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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

NOSTALGIA DELLA POLIS

Ventitré scrittori raccontano il Bel Paese

di Pier Mario Fasanotti

essere apolidi (etimologicamente: senza città) è un’assurda astraziovicoli, le urla e i sussurri, «ruba» dal proprio sentire immagini e storie locali ne, e come tale non ha alcun riscontro con la realtà di ognuno di per poi trasformarle, con l’ausilio - per nulla posticcio o casuale - del frulMilano noi. Ha a che vedere con il passaporto e la burocrazia dellatore immaginativo. Per questa ragione lo scrittore e saggista Filipslabbrata, l’anagrafe. Il timbro dell’appartenenza, a una città o a po La Porta ha scandagliato fondali italiani dando la parola Torino vivace, Roma una regione, è impresso nella nostra mente e nessun liquiagli scrittori. In Uno sguardo sulla città (Donzelli, 123 paincompiuta, Firenze gine, 16,00 euro), ha cercato di individuare quello che do magico può cancellare la carta di identità dell’anidi precipuo permane ancora delle città, invase ma. Chi scrive romanzi o poesie è come se, attiun cadavere, Napoli tragica, Bologna dalla tentazione-obbligo di somigliarsi tutte, mo dopo attimo, ponesse in evidenza quel discretissima, Trieste mai abbastanza italiana... assediate che ormai ha assunto una musicalità lessicale come sono dai centri commerciali, È quanto emerge dal viaggio ricognitivo di cemento e di mente, che si risolvono poi a esseretorica: le radici. Intrisa su ogni pagina c’è la filigrana di un luogo, quello natio o quello adottato. Se vore topos della non-memoria, dell’obnubilamento devadi Filippo La Porta attraverso lessimo indagare sull’intima essenza di Roma, Milano, Toristante sulla spinta del quasi-vivere e del consumare come lo sguardo no, Napoli, eccetera, la tentazione sarebbe quella di porre domandell’agire e dell’essere. Pur tenendo conto di una sordei narratori ta dicondizione de a storici o a sociologi. Ma sarebbe inesatto, o comunque i risultati «controtendenza» che La Porta individua nella «riscoperta di sarebbero approssimativi per difetto. Solo il narratore assorbe il suono dei centri storici e piazze tradizionali».

L’

Parola chiave Città di Sergio Belardinelli Apocalittica Laurie (col suo alter ego) di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Cosmologia di Romeo e Giulietta di Roberto Mussapi

Così parlò Athanasius Kircher di Mario Bernardi Guardi Solomon Kane e la saga dei Predators di Pietro Salvatori

Nitido e naif… ecco Fellini di Marco Vallora


nostalgia della

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Inevitabile ricordare il famosissimo Viaggio in Italia di Guido Piovene, cui hanno fatto seguito abbozzi come quelli (tra stizza e veleno in bello stile) di Guido Ceronetti e quelli severi ma anche affettivi di Sandro Onofri. L’obiettivo è sempre quello di stanare un paese «assente a se stesso», con le immaginabili ricadute sull’identità nazionale, un concetto e un affetto erosi dal frazionismo del «viva il nostro cortile» dei leghisti. La scelta di Gianni Biondillo come testimone di Milano è fortunata, anche perché l’autore giallista è anche architetto. Spietata la sua diagnosi: «Abbiamo fatto coriandoli dei nostri piani regolatori, sono anni che manca una progettazione del territorio a lunga gittata». Questa definizione dello slabbramento urbano meneghino trova conferme nei commenti di chi viene da altre città: che agglomerato casuale, si dice di solito, magari affascinante per certi aspetti, ma sfuggente all’idea della polis, ci si gira attorno senza trovare un baricentro, oppure un’intenzione capace di armonizzare pietre e persone. All’inevitabile domanda sulla Milano capitale morale, sulla Milano «da bere» e dei paninari, sulla città che aveva alla sua periferia la mastodontica tradizione tipo Stalingrado (Sesto San Giovanni), riflette Biondillo: «Se la attraversi incontrerai mondi che spesso si sovrappongono e altrettanto spesso non si incontreranno mai. La più antica tradizione di Milano è voler continuamente cambiare pelle, cercare di essere sempre al passo col mondo, aggiornata, affamata di novità. Questo porta alla perdita del suo patrimonio urbanistico, o alla sua quasi indifferenza per quello artistico».

Molti stranieri, racconta Biondillo, si sono sorpresi venendo a sapere che il Cenacolo vinciano non era a Firenze, ma qui. A parte l’arte, per la quale Milano ha occhi strabici o distratti, c’è anche da dire che la città «ha azzerato la sua eredità di fabbriche, quasi fosse una colpa». Le trame narrative Biondillo le colloca a Quarto Oggiaro, non sopportando l’etichetta «criminaloide» che assiduamente si dà a questo brutto borgo. Dove tuttavia il sottoproletariato non è sinonimo di «inferno in terra». Ci sono ancora i cortili, le voci, lo stare insieme, allorquando nei fine settimana i milanesi sentono l’obbligo di fuggire dalla città, «come se la odiassero». E lontano dalla Madonnina questi fuggiaschi si rendono insopportabili perché pretendono «che il resto del mondo si adegui ai loro ritmi, alle loro abitudini, alle loro necessità efficientistiche». Non che sotto il Duomo manchino le «eccellenze». Ci sono, ma entro limiti ristretti. Un premio Nobel si può sempre invitare: ovviamente in centro «e come in un salotto da canasta». E Torino, tradizionalmente rivale di Milano? La Porta ha scelto bene anche stavolta interrogando Giuseppe Culicchia. Il quale fa considerazioni generali molto interessanti: «Le nostre città stanno seguendo più o meno consapevolmente il modello Las Vegas». Certo non è prerogativa solo italiana visto che è marcata la tendenza di trasformare le città postindustriali «in luoghi di intrattenimento più o meno culturali». Le «notti bianche» per esempio, a significare che se mancano tradizioni culturali, anche in provincia, basta inventarle. Secondo Culicchia, che ha ben chiaro il panorama urbano internazionale, Torino è oggi «una delle città più vivaci dal punto di vista culturale». Numerose le iniziative, questo è indubbio. E i milanesi, frullati dalla gio-

stra della moda e da poco altro, avvertono una certa invidia per i sabaudi che decenni fa nutrivano complessi di inferiorità rispetto all’agire meneghino. Rapporto capovolto, dunque. Ma il rischio, dice Culicchia, è quello che ognuno vada per la propria strada. Tante buone volontà, ma poco coordinate.

Edoardo Albinati risponde per la sua città, Roma.Accennati con malumore gli scempi compiuti dopo l’unità d’Italia e anche nel secolo successivo per l’avidità affaristica e speculativa, si è arrivati ai «progetti micidiali» di edilizia pianificata (malissimo): vedi Tor Bella Monaca. Lo scrittore ammette d’essere stato diffidente verso Roma quand’era ragazzo: città pigra e corrotta, immersa in un tono fintamente conciliante ma sostanzialmente freddo. Così diceva e si dice. Ma le facili etichette possono sbriciolarsi se si tiene conto della «incessante ruminazione d’una città erbivora, che tritura coi molari». La Capitale ha sani anticorpi. Merito anche di un territorio circostante che ha il pregio di odorare di mucche, cavalli ed erba: cose che a Milano manco le ricordano. La moda? Non esiste, salvo certi occasionali bagliori televisivi. La gente ha l’aria sempre un po’ arretrata, disinformata. Non è un peccato capitale: «certi personaggi non attecchiscono, l’originalità è accolta da folate di scetticismo». Sarebbe troppo idiota dimenticare il peso e la suggestione culturale delle pietre antiche, «quel passato che mi esalta e mi inorgoglisce… certi giorni la bellezza di questa città mi ferisce e mi leva l’aria, mi strozza, anzi sono io a impiccarmici, a strozzarmici da solo come la recluta di Full Metal Jacket». E le rovine storiche non sono cose messe lì e fatte rimanere lì, semplicemente. Respirano. Sono anche occasioni per riflettere sulla caducità umana. Pensieri ed emozioni che sorgono passeggiando tra i romani «che per definizione sono incompiuti, privi di un destino». Ci credo: il presente ha una potenza inaudita, soprattutto se avvinghiato a un passato di incomparabile fascino. Il giallista Marco Vichi è fiorentino di nascita, ma vive distante dal nucleo antico. Che definisce «un bellissimo cadavere». Non si muove, non è riuscito ‘sto corpo stecchito a «dare continuità alla sua storia culturale, e ormai da molto tempo si occupa solo di «vendere» ciò che esiste già. Del resto, come può essere creativo un cadavere? Se si muove, lo fa per commercio. E l’arte e la letteratura, che pur dovrebbero impregnare l’aere che scivola sopra l’Arno? Firenze, dice Vichi, «non trasuda queste cose, in realtà trasuda commemorazione di arte e di letteratura, che non è la stessa cosa». Ci sono scintille, talvolta, ma non diventano falò. Valeria Parrella fa il suo «faccia-a-faccia» con quella città-corpo, terminale e porosa che è Napoli, agglomerato sempre «sovraesposto» che è perennemente in guerra, almeno nelle menti più illuminate, con la condanna dello stereotipo. «Ma non me ne importa niente» dice la scrittrice nata a Torre del Greco. «Non ci penso mai allo stereotipo. L’ho, diciamo, genetizzato, sta là. Se ci pensassi non potrei scrivere… lo stereotipo va avanti, si neologizza. Potremmo affermare che per assurdo dopo Roberto Saviano lo stereotipo è la stessa camorra, ma la camorra è prima di tutto camorra, e cioè il problema di Na-

polis

poli, il secondo è l’atteggiamento camorristico di chi non è della camorra». Filippo La Porta inevitabilmente le ricorda quel che diceva Domenico Rea: a Napoli, città che è anche tragica, è impossibile esprimere letterariamente il tragico perché alla fine vi prevale sempre la commedia, la macchietta. Parrella scatta come una molla: «Noo, Napoli è tragica, lo è profondamente, ce lo ha fatto vedere Anna Maria Ortese, ce lo fanno vedere Martone, Capuano. Certo oggi deve essere raccontata di nuovo, dopo che la Ortese e La Capria dopo la guerra ne hanno rappresentato lo sfacelo e poi sono fuggiti». A lei interessano principalmente le donne, «insieme forti e rassegnate». E si vede, leggendo i suoi libri.

Marcello Fois, nuorese che vive a Bologna da tanto ci indica un aspetto della «dotta» che può sorprendere: «È una città segreta e al contrario di quanto si crede discretissima. I giardini nascosti tra i palazzi sono una meraviglia per pochi eletti». E come parlare di Trieste, «mediterranea e nordica», con colori smorzati come si vedono sul Baltico, ma all’improvviso sfavillanti più che al Sud? È il caso di dire che Trieste la descrive meglio La Porta che non lo scrittore che qui ci vive, Mauro Covacich. Bisogna dargli atto che pone in evidenza due cose importanti. La prima: la città ha il complesso di non essere mai abbastanza italiana. La seconda: città di anziani, è vero, ma di anziani che escono di casa, che non si nascondono. Tutto qui? Mi pare davvero poco. Già il cognome Covacich dovrebbe richiamare il crogiolo delle etnie, i drammi dell’esodo, l’avanzata dei «nuovi» sloveni e croati. C’è poi la Trieste che si sente ancora asburgica, che diffida di Udine e Pordenone, considerandole «contadine» ma che ora, invece, sono poli culturali di tutto rispetto. Ci sono i triestini che parlano quasi esclusivamente in dialetto, e se non li si capisce se ne fregano (una volta, chi scrive questo articolo a una signora che fraseggiava in triestino obiettò: «Mi perdoni, sono italiano e non la capisco»). Covacich «corre a perdifiato» - tanto per parafrasare il titolo di un suo romanzo ma pare che abbia gli occhi bassi, che gli sfuggano molte cose: la felice eredità di Franco Basaglia che ha fatto scuola nel mondo, l’andirivieni di etnie, i vecchi e mai trattenuti pregiudizi verso gli «slavi», la forte abitudine al bere, il senso di superiorità che s’aggrappa al passato in stile Maria Teresa, la decadenza economica di una città che un tempo era l’unico e sfavillante porto dell’impero austro-ungarico. Conviene rileggere le pagine del compianto Fulvio Tomizza senza per questo limitare le corse a perdifiato sulle Rive corteggiate dai gabbiani, dove lo sbattere delle funi sugli alberi delle navi producono musica e allegria. “La città ideale” attribuita a Francesco Laurana. A sinistra, dall’alto: Edoardo Albinati, Gianni Biondillo, Giuseppe Culicchia e Marco Vichi. Al centro, Valeria Parrella. A destra, Mauro Covacich. Sopra, la copertina del libro di Filippo La Porta

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parola chiave

inché le parole conserveranno ancora il loro senso, la parola città rimanderà sempre alla polis, quindi alla politica, al potere, all’essere cittadini di una comunità, al luogo dove abitiamo, dove abbiamo la nostra casa e dove tutto ciò che è stato costruito - case, palazzi, monumenti, chiese, campanili, biblioteche, piazze o ponti - costituisce precisamente il registro materiale e simbolico di un mondo, la civitas, la quale, a differenza della semplice natura, è un artificio, una costruzione umana. Come ha mostrato in modo suggestivo Martin Heidegger, nel suo saggio su Costruire, Abitare, Pensare, esiste un nesso inscindibile tra il «costruire», l’«abitare», il «prendersi cura» e tra questi e la speciale natura dell’uomo. Le case e la città non sono semplicemente luoghi; esprimono piuttosto una modalità di essere e di esistere dell’uomo, un abitare, grazie al quale l’uomo è e si manifesta per ciò che è: un essere che non è semplicemente «natura», ma anche cultura, capacità di costruire e di custodire, riconoscendosi nella permanenza degli oggetti e delle opere che lui stesso ha prodotto e costruito. È nella casa e nella città che si sedimentano la politica e la storia, tutto ciò che gli uomini hanno creato col loro lavoro, la loro intelligenza e la loro immaginazione, la stessa identità dei singoli, dei popoli e delle culture. Ma se questo è vero, che cosa succede nel momento in cui la nostra casa o la città che abitiamo perdono, come sembra accadere oggi, la capacità di essere un elemento di identificazione?

F

Già all’inizio del secolo scorso, Georg Simmel sottolineava con preoccupazione il grande scarto simbolico verificatosi allorché le case cittadine vennero identificate con un numero civico, anziché con un nome proprio, come avveniva nel Medioevo fino al secolo XIX. Un conto sono i numeri che si ripetono uniformemente in ogni strada, altro conto sono i nomi propri; l’identificazione dell’individuo con la sua casa viene indebolita già a questo livello. Se poi pensiamo ai quartieri sempre più anonimi e privi di punti di riferimento, all’agglomerato urbano, dove le strade sembrano essere tutte uguali, dove le case diventano appartamenti e le piazze cessano poco a poco di essere luoghi d’incontro; se pensiamo a questo, dicevo, allora non possiamo non pensare a Trude, la «città continua» di Italo Calvino. La cosiddetta metropoli sembra essere diventata in effetti una sorta di fluido, dove la marcatura dello spazio non ha più senso né all’interno, né verso l’esterno, rispetto, poniamo, agli orti suburbani e alla campagna. Con un’immagine di Marx, potremmo anche dire che in questa città «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», producendo una sempre maggiore estraniazione. I pensatori della cosiddetta crisi d’inizio secolo XX, tra i quali troviamo sicura-

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CITTÀ È il prodotto più grande della cultura umana, costruito dall’uomo per sottrarsi alla natura, dandosi una dimora stabile dove far nascere i propri figli ed essere «cittadino». Ma oggi è il luogo dell’estraniazione

Tornando a casa di Sergio Belardinelli

Quando le case cittadine vennero identificate con un numero civico anziché con un nome proprio, come avveniva nel Medioevo fino al XIX secolo, si verificò un grande scarto simbolico. Ma recuperare il senso di anonimato e di anonimia e abitare di nuovo in modo umano le metropoli è, nonostante tutto, possibile mente anche Simmel, sono particolarmente attenti a questa trasformazione della città; avvertono la tragedia culturale che in essa si consuma. Il prodotto più grande della cultura umana, ciò che l’uomo ha costruito per sottrarsi alla natura, ai suoi cicli sempre uguali, e darsi in questo modo una dimora stabile, una casa, dove far nascere i propri figli, e una piazza dove essere «cittadino»; questo artificio, dicevo, si trasforma poco a poco in una sorta di «seconda natura», qualcosa in cui diventa sempre più difficile per l’uomo riconoscersi, un nemico, che bisogna nuovamente assoggettare. Come ebbe a dire un altro autore della crisi di cui stiamo parlando, Osvald Spengler, «l’uomo della civiltà, che era stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e stru-

mento della sua stessa creatura, della città, e infine viene a essa sacrificato». È la famosa diatriba tra cultura e civilizzazione, tra quello che Spengler chiamava «il corpo vivo» di un’anima, la cultura, e la sua «mummia», la civilizzazione. Ma è anche la «gabbia d’acciaio» di cui parlava Weber e il passaggio dalla «comunità» alla «società», da una situazione in cui gli individui erano uniti «nonostante le separazioni», a una situazione in cui gli individui sono «separati anche quando sono uniti», di cui parlava Toennies. La città metropolitana appare insomma come l’espressione più radicale di quello spirito illuministico che, volendo trasformare gli uomini in «cosmopoliti», finisce per renderli dappertutto stranieri. Essa non ha più nulla della bellezza che traspare ancora in città

come Roma, Firenze o Venezia; il senso di unità e armonia che si genera quasi per miracolo da una molteplicità di elementi architettonici impregnati di vita umana sembra scomparso; la città metropolitana è sempre più anonima e «anomica» e i suoi abitanti, per sopravvivere, debbono inibire le proprie emozioni, le proprie convinzioni, e trasformarsi, come diceva Simmel, in semplici blasé, disincantanti, estranei e indifferenti al mondo che li circonda. Riprendendo la terminologia heideggeriana usata all’inizio, potremmo dire molto semplicemente che, nella città metropolitana, «abitare» diventa sempre più difficile; le «costruzioni» e la stessa vita pubblica sembrano perdere poco a poco il loro carattere intenzionale, la loro dipendenza dalla creatività e dalla libertà degli uomini, e quasi farsi da sole, secondo una logica indipendente da scopi umani. Quanto infine al riferimento che l’«abitare» intrattiene col «custodire», col «prendersi cura», tale riferimento scompare completamente dall’orizzonte del blasé metropolitano. Nell’opaco, uniforme, indifferente e febbrile grigiore della sua vita, questi si limita tutt’al più alla «cura di sé». Un narcisismo sterile e senza speranza.

Che le tendenze socioculturali che ho sommariamente accennato esprimano tendenze reali dell’odierno contesto metropolitano mi sembra fuori discussione, non credo tuttavia che, per questo, si debba necessariamente ritenere che tale contesto non consenta più un «abitare» degno dell’uomo. Contrariamente agli autori della crisi di cui ho parlato finora, la mia posizione in proposito è, diciamo così, meno pessimistica. Di fronte alla frammentazione e al narcisismo imperanti non possiamo certo pretendere che si possa semplicemente ritornare alle forme di vita del passato. Al tempo stesso, però, non possiamo neanche pensare che il processo che si è messo in moto abbia in sé soltanto pericoli e nessuna speranza di salvezza. Non credo insomma che la scienza, la tecnologia e la città siano incompatibili con l’esistenza di valori morali e di relazioni sociali, diciamo pure, di beni «relazionali» (fiducia, amicizia, gratuità, fedeltà, responsabilità), capaci di trasformare la libertà che abbiamo poco a poco conquistato (un bene straordinario!) in scelte che diano senso alla nostra vita. È in fondo soprattutto una questione di cultura e di cultura «civile». E, guarda caso, cultura è parola che viene da colere, coltivare; quel coltivare che, nel linguaggio heideggeriano da cui sono partito, è anche un «aver cura» e che, insieme al costruire come edificare, ha il suo significato «autentico» nell’abitare. Concludendo, mi piace pensare che questo «abitare», che rimanda chiaramente alla polis e alla civitas, per quanto sia difficile, sia ancora possibile anche nella città metropolitana.


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Pop

musica

LO SPIRITO REGGAE non si addice a Osoppo di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi itorna, dieci anni dopo Life On A String, a duellare con le parole: cantate, recitate, vivisezionate al punto da evaporare letteralmente dalla sua voce. Spremendo la nuda parola (il suo slogan è da sempre language is a virus: incontro/scontro di concetti e pensieri) e sublimando il cyber-suono, la sessantatreenne Laurie Anderson continua a mettere d’accordo i sommeliers dell’avanguardia e i voraci masticatori del pop. Colta e ironica, seriosa e deviante, la sua arte compositiva decolla nel 1981 con il colpo a effetto del brano O Superman (For Massenet) che soddisfa, appunto, avanguardisti e poppettari. Lei, nata a Chicago e reduce da meticolosi studi sull’antico Egitto, imbraccia il violino dopo averlo genialmente tramutato in tape bowl violin: testine magnetiche a sostituire le corde, l’archetto con un nastro registrato. Dopodiché infila milioni di parole nei teatri, nelle gallerie d’arte newyorkesi, negli oceani audiovisuali delle sue performance surreali, dentro quei prodigi elettronici che sono i suoi dischi: da Big Science (’82) a Bright Red (’94), transitando per Mr. Heartbreak (’84), Home Of The Brave (’86) e Strange Angels (’89). Nonostante lo zero discografico, in questi dieci anni Laurie Anderson non ha come si suol dire battuto la fiacca: ha preferito, semplicemente, giostrare la propria multimedialità sui palcoscenici di mezzo mondo anziché in una claustrofobica sala di registrazione. Il che ha prodotto gli spettacoli The End Of The Moon e Delusion, nonché i venti minuti di Music For Dogs presentati un paio di mesi fa al Vivid Live Festival di Sydney col coinvolgimento della sua cagnolina Lolabelle. In ogni show, ha fatto capolino il compagno di vita (e da due anni mari-

R

Jazz

zapping

genzia santi amministratori. Dopo il caso milanese, quello di Claudio Trotta, promoter di Bruce Sprongsteen che ha rischiato la galera perché il suo artista aveva suonato venti minuti in più, abbiamo anche il caso udinese, o meglio ispano-udinese. Perché c’era una volta il Rototom Sunsplash, il festival reggae più grande d’Europa (6 giorni, 150 mila persone) che si teneva a Osoppo (Ud). E c’è ancora, solo che ora si tiene in Spagna, a Benicàssim, dal 21 al 28 agosto. Motivo: gli organizzatori sono stati bersaglio di proteste e avvisi di garanzia per il fatto che a un festival reggae c’è gente che si fa le canne, e hanno spostato il circo reggae oltre i confini patrii. Ora qui non vogliamo discutere sulle implicazioni psicotrope di alcune musiche anche perché da assidui frequentatori della festa della Madonna di Polsi (Rc), uno dei più folli e devoti rave parties a base di capra e vino, non ci sentiamo l’anima a posto. Non vogliamo nemmeno discutere sulla legge Bossi-Fini, che ci pare bellissima se temperata da un’applicazione intelligente, secondo la pratica tutta italiana dei principi forti con applicazioni duttili. Ci basta qui citare il caso di un musicista calabrese di nostra conoscenza. Arrestato per possesso di cannabis ha pacatamente spiegato al giudice la verità: non deteneva la sostanza in questione per spaccio ma per una sua esigenza spirituale, essendo legato alla cultura reggae l’uso di cannabis era per lui un fatto religioso. Il giudice ha capito e l’ha rimandato a casa. Ecco: i santi amministratori e inquirenti di Udine non potrebbero prendere il raduno come un fatto religioso? Invece di far traslocare in Spagna una manifestazione da 150 mila persone che fa bene allo spirito e anche all’indotto? Troppa o troppo poca santità a Udine?

A

Apocalittica Laurie (col suo alter ego) to) Lou Reed, che nel 2007 non ha mancato d’affiancarla nel labirintico intreccio di letture, canzoni e videoproiezioni intitolato Homeland. Questo pugno in faccia all’America, diretta conseguenza del monumentale United States I-IV che nell’84 satireggiò tutto quel che odorava di stelle e strisce, si è trasformato in un disco bello tosto, paradossale e affascinante le cui tematiche, tiene a precisare l’artista, sono «politica estera, tortura, collasso economico, erosione della libertà personale, malasanità, religione, cinismo». La sua voce, manco a dirlo, la fa da padrona eruttando parole che cavalcano una world music solenne (Transitory Life); la bellezza cameristico/percussiva di My Right Eye; l’impeccabile crescendo sinfonico/elettronico di Thinking Of You; l’irresistibile appeal mediorientale di Strange

Perfumes, con l’efebico controcanto di Antony Hegarty; il coriaceo minimalismo di Falling; le pulsioni funk (stile Talking Heads) di Only An Expert, con la chitarra imbizzarrita di Lou Reed che fa il verso al miglior Robert Fripp; le urticanti sperimentazioni di The Beginning Of Memory; l’ipnosi rumorista di Bodies In Motion, col sassofono in free jazz di John Zorn e la partecipazione straordinaria di Lolabelle al pianoforte; i sottintesi folk di The Lake e così via, con una menzione speciale per l’ambient music apocalittica di Another Day In America, dove compare l’alter ego di Laurie (il già leggendario, baffuto e «chapliniano» Fenway Bergamot: lo vedete sulla copertina del disco) con tanto di voce «mascolinizzata» dal computer. Alla fine, ineluttabilmente, tutto torna al punto di partenza: cioè alla nuda parola, al suono della parola, alla sua voce. Dite a Laurie che l’amo. Laurie Anderson, Homeland, Nonesuch Records, 23,90 euro

Grandezza di Dado Moroni (ma “nemo propheta in patria”) omani, domenica, anche l’edizione 2010 di Umbria Jazz chiuderà i battenti con soddisfazione di tutti, appassionati di jazz, rock, pop, etnica, rhythm’n’blues, ma soprattutto di Carlo Pagnotta, direttore artistico del festival, che anche quest’anno ha visto moltiplicare gli incassi, malgrado la crisi. Dei tanti musicisti jazz ascoltati nelle più diverse situazioni, Morlacchi, Bottega del Vino, Oratorio Santa Cecilia, è del pianista Dado Moroni che vorrei parlare oggi. Perché proprio lui? Perché il pianista genovese è un tipico caso, tutto italiano, di musicista altamente apprezzato dai colleghi, ma a volte ignorato dalla critica e dagli organizzatori che troppo spesso si dimenticano di avere a casa propria uno straordinario grande solista di jazz. Sabato scorso attirati dal nome di Rosario Giuliani in cartellone al Morlacchi è con sorpresa che

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di Adriano Mazzoletti sul palco di quell’antico Teatro - dove cinquantacinque anni fa risuonarono le note di Louis Armstrong primo musicista di jazz a suonare a Perugia - accanto a Rosario e al batterista americano Joe La Barbera regolarmente annunciati, era presente anche Dado Moroni il cui nome non figurava nei programmi del festival. Dimenticanza o poca considerazione per uno dei musicisti più importanti della scena del jazz europeo? Troppo lungo sarebbe ricordare i grandi del jazz con i quali Dado ha suonato nel

corso della sua ormai lunga carriera in tournées che lo hanno visto esibirsi in ogni parte del mondo. È sufficiente ricordare i nomi di Ray Brown, Clark Terry, Ron Carter, Milton Jackson per comprendere immediatamente quale può essere il suo valore. Ma non solo. Quando nel 1995 Ray Brown, che tanto aveva suonato con Oscar Peterson, decise di registrare un disco con i suoi pianisti preferiti, oltre allo stesso Peterson, Ahmad Jamal e Benny Green invitò anche Dado Moroni a dimostrazione dell’alta consi-

derazione in cui è tenuto presso il mondo musicale americano. Perché allora Dado Moroni non gode da noi, della stessa considerazione mediatica di cui sono oggetto molti altri solisti? La risposta forse è semplice. Moroni suona solo ed esclusivamente jazz, senza essersi mai lasciato tentare da contaminazioni con altre forme musicali come invece avviene nel jazz di oggi. I suoi ultimi dischi lo confermano. Nel primo, in trio con il contrabbassista Peter Washingon e nel secondo di solo piano, su venti brani, dieci sono sue composizioni, gli altri appartengono alla grande storia del jazz. Caso unico almeno in Italia di un musicista che predilige standars e classici. Anche per questa ragione Dado è considerato atipico nel mondo del jazz. E a lui ben si addice, quanto fu scritto molti anni fa: «In un mondo di fuggitivi colui che segue la direzione opposta sembra che fugga».


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arti Mostre Nitido e naif… ecco Fellini

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di Marco Vallora

ia chiaro, non è che non abbia voglia di lavorare - per il caldo, anche morale, di questa smorta estate.Anzi, soffro molto a vedere lo spazio, che mi si divora così, davanti. Ma non resisto alla doverosa tentazione di trascrivere - e non è stato semplice - questa meravigliosa lettera, che per me è tutto Fellini e che ti accoglie alle fauci della bellissima mostra, che il Mambo dedica al mondo del regista. «Firmata» da Sam Stourdzé: complimenti. Una lettera geniale, molto flaianesca (ricorda quelle spedite dallo scrittore abruzzese a Maccari), ironica per la tragedia della vita. Capillarmente capovolta di logica: «Un’ultima cosa, questa davvero seria. Non sarai pagato, ma in compenso tra un mese deve essere tutto pronto». Fellini scrive al vecchio amico riminese Geleng, a proposito del manifesto di Amarcord, e ci pare d’ascoltarlo miagolare, sempre imprevedibile e tagliente d’aggettivi, d’una proprietà ammirevole di lingua e di autoconsapevolezza, al bordo sempre della genialità - c’è poco da fare, usiamo pure il luogo comune! Sacrifico spazio, ma vorrei lascoltaste: «Mi dicono che ieri sera c’eri anche tu alla proiezione di Amarcord e che il film ti sia piaciuto e molto. È ovvio che la cosa mi lascia assolutamente indifferente. Dimentica che hai visto il film e che ti è piaciuto. Pensa piuttosto che l’uscita del film è prevista tra un mese e si tratta quindi di farci venire qualche ideina per il manifesto, perché i bozzetti che m’ha presentato la società distributrice sono da mandato di cattura. Tu hai qualche idea? Ne dubito, comunque se ne hai scordatela. Chissà poi perché io penso a te invece di rivolgermi a un altro pittore (a proposito, hai qualche nome da propormi?). Scherzi a parte, adesso non aspettarti che io mi metta a chiacchierare con te disquisendo, argomentando intorno ad Amarcord, nel tentativo di approdare a una suggestione grafica, che

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Architettura

lo presenti al pubblico in un modo esatto ed efficace. Comunque non agitarti, prendi carta e penna e segnati questi appunti che sono rozzi, approssimativi, ma se diovuole abbastanza confusi. Allora: il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio sprigionare la lietezza squillante di una cartolina natalizia, o meglio pasquale, il colore dovrebbe essere netto, lucido, sonoro, insisto sulla sonorità del manifesto festoso, domenicale. Si potrebbero riprodurre le fattezze di ciascun personaggio secondo un nitido metodo naif, ma un naif rivisitato criticamente, che dissimuli ma non troppo una citazione ironica e bonaria (in fondo questo mi sembra il segno più immediato, per caratterizzare l’individualità esuberante stralunata e inconsapevole dei personaggi del mio film)». Ma dove trovi un regista che abbia più auto-consapevolezza (finto-inconsapevole) del significato sotteso e sotterraneo del suo film (la lezione junghiana) e la sappia esprimere meglio, usando un registro «nitido ma naif» che è quasi un ossimoro, tanto più che questa naiveté (in parte zavattiana) è del tutto cerebrale: «rivisitata criticamente». «Dissimulando ma non troppo?». «Poi dietro a loro potrebbe aprirsi una va-

sta distesa con la campagna, la spiaggia, il mare, e tu che ami tanto i maestri del surrealismo», e qui una disamina assolutamente raffinata (non c’è spazio di citar tutto) sull’idea sbagliata che il mondo s’è fatto del Surrealismo (la «fraintesa vocazione al sovvertimento gratuito») e invece: «Tu potresti badare a cavarci fuori uno dei suoi caratteri più autentici, e cioè la meraviglia, l’incanto liberatorio, quella leggerezza sognante, e minacciosa». Credo, non solo, non ci possa esser visione più lucida e auto-critica del film, insieme con una terminologia infallibile (leggerezza e minaccia, a un tempo) ma l’ulteriore suggerimento, che egli dà al suo «grafico» diventa un concentrato di tutto il mondo immaginario, metafilmico, smagato, di Fellini. È davvero, quasi pittoricamente, la visione grottosa, concettual-vaginale, d’un’immagine abissale, che rode se stessa. Così Fellini suggeriva d’immaginare un’affiche gremita di tipi, in cui quegli stessi tipi s’affacciano a guardare se stessi, dentro il mitico, misterioso rettangolo del cinema. Che è anche quello del manifesto - gorgo oceanico, e poi del rettangolo, sommamente omicida, della Tv castiga-matti, di Ginger e Fred (con spot e pubblicità im-

maginarie). Il gran lettone onirico del Cinema. Scivolando eternamenre giù, per il toboggan, che s’apre sotto il letto della Città delle donne e «s’inabissa», tra le gambone della cameriera d’hotel. E allora tutto rotola di conseguenza, nell’avvitata processione profondo-puerile, che inanella i suoi film. La prodigiosa attenzione di Fellini al sonoro del colore, alle inflessioni del doppiaggio, perché lui regalava sempre un’altra voce ai suoi fantasmi (ormai) d’attore, così come reinventava in studio il Mondo. Fellini intervistato da Delvaux. La solitudine e «l’inavvicinanza» di Federico (e di Mastorna), l’attenzione maniacale al mirino dell’immagine, spettro di luce, cioè tutto (l’importanza divina del dettaglio). Fellini, grande masticatore, che sugge il magma, dalla grande mammella del reale, e spiaggia la sua poltiglia geniale, da profeta folgorante. E da conoscitore lucidissimo della pittura. Peccato che una mostra così, in un luogo come il Mambo (ci voleva Cogeval!) non mostri le sue influenze: Scipione, Ensor, Usellini, Magritte, Kubin...

Fellini. Dall’Italia alla Luna, Bologna, Mambo, fino al 28 luglio, itinerante

I fabricatores e i magistri che edificarono la Sicilia protagonisti della storia dell’architettura sono solitamente i grandi capolavori del mondo del costruire oltre che i famosi e riconosciuti progettisti e artisti, mentre restano quasi completamente ignoti i capi cantieri e le maestranze che materialmente realizzano le opere. Il volume Un altro rinascimento. Architettura, maestranze e cantieri in Sicilia 1458-1558 invece sovverte le regole, infatti la storia delle architetture non viene raccontata né attraverso l’opera degli architetti più illustri, né scorrendo cronologicamente, com’è consuetudine, le architetture più originali e riuscite, ma guardando i manufatti architettonici come risultato di un complesso processo di approvvigionamento, assemblaggio e lavorazione di materiali. Marco Rosario Nobile analizza l’evolversi dell’architettura in Sicilia nei cento anni che intercorrono tra la morte di Alfonso d’Aragona (1458) e quella di Carlo V (1558). L’autore pone al centro della storia protagonisti inusuali: marmorari, tagliapietre, ebanisti, ossia le maestranze che lavorano nei cantieri Quindi già da queste premesse lo sguardo che si getta sulla storia è «altro», adeguata introduzione all’ipotesi fondativa del testo sull’esistenza di un rinascimento al-

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di Marzia Marandola tro, cioè diverso, da quello che si rispecchia nel canone fiorentino-romano. Le maestranze che lavorano nei cantieri a Palermo, ordinate secondo una rigida gerarchia, definita dall’appartenenza alle corporazioni, sottostanno a ben precise regole, registrate nei Capitoli del 1487: uno statuto di norme stabilite dalle botteghe dei marmorari e dei fabricatores (costruttori), uno strumento per garantire il controllo della qualità costruttiva. Questo sistema di controllo dell’opera delle maestranze, che prescriveva, ad esempio, che i magistri dovessero aver superato un esame per potersi fregiare del titolo, e l’esistenza di corporazioni che servivano anche per risolvere controversie tra committenti e capimastri, risultano strumenti fondamentali del governo dell’edilizia a Palermo, dove operano maestranze delle più diverse provenienze. Inoltre l’insularità della Sicilia non ne fa una terra «isolata»: essa è infatti un crocevia straordinariamente aperto, ricco di con-

taminazioni e permeabile a influenze diverse: così non si può parlare tanto di una sola storia siciliana, quanto di storie intrecciate e parallele vissute dalle città, ognuna con diverse tradizioni costruttive, molteplici come le popolazioni di contatto, delle quali le architetture ancora oggi conservano la memoria. Nobile, nel piccolo ma appassionante volume, ripercorre la «carriera» di scultori e fabricatores: un iter che inizia con un primo periodo di apprendistato nel quale il capomastro deve garantire al giovane vitto, vestiario e gli strumenti base del mestiere - per un muratore, martello e cazzuola -, in un ambiente dove le gerarchie sono forti e non tutti i capomastri sono uguali, dove bisogna dimostrare le proprie capacità e saper realizzare coperture e scale dava gran apprezzamento per un maestro. La ricca documentazione archivistica, riportata copiosa all’interno del testo, conduce il lettore al cuore di un cantiere del XV-XVI secolo in Sicilia, dal quale esce consapevole che fare architettura non è solo ideare un modello, disegnare una pianta, un prospetto, un’assonometria, ma un faticoso e complesso lavoro collettivo che coinvolge molteplici maestranze, di norma lasciate in uno stringente anonimato. Marco Rosario Nobile, Un altro rinascimento. Architettura, maestranze e cantieri in Sicilia 1458-1558, Hevelius, Benevento, 120 pagine, 12,00 euro


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hi era Athanasius Kircher? Uno, nessuno e centomila, verrebbe la voglia di rispondere scomodando Luigi Pirandello; oppure si potrebbe far riferimento ad altri scenari dove l’ambiguità regna sovrana, parlando dei volti moltiplicati dagli specchi che comunicavano fascinazione e orrore a Jorge Luis Borges o degli eteronimi di Fernando Pessoa in rissoso e complice confronto nel chiuso di una identità inquieta. «Kircher, antesignano del poeta portoghese - scrive Eugenio Lo Sardo - non è mai uguale a se stesso, se non forse nel genio, e ripensando alla sua vita, alle sue vite, non sa qual scegliere: il distratto e brillante studente, l’avventuroso viaggiatore, lo scienziato, il sapiente? Opta per quello da lui ritenuto il filo conduttore della sua esistenza: la devozione religiosa. Tante passioni lo hanno animato e attratto, solo la fede l’ha veramente nutrito e, guardando al futuro sicuro del Giudizio Divino, e insofferente di quello mondano, si affida a una vocazione forte e sincera. Si ritira mentalmente nel romitorio della Mentorella a cui affida il suo cuore negandosi agli affari di un mondo che ha solo creduto di capire, ma più invecchia più gli sfugge come un volto in uno dei suoi mirabolanti giochi di specchi» (Cfr. «La vita avventurosa di un uomo melanconico e distratto», in Vita del Reverendo Padre Atanasius Kircher. Autobiografia, a cura di Flavia De Luca, La Lepre Edizioni, 121 pagine, 14,00 euro).

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Di nuovo il volto, gli specchi, la replica degli interrogativi insoluti. E questa strana, elusiva biografia, scritta in limine vitae e pubblicata nel 1684, quattro anni dopo la dipartita. Si tratta, non c’è dubbio, di un documento importante, atto a stimolare la nostra curiosità. Prima di tutto perché un tipo dal multiforme ingegno, uno studioso dalla vocazione «leonardesca» come il gesuita tedesco è oggi, in tempi di frammentazione delle conoscenze e di specializzazione, merce più unica che rara. Poi perché siamo di fronte a un personaggio che - come scrive Ingrid Rowland nella prefazione - «sapeva utilizzare il potere della parola e dell’immagine nei suoi grandi libri di divulgazione, per non parlare del suo “istinto pubblicitario”, spesso criticato dai contemporanei». Degna di ammirazione è anche «l’indipendenza intellettuale che Kircher seppe conquistarsi nella Compagnia di Gesù, in piena Controriforma, in un mon-

mo d’una mente d’alto profilo, vagotonica e distratta come quella di un matematico». Kircher direbbe che nella sua vita movimentata un «Oriente» a dirigerlo, c’era: ed era la fede. E aggiungerebbe che i guai in cui si cacciava si rivelarono tutti provvidenziali, ebbero esiti miracolosamente felici e confermarono la sua devozione a Dio e alla Madonna. E sì che al nostro Athanasius ne capitarono davvero tante da quando venne alla luce «in questo mondo di calamità alle tre dopo la mezzanotte del 2 maggio 1602, proprio nel giorno dedicato a Sant’Atanasio, nella città di Geisa, situata a tre ore di viaggio da Fulda».

Siamo in Turingia: il pargolo appartiene a una famiglia ferventemente cattolica, il padre, Johannes, è teologo, filosofo, docente nel convento di Seligenstadt e balivo di Haselstein, per volontà del principe-abate Balthasar von Dermbach; la madre,Anna Gansekin, è dedita alla famiglia e alle opere pie. Ma tra il cupo infuriare di guerre di religione e di persecuzioni di eretici, o presunti tali, l’abate viene mandato in esilio e Johannes, privato del suo incarico, è costretto a dedicarsi esclusivamente agli studi e all’educazione dei figli (nove: sei maschi e tre femmine). Athanasius è il più piccolo, ma promette bene: a dieci anni ha già appreso i rudimenti della musica, del latino e della geografia, e papà lo invia a Fulda, presso il Collegio della Compagnia di Gesù, perché si apra a tutte le discipline, dal greco all’ebraico. Ma avevamo accennato alle «disgrazie» che accrescono lo «stato di grazia» di Athanasius: una volta si tuffa nelle acque gelide di una chiusa e viene travolto dalla ruota di un mulino; in un’altra circostanza, durante la festa della Pentecoste, pressato dalla folla che assiste a una corsa di cavalli, viene catapultato sulla pista e rischia di essere schiacciato dagli zoccoli delle bestie scatenate; poi, gli capita, naturalmente nel pieno delle tenebre notturne, di smarrirsi in un bosco infestato da briganti e da fiere. E non è finita: corre sul ghiaccio, cade a gambe divaricate e si procura un’ernia; i geloni di cui soffre gli vanno in cancrena; gli capita di dover attraversare luoghi inospitali, immerso nelle neve fino alle ginocchia, tra fame, sete, incomprensioni e persecuzioni come compagni di viaggio. Ma lui va avanti grazie a una fede coriacea che funziona da corazza e gli garantisce interventi salvifici quando parrebbe essere allo

Astronomo, esoterista, matematico, inventore di “mirabilia”, visse a Roma dal 1633 fino alla morte nel 1680, influenzando con le sue teorie la cultura cittadina do spesso repressivo e caratterizzato da angusti orizzonti». Infine, «l’era della globalizzazione non può che riconoscersi in questo tedesco costretto dalle guerre religiose a lasciare la terra natìa per passare la seconda metà della sua vita a Roma, diventando, non diversamente dall’attuale pontefice, tanto romano quanto tedesco, cittadino del mondo e anima vagante, eternamente spaesata». Beh, questo giudizio che lo vuole spirito errabondo e, diciamo, «disorientato», Kircher di sicuro non lo rivendicherebbe e nemmeno gli piacerebbe quel che gli attribuisce Lo Sardo, e cioè «una straordinaria abilità a cacciarsi nei guai». Anche se con l’opportuna precisazione: «Sintoanno III - numero 28 - pagina VIII

stremo delle forze. Dalla devozione all’invocazione, dall’invocazione alla consolazione e al miracolo, l’Autobiografia è una sequenza di episodi edificanti, con uno status intellettuale e, per dir così, «professionale», che vediamo crescere, da incarico a incarico, da libro a libro, attraverso i più svariati interessi e ricerche, a conferma di una vita non solo «ben orientata» ma «benedetta». Naturalmente, alla faccia di chi a Kircher vuol male, perché, se, a confortarlo, ci sono discepoli di sicuro valore come Gaspar Schott, i «colleghi» invidiosi non mancano mai. Solo che nell’Autobiografia, depurata com’è da tutto quello che potrebbe avere i tratti dell’«effetto speciale», della «realtà ro-

il paginone

Credeva al rapporto delle parti con il tutto, all’unità del sapere, agli intrecci tra microcosmo e macrocosmo, a un vastissimo tessuto di connessioni e relazioni che tutto comprende. La straordinaria avventura intellettuale del gesuita tedesco, studioso dalla “vocazione leonardesca”, a partire dalla sua Autobiografia ora pubblicata a cura di Flavia De Luca

Così parlò Athanasius K di Mario Bernardi Guardi manzesca», della pur giustificabile autostima, a certe brutte cose umane, troppo umane, si fa solo fuggevol cenno. Comunque, nella pluralità dei Kircher, questo è quello «firmato» da lui. Sia dunque reso onore al merito di chi ce l’ha restituito, ovvero Flavia De Luca che, studentessa negli anni Novanta del Liceo Classico Visconti di Roma, ospitato in un grande palazzo tardo-cinquecentesco, sede del Collegio Romano dal 1583 al 1870, scoprì l’illustre gesuita grazie a una ricerca promossa dall’allora preside, Dora Marinari, e da un gruppo di docenti.

Il progetto era quello di «far rivivere quanto possibile il Museo Kircheriano, la “camera delle meraviglie” allestita dallo studioso nei locali del Collegio Romano, che spaziava dalla zoologia alla meccanica, dalla mineralogia alla botanica». Fu allora che il gruppo si avvicinò all’Autobiografia dell’illustre gesuita. Il

documento è conservato nall’Archivium Romanum Societatis Jesu, ma i nostri appassionati cercatori poterono consultarlo grazie alla fotocopia fornita loro da padre Giulio Libianchi, allora Rettore emerito della Basilica di Sant’Ignazio, «utilizzandone qualche brano per le mostre che si andavano via via allestendo», col proposito di tornare a lavorare su di esso nella sua interezza.

Come poi è avvenuto: e la puntualità delle Note mostra l’accuratezza del lavoro svolto. Ma la «straordinaria avventura intellettuale» di Athanasius - astronomo esoterista (Cfr. Joscelyn Godwin, «Keplero e Kircher sull’armonia delle sfere», in Aa.Vv., Forme e correnti dell’esoterismo occidentale, a cura di Alessandro Grossato, Medusa 2008, pp. 145-164), matematico, fisico, letterato, egittologo, geologo, musicista, ottico, medico, poliglotta; inventore e costruttore di macchine per


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esperimenti idraulici, ottici, magnetici e matematici; straordinario collezionista e di straordinarie collezioni promotore/accrescitore; esperto di geroglifici, decrittatore di obelischi, curioso di anamorfismi (cfr. «Visionari tedeschi: Kircher e Schott», in Jurgis Baltru\u0161aitis, Anamorfosi, Adelphi 1990, pp. 95-106) e di sapienza ermetica (Cfr. Elémire Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Bompiani 1975, passim) - è ancora tutta da raccontare. Se si preferisce, da esplorare, lungo un percorso segnato da mirabilia che si chiamano Mundus Subterraneus, De Arte Magnetica, De Arte Magna Luci et Umbrae, Musurgia universalis, Oedipus Aegyptiacus…

Kircher

Del resto, quando nel novembre del 1633, chiamato da Urbano VIII, Athanasius giunge nell’Urbe, per insegnare matematica, fisica e lingue orientali al Collegio Romano, la fama da cui è circondato fa pensare a una sorta di sapiente onnivoro e poligrafo, a un insonne indagatore dell’universo che su tutto posa il suo sguardo e tutto capta col suo intelletto: un mago, quasi. Qualche tempo dopo, Raffaello Magiotti ne dà notizia a Galileo: «Di nuovo vi è in Roma un Gesuita, stato gran tempo in Oriente, il quale oltre a possedere dodici lingue, buona geometria ecc., ha seco di gran belle cose, e fra l’altre una radica, quale si volta secondo gira il sole, e serve per horiolo perfettissimo… Ha portato gran copia di manoscritti arabici e caldei, con una copiosissima esposizione di geroglifici». Come scrive Alfredo Cattabiani, «in pochi anni il gesuita, che sarebbe vissuto a Roma fino alla morte, nel 1680, divenne uno dei più autorevoli esponenti della cultura cittadina influenzando con le sue teorie persino l’architettura e la scultura barocca, tant’è vero che il Bernini si valse dei suoi consigli per la Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, allegoria della creazione divina del cosmo, ma anche del processo conoscitivo che sale dagli emblemi animali, raffigurati sotto la grotta e negli anfratti della roccia, fino alla pura contemplazione del divino nell’aurea colomba» (Simboli, miti e misteri di Roma, Newton Compton 1990, p.164 sgg.). Kircher è inesauribile: insegna,

La Fontana dei Fiumi, a Piazza Navona a Roma, per cui Bernini si avvalse dei consigli di Athanasius Kircher. Sopra, un ritratto del gesuita tedesco e alcune illustrazioni delle sue “mirabilia”

scrive (abbiamo ricordato qualche titolo delle sue opere, che sono ben trenta e su tutto spaziano), interpreta i geroglifici, inventa lanterne magiche e giochi ottici che deliziano la corte pontificia, raccoglie dai suoi confratelli, impegnati a evangelizzare l’Oriente, «messi di notizie e oggetti di vario genere sistemandoli nella celebre Galleria del Collegio Romano, sorta per opera sua nel 1652 dalla collezione che Alfonso Donnini aveva donato ai gesuiti». Un museo di arti e di meraviglie messo su in maniera arbitraria? No, Kircher non assemblava casualmente le cose più varie, ma lo faceva causalmente. Credeva al rapporto delle parti con il tutto, alla unità del sapere, agli intrecci tra microcosmo e macrocosmo, a un vastissimo tessuto di connessioni e relazioni che tutto comprendeva, nel senso etimologico del «tenere insieme» sulla base, appunto, di legami necessari tra «alto» e «basso».

Insomma, quella del gesuita era una visione del mondo simbolica, «dove si componevano armonicamente il Platone del Timeo, il Corpus hermeticum, Giamblico e Proclo, con Dionigi l’Aeropagita, Avicenna, Teodorico di Chartres, Cusano, Marsilio Ficino, Agrippa di Nettesheim e Francesco Patrizi». Nel mondo antico c’erano, per dirla con Simone Weil, «intuizioni precristiane»? Di sicuro, osserva Cattabiani, Kircher era convinto che le religioni pagane non fossero politeiste, «almeno nel pensiero dei loro sapienti, perché, come scriveva nell’Obeliscus Pamphilius, “il lume della natura era tanto forte in essi che non po-

La Fede era il suo Oriente, e la sua visione simbolica del mondo lo spingeva a decifrare l’universo intero come visibile alfabeto di Dio. L’importante è saperlo leggere... tevano credere che quell’entità che noi chiamiamo Dio fosse finita, corruttibile e molteplice”». Ermete, Pitagora, Platone, Plotino «credevano in un Dio immobile, infinito e necessario», che già i sapienti egizi avevano rappresentato nelle sue molteplici qualità attraverso Iside, Osiride e Horo. Dunque, secondo Kircher, «la sacrosanta e tre volte benedetta Trinità, massimo e tre volte sublime mistero della fede cristiana, è stata adombrata anche in altri tempi, sotto il velo dei miti enigmatici» e segni, simboli e significati hanno una trama comune. Quanto ai geroglifici di cui Kircher è interprete attento e assiduo, essi sono il linguaggio sacro per eccellenza, procedendo da Ermete, dio della scrittura, dell’astrologia e dell’alchimia (Cfr. La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto,Vol. I, a cura di Paolo Scarpi, Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore, 2009) e rappresentando la scrittura che fa risuonare le armoniche concordanze tra piante e animali, minerali e astri, terra e cielo. Ed è nel cielo, si legge nell’Ars magna lucis, che brilla il Sole, con la sua valenza trinitaria: il Padre è la Lux infinita ed eterna; il Figlio è lumen de lumine o raggio della sostanza divina; lo Spirito Santo da essi riceve quel calore con cui riscalda l’universo. Insomma, l’universo è il visibile alfabeto di Dio: ma bisogna saperlo leggere. «Chi conoscerà il nesso misterioso che lega il mondo superiore all’inferiore penetrerà negli abissi arcani delle vette». Così parlò Athanasius Kircher.


Narrativa

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Brasile caldo… un romanzo in sei racconti di Maria Pia Ammirati rima delle pause editoriali estive si segnala un esordio letterario talentuoso ricco di storie e di sorprese compositive. Il titolo è Brace, che è una parola letterale ma anche allusiva del luogo in cui le storie sono ambientate e cioè il Brasile, il nome Brasile viene infatti dal portoghese brasa, che significa appunto brace. L’ha scritto Attilio Caselli che è regista e sceneggiatore cinematografico, un particolare non ininfluente in una scrittura vivida e in una struttura organizzata per grandi scene calibrate in sei corposi racconti, con un gusto per i particolari dedicati ai personaggi che spesso sono i protagonisti delle singole storie. La scrittura è buona anche se con poche sorprese e con innesti di varie espressioni volgari in lingua portoghese. Il talento e la sorpresa di questo libro appartengono certo alla descrizione di un mondo diverso e lontano, forte ed espressivo, colto nelle sue parti più estreme - le favelas - e la grande borghesia di Rio de Janeiro. Due mondi certo all’opposto, com’è nell’intenzione rappresentativa dell’autore, posti a contrasto tra loro in un’equilibrato bilanciamento di giustapposizione. Il Brasile è

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Riletture

un mondo facile da pensare nei suoi eccessi, che sono primariamente quelli di una povertà estrema a confronto con la ricchezza spesso frutto di una commistione tra potere e malaffare. La sorpresa di questo libro è, come si diceva, da rintracciare prima nella sua struttura, che procede, per il lettore che principia la lettura, in

tre grandi racconti tra loro autonomi: il primo intitolato Elza e Du, il più compiuto, asciutto e forte, si svolge in una favela. Una storia crudele e sanguinolenta giocata su un perfetto congegno temporale di attese e rimandi a sfondo erotico. Il protagonista è un povero gio-

vane nero della favela che si introduce in casa di un’avvenente vedova. La vedova è l’amante di un poliziotto corrotto, e il clou della scena si svolge nella camera da letto della vedova con il povero Du nascosto sotto il letto e l’arrogante poliziotto, più simile a una bestia che a un uomo, sopra al letto con la sua amante. Il punto di vista da sotto il letto è certo la cosa più originale, ma tutta la storia tra accoppiamenti feroci e sguaiati, paure e pensieri di Du, è un crescendo di tensione. La seconda storia è all’apparenza più algida e meno d’effetto, riassume l’ascesa politica e la nevrosi di un deputato che lancia la sua campagna presidenziale sulla costruzione di un falso scandalo dei suoi avversari. La terza storia, la più commovente, è quella di Joao Baptista, un diseredato che nella vita possiede solo un carretto con il quale trasporta materiali da riciclo. Seguiamo Baptista, fervente religioso, durante una delle sue giornate a raccattare cartoni e insulti dalla gente normale, fino alla fine della giornata quando, è oramai notte, sul carretto Joan trova una donna bellissima. Una sorpresa costruita con suspense che ha la sua rivelazione solo nel quarto racconto, dal quale apprendiamo che ci troviamo (senza svelare oltre) di fronte a un romanzo costruito in sei scene, tutte legate tra loro dalle storie dei personaggi che si incontrano via via. Il romanzo si chiude con una vera e propria apoteosi del suo sistema duale, con la parte intitolata Tre funerali. Tutto in questo «racconto» crudele e magnifico parla della contaminazione del doppio: la vita e la morte, povertà e ricchezza, sacro e profano, amore e morte. Attilio Caselli, Brace, Fazi, 253 pagine, 17,50 euro

libri ALTRE LETTURE

SE L’AMICIZIA È UNA FILOSOFIA DI VITA di Riccardo Paradisi

a Platone a Montaigne, da Emerson a Nietzsche la definizione di amicizia è passata attraverso il pensiero dei grandi filosofi senza arrivare ad assumere contorni ben definiti, proprio per la complessità di vicende ed esperienze che racchiude. Procedendo in modo deduttivo Siegfred Kracauer in Sull’amicizia, (Guanda, 134 pagine, 12,00 euro) analizza le relazioni fra gli uomini cominciando da quelle che, per diversi motivi, non si reggono su vincoli amichevoli: il legame d’amore fra uomo e donna, il rapporto con i colleghi o quello con i conoscenti. Rapporti che si trasformano in amicizia quando scatta l’alchimia della condivisione degli stessi ideali.

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MAI COME GLI ADULTI CHE HANNO TRADITO *****

orse la giovinezza (A & B, 200 pagine, 17,00 euro) è un romanzo che scorre via veloce e commovente. Perché Claudio Pastena ha la stoffa del narratore autentico. Un ragazzino nello spazio di una stagione, l’estate del 1967, si fa un’idea straordinariamente precisa della vita. E ripercorre le scoperte più emozionanti della sua «educazione sentimentale». Sullo sfondo, il paese del Sud dove è cresciuto, fotografato nel momento di passaggio da un mondo antico a un mondo nuovo, raggiunto dagli echi della contestazione… Stretto tra segreti familiari e l’esaltazione del primo amore, il protagonista smette i panni del bambino senza perderne il candore.

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Europa, Colombo e l’Ippogrifo secondo Bontempelli ra i libri più belli di Massimo Bontempelli (1878-1960) risplende Il giro del sole stampato nel ’41 e che non credo sia mai stato riproposto ai lettori. Sarebbe una grave mancanza, perché entrare in contatto con questo testo significa permearsi in una grande lezione di stile, di dimensione poetica, di grande e approfondita cultura non solo mitologica, di una capacità mirabile nel raccconto e nel presentarci i personaggi non solo mitici ma reali e pervasi di umanità. Liceale, lessi Il giro del sole appena uscito e ne fui così entusiasta da non averlo più dimenticato fino a questa gratificante rilettura. Alla sua uscita il libro fu accolto da grandi consensi di critici e di lettori, e si ebbe anche un lungo saggio di Giuseppe De Robertis, proprio nel ’41, ora in Altro Novecento (Lemonnier ’62). Bontempelli aderì al Futurismo nel ’18 per poi allontanarsene. Musicologo e musicista scrisse accompagnamenti musicali anche per un’opera di Pirandello che conobbe intimamente. A lui ri-

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di Leone Piccioni sale il movimento del «realismo magico». Si ricordano romanzi come Nostra Dea del ’25, Gente del tempo del ’37 con un libro di saggi del ’38 su Pirandello, D’Annunzio, Leopardi e Scarlatti. Nel ’24 Bontempelli aderì al Partito fascista ma più tardi si spostò politicamente a sinistra e venne mandato al confine nel ’38 a Venezia. Nel ’48 partecipò alle elezioni per il Fronte Popolare, ma la sua nomina a parlamentare fu invalidata per i suoi scritti precedenti sul fascismo. Nel Giro del sole ci sono tre racconti ed è difficile dare un ordine preferenziale perché tutti sono su un livello di grande capacità espressiva: Viaggio di Europa, La via di Colombo, Le ali dell’Ippogrifo. Il racconto del ratto d’Europa, compiuto da un Giove che prende figura di toro, è preceduto da un bellissimo paragrafo sulla morte e rinascita dell’Araba Fenice («Angelo fenice» come Bontempelli la chiama). Europa, con pochi altri venuta

in pellegrinaggio, assiste al momento più magico e toccante: ogni cinquecento anni l’Araba Fenice torna sullo stesso monte d’Arabia; puntualmente si prepara un rogo di fogliame e arboscelli lasciando che sia il sole ad accenderlo per poi sacrificarsi nel fuoco ardente. Ma dalle sue ceneri immediatamente rinasce l’Angelo fenice. «La prosa di Bontempelli - ha scritto De Robertis - in questa sua raggiunta maturità suggerisce un’impressione di movimento e il segno più forte è una velocità, una libertà di trapassi, che tanto si avvicina al gusto greco e al gusto nostro trecentesco». E valgano queste parole anche per il racconto sulla navigazione di Colombo verso l’America e dei suoi colloqui con il misterioso Garçia. Vengono dunque in mente le pagine delle Operette morali leopardiane sul dialogo di Colombo e su quella che sarà la sorte del nuovo mondo che si scoprirà. Garçia pensa che il viaggio punti sul monte del

Purgatorio dantesco e si prepara a buttarsi in mare per raggiungerlo, suggerendo a Colombo di fare altrettanto per raggiungere subito la santità. Per Garçia la gente che già vive nelle Americhe è felice; la conquista la peggiorerà perché subentrerà la forza e la maledizione dell’oro: «L’oro è miseria, non la povertà limpida che gira cantando lungo i fiumi del mondo, ma miseria sudicia che trascina di prigione in prigione fino all’una e all’altra morte. L’oro porta incendio e infezione e sconquasso». E vengono in mente anche i versi dell’Inno ai Patriarchi dei Canti leopardiani. Le ali dell’Ippogrifo infine, con l’Ippogrifo che trasporta Ruggero verso l’infinito, e fa sosta su una incantevole isola, dove incontra la ragazza di nome Argentina, figura incantevole e di limpida genuinità. Ma, alla fine del racconto, il sole termina i suoi giri e si ferma: quando tocca l’acqua che dovrebbe farlo tramontare si ferma: «Il sole, toccato il circolo del mare, invece d’affondarvisi s’era fermato. Tutta la natura parve ferma con lui».


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poesia

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Cosmologia di Romeo e Giulietta di Roberto Mussapi acconto cosmologico, fu felicemente definita una commedia di Shakespeare, ma la definizione va estesa a tutta l’opera del sommo poeta teatrale. Il teatro di Shakespeare, dalle tragedie alle commedie, finanche ai drammi storici, è una grande racconto cosmologico: nel teatro, nell’illusione scenica, secondo gli archetipi della rappresentazione ancora presenti in Estremo Oriente, l’uomo mette in scena i grandi eventi cosmici. In Occidente ciò ha inizio con la tragedia greca: dalla nascita come rito dionisiaco si trasforma in rappresentazione degli eventi celesti che hanno disegnato il volto del mondo e la realtà dell’uomo: la lotta tra dei e titani, l’enigma della Sfinge, la potenza del fato. In Shakespeare il procedimento è portato al grado estremo, poiché perfetta è l’incarnazione nei personaggi, perfetto l’artificio, la verosimiglianza, come nei quadri di Caravaggio (anch’egli sommo autore di teatro). La Tempesta, il capolavoro dei capolavori, con Amleto, è una commedia romanzesca, una fiaba teatrale in cui assistiamo a una divisione del mondo tra due gruppi di uomini, che culmina con una violenta bufera, un evento tremendo e traumatico, dal quale però ha inizio un miracoloso processo di riconciliazione. Il caos e la conseguente divisione del mondo si ricompongono. La storia del mago Prospero e della figlia Miranda sull’isola caraibica, dei nemici sulla nave colpita dall’uragano, è una storia di perdita e riconciliazione. Così come Amleto, la tragedia delle tragedie, è uno straordinario racconto sull’universo, sulla realtà dell’immagine, sulla sostanza del sogno e della visione, sulla verità del mondo.

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Qui, nei versi proposti, ci troviamo in un momento topico della più grande storia d’amore di tutti i tempi, Romeo e Giulietta. La tragedia shakespeariana divenne subito mito: grazie a un drammaturgo nato a Stratford on Avon, e operante a Londra nel XVI secolo, un balcone diVerona, il «balcone di Giulietta», è divenuto leggendario in tutto il mondo. Giulietta Capuleti non è mai esistita nella storia, ma è divenuta più viva ed eterna di milioni di altre ragazze come lei belle e amate, grazie alla vita che le diede il più grande creatore di vite in poesia, accanto a Dante.Verona è capitale dell’amore, su quel balcone giovani innamorati di tutto il mondo appongono messaggi amorosi, grazie al genio di un inglese di cinquecento anni fa. Il mito del balcone di Giulietta ha ispirato a Elvis Costello, uno dei grandi della musica contemporanea, Letters to Juliet, un capolavoro, eseguito nei teatri di mezzo mondo con il Brodsky quartet, originalissimo accostamento per il musicista rock. Ma soprattutto ha ispirato un film magnifico, Shakespeare in love, un capolavoro che, oltre a rappresentare con perfetta verisimiglianza il mondo elisabettiano in cui nasce la tragedia di Shakespeare, Marlowe, Kidd, Spencer, Ben Johnson, lo squadrone di poeti che si riappropriano della scena e della voce, come accadde in origine, quando nacque la poesia, oltre a tutto questo e molto altro, ci offre una chiave per entrare nella vicenda di Romeo e Giulietta. L’invenzione dell’autore è profondamente nu-

il club di calliope

trita di poesia: solo se hai vissuto l’amore lo puoi rappresentare, e quindi il teatro, la recita, anche se rappresenta una storia inventata, sta raccontando la verità. È inventata la storia, non la realtà che quella storia esprime, in questo caso la tragedia di amore e morte. E solo con l’invenzione, con il racconto, con la recita, con l’illusione del teatro, noi possiamo attingere a quella verità che altrimenti ci sfuggirebbe nel bailamme della vita quotidiana. Tornando al discorso cosmologico: la vicenda di Romeo e Giulietta rappresenta una comunità che in Shakespeare indica il mondo: qui si tratta di Verona (nel bellissimo film di Baz Luhrmann con Leonardo Di Caprio Romeo + Juliet), in Amleto il Castello di Elsinore, in Molto rumore per nulla (non si perda la magnifica versione cinematografica di Kenneth Branagh) una villa patrizia nei pressi di Messina: città, castello, villa, nel mondo preindustriale, sono piccoli mondi. Ciò che accade a Verona, intende Shakespeare, non sta avvenendo solo a Verona, ma, analogamente a quanto accade nel marcio regno di Danimarca, a Elsinore, sta avvenendo nel mondo. La comunità di Verona è divisa tra due gruppi nemici, i Montecchi e i Capuleti. Si odiano, sulla città, sul mondo, dominano il ferro delle lame e il sangue dei morti. È una comunità dove i vecchi impongono il crudo dettame della morte. E i due giovani più belli delle due famiglie rivali si innamorano. Sono giovani, belli, innocenti: sono i due agnelli. I due agnelli moriranno, crudamente, perché la comunità, per redimersi, rigenerarsi, ha bisogno di un sacrificio. E infatti, dopo la loro morte, le due famiglie, scosse mortalmente dall’evento, si riconcilieranno realmente. Tornerà la pace, prezzo il sacrificio dei due membri più giovani e belli della comunità.

Ma… Ma quale luce appare dalla finestra? È l’Oriente, è Giulietta, è il sole! Sorgi, bel sole, e uccidi la luna invidiosa, già pallida e ammalata per il dolore che tu sua ancella sia tanto più bella di lei. Non essere sua ancella, perché è invidiosa, il suo abito di vestale è verde e spento, e solo le stupide lo indossano. Via! È la mia signora. È il mio amore. Potesse sapere che lo è! Parla. Non dice niente. Che importa? Il suo occhio parla, a lui risponderò. Son troppo audace. Non è a me che parla. Due delle stelle più belle di tutto il firmamento occupate altrove chiedono ai suoi occhi di splendere nello loro sfere fino al ritorno. E se fossero lì i suoi occhi e loro nel suo capo? La sua guancia umilierebbe quelle stelle come la luce del giorno quella di una lampada. Nelle regioni del cielo e dell’aria i suoi occhi sarebbero così luminosi che gli uccelli canterebbero pensando che quella non è la notte. Guarda come posa la guancia sulla mano. Oh fossi un guanto su quella mano, potessi toccare quella guancia…

E che tale sacrificio sia fatale, inevitabile, è sottolineato dalla crudeltà del destino: Romeo che è impulsivo e notturno, ma realmente innamorato, potrebbe esitare un istante, prima di uccidersi, davanti al corpo di Giulietta irrigidito da un sonno che simula morte. Potrebbe esitare, guardarla ancora, non cedere alla morte come chi ne ha compreso il dominio, baciarla «prima», non dopo avere bevuto il veleno. Non dovere uscire dalla scena (ma non dal mondo dove vive eternamente in noi) dicendo: «Così, in un bacio, muoio». Ma attendere, baciarla subito, come il Principe della Bella Addormenata nel bosco, che con quel bacio la ridesta. Ma non è possibile: il principe della fiaba ha consapevolezza del dominio di amore; nella sua vicenda, Romeo ha con-

William Shakespeare (da Romeo e Giulietta traduzione di Roberto Mussapi)

sapevolezza che a Verona la regola è morte, e al lui è chiesto il sacrificio della vita. Per questo Romeo pare sempre agito da una sorta di furiosa disperazione, che contrasta con l’innocente dolcezza di Giulietta. Lei non sa, lei troppo ama. La morte la può schiantare, non sfiorare in vita. Qui la vediamo al balcone, la notte in cui si sono innamorati, come un astro, Lui è in basso, la guarda come Leopardi guardava il cielo stellato, come l’irraggiungibile risposta agli affanni umani.

A TU PER TU CON SORELLA MORTE in libreria

LA COMPAGNIA

di Loretto Rafanelli

aveva preso un cane bonaccione almeno per averne compagnia, ma neanche abbaia è sempre più musone. quando la solitudine è agghiacciante al punto che la luce è uguale al buio, lui nel segreto, ha chi lo conforta: dà la mano alla maniglia della porta. Guido Oldani

el dialetto lucano, con versione italiana, viene pubblicata la raccolta di Assunta Finiguerra Tatemije (Mursia, 110 pagine,15,00 euro), una poesia potente e tragica, versi che sono collocati «nella lacrima della morte». Un «fiume d’ira» che non ha a che vedere con un semplice disagio dell’anima, queste poesie la Finiguerra le ha scritte sul letto di morte, condannata senza soluzioni alla sua fine. La poetessa alterna cupe immagini e neri scenari a squarci di speranza, è la lotta sfinente tra la vita e la morte, tra il sussulto vitale e il «respirare l’aria vergine della malattia». È l’invocazione a una divina salvezza (Tatemije vuol dire padre mio), ma pure la comprensione che «ogni volta che fa giorno è un addio» e sente infine che nel precipitato tempo il «sangue dipinge il tramonto». Feroci stati d’animo, la presa diretta con la disperante «sorella», ma ecco che a sorpresa la poesia diviene canto: «Solo un attimo di vita mi è rimasto/ un attimo più lungo della vita/ più corto del respiro del mare/ più scuro della notte addolorata».

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Teatro

MobyDICK

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spettacoli DVD

SMETTERE DI FUMARE IN BUONA COMPAGNIA

di Enrica Rosso

ino al 1° agosto una bella occasione di teatro sotto le stelle per chi si trova a Roma. Una doppia opportunità per godere contemporaneamente della visita ai Fori Augustei e dei nobili versi dell’Eneide di Virgilio liberamente adattati dal regista Roberto Marafante. Una congiuntura ideale che vede il più grande poema della latinità animare i resti del Foro, emblema della grandiosità del regno dell’imperatore Augusto che commissionò entrambe le opere. L’allestimento ha debuttato il 20 giugno scorso, in coincidenza con la Giornata Mondiale del Rifugiato. Marafante sceglie per questa edizione di Passaggi segreti, una chiave di lettura molto attuale in cui spicca l’empatia con il grande popolo dei disperati in perenne fuga dallo sconcerto della guerra, la moltitudine dei diseredati che spendono vite ovunque tranne che a casa loro e che non trovano pace mai. Il poema è suddiviso in tre Frammenti: il racconto; il sogno e la realtà; la morte e la rinascita. Ogni scheggia di narrazione trova un luogo di appartenenza di bella pertinenza e speciale suggestione per questo spettacolo itinerante. Il primo Frammento si sviluppa nell’Esedra di Enea. L’immagine di apertura lascia spaziare lo sguardo sull’imperiosa bellezza del sito archeologico e suggerisce il naufragio dei fuggiaschi troiani in terra cartaginese. Accomodati di fronte a un ipotetico infinito, seguiamo la narrazione di Enea: la presa della città da parte dei Greci introdottivisi con l’inganno del cavallo di legno e la fuga da Troia dopo l’incendio; il conseguente peregrinare per mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane; la morte del padre Anchise e la nuova partenza per mare alla volta dell’Italia con la separazione coatta dalla consorte Didone. La dispera-

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L’Eneide di Virgilio dalla parte dei migranti

Televisione

l contrario della bionda che nuoce gravemente, non può creare danni irreparabili la visione del celeberrimo documentario elaborato da Allen Carr sulla scorta dell’omonimo libro Smettere di fumare è facile se sai come farlo. Armati di sano scetticismo, o animati dalla scaltra logica che mosse a suo tempo la scommessa pascaliana, tutti possono gettare un occhio sul metodo dell’ex tabagista americano, liberatosi da accendini e mozziconi dopo trentatré anni di ferrea militanza. Voce suadente, nessun tono ricattatorio, niente terrorismo radiografico: Carr sa come insinuarsi tra gli impermaliti nervi dell’animus fumandi.

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zione e morte della regina di Cartagine e la nuova partenza per intraprendere il viaggio in cui perderà la vita Pallante, il timoniere della nave di Enea, fino al’approdo sulle italiche spiagge di Cuma. Ci ritroviamo noi stessi viandanti tra resti di colonne che evocano i relitti delle imbarcazioni. Le luci di Stefano Valentini creano sagome e gli interpreti avanzano proseguendo la loro avventura di sopravvissuti fino a insediarsi al Tempio di Marte per il secondo blocco dello spettacolo. Le imponenti dimensioni della scalinata del Tempio dedicato al dio della guerra saranno testimoni della discesa agli Inferi di Enea per incontrare i suoi cari. Sarà qui che dialogherà con Didone, Palinuro e in ultimo il padre Anchise che lo metterà di fronte al suo destino di fondatore della romana grandezza. Sempre qui avverrà l’incontro con la figlia del re Latino Lavinia, già promessa sposa di Turno con cui

Enea dovrà rapportarsi prima di arrivare al casuale scatenamento della guerra tra Latini e Troiani a opera del figlio Iulo. Ora nell’aria risuonano le musiche composte da Marco Schiavoni che accompagnano i combattimenti plastici e spettacolari eseguiti con perizia da tre coppie di danzatori De Klan: acrobati che volteggiano nell’aria e confrontano le loro abilità sulle pietre sconnesse ancora tiepide dell’Esedra di Romolo. Siamo al III Frammento. Assistiamo alla guerra in cui avverrà l’uccisione di Pallante, amico fraterno di Enea, da parte di Turno, alla morte della madre di Lavinia e al duello finale che vedrà Enea e conseguentemente il suo popolo trionfare su Turno.

Eneide di Virgilio, Roma, Foro di Augusto, fino al 1° agosto. Prenotazione obbligatoria, Info: segreti@labilancia.it www.passaggisegreti.it tel.06 6795130

PERSONAGGI

SUSAN BOYLE CANTA PER BENEDETTO XVI na favola senza fine, quella del brutto anatroccolo dalla voce di cigno. Dopo l’exploit da nove milioni di copie in seguito al trionfo di due anni fa al Britain’s Got Talent, Susan Boyle è riuscita a raggiungere i cuori delle gerarchie vaticane. La signora si esibirà infatti al Bellahouston Park di Glasgow, durante la messa all’aperto che il Papa officerà in occasione della sua visita di quattro giorni il prossimo sedici settembre. In arrivo poi anche il secondo disco, che sarà intitolato The Gift e il nome del fortunato compagno di duetto che la Boyle sceglierà tra migliaia di aspiranti partner.

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di Francesco Lo Dico

Video Ranger: se il voyeurismo si nutre di tragedia l voyeurismo è costume antico. Ma con la televisione e internet, e l’ingresso in una società superficiale e frivola quasi ex lege, è tornato alla ribalta. Ormai siamo abituati a essere, forzatamente oppure no, guardoni dinanzi a ragazze con fisico mozzafiato e abiti ridotti quasi a un’idea (maliziosissima) e a giovanotti palestrati (oggi si chiamano tutti «tronisti»). Nel suo ultimo libro (A qualcuno piace uguale, Einaudi) la psicoanalista Simona Argentieri giustamente osserva che sono perlopiù caricature di femmine e di maschi, con evidenti, e inquietanti se non previsti dal copione, tratti di ambiguità: infantilismo per le donne e comportamento para-omosessuale per gli uomini. Ma ci sono altri voyeurismi, che puntano sulla voglia del macabro e dell’orrifico magari con la scusa di raccontare storie «al limite» ma finite bene, o abbastanza be-

I

di Pier Mario Fasanotti ne. Il canale Axn di Sky manda in onda Video Ranger. All’ora di fascia cosiddetta protetta. L’uso abile e disinvolto del computer permette però ai ragazzi - e magari ai bambini- di guardare le stesse scene anche dopo pranzo. La fascia protetta diventa un’ipocrisia, dunque. Video Ranger ha come sigla le scene più comicamente tragiche: un motociclista che a

forte velocità sbatte contro un camion a un semaforo, l’eruzione di un vulcano giapponese che travolge tutto, un uomo massacrato da un elefante che usa la proboscide come una scimitarra. Un bel prologo, non c’è che dire. Infine gli episodi di vita vissuta. Il fiume Guadalupe del Texas straripa, un pullman con quaranta adolescenti a bordo si capovolge. I ragazzi escono dai finestrini, affrontano la corrente (100 km l’ora), raggiungono a fatica alcuni alberi e lì restano in attesa di soccorsi. I quali arrivano e fanno quel che possono. Ma per fortuna arrivano anche i militari, con funi adeguate. Suspence, rischi uno dopo l’altro, alla fine la felicità di raccontare la fine di un incubo. Salvo che otto ragazzi sono morti. Altro scenario, sempre americano. Pista per bob, che è una vera scheggia che viag-

gia nei rettilinei anche a 145 km orari. Il commentatore, tanto per aumentare il tasso di drammaticità ci informa che quella pista è considerata «maledetta» per una serie di incidenti. Domanda mia, del tutto ingenua ma eticamente corretta: perché mai non la chiudono? Vabbè: la legge dello spettacolo è tra le più sadiche, e oggi invasive. Partono quattro concorrenti sul bob, che però a una curva sbanda e si capovolge. Per un lungo tratto il veicolo costruito in vetro-resina procede vertiginosamente fino a quando, tra un urto e l’altro, si ferma.Tre atleti, pur avendo corso con la testa e il collo a contatto con il pavimento ghiacciato, e durissimo, si alzano pimpanti. Il quarto è stordito. I paramedici lo controllano e decretano che sta bene. Così bene che dopo una settimana s’impegna in una gara e ottiene la medaglia d’argento. Contenti tutti, almeno fino alla prossima, eventuale, tragedia. Programma morboso, indubbiamente. Che si nasconde dietro la voglia di un reality il più violento possibile. Segno, anche, di una fantasia narrativa in caduta libera.


Cinema

MobyDICK

l periodo che va dalla seconda metà di luglio alla fine di agosto è solitamente il più povero per quanto riguarda le uscite al cinema. Se fate ancora parte della teen-age, vi potrete sicuramente accontentare di uno dei tanti horror o di una delle commedie tirate fuori dal cassetto di un direttore di produzione che vuole riempire la casella «uscite estive». Se invece fate parte di un pubblico appena più smaliziato (del quale pure fanno parte sempre più piccoli spettatori in erba) è tempo di magra. Dopo Che fine ha fatto Osama Bin Laden, che ha portato la garanzia della firma di Spurlock (ma anche tante banalità pseudo-pacifiste) a nobilitare lo scorso week end, dovremo aspettare il 23 luglio per qualche uscita degna di essere attesa. Ieri, le sale hanno offerto di nuovo esattamente quello che ci si aspetterebbe da un pigro fine settimana di metà luglio. Nonostante ciò, da queste parti rimaniamo convinti che la funzione principale del cinema debba essere quella di divertire, di raccontare storie che appassionino, al netto dello snobismo esteta di tanta parte della critica italiana. Per cui ci siamo cimentati con quel che passa il convento, esercizio che per altro è stato molto utile come paradigma esplicativo di quel che accade nei cinema quando fuori le cicale assordano e magari ci si addentra nei meandri di una sala solo per godere di un po’ di refrigerio. Una puntata dark dunque. Tenetevi pronti, una volta tanto, a immergervi nel marasma dei b-movie che danzano sulla sottile linea di confine tra il fantasy, il thriller e l’horror.

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sto in Nel nome del padre), fa sapere a Solomon che se riuscirà a salvare sua figlia, caduta nelle grinfie di Malachia, la sua anima sarà per sempre al riparo dalle grinfie del maligno. Il protagonista è il semi-sconosciuto James Purefoy, che ha bazzicato anche l’Italia: nel 2001 lo si è visto in Domani, per la regia di Francesca Archibugi. Una particina affidata a Max von Sydow (chi è? Andatevi immediatamente a recuperare Il settimo sigillo di Bergman!) completa un quadro costato ben 40 milioni di dollari. Il tema preferito dal cinema americano, che così tante belle storie ha regalato agli spettatori di tutte le età, quello della redenzione, è il filo-conduttore della storia. Che ha il grave problema di non riuscire a chiamare le cose con il proprio nome. Una sceneggiatura scritta così così impone al regista di inserire a ogni piè sospinto mostri, mostriciattoli, feturpazioni, inserti che strizzano l’occhio allo splatter, perdendo la bussola che, invece di preoccuparsi di raccontare le avventure del suo protagonista, è più interessata a tutto quello che gli ruota intorno.

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Solomon Kane e la saga dei Predators di Pietro Salvatori

Solomon Kane è il classico blockbuster estivo. Sforzo produttivo cospicuo, sforzo distributivo notevolissimo. Nelle grandi città il protagonista, Solomon Kane, per l’appunto, occhieggia cupo da una sfilza di manifesti 6x3. Oltre all’eroe con capello al vento, mantello e spada, la pubblicità ci informa che il film è frutto della fantasia di Robert E. Howard, l’ideatore di Conan il barbaro (come ricordava Gianfranco de Turris su queste pagine il 3 ottobre 2009, preannunciando l’uscita del film, ndr).Ve lo ricordate? Fu l’eroe anche di un b-movie con i fiocchi diretto da John Milius nel 1982, che fece la fortuna di Arnold Schwarzenegger. E di un b-movie si tratta anche questa volta, ma i fiocchi sono stati destinati a incartare altri pacchi. Siamo nel 1600. Solomon Kane è un pirata al servizio degli inglesi, impegnato a portare a termine scorrerie nel Mediterraneo, in particolar modo a danno degli spagnoli. Nella sua ennesima avventura, Kane incontra il «Mietitore del diavolo» (sic!), una creatura che gli comunica che le sue malefatte sono giunte al termine, e che il demonio ha reclamato tutto soddisfatto la sua anima. Dopo un salto di 50 metri da una scogliera e una non meglio chiarita ellissi narrativa, ritroviamo Solomon in un convento. La sua anima si è purificata, ha deciso di affidarsi alla retta via e alla provvidenza di Dio, al di fuori della quale, se cedesse alla tentazione della violenza, sarebbe ineluttabilmente perduta. Ma una nuova minaccia incombe sulle verdi pianure inglesi. Lo stregone Malachia semina distruzione e morte attraverso un esercito che controlla con il pensiero. Un buon diavolo, William Crowthorn (interpretato da Pete Postlethwite, già vi-

È il momento dell’eroe senza macchia e senza paura alle prese con lo stregone Malachia. Un b-movie fantasy costato 40 milioni di dollari che giustifica due ore di refrigerio in una sala cinematografica. E anche i predatori alieni con cui si misura Adrien Brody finiscono per essere un piacevole, orrendo passatempo

Avevamo lasciato Adrien Brody spilungone e allampanato in film come King Kong o, meglio, Il pianista di Roman Polanski. Lo ritroviamo palestratissimo, che esibisce 15 chili di massa muscolare inedita in Predators, film firmato da Nimròd Antal, regista losangelino dalle origini ungheresi tradite dal nome, ricordato (poco) per l’horror Vacancy e altre cosucce del genere. Siamo nel campo dell’horror, nel pieno del cinema di genere dunque. Tre elementi ci segnalano che la qualità del film potrebbe essere superiore alla media. Il protagonista, Brody, come già accennato, il soggettista/sceneggiatore, Robert Rodriguez (quello di El Mariachi, Dal tramonto all’alba, Sin City, per intenderci), e il marchio di una saga, quella di Predator, che ha visto la luce nel lontano 1987. Curiosamente il protagonista del primo episodio è ancora Arnold Schwarzenegger. La Fox, che produce, aveva già provato a rinverdire i fasti della saga unendola a quella di Alien. Ne uscì un Alien vs Predators che riuscì nel difficile intento di scontentare un po’ tutti. Sembra che questa volta potrebbe andare meglio. La trama è semplice semplice, trae lo spunto da un pretesto qualsiasi, come in ogni horror/thriller che si rispetti, per poi mettere in scena azione adrenalinica allo stato puro. Adrien Brody è così Royce, un mercenario che, suo malgrado, viene catapultato, dopo essere stato rapito, nel pianeta dei Predatori alieni (nell’originale erano questi ultimi che facevano visita alla Terra) insieme a un gruppo di gente poco raccomandabile. Lo scopo del sequestro? I Predators si domandano: «Come è possibile che noi, così forti e invincibili, nel 1987 siamo stati sconfitti dagli umani?». I malcapitati sono così oggetto di un macabro studio di forza e di resistenza per dar modo agli alieni di capire cosa diamine ci sia di così valido in esserini così fragili. Pur non raggiungendo i livelli di tensione dell’originale, Predators è un film che ha dalla sua il puntuale e preciso rispetto delle dinamiche del genere: un mostro «celebre», un eroe maledetto, una trama asciugata all’osso. Il risultato è che scorre via in modo fresco e leggero, senza strafare e senza annoiare. Ovviamente si deve essere predisposti al genere per poterlo apprezzare. Il più classico dei finali aperti, probabilmente ci costringerà, l’estate prossima, a raccontarvi il seguito annunciato.


i misteri dell’universo

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MobyDICK

ai confini della realtà

La donna bianca che “violò”

Lhasa

di Emilio Spedicato ella storia numerosi condottieri hanno costituito grandi imperi, a volte durati per secoli, a volte scomparsi con loro. Nell’ultimo millennio giganteggia Gengis Khan, creatore del più vasto impero noto con certezza, esteso dalla Russia alla Corea e Cina via Siberia, Asia Centrale, Iran e parte del vicino Oriente; impero costato un sessanta milioni di morti. Nel primo millennio a.C. abbiamo l’impero assiro, che con Nino e Semiramide, ora chiamata Assuramat, era forse esteso dal Mediterraneo all’India, verso l’800 a.C., tempo della guerra di Troia e della fondazione di Cartagine... Nel secondo millennio a.C. l’impero, generalmente considerato mitico dagli storici, di Sesostri I il Grande, faraone vissuto all’epoca di Abramo, esteso dall’Etiopia all’India, fallendo il tentativo di conquistare anche quella parte della Scizia che è l’Ucraina attuale.

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E soprattutto ricordiamo l’impero che Alessandro il Macedone costituì, esteso dalla Grecia all’Egitto e India. Alessandro detto Magno da greci e latini, ma nominato con termini meno nobili dai popoli asiatici, per la sua crudeltà (migliaia di difensori di Tiro furono crocifissi, esempio poi seguito da Tito con i difensori di Gerusalemme) e per avere bruciato straordinarie biblioteche. Ricordiamo quella di Tiro, forse la più antica al mondo, e quella del palazzo reale di Persepoli, dove le fiam-

me distrussero le 12 mila pelli di bue con gli scritti sacri zoroastriani, e i 42 libri sacri egizi asportati da Artaserse Oco pochi anni prima. E, ancora, per avere distrutto un impero unitario bene organizzato e tollerante, sostituendolo con uno effimero, visto che alla sua morte, forse per avvelenamento, fu subito diviso fra gli avidi suoi generali. Alessandro deve gran parte della sua fama ad aspetti della sua personalità quali il coraggio immenso, l’audacia, la visione strategica (se non fosse morto avrebbe forse conquistato le terre

sandra David Néel. Scoprii questa straordinaria donna dalla lettura del suo libro, un bestseller, Viaggio di una parigina a Lhasa. Ho poi letto quasi tutti i suoi resoconti di viaggio e i suoi studi sulla cultura indiana e tibetana, in francese (pochi sono disponibili in italiano). Ho visitato la casa dove passò gli ultimi anni, morendo più che centenaria, situata a Digne, nelle Alpi francesi. Qui si ritirò prima con un lama tibetano, poi con una donna di poca istruzione che da lei molto apprese e che dirige la fondazione a suo nome.

Entrò nel Tibet proibito agli occidentali grazie alla conoscenza perfetta della lingua. E non solo di quella… ma anche della religione, dei miti e degli aspetti magici praticati in quella regione prima del buddismo. Ritratto di Alessandra David Néel, autrice di meravigliosi resoconti di viaggio e di altri studi sulla cultura indiana poco conosciuti in Italia attorno al Mediterraneo occidentale), la personalità romantica, gli aspetti sciamanici ereditati dalla madre Olimpia, sacerdotessa di Dodona di origine epira, ovvero albanese. Decine di libri furono scritti su di lui, vedasi il Deipnosofista di Ateneo, straordinario libro sopravvissuto dall’antichità in un’unica copia. Ricordo il fascino che mi prese nel leggere l’opera a lui dedicata da Curzio Rufo, lettura che feci in latino, al termine del liceo... Alessandro subì due sconfitte. Non potè conquistare l’India gangetica, una volta preso l’attuale Pakistan, a causa della stanchezza e della paura dei soldati. La seconda sconfitta, poi sperimentata da molti altri invasori, fu nella Battriana, attuale Afghanistan. Qui non riuscì a domare le popolazioni locali, sempre agguerrite nella difesa dell’indipendenza della loro terra associata all’Eden (il re della Battriana che bloccò Alessandro era avo del grande studioso Gabriele Mandel, da pochi giorni scomparso, in possesso della genealogia dei suoi avi a partire da lui). Tra gli esploratori di territori sconosciuti agli occidentali e di culture misteriose e ricchissime, come furono anche i grandi conquistatori, Alessandro in testa, vogliamo ricordare Ales-

Alessandra, il cui cognome Néel è spesso erroneamente scritto come Neel e letto all’inglese, era belga e imparentata con il pittore David. Dotata di splendida voce, fu acclamato soprano particolarmente a Tunisi, dove il marito, ingegnere ferroviario, lavorava alle costruende ferrovie (in quell’epoca l’Africa si riempì di ferrovie con una velocità rispetto alla quale oggi dobbiamo vergognarci, per merito in particolare di aziende italiane, della bergamasca e del biellese). Poi attratta dalla filosofia, religione e cultura di India e Tibet, si allontanò per decenni dall’Occidente, manifestando la sua fedeltà al marito scrivendogli una lettera

al giorno. Parte delle lettere sono disponibili in un fascinoso epistolario. Dopo un periodo di studi in India, la terra il cui cielo descrisse come verde, e avere rifiutato l’offerta di divenire una religiosa meditante nuda sotto un albero, entrò in Tibet, allora proibito agli occidentali, avendone imparato la lingua assai bene (e parlava e leggeva il sanscrito perfettamente, ma un po’ preoccupata dell’arrivo sulla scena del grande Giuseppe Tucci, che però non fece viaggi confrontabili con i suoi). Fu la prima donna bianca a entrare a Lhasa. Vari anni dopo, raggiunta la settantina, volle riprendere la strada per Lhasa passando dalla Mongolia, ma fu bloccata per alcuni anni in un convento dallo scoppio della guerra sino-giapponese, che portò al potere i comunisti. Anni che passò a studiare, allora ogni convento aveva una biblioteca anche assai grande. Biblioteche virtualmente tutte distrutte nella Rivoluzione Culturale.

Alessandra, donna di estremo coraggio e forza poetica nel descrivere le immense solitudini a 4000 e più metri di altezza, oltre a raccontare i suoi viaggi, ha scritto su religione, miti (Gesar de Ling) e aspetti magici ancora esistenti presso i bon, piccoli gruppi praticanti la religione che prima del buddismo era quella del Tibet. Lei stessa aveva acquisito doti speciali già in India, non aveva difficoltà a fare germogliare in pochi minuti un seme sino alle foglie, poteva stare nuda sulla neve a 40° sottozero. Sono stato sette volte in Cina per una fruttuosa collaborazione con matematici, ma ho sempre rifiutato di recarmi in quel Tibet incontaminato ai tempi di Alessandra, ora attraversato da una ferrovia che da Pechino va a Lhasa, quasi del tutto scomparsa la straordinaria fauna di yak e asini selvatici, distrutti quasi tutti i monasteri con le loro ricchissime biblioteche.


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