolpito in pietra d’Istria e i nivei frammenti lapidei delle cornici delle finestre ogivali. All’interno spicca

l’imponente orditura di copertura a possenti capriate lignee, impostate su pareti di mattoni policromi, ravvivate da frammenti di affreschi. Il progetto di trasformazione è finalizzato a un luogo a servizio dei passeggeri delle grandi navi da crociera che attraccano in quell’area. L’intervento realizzato da De Feo insieme all’architetto veneziano Vin-

L’intervento architettonico di Vittorio De Feo per il riuso di Santa Marta a Venezia

archeologia

cenzo Casali, che ha seguito accuratamente la costruzione dell’opera e la sistemazione dell’area esterna, è incentrato sulla messa in opera di un prezioso allestimento ligneo del quale la chiesa diventa una sorta di sacro scrigno a grande scala. De Feo mette a punto un’architettura interamente ordita in legno, ottenuta dalla intersezione e sottrazione di volumi elementari - cubi, cilindri, coni -, che contengono le funzioni necessarie: centro informazioni, controllo documenti, caffè, ristoro e una grande sala conferenze, modellata da una gradinata da cinquanta posti. Il nuovo volume è così lasciato libero al centro dell’antica aula, staccato dalle pareti perimetrali, che non sono intaccate in nessun punto: in questo modo si configura un piacevole spazio percorribile tra il nuovo volume e l’esistente. Questo sorprendente deambulatorio, che è anche una passeggiata architettonica, può essere adibito a temporanee esposizioni d’arte. Quest’opera piena di grazia sommessa e appartata ha meritato l’European Union Prize for Cultural Heritage 2006, unico progetto italiano premiato.

Una città tutta d’oro nel deserto nubiano di Rossella Fabiani l deserto nubiano non è più un vuoto archeologico, come veniva definito, ma un mondo che, grazie alle ricerche degli ultimi decenni, sta mostrando il suo volto carico di storia. La Nubia è una vasta regione interna al continente africano, da sempre difficile da raggiungere, praticamente sconosciuta. I suoi abitanti sono quasi tutti concentrati sulle fertili sponde del Nilo tra il confine egiziano e Khartoum, in Sudan. Ma anche i suoi deserti sono ricchi di storia, soprattutto per le miniere d’oro sfruttate dall’età faraonica fino al Medioevo. E Angelo e Alfredo Castiglione, tra i massimi conoscitori della Nubia, da diversi anni svolgono ricerche nella concessione archeologica affidata dal National Corporation for Antiqui-

I

ties and Museums di Khartoum, (Ncam) al Centro di Ricerche nel Deserto Orientale, (Ce.R.D.O.), fondato dai due fratelli milanesi, in Nubia. Le missioni del Ce.R.D.O. hanno messo in evidenza che queste grandi distese, regno del vento e del silenzio, furono, per secoli, centri di attività soprattutto minerarie ed erano percorse da carovane che le attraversarono in tutte le direzioni, lasciando tracce del loro passaggio. Le ricerche dei fratelli Castiglioni hanno identificato molte vie carovaniere, risalenti a epoche diverse, che gli studiosi hanno suddiviso in piste dell’oro, piste di penetrazione militare e commerciale e, infine, piste dei pellegrini e delle spezie. Le piste dell’oro identificate, partivano dalla valle del Nilo, all’altezza della fortezza egizia di Buhen (oggi scomparsa sotto le acqua del lago Nasser) e si dirigevano verso le due principali zone di quarzo aurifero del deserto orientale sudanese: la regione di Wawat, il cui centro può essere considerato il Jebel Umm Nabari e la regione mineraria dell’alto Uadi Allaqi e di Berenice Pancrisia. E proprio Berenice Pancrisia è stata l’incredibile scoperta archeologica dei fratelli Castiglioni. Alla fine La città di Berenice Pancrisia. dell’Ottocento nei tortuosi viIn primo piano coli del Cairo circolava una cuAlfredo Castiglioni riosa leggenda: «nel cuore del deserto esiste una città-fanta-

sma che è possibile vedere una sola volta, perché un malizioso genio, un ginn, che ne è il geloso custode, la fa sparire agli occhi di chi vuole tornarci». La leggenda è invece diventata realtà e la celebre città mineraria, adagiata sullo sfondo dello uadi el-Allaki con i castelli e l’insediamento abitativo principale, è finalemente ritornata alla luce. Quando Alfredo e Angelo Castiglioni hanno scoperto la distesa di rovine nello uadi el-Allaki, le indagini storiche e gli scavi hanno permesso di dare un nome alla città dimenticata del deserto nubiano. I reperti di età tolemaica (III-I secolo avanti Cristo) rinvenuti nell’area hanno indotto gli studiosi a ritenere che si tratti della Berenice Panchrysos, la Berenice «tutta d’oro», citata da Plinio il Vecchio: Berenicen alteram quae Panchrysos cognominata est (Naturalis Historia VI, 170). L’identificazione è stata condivisa da Jean Vercoutter, che ha definito il ritrovamento «una delle grandi scoperte dell’archeologia», oltre che da Sergio Donadoni, Annamaria Roveri Donadoni, Charles Bonnet, Isabella Caneva e altri grandi esperti della regione nubiana. Anche le indagini storiche hanno avvolorato l’ipotesi. Il primo che cercò di dare una collocazione geografica a Berenice Panchrysos fu il geografo francese Jean Baptiste d’Anville, che nel suo volume Géographie ancienne abrégée (Parigi 1768) localizzava la città nei pressi di «una montagna con miniere dalle quali i Tolomei estraevano molto oro, montagna che i geografi arabi chiamano Allaki o Ollaki». Ma d’Anville sbagliò a segnare sulla sua mappa il gebel (montagna) Allaki o Berenice Panchrysos in prossimità del Mar Rosso. In realtà le montagne ricche di quarzo aurifero (il prezioro oro tanto amato da nubiani e da egiziani) dello uadi el-Allaki, si trovano a quasi 250 chilometri dalla costa.


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fantascienza

ai epoca della storia è stata più sorvegliata di quella delle democrazie liberaldemocratiche. Mai cittadino è stato più oggetto dell’osservazione occulta di quello vissuto dopo la sconfitta delle dittature del Novecento. È un dato di fatto, non un’opinione. Il problema non si pone soltanto sul fronte della sicurezza (un po’ meno libertà individuale per una maggiore sicurezza generale: il che potrebbe anche essere spiegabile se non proprio giustificabile), ma soprattutto sul piano della vita comune, di ogni giorno. Le dittature del Novecento sono state definite antidemocratiche per il voler controllare ossessivamente il singolo cittadino, indipendentemente dal suo essere un criminale o un oppositore di fatto o in potenza. Vengono condannate per questo, per aver limitato la libertà e i diritti fondamentali individuali. Oggi, se si giunge a tanto è per il bene dei cittadini, per proteggerli dal terrorismo e da altri reati efferati, non per prevenire o reprimere il dissenso politico. Ma le cose non stanno ormai più così. Il controllo e l’intrusione nelle vite private della gente comune ormai lo si effettua quotidianamente, e neanche da parte di apparati statali, segreti o meno, ma per il semplice fatto che questa gente comune usa ormai regolarmente strumenti che la

M

tecnoscienza ha messo a sua disposizione da un bel pezzo e a cui tutti sono abituati. La posta elettronica, le telefonate cellulari sono controllate senza dover ricorrere al supersistema Echelon. Ci si può individuare per ogni dove; basta ricorrere alla mappatura satellitare.

L’uso di carte magnetiche in autostrada, in banca, al supermercato, in albergo, in qualsiasi negozio lascia una traccia di quel che abbiamo fatto. Visitare siti internet, blog, gruppi di chat imprime nella Rete la nostra impronta telematica quasi indelebilmente. I nostri dati, volenti o nolenti, passando di mano in mano senza che lo si sappia, vengono accumulati per rico-

ai confini della realtà Big Brother MobyDICK

nell’era del Sinopticon di Gianfranco de Turris struire il nostro profilo umano, ideologico, commerciale.Tutto ciò non lo mette in atto una qualsiasi «polizia segreta» di una bieca dittatura del passato, ma una serie di gruppi sociali, commerciali, politici, anche singole e oscure persone mosse sia dalla pura e semplice curiosità sia da peggiori intenzioni. La tecnologia informatica, e la diffusione capillare di essa a portata di mano di chiunque, ha trasformato il pianeta non solo nel «grande villaggio» di cui parlava McLuhan, ma addirittura nel «grande cortile» di un condominio planetario e pettegolo in cui tutti possono, volen-

in mente, pensate un po’, a un filosofo liberale inglese come Jeremy Bentham (17481832) che ideò un carcere modello chiamandolo Panopticon, dove un unico guardiano poteva controllare un’intero complesso circolare di celle (il saggio con questo titolo è stato tradotto molti anni fa da Marsilio). Uno che controlla molti.

Così come un secolo e più dopo un altro inglese, George Orwell, ne averva immaginato uno sviluppo tecnologico nel suo mai troppo ricordato 1984 (1949): qui c’è il beneamato dittatore di Ocea-

Molti controllano molti. Quasi tutti sorvegliano tutti. L’assurdo del nostro tempo è che quanto una volta era messo in atto da bieche dittature è oggi un sistema diffuso, che noi stessi, con le nostre tracce telematiche, contribuiamo ad alimentare do, sapere tutto di tutti. Un esito che sicuramente gli ideatori dei satelliti di telecomunicazioni, della Rete Globale, del telefonino mai avrebbero immaginato. Vi aveva pensato invece, come spesso accade, la narrativa dell’immagianario, anche senza arrivare alla descrizione dei sofisticati marchingegni di oggi. L’ossessione della sorveglianza totale e diuturna era venuta

nia, il Big Brother, che ormai traduciamo tutti Grande Fratello ma che si dovrebbe più esattamente intendere come il Fratello Grande, il fratello maggiore di età, quello che ci sorveglia e ci protegge e in cui noi confidiamo. Grande Fratello che controlla tutti attraverso milioni di telecamere installate dappertutto, anche nei singoli appartamenti. Anche qui uno -

anonimo, perché nessuno conosce il suo vero volto - controlla tutti. Ma l’invasione del privato, la violazione della riservatezza, non è ormai solo «politica». La fantascienza più critica e avveduta ha da sempre messo in guardia nei confronti della pubblicità pervasiva: nell’America degli anni Cinquanta, che subiva il primo massiccio attacco della pubblicità mediatica e si parlava per la prima volta dei «persuasori occulti», uscirono opere significative che purtroppo oggi non si ristampano più per rimarcarne la preveggenza: da I mercanti dello spazio di Pohl e Kornbluth (1953) le cui eco si riverberano sino al film Blade Runner di Ridley Scott (1982), a Il verde millennio di Leiber (1953) con le pareti delle abitazioni che fungono da schermi pubblicitari. Meriterebbe una ristampa anche Simulacron 3 di Daniel Galouye che quasi cinquant’anni fa (il romanzo è del 1964) immaginava una società fasulla creata dal computer per simulare ricerche di mercato: una anticipazione del Truman Show e di Second Life. L’assurdo della situazione attuale è che quanto una volta era considerato antidemocartico (la violazione della riservatezza personale, dell’intimità di ognuno), messo in opera da bieche dittatute, è oggi un sistema diffuso a tutti i livelli, accettato implicitamente o che non

suscita l’allarme sociale che dovrebbe, e al quale è impossibile opporre rimedio, a meno di non rinunciare a quasi tutto quanto lo sviluppo tecnologico ha messo a nostra dispozione ormai da parecchi anni: computer, internet, telefonini, carte di credito e compagnia bella. Non usare tutto ciò significherebbe diventare praticamente «invisibili» alla società informatizzata, ma significherebbe anche, sotto alcuni aspetti, essere impossibilitati a vivere una vita considerata oggi «normale», ad avere un certo tipo di relazioni sociali e commerciali. È l’era del Sinopticon, come l’ha definita David Lyon, dove molti controllano molti... quasi quasi tutti sorvegliano tutti.


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