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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Piccola guida ai “libri da sdraio”
di Roselina Salemi l modello è George Simenon. Un genio, d’accordo. Ma grande artigiano. Il commissario Maigret non voleva entrare nella Letteratura. Voleva un pubblico. E il suo creatore puntava a guadagnare abbastanza da viverci. Perché c’è, nella scrittura, un onesto lavoro di costruzione, senza la pretesa di passare alla Storia, ma alla cassa, che ha fatto la fortuna dei vari Ken Follett, Jeffery Deaver, John Grisham, Patricia Cornwell, James Patterson, Martin Cruz Smith, Clive Cussler, John Connolly, Michael Connelly, Ian Rankin e, per metterci un cinese, anche Qiu Xiaolong, professore alla Washington University di Saint Louis e papà dell’ispettore Chen Cao. Da leggere, uscito l’anno scorso, La morte misteriosa della compagna Guan (Marsilio, 543 pagine, 9,50 euro), una paziente indagine, molto cinese, in effetti, che ci porta nella moderna Shanghai, tra impiegate modello e funzionari corrotti. Questi autori non hanno prodotto Guerra e pace, ma non ci hanno neanche provato. Hanno imboccato la strada della narrativa di genere e hanno inventato, spesso, storie che era impossibile lasciare, senza aver raggiunto l’happy end o assistito all’arresto dell’assassino. Perfetti libri da sdraio, senza offesa. Libri dove succedono un sacco di cose, altro che minimalismo. Abbastanza lunghi da essere spalmati su una vacanza media. Jeffery Deaver, tra i più bravi, assicura che non scrive per se stesso, ma per i suoi lettori, e farà di tutto «per dare loro quello che vogliono» (sangue!). L’inventore di Lincoln Rhyme, il detective tetraplegico, e della sua Amelia Sachs, consacrato dal bestseller Il collezionista di ossa, esce da Rizzoli con La finestra rotta (504 pagine, 20,00). Ha scritto venti thriller in dieci anni e ha venduto, solo in Italia, oltre due milioni di copie. Per rabbrividire sotto il sole, ecco a voi l’ottava avventura di Rhyme.
I
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Onesti lavori di costruzione, senza la pretesa di passare alla Storia ma alla cassa. Del resto era questo l’obiettivo del Maigret di Simenon... Da Deaver a Larsson, da Grisham a Pitt, ecco i magnifici dieci da portare in vacanza
GLI ARTIGIANI DELLA SCRITTURA 9 771827 881301
80719
ISSN 1827-8817
Parola chiave Identità di Roberto de Mattei Alanis, rinascita di una rockeuse di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
L’epica dell’esitenza di Paolo Febbraro di Filippo La Porta
Il nuovo romanzo di Hanif Kureishi di Pier Mario Fasanotti Il palazzo e la bottega a Roma moderna di Claudia Conforti
Goethe e i suoi amici in un album di ritratti di Marco Vallora
gli artigiani della
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segue dalla prima In tempi di intercettazioni, Deaver crea un intreccio di spionaggi quotidiani dove chiunque altro si perderebbe. C’è un serial killer tecnologico, cattivissimo, che riesce ad attribuire ad altri i suoi delitti. C’è Lincoln, c’è Amelia, c’è il detective Lou Sellitto e, come sfondo, un’inquietante Manhattan, dove un appuntamento d’amore può finire con la morte. Meglio di un ghiacciolo. Il caso editoriale, però, è Stieg Larsson, svedese, autore della trilogia Millennium, consegnata all’editore poco prima di morire (attacco cardiaco, non omicidio). Il primo romanzo, Uomini che odiano le donne, uscito a Natale, parte lentamente, ma è bellissimo e crudele. Qualcuno, per definirlo, ha scomodato Balzac. Adesso arriva il secondo, La ragazza che giocava col fuoco, (Marsilio, 754 pagine,19,50 euro), capace di cancellare qualsiasi vampa d’agosto. Brr… Larsson fa una cosa che il lettore ama moltissimo: separa il Bene dal Male. E i due protagonisti Buoni, il giornalista Mikael e la piccola hacker Lisbeth, se la devono vedere con il mondo dei Malvagi, pagina dopo pagina, districando oscure trame.
È un mondo feroce anche quello di John Grisham (L’ultima sentenza, Mondadori, 406 pagine, 19,00 euro), che segue un caso di inquinamento doloso con lampante colpevolezza. Carl Trudeau, industriale senza scrupoli, tira i fili dei processi e verrebbe voglia di farlo fuori, se non altro per dare una mano ai due avvocati pieni di grinta e di ideali. Non siamo alla perfezione di romanzi come Il socio e Il cliente e di sicuro, Hollywood cambierebbe il finale, ma la storia è costruita con la solita abilità: politica, complotti, corruzione. Effetto collaterale: sappiamo tutto del sistema giudiziario americano, mentre da noi avremmo qualche incertezza sulle competenze dei gip e dei guf. Nella complessità maniacale dell’intreccio, però, Grisham è stato battuto da Frank Schatzing. Il suo tortuoso Silenzio assoluto, (Nord, 663 pagine, 18,60 euro) racconta un fallito attentato a Bill Clinton all’aeroporto di Colonia, durante il G-8 del 1999. Molte circostanze sono vere, nel romanzo si muovono i leader del mondo, (Clinton appunto, o Eltsin) trattati in modo un po’dissacrante. L’avventura comincia come tante storie di spie e terrorismi, ma diventa un gioco di scatole cinesi che, dai killer serbi, porta ai meandri della Cia. Ricorda Forsyth, ma un po’ più pre-
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
scrittura
suntuoso. Il bello è che questo romanzone è abbastanza plausibile, se siamo disposti a credere alla fantapolitica riversata in tivù dalla serie 24 con il suo protagonista-kamikaze Jack Bauer. Invece, le avventure di Dirk Pitt, creatura di Clive Cussler, sono realistiche quanto i film di Indiana Jones. Nell’ultimo romanzo, Il tesoro di Gengis Khan (Longanesi, 533 pagine, 19, 60 euro), scritto a quattro mani con il figlio Dirk (della serie Piero e Alberto Angela), l’eroe rischia la vita, dal lago Baikal alla mitica Xanadu, passando dal ghiaccio del Nord al fuoco del deserto di Gobi per evitare che un magnate mongolo combini grossi guai con il petrolio (negli altri libri c’erano tesori aztechi e inca, pietre sacre, addirittura Atlantide). Nessuno sopravviverebbe a una sola delle sue acrobazie, ma lui ce la fa sempre, altrimenti come va avanti la serie? Che il bene trionfi e la bella si innamori, è una sicurezza non da poco. Niente imprevisti, con Cussler, e il lettore va sul sicuro. Per restare sorpresi, ci vuole Gordon Dahlquist, esordiente americano laureato alla Columbia, che riesce a mettere assieme thriller, fantasy e postmoderno (La setta dei libri blu, Bompiani, 796 pagine, 22,00 euro), come se fosse andato a comprare gli ingredienti in un supermarket del mistero, mescolandoli con rara furbizia: sangue sesso e potere, il solito club di megalomani che vogliono dominare il mondo e, contaminazione fantasy, alcuni libri di vetro blu. Meglio non guardarli, perché leggono il loro lettore, i suoi pensieri, i suoi più nascosti desideri. Pochi avrebbero tentato, come Dahlquist, una fusion tanto estrema, popolata da personaggi così arditi: l’ereditiera bella e impossibile, il killer poeta, l’ufficiale incaricato di sorvegliare un principe provvisto di sregolatezza senza genio. C’è, nei fabbricanti di bestseller, una mancanza di pudore che permette loro di saccheggiare qualsiasi epoca, tempo, avvenimento (complimenti!). Matilde Asensi, quella dell’Ultimo Catone, sceglie l’anno di grazia 1598 per dare vita alla sua Catalina Solìs, figlia di una ricca famiglia in declino. Si imbarca per le Americhe e, guarda un po’, le succede di tutto, pirati, naufragi, isole deserte, persino l’occasione di costruirsi una doppia identità, maschile e femminile, …. e la saga è soltanto al primo volume. (Terra ferma, Rizzoli, 217 pagine, 17,00 euro). Juan Manuel de Prada, con Il settimo velo (Longanesi, 644 pagine, 18,60 euro) racconta la Grande Storia che attraversa la tormentata vita di Jules, partigiano
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania
e spia nella Francia occupata dai tedeschi, carnefice e vittima, traditore soprattutto di se stesso. Dentro, riesce a metterci, nell’ordine: l’amore, la guerra, i tedeschi, i collaborazionisti, i lingotti d’oro, gli scioperi in fabbrica alla Renault, un figlio abbandonato prima della nascita, un’amnesia.Troppo, forse.
Le vie del bestseller, però, sono infinite. Il materiale su cui lavorare può essere anche l’ordinata quotidianità. Jodi Picoult, che ha studiato scrittura creativa a Harvard, lo fa in Diciannove minuti (Corbaccio, 617 pagine, 19,60 euro), al primo posto nella classifica del New York Times, un milione e settecentomila copie vendute. Parte da un tema molto simile al Sopravvissuto di Antonio Scurati (un adolescente spara, non ai professori, ma ai compagni di scuola) e scava, con uno sguardo tutto femminile, dentro vite apparentemente normali, dentro la violenza e l’ipocrisia di una piccola comunità che scopre di non conoscere i suoi figli. E poi, è quasi obbligatorio segnalare il più classico dei generi, la storia d’amore che, come il giallo, ha regole tutte sue. Si è ritagliato uno spazio Cecelia Ahern, figlia del premier irlandese (il suo lacrimevole P.S. I love you, scritto a ventun anni, è diventato un successo hollywoodiano), che in Grazie dei ricordi (Sonzogno, 413 pagine, 19,00 euro), fa incontrare Joyce e Justin, complice una trasfusione di sangue e un pizzico di paranormale. E scivoliamo dolcemente nel neogotico di Libba Bray (Una grande e terribile bellezza, Elliot, 450 pagine, 17,50 euro). In sintesi: corsetti crinoline magie lacrime amori tradimenti brividi. Di tutto questo è difficile trovare l’equivalente in Italia. Non che manchino gli artigiani. C’è Valerio Massimo Manfredi con la sua saga del mondo classico. C’è Margherita Oggero, che ha serializzato la detective-professoressa Baudino, un giallo-rosa, poco sanguinoso, c’è Giorgio Faletti, sanguinosissimo, più vicino agli americani. C’è Andrea Vitali, unico vero erede di Piero Chiara, con le sue storie ambientate nella provincia pettegola, sulle sponde del lago di Como (lui fa il medico a Bellano e in paese dicono sia più bravo come scrittore): l’ultima è La modista (Garzanti). Gli italiani, però, non riescono a spararle grosse, si vergognano, si autocensurano. Una giovane autrice, già abbastanza nota, mi ha confessato: «Sai, ogni riga che scrivo, immagino debba leggerla Pietro Citati». E infatti produce libri piccoli. Per i posteri, non per la sdraio.
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parola chiave
a parola identità, un tempo presente solo nel vocabolario filosofico, appartiene oggi al linguaggio della psicologia e delle scienze sociali. Il suo primo significato, quello logico e metafisico, ci aiuta però a comprendere il concetto nella sua portata e nelle sue conseguenze. Dal punto di vista della filosofia, il problema dell’identità coincide con quello dell’essere. L’identità esprime infatti la persistenza, e quindi la coerenza e l’unità di qualcosa con se stessa. Un’unica sostanza può avere però aspetti diversi, pur non cessando di essere se stessa. Lo riscontriamo specialmente nella vita umana. Per quanto siano continui i cambiamenti della nostra vita personale, ognuno di noi si riconosce sempre identico a se stesso e, dall’infanzia alla vecchiaia, noi attribuiamo tutti nostri dati di coscienza sempre al medesimo io. Accanto all’identità individuale, esistono identità collettive, quelle dei gruppi sociali, dei popoli, delle civiltà. Un’identità può essere inoltre di molteplici generi. Parlando dell’Europa ci possiamo riferire alla sua identità fisico-geografica o alla sua identità storica e culturale, che è il principio vitale che la fa sussistere e ne determina il ruolo nel tempo e nello spazio. Non manca chi pretende che l’identità dell’Europa consista nel «non essere identica a se stessa» e che la sua caratteristica fondamentale sia nella mancanza di un principio fondativo e di una intima unità interna. I teorici del pensiero debole rifiutano qualsiasi tipo di identità, a partire dall’identità primaria dell’io o del soggetto umano, di cui negano, con l’anima, ogni forma di permanenza interiore. L’uomo è concepito come una struttura puramente materiale, in perenne mutamento, inserita a sua volta in una rete di strutture in evoluzione. Questo nuovo paradigma si fonda sul rifiuto della natura umana e di tutto ciò che è in se stesso identico, sostanziale, stabile, radicato.
L
Cade la stessa distinzione tra uomo e donna, tra umano e animale, tra vivente e non vivente, tra organico e inorganico. La cosiddetta «teoria del genere» nega il primo elemento identitario, quello biologico, che fa di ognuno di noi un individuo di sesso maschile o femminile, facendo derivare questo dato primario dalla cultura e non dalla natura e trasformandolo quindi in orientamento soggettivo. L’identità dell’uomo viene definita multipla, ossia, schizofrenica, quella delle nazioni multiculturale, quella dell’Europa o dell’Occidente, poliforme e policentrica. Ogni errore intellettuale contiene una parte di verità e bisogna innanzitutto riconoscere che cosa c’è di vero in queste tesi. Ciò che è vero è che la caratteristica dell’universo è la molteplicità o la «alterità».Tutto ciò che esiste è diverso dagli altri enti, ma proprio per que-
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IDENTITÀ Si raggiunge solo attraverso la pluralità, che è ricchezza dell’universo. Ma in un mondo composito, in cui tutto diviene, esiste qualcosa che non muta e che definisce l’unità interna del nostro essere. Quel principio che Aristotele definiva il più saldo di tutti...
L’altro che è in noi di Roberto de Mattei
Negare il principio di identità significherebbe svuotare sia i concetti che le parole di ogni significato. Esso costituisce il fondamento della cultura occidentale. Averlo abbandonato è una delle cause della crisi della conoscenza contemporanea e del nostro smarrimento sto ha una sua identità che lo contraddistingue. Il concetto stesso di identità presuppone, infatti, l’esistenza dell’altro e, dunque, il fatto di una pluralità di identità. È vero dunque che l’universo è complesso, ricco di diversità, di alterità, di mescolanze, di conflitti. Ma all’interno di questo mondo composito e molteplice, in cui, sotto un certo aspetto, tutto diviene, esiste qualcosa che non muta, qualcosa che fa sì che tutti gli esseri, prima di essere qualcosa, siano: abbiano in sé l’essere, e con l’essere, partecipato da Dio, una loro unità interna, una loro identità. Tutto ciò che ha un nome che lo specifica ha una sua identità. La diversità esiste, ma
non all’interno di ciò che, avendo una sua specifica essenza, e un nome che lo definisce, è identico a se stesso. Esiste dunque una pluralità di identità, ed è questa pluralità che fa la ricchezza dell’universo, ma non nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto. Io ho un’identità di cristiano, di padre di famiglia, di italiano, di europeo, e in ultimo, o in primis, di uomo. Ma nessuna di queste identità nega l’altra, ognuna la arricchisce e conferisce unità e coerenza al mio io. La molteplicità delle interazioni sociali contribuisce a definire la stabilità della mia personalità, che sarà tanto più unitaria e coerente quanto più queste identità non entre-
ranno in conflitto, ma si armonizzeranno fino a formare la mia specifica identità. Il principio di identità è la legge, non solo del reale, ma della logica ed è quindi il fondamento di ogni conoscenza e relazione umana. Negare il principio d’identità in pratica è impossibile, perché significherebbe svuotare sia i concetti che le parole di ogni significato preciso e quindi rendere impossibile il ragionamento e lo stesso linguaggio umano. Il principio di identità e di non contraddizione fa parte della categoria dei principi auto-evidenti, che non hanno bisogno di dimostrazione.
Il matematico Kurt Gödel nel saggio Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e sistemi affini apparso nel 1931 ha dimostrato che, come ogni scienza, la matematica non è in grado di fondarsi su dei primi principi indimostrabili e veri, ma solo su principi convenzionali e la dimostrabilità di ogni insieme di proposizioni significative può venire ottenuta soltanto attraverso un’ipotesi non contenuta nell’insieme stesso. Ciò significa non solo che la matematica deve trovare al di fuori di sé il principio delle proprie dimostrazioni, ma che questo principio deve essere a sua volta indimostrabile e vero. Se così non fosse, se non ci fosse un principio indimostrabile, ossia di per sé evidente e oggettivamente vero, ogni proposizione dipenderebbe da altre proposizioni e dunque nulla potrebbe essere dimostrato. In altri termini, un sistema logico di conoscenze non può essere «autofondante», ma deve trovare parte dei suoi assiomi fuori del suo stesso ambito, e a nulla serve ampliarlo per includere gli assiomi mancanti, perché ne resterà sempre fuori almeno uno, ad infinitum. Nessun sistema dunque, per quanto complesso sia, può dimostrare se stesso, a partire da se stesso. La conclusione a cui giunge Gödel era già stata raggiunta in via filosofica da Aristotele che nei Secondi Analitici definisce «assioma quel principio che deve essere necessariamente posseduto da chi vuol apprendere checchessia» (72a 17). Se manca un principio primo, evidente e indimostrabile, su cui fondare la dimostrazione, nessuna proposizione può essere dimostrata e dunque ogni proposizione ha valore ipotetico: tale cioè che la proposizione può essere tanto affermata come negata. Il principio di identità o non contraddizione, che Aristotele nel IV libro della Metafisica definisce «il principio più saldo di tutti», quello senza di cui non potrebbe essere conosciuto nulla e intorno al quale è impossibile trovarsi in errore, costituisce il fondamento della cultura e del sapere occidentale. L’abbandono di questo principio è una delle cause della crisi della conoscenza contemporanea, ma anche dello smarrimento in cui è immersa la nostra vita quotidiana.
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rock
musica
Alanis rinascita di una rockeuse che cita Ghandi di Stefano Bianchi dire che l’aveva previsto, intonando «Sono felice per te, auguro il meglio a tutti e due» per poi schiumare rabbia con «Pensi a me quando vai a letto con lei?». La canzone, You Oughta Know, nel 1995 mette nero su bianco le incazzature femministe di Alanis Morissette. Ed è una pacchia per tutto il resto di Jagged Little Pill, robusto esempio di rock in rosa da 30 milioni di copie vendute. Poi, dal ’98 al 2004, con Supposed Former Infatuation Junkie, Under Rug Swept e So Called Chaos, la rockeuse canadese infila gli inevitabili alti e bassi. Brava lo è di sicuro, ma si ostina a scrivere testi egocentrici lanciando qua e là anatemi. Nel frattempo, però, la femminista si è innamorata. Il suo cuore, che in fondo è di panna, batte per l’attore Ryan Reynolds. Il quale, però, a un soffio dalle nozze la pianta in asso per Scarlett Johansson, «musa» di Woody Allen. Già. Era tutto previsto. You Oughta Know insegna. Bella botta, per la Morissette. Che non solo deve rimettere insieme i cocci, ma ragionare con un minimo di lucidità sul nuovo disco. Nervi saldi, un’asciugata alle lacrime e via, a scrivere canzoni che miracolosamente, in una sorta di «training autogeno», le fanno superare il trauma dell’abbandono dopo aver attraversato shock e rabbia, tristezza e accettazione. Sbrigate le ultime, rancorose pratiche con versi al vetriolo come «Guardaci mentre combattiamo la nostra guerra in camera da letto», Alanis ci consegna Flavors Of Entanglement esibendo una gran voglia di ricominciare. Citando nel brano Underneath, alla ricerca di un equilibrio interiore, gli insegnamenti del Mahatma Ghandi. Fra vitaminico rock ed elettronica (Guy Sigsworth, che lo ha prodotto, ha lavorato
E
in libreria
con l’islandese Björk), l’album svela una donna ancora vulnerabile, ma finalmente matura, che smessi i panni della ragazzina ribelle passa dalla fusione di suoni orientali e di heavy metal (Citizen Of The Planet), alla techno addomesticata (Straitjacket); dal day one da cui ripartire (la nuda melodia di Not As We, per voce e pianoforte), ai toni plumbei di Versions Of Violence che raccontano violenze silenziose («A volte sottili, a volte evidenti. E anche quelle che passano inosservate, lasciano il segno una volta sparite»). E se dopo un’ode all’uomo vulnerabile (In Praise Of The Vulnerable Man: efficace easy listening giocato alla maniera di Annie Lennox) c’è la dichiarazione di libertà di Moratorium (drum & bass
in stile Björk) e il respiro orchestrale di Torch che ripercorre l’amore perduto, il «canto della fenice» di Giggling Again For No Reason («Per la prima volta - ha dichiarato Alanis - mi sono ritrovata a ridere. E l’ho interpretato come un buon segno») si stempera nella ballata conclusiva, Incomplete. Sgranando parole che sono un sincero esame di coscienza: «Per tutta la vita ho corso affannata. Impaziente di raggiungere un traguardo. E per tutto questo tempo mi sono persa l’estasi di essere eternamente incompleta». Alanis Morissette, Flavors Of Entanglement, Maverick/Wea 19,50 euro
mondo
riviste
TORNA ALLA RIBALTA IL POP DEL ’68
YOO YE-EUN, PICCOLA GRANDE PIANISTA
DANCITY FESTIVAL 2008
«U
n rullino del ’68 che vale solo per la musica popolare e leggera ma, se ci credete, vale». È così che i giornalisti Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti definiscono il loro libro Avant pop - Canzoni indimenticabili di un anno che non è mai finito (Rcs, 140 pagine, 17,50 euro). Una raccolta di informazioni indispensabili per chi intende approfondire, ma anche solo iniziare a co-
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er tentare di spiegare l’eccezionale talento della piccola Yoo Ye-eun, pianista coreana di cinque anni cieca dalla nascita, critici e appassionati hanno rievocato lo spettro di Mozart. Giunta di recente a una fama planetaria, dopo essersi esibita per la televisione asiatica Pandora, la bimba è stata visionata suYouTube da più di due milioni di persone. Adottata all’età di due anni, e senza aver mai
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Due giornalisti autori di un volume sulle canzoni «di un anno che non è mai finito»
A cinque anni, cieca dalla nascita, autodidatta, suona qualunque brano dopo il primo ascolto
A Foligno la rassegna che unisce antico e contemporaneo. Notizie su “extramagazine.it”
noscere, gli aspetti e le sfumature che hanno caratterizzato quegli anni. La prima parte del volume, curata da Bertoncelli, ripercorre attraverso classifiche e dischi la colonna sonora internazionale del ’68 e propone un’immersione nel Festival di Sanremo di quell’anno, con tanto di hit parade, testi, delucidazioni e curiosità. La seconda, curata da Zanetti, è dedicata ai 45 e ai 33 giri protagonisti di quel periodo: nomi, date, riferimenti storici, aneddoti e leggende metropolitane. Ad Avant pop è anche allegato un cd con «dieci brani dell’epoca, utili per farsi un’idea sulla musica italiana e internazionale del mitico 1968».
preso lezioni di piano,YooYe-eun è in grado di riprodurre qualunque brano musicale dopo il primo ascolto e si esercita giornalmente su compositori classici come Mozart, Beethoven e Chopin. Esibitasi da poco nell’ambito delle celebrazioni nazionali per il giorno della Corea, la piccola pianista ha suonato anche al cospetto di Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore. Richiestissima in tutta l’Asia, la bimba ha però ricevuto numerose offerte anche da alcune equipe mediche che si sono dette disposte a tentare di restituirle la vista. Ha risposto serafica che per il momento le interessa soprattutto studiare per diventare una grande pianista.
le luogo d’incontro fra l’avanguardia e lo spazio storicizzato della cittadina umbra, che a livello spettatoriale si traduce in una parallela contaminazione di linguaggi. Ad alternarsi sul palco i norvegesi Sidsel Endresen/Jan Bang duo, Apparat & band, Efterklang, Chateau Flight, e poi Francesco Tristano, Metuo, Andy Stott, e molti altri. Sospesa fra l’atmosfera clubbing ed espressività legate alla ricerca acustico visiva, l’idea alla base del festival è la creazione di uno spazio sincronico in cui l’uso della tecnologia e la tradizione paesaggistica convivono in una dimensione ambigua dai molti significati.
ella suggestiva cornice del centro storico di Foligno, va in scena dal 24 al 26 luglio Dancity Festival 2008, una rassegna che ospita performance artistiche, musica elettronica, installazioni multimediali, video-proiezioni e altri happening visivi carichi di sperimentazione. All’insegna del binomio antico-contemporaneo, extramagazine.it presenta la kermesse come idea-
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zapping
CONSIGLI PER L’ARCHIVIO: usare più spesso “delete” di Bruno Giurato elettronica applicata alla musica ci dà parecchi inconvenienti, ma con un piccolo sforzo di determinazione possiamo prenderci qualche piacere. Non mi riferisco al genere «musica elettronica», che una volta era contrabbando da sognatori epici (vedi Kraftwerk) e ora è diventato un collage di atmosfere isteriche (quando ascolto la napoletana Meg mi vien voglia di mandarle un messaggino «tieni ’o computer rotto, torna al mandolino»), mi riferisco all’uso dell’elettronica per conservare e ordinare la musica, cioè al computer che fa da archivio delle nostre discografie. Ecco che anche dall’archivio di ITunes o equivalenti possiamo ricavare qualche gioia. Abbiamo ben chiaro in mente il concetto di Walter Benjamin: l’archivio raccoglie tutto indiscriminatamente, la memoria seleziona. Tradotto in pratica sui migliaia di brani che abbiamo importato nel nostro computer ciò significa una sola cosa: tagliare, tagliare, tagliare. Se un disco (o un brano) piace lo si tiene, se no si butta via. Sembra semplice, e invece molti, con l’atteggiamento del collezionista e accaparratore di valori estetico musicali, tendono ad archiviare tutto, col bel risultato di trovarsi il computer infestato di brutta musica. E invece ci si provi, si cominci a premere il tasto delete, se ne avrà in cambio il privilegio estetico e sociale della scelta, e una sicura leggerezza dell’anima. Io ho fatto così: l’ultimo di Lenny Kravitz? Delete. Magic di Bruce Springsteen? Delete. La radiolina di Manu Chao? Delete. Quanto spazio guadagnato sul disco rigido, quanto spazio in più per la musica che ameremo (e che ci amerà). Ma soprattutto quanti brividi antimoderni nello scegliere.
L’
jazz
festival
Il teatro europeo alla corte dei Savoia di Enrica Rosso a poco meno di un mese si sono spenti i riflettori sulla XIII edizione del Festival delle Colline Torinesi e mentre ancora risuonavano nell’aria le urla di La Fura dels Baus ospite del XXX Festival teatrale di Asti, il 30 giugno a Torino ha preso il via «Teatro a corte: il teatro europeo nelle dimore sabaude». L’operazione che gode del supporto economico del Ministero per i Beni Culturali e della Regione Piemonte prevede un budget di due milioni di euro a cui si vanno ad aggiungere i numerosi sponsor. Niente male per un paese in piena recessione. Lungi dall’essere una critica, notificare lo sforzo economico evidenzia la grandiosità della manifestazione, il cui programma dà spazio a contaminazioni artistiche di vario genere in grado di stupire anche il pubblico più esigente smobilitando i luoghi comuni del fare teatro. A cominciare proprio dalle location che rappresentano già di per sé uno spettacolo eccezionale trattandosi di dimore reali della famiglia Savoia entrate a far parte del patrimonio artistico dell’Unesco. Beppe Navello, direttore artistico della Fondazione Teatro Piemonte Europa, ha selezionato e incastonato performances ardite, di grande impatto emotivo che oltre a nutrire i cinque sensi hanno in comune una spiccata vena poetica.Trentaquattro le compagnie in azione provenienti da quindici paesi europei chiamate a rendere indimenticabili le serate piemontesi. La Vecchia Signora bagnata dal Po si è docilmente lasciata sedurre da atmosfere inedite mettendo in mostra i suoi fasti con la sobrietà e la classe che la contraddistinguono. Così la Piazzetta Reale si è trasformata per l’inaugurazione in un surreale acquario in cui fluttuavano gigantesche sirene, mentre nella serata conclusiva del 3 agosto conterrà le mirabolanti macchine dei Sarruga Teatre, gli spagnoli esplosivi. Il pianoforte itinerante di Jean-Luis Cortés ha cavalcato il famoso pavè del centro storico, la Cavallerizza ha ospitato la grandissima Nola Rae, Piazza Castello il pluripremiato Alma Candela. Il teatro danza e quello di parola con gli Egumenteatro sono stati collocati alle Fonderie teatrali di Moncalieri, il cortile del castello Cavour a Santena è risuo-
D
nato della performance di Davide Riondino, la Fontana dei Quattro Fiumi situata nei Giardini del castello di Agliè si è animata con le coreografie di Paolo Mohovich. In quel di Pollenzo è stato possibile degustare le sculture commestibili di Dorothée Seltz. Ancora molti gli appuntamenti sotto le stelle. Dal 18, quattro serate tutte da ascoltare al castello di Rivoli con Instrument/Monument e Metalu a Chauter: i primi daranno voce al castello, i secondi ci faranno assistere alla nascita del suono. Dal 24 al 27 nei Giardini della Reggia di Venaria si potrà scegliere tra il teatro di ispirazione circense di Jérome Thomas, le acrobazie intubate di Nous Tube #2, il teatro del fuo-
co di The World Famous, farsi incantare dal funambolo sognatore di Dimitri Korneevitch, lasciarsi raggiungere dai versi dei Commandos Poeticos o ascoltare gli allievi della scuola d’arte drammatica Paolo Grassi. Il teatro equestre di Cargo, 30 e 31, non poteva trovare cornice più nobile di quella del centro internazionale del cavallo di Druento. Insomma, una rassegna per sognare a occhi aperti, una prestigiosa vetrina internazionale in cui ben si inseriscono alcune importanti realtà creative italiane e che ospiterà in coda l’incontro dei direttori artistici dei più rappresentativi festival europei per dialogare e intessere future trame spettacolari.
Info: www.teatroacorte.it
Lo stile di Mehldau? Assomiglia a McCoy Tyner di Adriano Mazzoletti nche se ignorato dalla recente edizione italiana del Dizionario del Jazz (Mondadori) di Carles, Clergeat e Comolli, il pianista Brad Mehldau è una delle più solide realtà del jazz di oggi. Sugli errori e omissioni nelle varie enciclopedie e dizionari, l’elenco potrebbe essere assai lungo. Basti pensare che nei due volumi della Garzantina dedicati alla Musica è stato ignorato uno dei pianisti e direttori d’orchestra più illustri del jazz italiano e uno dei maggiori compositori di musiche da film, Piero Piccioni! Se fosse ancora fra noi, conoscendo la sua modestia e il suo senso dell’umorismo, non vi avrebbe dato gran peso. Così Brad Meldhau che suonerà domani sera alla Cavea dell’Auditorium di Roma con il suo trio, Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria.
McCoy Tyner
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Celebre per le sue interpretazioni di standard, è salito alla ribalta giovanissimo negli anni Novanta, convertendosi al jazz dopo una importante formazione classica. A New York frequenta la Nuova Scuola per le Ricerche Sociali e ha come insegnanti i pianisti Fred Her-
sch, Kenny Werner e il batterista Jimmy Cobb, che colpito dalle capacità del giovane pianista lo fa entrare nel complesso che il batterista dirigeva a quell’epoca. È la volta poi del sassofonista Joshua Redman che lo ingaggia nel suo quartetto. Nel 1994 finalmente forma il primo trio e l’anno successivo incide il suo primo album dal titolo emblematico: Introducing. Nel 1999 concepisce Elegiac Cycle, album solista, diverso dal solito, vagamente impressionista, postmoderno, minimale, dove sono udibili reminiscenze classiche che impregnano la sua cultura musicale. Nel 2000 è la volta di Places, sempre in trio. Nel 2002 pubblica Largo diventato un vero e proprio disco cult. Questo lavoro può essere considerato musicalmente un ibrido, nel senso che pur trattandosi di un disco di jazz che ogni tanto si rivolge al pop e altri stili, non cade mai in quel sincretismo jazz-pop o pop-jazz che siamo
troppo spesso costretti ad ascoltare. Lo stesso Mehldau ha riferito che Largo è stato il disco più interessante che ha realizzato sia per l’ambizioso progetto musicale, sia per il budget che Capitol aveva messo a disposizione, la qual cosa gli ha consentito di riunire un’orchestra numerosa. Gli altri lavori discografici, Anything Goes, Don’t Explain, Live in Tokio, rivelano un solista di straordinaria efficacia. Si è parlato molto dell’influenza che su di lui hanno esercitato pianisti come Keith Jarrett, Bill Evans o McCoy Tyner. Dei tre, come ha ammesso lo stesso Mehldau, «senza voler meravigliare nessuno, perché molti hanno detto che la mia maggiore fonte di ispirazione è stato Bill Evans, in realtà il pianista a cui mi sono spesso riferito è McCoy Tyner quando suonava con John Coltrane». Negli ultimi anni Mehldau ha però dimostrato di possedere personalità e stile.
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narrativa
ompletamente padrone del meccanismo narrativo, Hanif Kureishi torna alla ribalta senza avere il timore di eguagliare o in qualche modo superare il successo che l’ha imposto sulla scena letteraria mondiale, Il Buddha delle periferie. Nel nuovo romanzo, giunto dopo un surplace narrativo che non ha toccato punte di grande rilievo, lo scrittore nato a Londra da padre pakistano e da madre inglese, offre l’eccellente conferma di come si possa coniugare l’analisi psicologica delle persone con la vivisezione dell’ambiente e dell’epoca che li circondano. Non è poco. Addirittura viene da sospettare che gli inglesi autoctoni abbiano, a differenza dei «meticci», poche cose da raccontare o comunque eventi che somigliano molto a quelli già raccontati. A parte, ovviamente, alcune eccezioni, Ian McEwan in testa. Il protagonista dell’ultima prova di Kureishi, che è anche un contenitore di intelligenza, di arguzia e di riferimenti culturali mai colti nella loro pesantezza, è Jamal, uno psicoanalista, separato dalla moglie Jasmine, padre di Rafi, un adolescente che lui adora e col quale riesce a instaurare un dialogo senza ricorrere agli stereotipi genitoriali. Come «medico dell’anima», Jamal sa bene che i segreti sono la sua «valuta corrente». Partecipa emotivamente alle storie che ascolta, continua a chiedersi come possano essere così strettamente legati il piacere e il castigo, come mai noi stessi siamo la causa delle nostre malattie. Fin dalle prime pagine Kureishi infila nella mente di chi legge il tarlo della curiosità. Sì, perché l’intensa e turbolenta vita di Jamal ha avuto a che fare con un crimine. E questo atto delittuoso è collegato al grande amore maturato e vissuto ai tempi dell’università. Il primo amore si chiamava Ajita, bellissima indiana che «si vestiva come
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Hanif Kureishi Variazioni intorno al diritto d’uccidere di Pier Mario Fasanotti
libri
un’italiana», giovane disinibita (ma quelli erano gli anni della «liberazione») cui lo studente in Filosofia e Psicologia dedica un’attenzione amorosa che comprende i sensi ma li supera e procede verso un’unione intensa. Attorno a loro si muovono i londinesi che insultano «gli asiatici» o «i negri», ci sono le periferie dello squallore e dei sogni infranti. Una città che a Jamal ragazzino piaceva guardare come «città degli esuli, dei rifugiati e degli immigrati, quelli a cui la città appariva roba da extraterrestri e i codici inglesi risultavano indecifrabili, persone che non avevano un posto e non sapevano dove si trovassero». Così la vedeva anche il padre di Jamal, che poi tornò nel subcontinente lasciando di sé, alla moglie e ai due figli, un’immagine contraddittoria. Jamal comincia presto a interrogarsi sul «diritto di uccidere» assieme a due compagni, anch’essi non inglesi: un bulgaro e un tedesco. Lo Jamal adulto arriva all’inevitabile appuntamento con l’intera sua esistenza. «Insonne e pieno di energia ossessiva» ricorda una frase di Ibsen: «Viaggiamo tutti con un cadavere nella stiva». Jamal è attratto dalla stabilità caratteriale e affettiva, ma al tempo stesso avverte una grande attrazione verso i «duri», i farabutti che riescono a essere tali proprio perché non sono mai impigliati nelle sottigliezze: «A me sembravano autosufficienti, completi, impermeabili: come una persona che leggesse un solo libro per sempre». Ma Jamal legge un sacco di libri. E saranno anche questi ad aiutarlo a risolvere la complicazione del presente e ad assecondare un prepotente bisogno d’amore. Hanif Kureishi, Ho qualcosa da dirti, Bompiani, 457 pagine, 19,50 euro
riletture
Daisy Miller in quell’abito di mussola bianca di Leone Piccioni hi voglia fare i conti con la narrativa moderna incontrerà una specie di montagna che si chiama Henry James (New York 1843-Londra 1916). Accanto al suo nome è quasi d’obbligo ricordare Ritratto di signora (1880), ma molte opere più o meno satellitari circolano intorno a lui: romanzi lunghi, romanzi brevi, racconti. Pur essendo americano James viaggiò molto in Italia e in Inghilterra. In Italia scoprì le città più belle, in Inghilterra fu tentato di rimanere. Particolarmente suo, specialmente nel Ritratto di signora, un andamento sciolto con ampi colloqui, ampie intimità, digressioni sui temi più disparati. È un ritmo questo che va avanti per centinaia di pagine, che sfo-
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ciano però in un tragico e bellissimo ritratto della protagonista Isabelle che si ritrova costretta entro gli stretti limiti del suo lungo e pensoso percorso interiore. Satelliti: due romanzi brevi non hanno niente da temere rispetto alle imprese più ampie. Daisy Miller precede il Ritratto di signora. È un romanzo di un centinaio di pagine. Ma entro i limiti dei romanzi brevi un capolavoro di James è certamente Il giro di vite (1898). Ci dà occasione di parlare di questo autore e delle sue opere la pubblicazione nella Bur di Rizzoli di Daisy Miller. Il protagonista del romanzo incontra in Svizzera una giovane ragazza americana che, pur agendo spontaneamente e in gran parte secondo i costumi americani, riesce a seminare chiacchiere e ipotesi senza costrutto
per la sua giovinezza, per il suo carattere, per la sua assoluta disponibilità al colloquio, al racconto, al dialogo. Bisognerebbe trascrivere le pagine nelle quali James descrive i suoi vestiti. Ad esempio: «Indossava un abito di mussola bianca, con centinaia di balze, gale e fiocchi di nastro chiaro». La cosa che più colpisce i benpensanti svizzeri ed europei è la piena disposizione di Daisy a dare amicizia alle persone incontrate, spesso stando con loro dalla mattina alla sera, senza rifiutare gite in barca a due alla luce della luna. Il giovane innamorato (diciamo finalmente il nome, Winterbourne) deve lasciare la Svizzera con visibile dispiacere di Daisy che pure si intratteneva in colloqui amichevoli anche con altre persone ingelosendo così il protagonista. Nella seconda parte del romanzo
siamo a Roma: in maniera un po’ vaga Daisy e Winterbourne si erano dati appuntamento. Ma Daisy ha un altro amico, un certo signor Giovannelli, dal quale non si stacca mai. Di qui le gelosie, pur immotivate, di Winterbourne. Roma e i suoi dintorni sono in quegli anni una zona malarica e bisogna fare molta attenzione a muoversi, specialmente di sera. Ma Daisy con il suo amico Giovannelli non rinuncia a passare quasi un’intera notte al Colosseo. Si ammalerà, morirà giovanissima, lasciando detto che il suo amore era Winterbourne e non Giovannelli. In molti romanzi, si sa, saltano fuori personaggi femminili di grande profilo. Daisy fa parte di questa straordinaria categoria. Niente potrà cancellarla: nemmeno gli altri grandi personaggi usciti dalla penna di Henry James.
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filosofia
Ma il pensiero non spetta alla scienza di Renato Cristin ul piano della scienza si è verificato, dice Sermonti, un processo analogo a quello della secolarizzazione sul piano socio-religioso, ma iniziato molto tempo prima. La scienza ha realizzato una progressiva «deritualizzazione» nel suo rapporto con le cose e con il mondo, perdendo così l’antico legame con la dimensione originaria della natura e dell’essere umano, che possiamo definire mistico-alchemico. In questo percorso essa sarebbe diventata un’appendice della tecnologia. Il problema è, oggi più che mai, serio: qual è l’essenza della scienza? Qual è il suo compito e quali i suoi limiti? La scienza ha smarrito la sua anima e
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personaggi
per recuperarla «dovrebbe occuparsi non tanto dell’uso pratico dei suoi strumenti e delle sue leggi», quanto piuttosto riflettere sul loro «significato». Ritengo però che lo scienziato, quando opera in quanto tale, non abbia bisogno di riflettere sul senso extrascientifico del proprio agire. Questo in linea formale e di principio. Di fatto, è utile che anch’egli richiami il pensiero alla sua funzione e contribuisca al recupero della «sacralità» delle operazioni umane. E il libro di Sermonti ha appunto il pregio di ricordare alla scienza la sua origine e agli uomini la loro provenienza. Credo però che la scienza non vada né psicologizzata né metafisicizzata. Sembra brutto dirlo, ma la scienza, in quanto tale, non necessita del-
l’anima. Deve, questo sì, partecipare dell’anima del mondo, ma guardando unicamente alle proprie leggi e al proprio sviluppo. In ciò consiste la sua grandezza e il suo limite. Al di fuori di essa, ci dovrà essere chi valuterà le implicazioni dei suoi esiti e porrà, di volta in volta, limiti alle loro applicazioni. Per quanto complesso, il problema non è inestricabile. Ci aiutano Husserl e la filosofia fenomenologica. «La scienza non pensa», dis-
Heidegger, se esprimendo in forma icastica la semplice verità della la questione: scienza non deve pensare, perché non è compito suo. Questo spetta ai filosofi, i quali a loro volta non devono avanzare alcuna pretesa sulla scienza, sulle sue procedure e sui suoi esiti, se non nella forma e nei limiti dell’epistemologia. Giuseppe Sermonti, Una scienza senz’anima, Edizioni Lindau, 153 pagine, 14,50 euro
Andy Warhol? Appassionatamente cattolico di Stefano Bianchi osa mai si nascondeva dietro quelle occhiate impenetrabili? Sotto il kitsch di quelle parrucche da avanspettacolo? Frasi smozzicate. Un estenuante rosario di oh, yes e oh, no. Ero convinto, finora, che nella sua carriera glamour Andy Warhol avesse concesso poche interviste. E per giunta umilianti, per chi lo intervistava. Come quella, disarmante, del dicembre 1962, svoltasi alla Silver Factory di New York e pubblicata dalla rivista americana Art Voices. Ma mi ero sbagliato. Lo testimonia Sarò il tuo specchio. Interviste ad
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storia
Andy Warhol, libro che ne raccoglie 36: da quella citata, ultrarapida e monosillabica, fino all’ultima pubblicata nell’87 da Flash Art, dopo la sua morte, in cui raccontò gli ultimi quadri ispirati all’Ultima cena leonardesca. Interviste memorabili, che fanno esplodere le geniali contraddizioni dello stratega della Pop Art; quell’innata capacità di spiazzare l’interlocutore tendendogli trabocchetti, paradossi, doppisensi; quel gusto un po’ sadico di chi «sa destreggiarsi tra gli ostacoli di un palazzo di specchi ove i riflessi confondono l’essere in carne e ossa», scrive il critico e storico dell’arte Alain Cueff, curatore del libro. Andy il
dandy. Che dialoga (col fido collaboratore Gerard Malanga, col poeta John Giorno, con giornalisti noti e ignoti, col suo biografo Victor Bockris…) di pittura, cinema, moda, sesso, musica, superstar. E spettegola di altri artisti. E racconta senza pudori il suo amore per New York e il suo sentirsi appassionatamente cattolico. Ma il top della spontaneità lo raggiunge a Manhattan il 25 novembre ’81: fuori dalla luce dei riflettori, nei grandi magazzini Bloomingdale’s, in compagnia di Tracy Brobston del Dallas Morning News. «Ha sentito quelle persone che sono appena passate? Dicevano, “Oh, c’è Andy Warhol – oh, chi se ne importa”. Ecco perché vengo qui a far spese». Sublime.
Sarò il tuo specchio. Interviste ad Andy Warhol, a cura di Alain Cueff, hopefulmonster editore, 344 pagine, 35,00 euro
Gli orfani di Salò, linfa vitale del Msi
di Riccardo Paradisi è stato un tempo, e parliamo degli anni Cinquanta del Novecento italiano, in cui essere rivoluzionari e «alternativi al sistema» non coincideva con l’essere di sinistra ma con la militanza nei ranghi giovanili del Movimento sociale italiano. Sono i giovani del Msi nel dopoguerra a essere infatti i protagonisti di una mobilitazione generazionale spinta dall’onda lunga delle grandi manifestazione per Trieste italiana e stimolata da un’elaborazione ideologica e culturale prodotta da riviste come Architrave, Imperium e Cantiere. Gli orfani di Salò. Il Sessantotto nero dei giovani neofa-
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scisti del dopoguerra 19451951 del giornalista del Corriere della Sera Antonio Carioti è un libro che racconta il mondo della giovane destra italiana del dopoguerra, la mentalità di coloro che, educati sotto il fascismo, si ritrovano improvvisamente, dopo l’8 settembre, «in un deserto di valori e indicazioni perché l’armistizio ha polverizzato il mito patriottico inculcato loro dalla scuola e dal regime». Dopo la sconfitta e l’esito tragico della repubblica di Salò - cui aderirono personaggi come Raimondo Vianello e Dario Fo, Hugo Pratt e Giorgio Albertazzi, Livio Zanetti e Giovanni Spadolini questa generazione aderisce al Msi
trovandovi l’unico perimetro che dichiara di voler tenere alta la bandiera in cui hanno creduto e per cui si sono sacrificati. È il loro combustibile, sostiene Carioti nel suo saggio, che consentirà al Msi, un partito dopo tutto nostalgico ed erede di una pesantissima sconfitta ideologica e
militare, di poter sopravvivere per tutto il dopoguerra, fino al suo scioglimento e la sua trasformazione in An. Perché questi ragazzi non si limitarono, dice Carioti, a lottare nelle piazze, ma studiavano, discutevano, pubblicavano riviste, trovavano, nella loro ricerca di punti di riferimento, maestri come il filosofo tradizionalista Julius Evola. Negli Orfani di Salò è raccontata senza faziosità né partigianerie la loro storia. E vale la pena conoscerla. Antonio Carioti, Gli orfani di Salò. Il Sessantotto nero dei giovani neofascisti del dopoguerra 1945-1951, Mursia, 294 pagine, 17,00 euro
altre letture Architetto, designer, arredatore, fotografo. E anche scrittore, scenografo, aviatore acrobatico, inventore, pilota automobilistico, professore universitario, maestro di sci. Tutto questo è stato Carlo Molino, uomo di sconfinato talento, professionista tutto d’un pezzo e allo stesso tempo artista stravagante dai mille interessi e dalle innumerevoli risorse. Nel libro biografia di Maurizio Ternavasio Carlo Molino (Lindau, 237 pagine, 22,00 euro) rivive per la prima volta nella sua interezza l’avventura irripetibile di questo creatore fuori dagli schemi i cui edifici, per lo più collocati a Torino, costituiscono un insieme da cui non può prescindere la storia dell’architettura italiana del Ventesimo secolo. Che cosa è l’amicizia, in che cosa si distingue da altri sentimenti come l’amore o l’affetto per le persone di famiglia, com’è cambiata nella storia, quale ruolo ha nelle diverse età della vita, dall’adolescenza attraverso l’età matura e fino alla vecchiaia, in che cosa è diversa l’amicizia tra uomini rispetto a quella tra donne, come e perché si rompe un’amicizia e viceversa da dove vengono le sue infinite possibilità di rilancio? A questi e ad altri grandi temi etici legati all’amicizia Joseph Epstein dedica il saggio Amicizia (Il Mulino, 297 pagine, 16,00 euro): una riflessione colta e ironica in cui le voci di filosofi e scrittori come Aristotele, Cicerone, Sant’Agostino, Kafka, Bellow, Hemingway si mescolano a ricordi ed esperienze personali. In Italia domina una generazione nata tra gli anni Venti e Trenta. Uomini che hanno iniziato la carriera nel dopoguerra e ancora oggi sono saldamente al potere: in politica come nelle istituzioni, ma soprattutto nelle banche, nelle imprese, nelle università, persino nel mondo dello spettacolo. Un fenomeno tutto italiano, che ha trasformato il nostro paese nell’impero della gerontocrazia, frustrando le ambizioni dei quaranta-cinquantenni, costretti a un’eterna panchina. Vecchi e potenti di Nunzia Penelope (Baldini e Castoldi editore, 366 pagine,17,50 euro) è una fotografia impietosa di questa situazione. Stagnante e pericolosa.
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storia
ALLE ORIGINI DELLA STRATEGIA URBANISTICA DEI PONTEFICI IN ETÀ MODERNA E DI UNA SINGOLARITÀ TUTTA ROMANA. LA COMMISTIONE TRA DIMORE PATRIZIE E SPAZI COMMERCIALI, OSPITATI AL PIANO TERRA DI PRESTIGIOSE RESIDENZE. UN’USANZA TEORIZZATA DA LEON BATTISTA ALBERTI E REALIZZATA IN FUNZIONE DEI PELLEGRINI…
La propaganda nella città dei Papi di Claudia Conforti Parigi, a Vienna, a Madrid, ma anche a Firenze o a Milano, in definitiva nelle capitali grandi e piccole dell’Europa di antico regime, il palazzo signorile si erge in relativa solitudine, programmaticamente e aristocraticamente appartato dalle attività rumorose e odorose delle botteghe e degli artigiani. Non è così a Roma, dove importanti palazzi signorili, o meglio cardinalizi, rinascimentali e barocchi intercettano il brulichio operoso della città e allogano normalmente botteghe al piano terreno. È una consuetudine anomala e precipua di Roma, che trova in un edificio di Bramante, oggi demolito, il suo prototipo rinascimentale. Ci si riferisce al celebre palazzo costruito in Borgo dall’architetto urbinate Donato Bramante intorno al 1510, per il protonotario apostolico Adriano de Caprinis dove a un piano nobile cadenzato da coppie di colonne e da finestre a tutta altezza con balaustre, coronate classicamente da timpani, si associano ben quattro botteghe, ritagliate nel possente basamento bugnato. L’immagine dell’edificio è attestata da una bella incisione cinquecentesca e da un famoso disegno, attribuito a Palladio e conservato a Londra al Royal British Institut of Architecture. L’aristocratica eleganza del palazzetto di Bramante convinse Raffaello ad acqui-
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della borghesia mercantile, prosperata nella città tardomedievale e carica di orgoglio cittadino. Alberti, d’altra parte, è orgoglioso figlio di questo ceto operoso e squisitamente urbano, pragmatico e fiero del suo fare: lo attestano numerosi passaggi del suo trattato d’architettura e soprattutto il dialogo filosofico I Libri della Famiglia, redatto in volgare negli anni trenta del Quattrocento. La sintonia con le consuetudini e con le esigenze del ceto mercantile si disegna in nitida filigrana nel Libro Quinto del De Re Aedificatoria, in un passaggio che affronta proprio il tema che qui ci interessa, cioè il rapporto tra palazzo e bottega nell’età moderna. Dedicato agli edifici privati, il Libro Quinto descrive i caratteri distintivi delle residenze di città e di campagna dei cittadini più facoltosi. Il ricco cittadino aspirante a un’abitazione che ne rappresenti pubblicamente lo stato di agiatezza e il conseguente rango sociale, al quale si rivolge Alberti, è chiaramente identificabile con il mercante, cioè con l’esponente di quella borghesia mercantile che, soprattutto a Firenze, ma anche a Venezia, a Prato, a Genova, a Milano o a Cremona, nel volgere di due secoli ha quasi interamente soppiantato la nobiltà feudale nel dominio delle città. Al tempo in cui Alberti scrive, non solo il
I forestieri devoti richiamati a fiumi dai Giubilei sono i principali fruitori dei servizi fondamentali che si offrono lungo le “viae peregrinorum” legati al cibo, al cambio valutario, agli abiti, alla cura del corpo e dello spirito starlo nel 1517 per installarvi la propria abitazione e da allora il palazzo è celebre come casa di Raffaello. Ma quali sono le ragioni di una tale anomalia distributiva, che sembra contravvenire a una fondamentale regola della divisione gerarchia della società, di cui l’architettura e la città sono solitamente interpreti fedeli e rispettose? Qui di seguito cercheremo di rintracciarne le origini e lo sviluppo. Quando Leon Battista Alberti scrive il primo trattato di architettura dell’età moderna, redatto in lingua latina e classicamente intitolato De Re Aedificatoria, guarda alla realtà sociale del suo tempo con una prospettiva obliqua, ovvero attraverso il filtro di quella che Paolo Portoghesi ha definito «una cultura in bilico tra l’esperienza cittadina e il mito cortigiano». Da un lato dunque il grande umanista è affascinato dal mito cortigiano, universalistico e nutrito dell’ideale classico della renovatio imperii: un mito che nell’Italia del Quattrocento contende con la moderna spregiudicatezza
dominio politico, ma anche il controllo fisico, ovvero fondiario e immobiliare delle città, è ormai passato nelle mani del ceto mercantile, che trova resistenze solo nelle pervasive proprietà ecclesiastiche.
La strabiliante ascesa economica e sociale di un Francesco Datini, figlio di un oste di Prato, reso orfano dalla peste del 1348, che ha saputo costruire un impero commerciale esteso dalla Toscana a Genova ad Avignone fino alle Baleari, doveva essere ben noto all’Alberti, non meno delle fortune sovranazionali che avevano arriso a tanti mercanti banchieri fiorentini del calibro di Giovanni di Bicci e Cosimo de’ Medici, di Luca Pitti o di Giovanni Rucellai. Le loro abitazioni cittadine, dalle dimensioni imponenti e dalle stereometrie nitide e regolate, non solo si sottraggono alle norme degli statuti medievali, ma stravolgono il tessuto minuto e irregolare della città antica, proclamando orgogliosamente,
nell’imperiosità del blocco edilizio, la trionfante individualità del committente. Che è ancora, all’epoca di Alberti, in primo luogo, civis e mercator: alle sue abitudini e ai suoi interessi si mostra ancora sensibile Alberti quando, nel Libro Quinto, prevede di allogare botteghe al piano terreno del palazzo signorile. Un’inclusione questa che l’autore non ritiene comprometta la dignità sociale del palazzo (e della famiglia che lo abita), in quanto perfettamente coerente con l’intraprendenza economica e con la consapevolezza della fatica di «serbar e’ denari, fatica sopra tutte l’altre piena di sospetti, piena di pericoli, pienissima di infortunii», come scrive lo stesso Alberti nei Libri della Famiglia. L’inclusione di botteghe nel palazzo signorile per Alberti è vincolata al contesto in cui sorge l’edificio: risulta opportuna (ovvero redditizia), se localizzata nell’angolo del palazzo, in modo da godere dell’affaccio su due strade (come la loggia angolare di palazzo Medici a Firenze, chiusa nel 1517 dalle finestre inginocchiate di Michelangelo), se prospetta su un incrocio, su una piazza, o su una strada militare: in definitiva è l’accortezza commerciale a suggerire le localizzazioni favorite dal transito intenso di persone, che sono tutte potenziali acquirenti.Tuttavia l’ibridazione tipologica tra residenza signorile e commercio, suggerita ad Alberti dalla tradizione mercantile di cui è figlio, non è destinata ad avere significativo seguito nell’edilizia fiorentina, e neppure in quella di gran parte delle città italiane. A Firenze infatti non solo sono rari i palazzi dell’aristocrazia mercantile con botteghe al piano terra, ma quei pochi ne verranno privati dalla politica urbanistica del duca Cosimo I de’ Medici (15371574), indirizzata rigorosamente a parcellizzare l’organismo urbano per sezioni funzionali distinte, dunque separando rigidamente i luoghi della residenza aristocratica da quelli del commercio. Pur con procedure diverse, anche in altre città italiane prevale la tendenza a scorporare le botteghe dai palazzi: valga, uno per tutti, l’esempio di Cremona, città mercantile per eccellenza, che non sarà mai sede di corte. Ebbene a Cremona, il Consiglio Generale, costituito da mercanti, emana deliberazioni fiscali mirate a scoraggiare la costruzione di pa-
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In alto, da sinistra: un disegno di Palazzo de Caprinis, opera di Bramante oggi demolita; lo stesso palazzo in un’incisione; Palazzo Alberini. In basso, da sinistra: uno scorcio di Palazzo Pichi e di Palazzo della Cancelleria; Piazza Colonna con la fontana. A sinistra, la statua di Leon Battista Alberti, teorico dell’inclusione delle botteghe nel palazzo signorile
lazzi signorili nelle aree centrali a spiccata vocazione commerciale, impedendo di fatto, seppure indirettamente, la fusione di botteghe con palazzi nobili, i quali sono preferibilmente dislocati nelle aree perimetrali della città, poco frequentate e pertanto inidonee ai commerci. L’orientamento normativo, volto a separare i luoghi della residenza da quelli del commercio minuto e dall’artigianato, tiene conto evidentemente di quanto sia antieconomico bloccare appezzamenti in zone commerciali, assai ambite e dunque costose, sottraendoli alle lucrose attività di scambio per edificarvi un palazzo privato che non dà rendite e che, a differenza di un palazzo pubblico, non attira flussi significativi di persone, finendo così con il danneggiare anche i commerci all’intorno, che si alimentano dell’intenso passaggio di possibili clienti. Si rammenti inoltre che un palazzo signorile rinascimentale non si contenta di un piccolo lotto di terreno, ma esige larghe disponibilità di spazio per cortili, giardini, stalle, rimesse, slargo antistante l’ingresso per la manovra dei cocchi e delle carrozze. Se a ciò si aggiunge che nelle città di antico regime, nelle aree esterne ai luoghi di mercato sono disponibili, a prezzi contenuti, vasti appezzamenti liberi e quasi inedificati, si comprende il motivo per cui nelle zone commerciali delle città antiche gli edifici monumentali siano quasi esclusivamente a carattere pubblico, civile o religioso, contornati da casupole e da tuguri sovraffollati e rumorosi, fittamente ritagliati da botteghe e da laboratori artigiani. È chiaro pertanto che l’innesto di un palazzo signorile in un tessuto densamente commerciale finisce con il provocare una cesura, un intervallo delle attività commerciali, che può intaccare la prospera funzionalità mercantile di tutta l’area. A meno che il proprietario del palazzo non rinunci all’uso privato del piano terreno, in genere riservato ai servizi della casa (cucine, dispense, eventuali stufette - cioè piccole terme -, rimesse e stalle) e all’appartamento estivo, e lo destini interamente al commercio.Tale scelta ha caratterizzato, per esempio, l’incompiuto palazzo del mercante romano Gerolamo Pichi, esteso all’intero isolato tra via del Paradiso, vicolo dei Bovari, via dei Baullari e la via Papalis, dunque nel cuore pulsante del commercio cittadino, il cui piano terreno, secondo il progetto del 1510, era interamente traforato da circa trenta botteghe. Non è questo un caso isolato nella città dei papi, dove anche il più magniloquente palazzo cardinalizio edificato nel Quattrocento, quello voluto dal potente cardinale camerlengo Raffaele Riario (oggi palazzo della Cancelleria), non rinuncia alla sequenza di botteghe aperte sul fronte di via del Pellegrino, di proprietà del capitolo di San Damaso, l’antica parrocchia inglobata nella nuova mole residenziale. Non è certo un caso che entrambi questi sintomatici esempi siano localizzati a Roma, una città il cui sviluppo edilizio, strategicamente prefigurato dai pontefici di età moderna, si differenzia, sotto questo profilo, dalle altre
L’ibridazione tipologica tra palazzo signorile e bottega è stata in grado di saldare a Roma, con inconfondibile eleganza, la persuasione ideologica del primato spirituale e temporale della Chiesa con la comodità quotidiana capitali italiane ed europee nel fare propria la prescrizione albertiana che contempla la commistione funzionale del palazzo con la bottega. Nella città dei papi il palazzo nobile con il piano terra traforato dalle botteghe è talmente frequente da risultare «usanza solita», come annota l’anonimo estensore fiorentino di una relazione sulla città redatta negli anni del pontificato di ClementeVIII Aldobrandini (15921605). In realtà a Roma le ferree leggi economiche, che altrove governano il mercato dei suoli, sembrano non avere corso. Di questa singolarità si mostra già consapevole, in pieno Seicento, il nobiluomo Paul Fréart de Chanteloup quando replica a Bernini, che contrappone l’angustia del tessuto parigino alla grandiosità di Roma e dei suoi palazzi, «che quei palazzi, in verità, erano grandiosi perché si inserivano in spazi ampi e ciò non si verificava a Parigi... perché i terreni erano costosi…». Nella Roma di età moderna in effetti il mercato dei suoli è totalmente subordinato alle finalità religiose e alla celebrazione della magnificenza temporale: due obbiettivi inseparabilmente perseguiti dai papi rinascimentali e barocchi, che operano in funzione di una grandiosità urbana che uguagli ed eclissi quella pagana imperiale, ancora maestosamente attestata dalle rovine. Una tale scelta, noncurante dei meccanismi economici elementari che regolano la rendita dei suoli, è resa possibile, oltre che da un potere temporale accentrato e assolutista, anche dalle circostanze storiche che fanno sì che il suolo di Roma sia di proprietà, quasi senza eccezione, di conventi e altri organismi religiosi: dunque totalmente soggetti ai voleri e ai disegni dei sovrani pontefici.
A Roma l’architettura civile, non meno di quella religiosa, è chiamata a signoreggiare lo spazio fisico della città: sono gli edifici monumentali, i palazzi in primo luogo, a reclamare la preminenza prospettica delle strade e delle piazze, di cui ordiscono e ragolano la bellezza. Ma questa magnificenza, che fissa il volto dell’imperio di Roma e della sua Chiesa, deve essere esclamativa e ostentata; deve riempire di meraviglia gli occhi e l’anima dei pellegrini che solcano la città, attirati dalle reliquie più sacre e miracolose conservate nelle sue basiliche. In San Pietro in primis, dove si custodiscono la Veronica, il sacro telo che reca impresso il volto di Cristo, la croce del martirio del figlio di Dio; la lancia
che ne ferì il santo Costato; il capo di Sant’Andrea; le tombe di Pietro e Paolo, i fondatori della Chiesa cattolica apostolica romana. A questo scopo le vie che conducono a San Pietro, la più santa delle basiliche, nel corso del Cinquecento vengono allargate e regolarizzate e i loro fronti sono rifigurati da splendidi palazzi all’antica che, edificati soprattutto da cardinali e alti prelati, ospitano al piano terreno botteghe che, talvolta, si alternano a rimesse. I pellegrini, richiamati a fiumi dai Giubilei, sono gli autentici destinatari della spettacolare magnificenza dell’architettura romana: essi devono essere sedotti e persuasi dall’eloquenza dell’architettura, e diventare a loro volta veicoli di persuasione e di propaganda del primato spirituale e temporale della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, materializzata dalla città, riconfigurata dai pontefici. La fama di Roma e dei suoi monumenti sarà diffusa dai pellegrini fino alle più remote contrade del mondo e ne feconderà l’immaginario architettonico e urbanistico per generazioni. Ma gli stessi pellegrini sono anche i principali fruitori dei commerci che si sgranano lungo le viae peregrinorum e che garantiscono ai devoti forestieri i servizi fondamentali legati al cibo, all’alloggio, al cambio valutario, alla cura del corpo, agli abiti e agli accessori, ma anche all’edificazione della mente e dello spirito. Le numerosissime botteghe di menanti, di librai, di stampatori e di venditori di libri e di stampe censite nella zona tra piazza Navona e Campo de’Fiori, attestano il successo di questo commercio, strategicamente collocato nella sezione urbana dove convergono le masse dei pellegrini diretti a San Pietro e provenienti sia da Nord (da porta del Popolo) che da Sud (da porta San Giovanni e porta Latina). Superfluo sottolineare che nell’era di Gutenberg le immagini a stampa, dirottate nelle strade del mondo nelle bisacce dei pellegrini, diventano efficaci strumenti di persuasione e di propaganda del culto cattolico e della leggendaria bellezza di Roma Theatrum Mundi. È dunque soprattutto in funzione dei pellegrini, soggetti e veicoli della martellante propaganda cattolica, la strategia urbanistica dei papi di età moderna che promuove l’ibridazione tipologica tra palazzo signorile e bottega, facendone una singolarità tutta romana, capace di saldare, in una cifra edilizia di inconfondibile eleganza, la persuasione ideologica con la comodità quotidiana del pellegrino.
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tv
Incredibile! Veronica Maya a lezione di stile da Mike Bongiorno
web
video
di Pier Mario Fasanotti i esperimenta in corpore vivo. Peccato che il «corpo», visto che siamo in piena estate, viene portato lungo i viali a mare, nelle piazze delle città dove ci siano gelati e ragazze da sbirciare. Insomma quel che tenta la Rai ha riscontri modesti e la «democrazia» del consenso è più apparenza che altro. Mi riferisco a Incredibile!, programma su Rai-1 (21,30: ora del gelato, appunto) condotto da Veronica Maya, al suo debutto in prima serata. È uno di quegli spettacoli che la Rai «testa» in giorni canicolari: se va bene può darsi che, quando le foglie cadono, sia ripresentato. Di originalità ce n’è ben poca dato che il punto di riferimento è sempre il quiz, perno oliatissimo del meccanismo televisivo. La stangona Maya, disinvolta come un dj e come un dj cinguettante e attenta ai toni della pausa e dell’entusiasmo vocale, impone il suo bel corpo e il suo sorriso, volendo sempre dare la sensazione che lei nella televisione ci è nata e vissuta, altro che principiante. Tra un muover di braccia in stile libellula e uno scivolare nel rassicurante romanesco, l’ambiziosissima Maya (troppo pesante per essere confusa con la celeberrima ape) presenta gli italiani divorati da varie manie. Poteva forse mancare Dante Alighieri? Certo che no. Ed ecco sfidarsi a colpi di memoria una professoressa di
S
games
lettere che si fa chiamare «principessa Sissi» e un giovanotto toscano, Farfarello come uno dei diavoli dell’Inferno, che per le vie di Firenze e San Gimignano recita il sommo. Vince la prof e il pubblico decreta un alto gradimento per le terzine. Effetto Benigni? Sicuramente. Il vincitore va poi nella «galleria degli Incredibili», in attesa di altri «maniaci»: l’Italia ne è piena. Invece di recitare «Io fui la radice de la mala pianta», magari si colleziona scarpe. Colpo di scena quando entra Maurizio: sa a memoria tutte le battute dei film di Alberto Sordi (sono ben 155). Sullo schermo la scena muta di alcune pellicole e lui doppia alla perfezione non solo l’Albertone nazionale, ma pure le comparse. Stravince e se lo merita. Come ospite d’onore non poteva mancare il re dei quiz, Mike Buongiorno, che abilmente si riprende la scena e fa se stesso. Indirettamente dà lezioni di stile televisivo. Riesce addirittura, senza batter ciglio, a ridimensionare il concorrente milanesissimo che sa tutto sul ciclismo, un po’ «bauscia» nello strafare con la memoria. Maya, al sentir parlare di Moser e di Saronni (campioni delle due ruote) inciampa sul lessico: «Un bel dualismo!». Confonde la filosofia con le pedalate. Ma è contenta quando Mike annuncia che forse rifarà Rischiatutto. Di più: si candida come valletta. Sgomitate in diretta.
dvd
FIREFOX ENTRA NEL GUINESS DEI PRIMATI
PRIME INDISCREZIONI SU DRAGON AGE
IL MECENATE E IL FILOSOFO
N
el favoloso mondo dei Guinness dei primati c’è voluto entrare anche il noto browser (che fa concorrenza al più famoso Internet Explorer) Firefox 3. Come? Lanciando tramite Internet il Download Day 2008, invitando cioè tutti gli utenti affezionati della rete a scaricare il maggior numero di download del programma in sole 24 ore. Detto fatto. Esattamente un mese fa,
C
i siamo: dopo una luga attesa, Bioware ha finalmente annunciato i primi dettagli ufficiali relativi al videogioco per pc Dragon Age: Origins, di cui verranno mostrate nuove immagini all’imminente E3 di Los Angeles. Tante le nuove sezioni introdotte nel gioco. ”Combattimento di squadra”: Dragon Age: Origins introdurrà un innovativo sistema di combattimenti, con i giocatori impegnati
rentacinque volumi - per un totale di 35 mila pagine, 800 tavole a colori e 60 mila illustrazioni - pubblicati tra il 1929 e il 1937 e redatti da oltre tremila studiosi italiani e stranieri. Finanziata con l’allora faraonica cifra di 54 milioni di lire, l’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti fortemente voluta dal suo mecenate Giovanni Treccani e dall’ideatore Giovanni Gentile resta a oggi un’opera
In 24 ore, 8.002.530 persone hanno scaricato il browser rispondendo al Download Day
Trapelano le novità dell’atteso sequel ”Origins”: saranno i giocatori a decidere la trama delle storie
Un documento sul rapporto tra Gentile e Giovanni Treccani che finanziò la monumentale Enciclopedia
lo scorso 18 giugno, oltre 8.002.530 di persone hanno infatti scaricato il browser sui propri pc. Il record è stato dunque raggiunto e, come hanno dichiarato soddisfatti gli organizzatori dell’evento web, «Firefox ha stabilito un Guinness dei Primati grazie anche al supporto della meravigliosa comunità di Mozilla. Sin dal rilascio di Firefox, avvenuto nel 2004, ci siamo affidati alla nostra comunità affinché contribuisse alla sua diffusione e grazie a progetti come il Download Day, annunci pubblicitari, adesivi giganti, video, blog e altro, attualmente contiamo più di 160 milioni di utenti sparsi in 230 Paesi del mondo».
in battaglie su larga scala per distruggere orde di nemici e creature gigantesche. ”Potenti magie”: si potranno combinare diversi incantesimi creando vere e proprie magie dagli effetti sempre diversi. ”Customizzazione”: i giocatori svilupperanno i loro personaggi guadagnando potenti abilità e nuove armi. ”La tua storia, la tua strada”: i giocatori potranno scegliere con chi allearsi e contro chi combattere ridefinendo il mondo della storia. ”Origin Stories”: gli utenti sono responsabili del punto di inizio del gioco, che a sua volta diviene fondamentale nella costruzione di una storia del tutto personalizzata.
monumentale e insuperata. Dietro la sua nascita c’è la storia di due italiani che non posero limiti all’ambizione, che riassumono nelle loro le vicende italiche degli anni Trenta. Un incontro, quello fra l’imprenditore tessile vicentino e il filosofo toscano, che il regista Andrea Prandstaller ha voluto raccontare con vivacità e buon ritmo narrativo nel suo Treccani e Gentile - Il Mecenate e Il Filosofo. Costruita su immagini di repertorio e riprese attuali, e punteggiata da alcuni brani tratti dal diario personale di Giovanni Treccani, l’opera contempla anche materiali tratti dall’enciclopedia e dall’archivio personale di Giovanni Gentile. Da vedere.
T
cinema
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19 luglio 2008 • pagina 11
Nei regni del fantasy di Francesco Ruggeri estate cinematografica di quest’anno sta mantenendo in pieno le promesse. Rispetto agli anni scorsi le uscite si sono dimezzate, è vero, ma è tutto fuorché un male. Gli scarti di magazzino sono in netto calo e in attesa del Cavaliere oscuro, ecco due gioiellini che faranno la gioia degli amanti del «fantastico». Si parte dal sorprendente Le morti di Ian Stone che porta inciso un nome di cui essere fieri: quello di Dario Piana. Si tratta di un artista made in Italy che negli Stati Uniti spopola da più di quindici anni. Nasce come straordinario illustratore per poi passare al servizio di alcuni colossi della pubblicità per cui elabora e progetta spot pubblicitari che hanno fatto il giro del mondo. Il suo è un vero talento visionario in grado di imprimere il suo marchio di fabbrica su qualsiasi cosa. Impossibile passare inosservato, tanto che Stan Winston (pioniere degli effetti speciali, scomparso purtroppo di recente) non ha avuto dubbi di sorta e ha puntato su di lui, producendogli la sua seconda regia (la prima fu l’ormai lontano Sotto il vestito niente 2) e lasciandogli carta bianca. Ha fatto bene. Perché Le morti di Ian Stone, lontano mille miglia dal deja-vu emanato dal teen-horror di questi anni, allergico a strizzatine d’occhio cinefile e a scivolate nella farsa, fa sul serio. E in un’ora e mezzo non concede tregue di nessun tipo. Potremmo definirlo come una sorta di horror psicologico, ma anche come una riflessione potente sul tempo e sulle dimensioni parallele che scorrono accanto alle nostre vite abituali. Ne fa le spese lo Ian Stone del titolo, ragazzo di bell’aspetto che dopo aver terminato una partita di hockey
L’
come tante altre, si accorge che qualcosa non va come dovrebbe. Sarà la stanchezza? Boh, forse. Ma non è così. Prende la macchina, accompagna la fidanzatina a casa, bacio della buona notte e arrivederci al giorno dopo. Che però non arriva. Nella
Arriviamo a Hellboy The Golden Army, uscito in (quasi) contemporanea con gli Stati Uniti. Le preview americane organizzate le settimane scorse hanno registrato un bell’indice di gradimento fra il pubblico, ma il film (sequel dell’Hellboy targato
Nella programmazione estiva di quest’anno gli scarti di magazzino sono in netto calo. Lo dimostra l’uscita di due film che faranno la gioia degli amanti del fantastico: “Le morti di Ian Stone” di Dario Piana e “Hellboy - The Golden Army” di Guillermo Del Toro sequenza subito successiva lo ritroviamo collocato in una vita completamente differente. Il lavoro? Del tutto nuovo. La fidanzata? Diversa. Lui inizialmente è normale, poi comincia a ricordare qualcosa. E capisce che i pezzi della sua vita non combaciano più come dovrebbero. Insomma, un bell’alambicco, complicato dal fatto che le tante vite del povero Ian finiscono sempre con la sua morte violenta. Impossibile definire i responsabili. Si muovono nell’ombra, hanno parvenze umane, ma quando escono al naturale è meglio girare lo sguardo. Li chiamano mietitori… Svelare ulteriori dettagli sarebbe un delitto anche perché nelle Morti di Ian Stone si contano almeno una decina di ripartenze brucianti capaci di spiazzare chiunque. Se poi aggiungiamo che le creature mostruose di cui pullula il film sono fra le più impressionanti viste di recente sul grande schermo, il quadro è chiaro.Tensione, orrore e disorientamento: Dario Piana ci consegna un biglietto da visita da conservare con cura.
2004) ha fatto impazzire anche la critica. E riuscirci con un film tratto da un fumetto non è cosa da poco. Ma ormai a Guillermo Del Toro (il regista) riesce praticamente qualsiasi cosa. Dopo il successo mondiale di La spina del diavolo e soprattutto del Labirinto del fauno, il regista messicano è il nuovo re del fantasy. Per capire le proporzioni della sua veloce affermazione, basti pensare che Peter Jackson ha scelto lui come regista dell’attesissimo L’Hobbit. Insomma, una vera consacrazione. Hellboy II: The Golden Army suona dunque come una prova di forza: Del Toro avrebbe dovuto accontentare i fan del primo capitolo e dimostrare a tutti gli altri che la fiducia riposta in lui è più che mai meritata. Il risultato è del tutto convincente perché Guillermo in territori liberi e selvaggi come quelli di Hellboy dà il meglio di sé. Eravamo rimasti a un Hellboy (gli amici lo chiamano Red per via dell’inconfondibile colore della sua pelle) in servizio al
Dipartimento per la Ricerca sul Paranormale. Lui è un ex demone nerboruto, ma ormai non ci pensa quasi più nessuno visto che la sua militanza nelle file del Bene parla forte e chiaro. Problema: il suo rapporto con gli umani. Lui si sente (quasi) uno di noi, ma il capo Manning non la pensa esattamente così e fa del tutto per mettergli in testa una regola semplice: quella di non confondersi col resto del mondo. Red ne soffre parecchio, ma tira avanti fra gli alti e bassi con la fidanzata Liz. Non può godersi nemmeno un periodo di riposo che viene subito richiamato in servizio. Il mondo ha di nuovo bisogno di lui. Il cattivo (a dire poco) della situazione - un certo principe Nuada - ha infatti evocato numerosi macchinari robot che intende rivoltare contro il mondo intero. Pane per i denti di uno come Red che tra una discussione e l’altra con la sua dolce metà ha una gran voglia di darsi da fare come un tempo e di scagliare il suo formidabile pugno di pietra contro chiunque attenti alla vita degli umani. Del Toro non sbaglia praticamente nulla. Rilegge a modo suo il fumetto originario di Mike Vignola e ci scaraventa in un universo oscuro pieno zeppo di personaggi poco raccomandabili, mostri da far tremare i polsi ed effetti speciali rutilanti, ma non troppo. Il menu è piuttosto ricco: le spruzzatine d’horror ci stanno tutte, per il resto si salta come niente dal fantasy più magnetico (guardare la sequenza con i Trolls per credere) a inattesi tocchi da commedia sofisticata. Fra un anno (più o meno) sarà la volta dell’Hobbit. Guillermo è decisamente pronto.
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poesia
L’epica dell’esistenza in Paolo Febbraro di Filippo La Porta opo aver affrontato Dante, e poi Saba, e poi alcune voci fondamentali della poesia del Novecento (Machado, Benn), stavolta vorrei soffermarmi su un giovane poeta contemporaneo, nato a Roma nel 1965, che proprio di quella tradizione sembra conservare una memoria precisa, benché inquieta, non pacificata: Paolo Febbraro. La poesia è tratta da una recente raccolta composta di due parti, «Il bene materiale» (1997-2007) e «Il secondo fine» (19921997), con le cinque sezioni che si ripetono: «La voce fraintesa», «Aesthetica», «In uscita», «L’ospite», «Da fuori». Nella «Nota personale» alla fine del libro, l’autore sottolinea il passaggio a una fase più matura, caratterizzata da un acquisto di concretezza, da una disposizione ad aspettare l’esperienza (senza la smania di trasformarla subito in «organismi esemplari»). E con la concretezza torna secondo me la bellezza: purissima, autentica, a tratti dissonante, non più sostituita dallo «stile», inteso come ornamento e scintillio, o come «piallatura retorica». Si potrebbe dire che la poesia di Febbraio è «umanistica», nel senso di un umanesimo paradossale, anacronistico, scettico («Buongiorno, mi dia tre etti del cadavere/di un manzo…»). Crede nell’amore coniugale, nell’amicizia, nella pietas, nell’adolescenza… Sa che l’essere umano è precario, «indurevole», esposto allo «strazio del tempo», eppure non cede al nichilismo («Parliamo anche del nulla/ma parliamone male»). Né interrompe il dialogo con la tradizione, benché questa vada reinterpretata. Le domande da cui nasce la grande letteratura moderna le ritroviamo tutte, spesso formulate in modo diretto, quasi impudico, senza l’ironia postmoderna: e sono domande di senso, di verità, di bene…
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TEMPO REALE Mia moglie è dal suo parrucchiere seduta allo specchio, sotto mani guantate in latice che intrecciano e sciologono la scena della corta capigliatura… Come labili punte di lancia i capelli inumiditi le segnano una tempia e si alzano in cresta prima che il pettine li rimetta all’ordine e all’età. Lei increspa la fronte, accentra le pupille cerchiate di neon, si scruta: «Oh se la fine pensa, e non è più distratta fosse il mutamento di un’ora, lo spezzare calcolato di un capello e non questo svanire presunto inosservabile, questa lavatura delicata e infame. Fosse uno squillo solenne, una catastrofe precisa cu ci si rechi come a scadere». Poi s’alza, in piega asciutta, paga silenziosa, esce in strada ed il cammino la riporta rapida. Sento la chiave nella porta, il passo chiaro, appena disperso, che stringe ormai la penna all’ultimo verso PAOLO FEBBRARO (da Il bene materiale, Scheiwiller 2008)
Aggiungo che la sua è una poesia «epica», anche se apparentemente intimistica e molto soggettiva. «Epica» nel senso di una epica dell’esistenza, che Giacomo Debenedetti vedeva sostituirsi, nel Novecento, all’epica della realtà. Alla realtà, o al suo mito, Febbraro è infatti dispensato dal crederci, al contrario di un romanziere. E anzi ci crede così poco che quando si mette a descrivere - puntigliosamente - la via Laurentina, con i suoi marciapiedi e le siepi antitraffico, sembra che voglia convincersi della sua effettiva consistenza e materialità non allucinatoria… Nei versi del Bene materiale senti il trascorrere delle stagioni e delle ore, il cambiare della luce. Un trascorrere delle stagioni che è insieme quieto e apprensivo. Se dovessi definire la sensibilità di Febbraro userei un ossimoro: serenamente ansiosa, sospesa sui due elementi tematici che sembrano presiedere al suo canzoniere, il vento (che ruzza alle nostre spalle) e il treno (il conducente non è mai del tutto sicuro che il treno in direzione contraria cambierà binario…). Personalmente - come sa il lettore di Mobydick - ho una predilezione per la poesia-ritratto, capace di fissare in
pochi versi un carattere, un destino, una figura di esistenza. Ne cito solo una, tratta dal «Secondo fine»: «Ha ottant’anni/ ognuno non più lungo/ d’un anno soltanto/ è carico d’infanzie/ ricominciate e sempre/ sospese, tenute al passo/ per tentare un giorno/ il non ancora./ La vita senza ormai/ e senza allora». Un altro aspetto di questa poesia che testimonia il suo piglio severo-umanistico, pur nella leggerezza del canto, è il costante assumersi una responsabilità, l’obbligo di saper individuare il momento in cui ci salveremo o ci perderemo: in una delle poesie più belle - Zibaldone - «(…)/ E quei giorni di luglio come massi levigati/ sulle sere, quando ormai ottobre stringe e stringe/ e riapre solo di metà, e aprile intanto/ chiacchiera i suoi cavilli autunnali/ nell’inverno che regge ancora, senza neppure/ la crudeltà di marzo, che pure illude/ di mandorli e rispunta di pomeriggi: è allora/(…)». Ecco, questo «è allora» indica appunto un’«occasione», nel senso dell’onere di una scelta non revocabile.
Accennavo al legame con la tradizione. Leggendo questi versi si percepiscono innumerevoli echi e ascendenze poetiche. Prima fra tutte quella dell’amato Saba (assai meno di Palazzeschi, un autore cui pure Febbraro ha dedicato un bel saggio) o anche, un po’ più in là, certe intonazioni e pronunce pascoliane (specie nell’uso del novenario). Ma per limitarci ad autori recenti in primo luogo Caproni e Sereni, esplicitamente citati, che configurano una tradizione antinovecentista (in direzione o diaristico-esistenziale o di cantabilità facile). Del primo almeno gli endecasillabi «Questo vecchio vento stagionale/ vento di sbieco, fiato ospedaliero,/ vento che cerca, mentre il vero assale,/ srotola foglie in aria, snuda il sole,/ combatte, non comprende solo vuole»; del secondo «Si dice gli oggetti lascino/ vapori o scie al passaggio, impronte che nel tempo/segnano i luoghi(…)» o anche «Di notte, la chiave nella toppa/ rientrando a passi fiochi, con i libri /(…)». Ma concentriamoci sulla poesia che ho scelto, dove si riconosce l’«epica dell’esistenza». Un evento ordinario, banale, come andare dal parrucchiere, si trasforma in qualcosa di «epicamente» drammatico, in una avventura ontologica. Il pettine che «rimette» i capelli all’età, che inesorabilmente riordina i segni del tempo. Lei con «le pupille cerchiate di neon», abitante smarrita di una civiltà artificiale, accecante, si guarda allo specchio meditando sulla morte, concludendo che essa non consisterà in una «catastrofe precisa» ma in uno «svanire presunto», quotidiano, quasi impercettibile. E infine, con la piega asciutta la vediamo uscire in strada e, come in un lungo piano-sequenza alla Hitchcock, arrivare a casa, dove lui sta scrivendo proprio quei versi e la sente entrare. La vita entra dentro la poesia, non metaforicamente, e con la sua «concretezza» la costringe a fermarsi.
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19 luglio 2008 • pagina 13
il club di calliope NEL PAESE Al tramonto, nel paese, si respira il tempo del ritorno, del chiarimento, della vita che conversa
UN POPOLO DI POETI Piccola ragazza, quando mi hai trovato Mi hai spaventato così tanto
con se stessa, nella quiete di strade infiorate, pazienti, ora poco percorse, sensibili al vento leggero. È come un navigare nel mare immaginario che prelude al tuo corpo, in un abbandono da cui mi distacco che sa d’innocenza.
Mi hai scaldato la mia anima così teneramente Che ti ho dato il nome del mio primo amore Angelo della neve, nel libro degli angeli La tua pagina è di fronte alla mia Fuoco bianco dentro il mio cuore Mi sono spesso domandato Se la neve può sposare l’acqua E essere uno Insieme, per sempre Raguel Alberto La Femina
Diméntico, a quest’ora, del patema. Giovanni Piccioni
ERIKA REGINATO ALLA RICERCA DEGLI AFFETTI SMARRITI in libreria
di Loretto Rafanelli
ifficile dire cosa possa essere Campocroce per Erika Reginato (italo venezuelana, traduttrice in spagnolo, sua l’antologia di poeti italiani, Caminos del agua, Monte Avila Editores, 2008), forse uno spazio fisico, oppure un crocevia di sentimenti, o un luogo dell’anima, ma forse ancor più «una montagna di vento e di acqua piena di anime che aiutano a salire». Ma salire dove? Credo che il libro Campo-
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possono solo ricordare nei loro movimenti semplici e quotidiani. La morte è appunto un termine ricorrente nel libro, tanto che Milo De Angelis nella prefazione parla di Campocroce come di «un luogo e un simbolo: è il perimetro di un cimitero». Persone e luoghi lontani ma fissi nella mente della poetessa, una rassegna emozionale di cui si sente depositaria, nella convinzione che rinominare questo mondo è un po’
“Campocroce”, luogo e simbolo di una rassegna emozionale di un mondo da far sopravvivere e da riscattare. Un viaggio nei destini di molte persone croce (in versione italiana e spagnola, Editoriale Sometti, 110 pagine, 10 euro) sia la poesia degli esodi e dei ritorni, il racconto di una pena storica, quella di molti italiani che se ne sono andati dalle loro terre per avere un pane quotidiano in qualche parte del mondo; ma ancor più di una perdita. Da qui l’ansia del ritorno e del salire della Reginato, il desiderio di riappropriarsi degli affetti smarriti, quello del padre innanzitutto e dei vari parenti morti nel corso degli anni nel montano veneto e che ora si
come farlo sopravvivere e in qualche misura riscattarlo. Campocroce non è quindi un libro dei ricordi, piuttosto un intenso e vibrante viaggio nei sentimenti e nei destini di molteplici volti. E ci pare che la Reginato accompagni a ogni parola vera sofferenza, dolore vissuto e una vita segnata da una visione limpida ma ferita. Ma si capisce anche che in questa cenere esistenziale e fisica arde una speranza, che le fa dire: «la morte non distrugge/ vigila solamente/ l’amore…».
Questo levar del sole è un dono per capire la morte, il mistero di voci in un’eco risorte. L’erba cresce sempre dietro me quando calpesto il sentiero che si apre: sono le rate da pagare mentre ricevo predestinate anime di un passato che si scioglie nel mare. La passeggiata Gianna Pinotti
Il sole cade a picco Sulle nostre tele Gialle, il deserto è immenso Il passo del nostro secolo È stanco e il fiato Si fa flebile e perduto, Il passo della notte ci invade Ancora e si fa prigioniero L’amore dei giorni. Franco Vittuari «Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
Goethe & Co. l’evoluzione del gusto in un album di ritratti di Marco Vallora hi si aggira, con una certa indolenza, tra le viuzze che si districano da Via Sistina a via Gregoriana a Trinità dei Monti a Roma, non avrà mancato di notare le molte lapidi affettuose che costellano le austere facciate di quegli alti casamenti. Molte di loro ricordano viaggiatori e ospiti di passaggio: in gran parte artisti tedeschi della cerchia di Goethe, magari accanto alla memoria di Gogol o di Andersen, di Piranesi o Thorvaldsen. Goethe stesso non abitò molto lontano, in via del Corso, ospite del pittore Tischbein, che lo ritrasse disteso come un Polifemo rilassato nel cuore della campagna romana e che gli diede i primi amichevoli rudimenti di paesaggista en plein air. In questa casa-museo, che ci ha già abituati a bellissime mostre, che ruotano intorno a questo fa-
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tale soggiorno, che ha dato vita a quel capolavoro d’immediatezza, che è il Viaggio in Italia (e in cui Tischbein ritrasse il suo illustre ospite, affacciato alla finestra, che spia il turbolento corso romano, elegantemente atteggiato in confidenziale panciotto, come una silouhette alla Friedrich), ebbene in questo luogo simbolico si mostra per la prima volta (smembrato per ragioni di conservazione e dunque finalmente «squadernato» a ogni curiosità) il gentile taccuino, in cui ben 142 artisti - alcuni autoritraendosi, altri dipingendosi a vicenda con varie «posizioni» incrociate, da vera musica pittorica da camera - lasciarono traccia visiva del loro passaggio nell’adorata Città Eterna, «l’unico luogo al mondo per l’artista» garantiva Goethe). Certo, moltissimi: alcuni più che celebri, come Peter Cornelius, o il paesaggista illuminista Hackert, come lo scultore Schadow o Catel, Blechen o Kniep, che scese con Goethe e lo accompagnò nella pulciosa e regale Napoli borbornica; altri completamente sconosciuti o quasi, ma che hanno qui una vivacità e una personalità straordinaria, che guizza come una trotella schubertiana, grazie all’immediatezza vivida di penne, matite, sanguigne sapientissime. Il taccunio, che non è un vero liber amicorum, perché non è dedicato a un unico padrone di casa, e non porta alcuna dedica o scritte letterarie, è una sorta di regesto immaginoso, o di utile registro grafico, per individuare chi è passato davvero per Roma e si è fermato in quellaVilla Malta, in cui il taccuino è stato conservato a lungo, prima di passare a quella provvidenziale Biblioteca Herziana, che oggi ahimè, in rimpasto, rimane l’unica vera im-
arti
portante biblioteca d’arte raccomandabile a Roma. Quello che ci attrae, non è soltanto il ricorso a volti intensi o miopi, spadaccini romantici come il Winterhalter, pronto a diventare il ritrattista ufficiale di monarchi e mantenute, o spavaldi bellimbusti, come il Nadorp, che ci sfida dalla copertina del prezioso cataloghino edito, sempre virtuosamente, dalla Casa di Goethe, quasi fosse un Bernini in ritardo: un «bravo» minaccioso dell’arte. Ma è stimolantissimo vedere come, sotto lo stesso frontespizio nazareno, un po’alla Runge (ove bambinetti-puttini, travestiti da Raffaelli o Signorelli mignon, azionano strane macchine artistiche, sotto lo sguardo marmoreo d’una mamma-musa) il gusto stesso evolve: dalla prime rappresentazioni, appunto tardo-barocche, di artisti che sono ancora intenti e ammanettati al loro zelante cavalletto, ad artefici nazareni che atteggiano il loro volto a mestizie conventuali, dai pittori «moderni» che corteggiano il gusto neoclassico (Winckelmann è tra loro, accanto ad Angelika Kaufmann) a «franchi cacciatori» weberiani, come Reihnart, che preferisce accarezzare la canna del suo fucile, piuttosto che i virtuosi pennelli. Del resto, guardando quelle strane mazze post-medievali o quei mantelli erculei che alcuni di loro indossano, ritorna a galla il sostrato burlone e goliardico delle loro feste scatenate, dionisiache. Nella «grotta» domestica del Caffé Greco (che è una sorta di allegro centro di recapito postale per viaggiatori, ove tutti convergono e dialogano) o nelle reali grotte di Cervara (ove agitano i loro riti pagani e alcolici del Carnevale germanico) nell’allegre residenze «archeologiche» di Ludwig I di Baviera o nelle convivialità del Ponte Molle, in cui i titoli finto-nobiliari, pomposi e parodici, sono quelli di Generalissimus o Cavaliere del Bajocco, tableaux vivants e «vasi da notte di Venere», quali premio. Un benessere interiore e un senso di pace conviviale, che traspira da questi amabili ritratti incrociati come spade.
Disegnato dall’amico. L’album di ritratti di artisti germanici a Roma 1832-1845, Roma, Casa di Goethe, fino al 30 agosto
autostorie
Col vento tra i capelli a bordo di un’Alfa spider di Paolo Malagodi lzi la mano chi, in una giornata di pieno sole e su panoramici percorsi, non ha avuto voglia di pilotare un’auto scoperta. Magari una scattante spider a due soli posti in grado di offrire, per la sua configurazione senza barriere verso l’ambiente circostante, una momentanea fuga dalle preoccupazioni quotidiane. «Correre col vento tra i capelli, bruciare la strada nella libertà della natura. Questo è viaggiare in spider, un piacere raffinato e inebriante: la corsa sfrenata, o sognante, dei cavalli su una vettura veloce e ricca di temperamento», sono le frasi di un dépliant pubblicitario degli anni Sessanta, che ben definiscono le sensazioni prodotte da quest’auto per appassionati. «E in fatto di
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prestazioni e di temperamento, poche case automobilistiche hanno un’immagine sportiva paragonabile a quella dell’Alfa Romeo, che non per nulla è fra i rari costruttori al mondo, forse l’unico, a poter vantare la presenza pressoché ininterrotta di almeno una spider nella sua gamma, in quasi un secolo di storia». Come afferma il giornalista Mario Simoni, in un affascinante volume (50 anni di spider Alfa Romeo, Angelini editore, 192 pagine di grande formato, 35,00 euro) ricco di foto e di spaccati tecnici, dedicato alla straordinaria tradizione della marca italiana nel campo delle vetture scoperte. Protagoniste di una vicenda che ha visto le spider primeggiare in grandi imprese sportive, proprio grazie alla loro carrozzeria più leggera abbinata al telaio a longheroni, che le rendeva insuperabili in velocità
e maneggevolezza. Ma con l’avvento della scocca portante quello che era un vantaggio, l’assenza del tetto, è diventato un handicap sul piano della rigidità del telaio, con rinforzi della scocca e relativo aumento di peso, che ha progressivamente reso meno competitive le spider. Tuttavia capaci di mantenere inalterato il loro fascino, iniziato in Alfa Romeo con la prima auto realizzata, la 24 Hp del 1910, naturalmente con carrozzeria scoperta e come gran parte dei modelli usciti nei primi decenni del Novecento. Come ben documenta Mario Simoni, prima di affrontare il tema principale del suo lavoro, partendo dalla Giulietta Spider che cominciò a essere prodotta nel 1956, disegnata da Pininfarina a seguito di una particolare richiesta della società che distribuiva le Alfa Romeo sul merca-
to statunitense. Il successo fu immediato, ma con l’inconveniente di una vettura allora acquistabile solo oltre Atlantico, sino a un aumento di produzione che permise, dal 1957, la disponibilità dell’edizione europea e al prezzo di 2.026.000 lire. Modello che ebbe un degno sostituto con il Duetto del 1966, a listino per ben 28 anni sino al 1994 e prodotto in oltre 120 mila esemplari, con quattro diverse serie. Delle quali la prima, dalla tipica coda a «osso di seppia», indimenticabile protagonista del film Il laureato, diretto nel 1967 da Mike Nichols e interpretato da un giovanissimo Dustin Hoffmann. Con ampliato successo di questa spider negli Stati Uniti, dove ne sono state vendute più di 50 mila; persino in versione speciale Graduate, riservata alla clientela nordamericana.
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19 luglio 2008 • pagina 15
architettura
Oscar Niemeyer, i cent’anni di un maestro di Marzia Marandola el dicembre 2007 l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, che ha legato il proprio nome alla nuova capitale Brasilia, ha raggiunto l’ambizioso traguardo dei 100 anni. Per celebrare il maestro dell’architettura sono stati organizzati eventi in tutto il mondo e l’Italia ha partecipato con diverse iniziative: dal convegno internazionale A obra de Oscar Niemeyer, che si è svolto a Brasilia, promosso dall’Ambasciata Italiana, al numero monografico della rivista Casabella (753, marzo 2007), dedicato ai 50 anni di Brasilia e al centenario del maestro brasiliano. L’Italia è particolarmente legata a Niemeyer, che vi ha realizzato ben tre opere: la sede Mondadori a Segrate (1968-75); la sede Fata (1976-79) a Pianezza, Torino; la sede Burgo Scott a San Mauro Torinese (1980-81), e una quarta opera, l’auditorium di Ravello, seppur tra molte polemiche, è in corso di realizzazione. La prima e più nota opera italiana, è la monumentale sede della Mondadori, la prestigiosa casa editrice che, per singolare coincidenza, nel 2007 ha festeggiato anch’essa 100 anni di attività, celebrati con la pubblicazione di un elegante e dettagliato volume di
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archeologia
Roberto Dulio (Oscar Niemeyer. Il Palazzo Mondadori, Electa 2007), che ricostruisce la storia dell’edificio, dal progetto alla costruzione. Da poco è stata inaugurata a Torino, nell’ambito dell’assemblea mondiale dell’Unione Internazionale Architetti (Uia), una mostra incentrata sull’opera di Niemeyer, e in particolare sulle sue architetture italiane. Organizzata da Guido Laganà del Politecnico di Torino e da Marcus Lontra dell’Instituto Tomie Ohtake di San Paolo del Brasile, l’esposizione di disegni originali, modelli e fotografie d’autore, è in corso nei Bastioni delle Porte Palatine, un nuovo spazio progettato da Aimaro d’Isola, a ridosso dalla centralissima piazza Castello. L’allestimento semplice quanto efficace di Laganà dispiega le opere e il pensiero di Niemeyer lungo un percorso anulare, che proietta sul pavimento il profilo a mandorla di un grande pannello sospeso che, mentre scherma gli impianti, delimita lo spazio e traccia i percorsi dell’esposizione. Su una parete di delimitazione del percorso sono riprodotti gli schizzi sintetici e colorati di Niemeyer, commentati da suoi testi e da fotografie a grande scala delle opere più significa-
tive; sull’altro lato, su un gigantesco leggio, sono squadernati i disegni e le lettere originali, provenienti da archivi brasiliani e italiani, pubblici e privati; molti dei materiali sono mostrati al pubblico per la prima volta. L’itinerario espositivo è punteggiato da pezzi di arredo e da modelli originali, cui si affiancano plastici e filmati appositamente realizzati: tutti i materiali concorrono a rendere esplicite le forme e la poetica che guidano, in apparente semplicità, la progettazione di Niemeyer. La mostra è corredata da un volume: Niemeyer 100, pubblicato con
Electa dagli stessi curatori della mostra, che non è un vero e proprio catalogo, ma piuttosto un’asciutta quanto puntuale monografia su Niemeyer, con cronologia e schede delle opere, completata da tre saggi di approfondimento sulle opere italiane: un maneggevole strumento per conoscere il maestro brasiliano e districarsi tra le innumerevoli architetture realizzate in cento anni di prolifica attività. Oscar Niemeyer, cento anni, Bastioni delle Porte Palatine, Torino, fino al 30 settembre
Al Buddha di Bamiyan il primato della pittura a olio A lato l’immagine del Buddha dipinto a olio ritrovato in una delle nicchie nella valle di Bamiyan. Sotto uno dei Buddha distrutti dai talebani nel 2001
di Rossella Fabiani uddha è seduto nella posizione del loto, attorno a lui figure mitiche che indossano vesti rosso vermiglio. È così che lo ritraggono le pitture a olio più antiche del mondo, che sarebbero state individuate a Bamiyan, in Afghanistan, nelle nicchie alle spalle delle due colossali statue fatte saltare in aria dai talebani nel 2001. Dopo questa pagina dolorosa della nostra storia, la distruzione dei Buddha, oggi se ne può aprire un’altra molto importante per l’archeologia. Nelle piccole caverne che si trovano dietro alle statue, riccamente affrescate tra il V e il IX secolo dopo Cristo, sarebbero state individuate le tracce più antiche finora documentate di pittura a olio. La scoperta è stata rivelata dai risultati provenienti dall’Esrf (European Synchrotron Radiation Facility) di Grenoble, in Francia, dove un gruppo internazionale di scienziati ha analizzato alcuni campioni dei dipinti murali afgani. Da quando, dopo la distruzione delle antiche statue, risalenti rispettivamente a 1500 e 1800 anni fa, l’Unesco ha inserito il sito nella lista del Patrimonio dell’umanità, una missione internazionale si è impegnata a ricostruire i due colossi. E nell’ambito di questo progetto sono stati restaurati e studiati anche gli affreschi che decorano le grotte, gravemente danneggiate dall’attentato talebano. Gli scienziati del Consiglio nazionale delle ricerche francese (il Cnrs) e del Getty Conservation Institute degli Stati Uniti, coordinati dall’Istituto Nazionale per le ricerche sui beni culturali di Tokio, in Giappo-
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ne, che da alcuni anni sono all’opera per recuperare quanto possibile delle pitture, grazie a una combinazione di tecniche laser, come la micro-spettroscopia a infrarossi e la microfluorescenza a raggi X, hanno scoperto che i dipinti di 12 delle 50 grotte sono stati eseguiti con pittura a olio. Non di oliva, però, ma di noci e di semi di papavero. Miscelati con pigmenti inorganici, come piombo bianco, e impastati in un intonaco a più strati con resine e proteine di uova e gomma, come rivelano i risultati dello studio pubblicati sull’ultimo numero del Journal of Analytical Atomic Spectrometry. L’autore delle opere doveva essere un artista in viaggio sulla via della seta, la rotta commerciale che, passando vicino alla valle del Bamiyan, attraversava il Medio Oriente e la Cina per arrivare fino in Giappone. Riguardo alla tecnica della pittura a olio, Occidente e Oriente se ne contendono il primato. Le origini di questa tecnica sono sempre state ritenute europee, essendo la pittura a olio attestata per la prima volta nei pittori fiamminghi del 1400. Ci sono poi le fonti antiche, Plinio il Vecchio e il greco Galeno, che ne parlano anche per i primi secoli avanti Cristo. In effetti «non sono mai state trovate prove archeologiche di dipinti a olio di epoca classica, a sostegno di quanto riportano gli autori greci e latini» dice il coordinatore della ricerca, Yoko Taniguchi. «Quelle di Bamiyan, dunque, devono essere considerate la più antica testimonianza in assoluto di un dipinto a olio», sottolinea lo studioso.
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i misteri dell’universo
ell’antichità classica (greca e latina) sopravvive solo una piccolissima parte, stimabile, a mio parere (ma sono all’oscuro di stime dei colleghi specializzati), in circa l’uno per cento. Una percentiuale ricavata basandomi sulle citazioni date da Plinio il Vecchio e da Ateneo, la cui affascinante opera, il Deipnosofista, solo da pochi anni è tradotta in italiano in una splendida edizione curata da Canfora (quattro volumi a circa 400,00 euro). Ebbene Ateneo, nei tredici libri dedicati a un’analisi dei vari tipi di cibo, nonché delle donne di vita (Corinto aveva circa mezzo milione di abitanti, di cui la maggior parte prostitute….), cita una quantità immensa di libri, molti dei quali presenti nella biblioteca privata del ricco mecenate che ospitava lui e altri commensali per banchetti dove oltre che mangiare (fra le specialità le cicale di terra, quelle che cantano sugli alberi, che nel milanese ancora erano ricercate dai ragazzini a fine Ottocento) si discuteva di temi vari. Ebbene dell’immensa quantità di opere citate (una ventina di Vite di Alessandro Magno, una cinquantina di monografie su vari popoli della terra, molti in Oriente, e soprattutto di Nicola di Damasco, autore di una storia universale in 144 volumi, altro che i nove di Erodoto) a noi sono note, e spesso in forma incompleta, circa solo l’uno per cento.
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ai confini della realtà Ipotesi
MobyDICK
sull’Eufrate (secondo Aethicus Ister) di Emilio Spedicato
Una perdita irreparabile? In generale sì, sebbene ogni tanto si ritrovino libri perduti in biblioteche improbabili, come quelle delle moschee iraniane (a Mashad si sono ritrovati quattro libri del matematico Diofanto, circa quarant’anni fa) o afgane (a Ghazna addirittura si è ritrovato, circa cento anni fa ma la traduzione è recente, il Libro del Giusto, citato nel Pentateuco!), e non si perda la speranza di ritrovamenti che emergano dagli scavi delle ville di Ercolano, sepolte da una decina di metri di ceneri e sulle quali si erge la città moderna. I libri della classicità sono giunti in manoscritti, generalmente di poco precedenti l’era della
glese, tedesco, ma in francese a metà Ottocento (una copia esiste alla Biblioteca Nazionale di Roma, difficile da utilizzare in quanto le pagine tendono a sfaldarsi). Poco si sa di lui; si discute su quando visse (secondo me, agli inizi del Quinto secolo, quindi contemporaneo di Agostino e Orosio), e su chi fosse (pare un colto scita che avrebbe lavorato in Tracia). L’opera era citatissima fino al Seicento, quando le persone colte leggevano e parlavano il latino.
L’autore si basa principalmente sulla perduta monografia di Agrippa, parente di Augusto, frutto delle missioni esplorative dell’impero romano e dei territori vicini inviate da Giulio Cesare e completate da Augusto. Tratta soprattutto dei fiumi, in un latino non dei più semplici (quattro vocaboli non compaiono nei dizionari standard da me consultati) ed è mio proposito darne una traduzione, con l’aiuto di amici latinisti, per le straordinarie affermazioni ivi contenute. E qui va detto che Ister, come Mela e Solino, non è tradotto anche perché secondo gli illuministi, autori di un immenso disastro culturale in Occidente e nei paesi colonizzati dall’Europa, certe sue affermazione, ritenute impossibili, erano frutto di fantasia. Ma è in Ister (oltre che in una non preconcetta analisi dei testi biblici e nell’accettazione di un passo di Nearco, l’ammiraglio di Alessandro Magno che riportò parte dell’armata dall’India alla Babilonia con la flotta, mentre Alessandro prendeva la pericolosissima strada del deserto della Gedrosia) che si trova la risposta al mistero, per gli studiosi della civiltà sumero-accadica, di come fosse chiamato l’Indo.Tale nome è… Eufrate, fiume che nasce dalle più alte montagne dell’India e si getta nel mare orientale, recita Ister, aggiungendo poi che un Eufrate si trova pure nella Mesopotamia, dove il nome vale per la parte in pianura, mentre è diverso per la parte che scorre fra le montagne dell’Anatolia. Questa frase di Aethicus, già considerata strana e impossibile dal commentatore Dal Rio nel Seicento, conferma quanto dedotto nei
Geografo sciita vissuto forse nel Quinto secolo, è autore di una Cosmographia, citatissima fino al Seicento, mai tradotta in italiano. È lì che si trova la soluzione al mistero dei nomi del fiume Indo che tormenta gli studiosi della civiltà sumero-accadica stampa, frutto di copiature fatte nell’arco di un millennio (solo dei Vangeli e di pochi altri testi abbiamo copie risalenti a breve distanza dalla loro scrittura). Il numero di manoscritti è variabile. Di Ateneo ne è sopravvissuto uno solo, un miracolo. Un autore non meno straordinario sopravvissuto invece in una quarantina di manoscritti è lo sconosciuto, ai più ma anche agli specialisti, geografo Aethicus Ister, autore di una Cosmographia mai tradotta in italiano, in-
miei studi sull’Eden e sui viaggi di Guilgamesh. Eufrate, Prt nella Bibbia, vocalizzabile in ebraico come parot, pirot, perath, ovvero vacche, frutta, fertilità, è quasi certamente il ramo dell’Indo che nasce nell’attuale Pakistan settentrionale e attraversa la fertilissima valle di Hunza. E poi come Gilgit si getta nell’Indo, che nasce, con l’altro affluente Sutlej, dal sacro monte Kailas. E sull’ Eufrate dell’India scriveremo ancora in altra occasione…