mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
LA REDENZIONE
Nelle sale “Il solista” di Joe Wright
SULLE NOTE DI BEETHOVEN
di Pietro Salvatori a buoni ultimi, arriva anche in Italia Il solista, già sbarcato nelle sale di ma se la sua vena creativa inizia a fare cilecca. La rubrica che Lopez tiene settimezzo mondo nel 2009 e relegato all’estate dalla distribuzione itamanalmente sulla spalla della prima pagina inizia a subire le pesanti critiLa storia liana targata Universal. Da una parte un peccato. Dall’altra un che dell’editore, finché il giornalista, per caso, non si imbatte in un sencolpo di coda notevole di questa povera estate cinematozatetto, uno dei tanti che vagano per le strade dei bassifondi della vera del clochard grafica, che sta regalando ben poco ai cinefili desiderosi di città di Mulholland Drive e di Beverly Hills. Sì, uno come tanmusicista Nathaniel Ayers buoni prodotti anche sotto la calura estiva. La storia è ti, ma con una dote particolare: un violino che, nonoe del giornalista del “Los Angeles tratta da un libro del 2008, intitolato The Soloist: A stante abbia due sole corde, nelle mani del barbone sprigiona una musica celestiale. È quella Lost Dream, an Unlikely Friendship, and the Times” Steve Lopez, strumento della sua del maestro Ludwig van Beethoven. E forse per Redemptive Power of Music, ancora inedito nel rinascita. Un film intenso sul dono il caso, forse no, il clochard sta suonando proprio sotBelpaese - e chissà che non si trovi un editore interesto la statua dedicata al compositore tedesco in un piccolo sato sulla scia dell’uscita della pellicola - firmato da Steve dell’amicizia ma con qualche parco della città. «Non capisco come il maestro Ludwig possa Lopez, un giornalista che ha tradotto in forma letteraria una sedifetto. Magistrale essere il capo di una così grande città come Los Angeles», confessa rie di propri articoli. E, rimanendo fedele al dettame dell’opera scritJamie Foxx lo spaesato suonatore a Lopez, che scopre che il nome del violinista è ta, Steve Lopez si chiama anche il protagonista del film, interpretato dal Nathaniel Ayers, che in un remoto passato ha frequentato la prestigiosissima volitivo Robert Downey Jr. Lopez è la firma di punta del Los Angeles Times, il scuola d’arte di Juilliard, a New York. più prestigioso quotidiano della più famosa città della West coast. Un vero proble-
D
Parola chiave Estate di Gennaro Malgieri Simenon spara sulla Corte d’Assise di Pier Mario Fasanotti
NELLA PAGINA DI POESIA
Nel regno illimitato di Apollinaire di Francesco Napoli
Cristina Campo, l’imperdonabile di Pasquale Di Palmo Brevi notizie tra sacro e profano di Leone Piccioni
L’altra realtà di Carlo Guarienti di Marco Vallora
La redenzione sulle note di
pagina 12 • 24 luglio 2010
ne di una piena riabilitazione, del recupero, per meriti indiscussi, di un emarginato nel consesso dei «normali». Larga parte della critica ha accostato la pellicola di Hicks a quella di Joe Wright, giovane e promettente regista inglese, fino a oggi impegnato nell’adattamento di opere classiche della letteratura britannica quali Orgoglio e pregiudizio,nel 2005,ed Espiazione, nel 2007. E da un lato il paragone è comprensibile. Entrambi parlano di due reietti, relegati ai margini del vivere composto ed educato della borghesia moderna. Entrambi custodiscono nelle loro mani e nella loro mente un grande dono, una sensibilità sopraffina per la musica. Ma per Nathaniel Ayers la possibilità di essere redento non si cela dietro la riscoperta di un successo perduto in gioventù e recuperato in extremis per i capelli. No, la consacrazione di Nathaniel si gioca tutta nel rapporto con «il signor Lopez», nell’amicizia donata gratuitamente a uno come lui, davanti al quale il mondo arriccia il naso, non vorrebbe avere nulla a che fare. Un’esperienza produttiva per tutti e due. Lungo tutto il corso della pellicola, infatti, Lopez si illude di far del bene. Arriva a rimediare delle lezioni per il barbone, arruolando un notissimo maestro di violoncello. Fino al momento in cui apre gli occhi: «A Nathaniel non serve qualcuno che lo salvi, occorre uno che gli sia amico». Questa la rivelazione cruciale di un film che si gioca all’interno delle piccole e delicate sfumature di un rapporto. Così il concerto per celebrare il violoncellista ritrovato viene organizzato troppo presto, incentrato più sulla vanità riposta in un nuovo articolo da prima pagina che sul bene voluto all’artista di strada. Se ne accorge tardi Lopez, ma non troppo per non poter rimediare a un errore fatto in buona fede.
Dopo il pittoresco incontro, Steve torna in redazione, al tran tran quotidiano, all’idea giusta che non arriva. Ma pian piano, alcune delle informazioni che ha raccolto nella mattinata si compongono nella sua mente formando il filo di una storia formidabile. Nathaniel Ayers è un senzatetto, che gira con il suo carrello pieno di stracci difendendolo come fosse la cosa più preziosa del modo, vestito di strani cappelli raccolti in chissà quale cassonetto, in gilet di paillettes o dalle strisce catarifrangenti, perso da qualche netturbino in una serata a fare il giro di Skid Row, il Bronx losangelino. Ma Nathaniel Ayers è anche un ex allievo di una delle scuole musicali più dure e selettive d’America, i cui test d’ingresso sono noti per la loro severità. Come è possibile che un tale talento sia finito per suonare a un pubblico composto di ubriaconi e corvi che rovistano tra la spazzatura?
Questa è la storia che Lopez cercava da tempo. «Ah, suona il violino adesso?», risponde con la voce rotta dall’emozione la sorella, contattata dal giornalista. «Da ragazzo amava solo il violoncello». «Non me lo posso permettere signor Lopez», si giustifica timido Nathaniel, «ma questo violino è bellissimo, anche se ha solo due corde». Scavando un poco, emerge la storia di un bambino prodigio. La passione per il violoncello coltivata nel povero scantinato di casa, dove i rumori molesti del povero sobborgo della Grande Mela non avevano ostacoli a frapporsi tra la celestiale musica di Beethoven e l’archetto del piccolo musicista, il grande salto alla Juilliard, il posto di primo violoncellista nell’orchestra della scuola, prima che un disturbo mentale segnasse la promettente carriera di Nathaniel. Il materiale per un primo pezzo c’è tutto. Il successo in edicola è assicurato.Al punto che in redazione arriva un violoncello,uno di quelli per professionisti. È di un’anziana lettrice, bloccata dall’artrite e affascinata dalla storia del clochard-prodigio. Caricato lo strumento sulla vecchia Saab, Lopez si mette in cerca di Nathaniel per la città. Lo trova sotto una galleria, l’unico posto nel quale, a suo dire, si possa fare musica a Los Angeles: «Si sentono i rumori della città, signor Lopez, dove altro potrei suonare?». Non per la strada, secondo Lopez, il rischio che qualche male intenzionato percuota Nathaniel per rubargli il prezioso strumento è troppo alto. «Te lo lascio nel centro di accoglienza di Skid Row, lo potrai suonare lì ogni volta che vorrai». Detto fatto, in breve tempo uno stranissimo pubblico di sbandati fa da cornice al barbone che accarezza con la maestria dei crini del suo archetto lo strumento. E intanto la rubrica di Lopez diventa monotematica, continua a raccontare le peripezie del piccolo-grande eroe metropolitano. Al punto che l’orchestra della città invita Nathaniel ad assistere all’esecuzione della terza sinfonia di Beethoven che si terrà alla Disney Hall di Frank Gehry. Spaventato dalla confusione che potrebbe fare non trattenendo la sua mente girovaga, l’artista di strada opta per assistere a una prova. In questa scelta la cifra contenutistica dell’opera. Nathaniel non è un eroe cinematografico, la sua è una redenzione discreta, la risalita dal baratro di un uomo che è conscio dei limiti di una mente ormai forse irrimediabilmente indirizzata sulla china della schizofrenia.Qui si gioca la differenza sostanziale con Shine, il film del 1996 di Scott Hicks. Lì, David Helfgott, reso grande da una magistrale interpretazione di Geoffrey Rush, squilibrato quanto talentuoso pianista, viaggiava spedito sulla strada di una riabilitazione completa, di un destino che lo avrebbe reso grande nonostante le asperità di una mente incontrollabile e del marchio di una sanzione sociale dal quale liberarsi attraverso il talento. Un film consolatorio per il pubblico,nell’accezione più tradizionale del termine. Dalla polvere agli altari, non senza fatica, ma offrendo l’immagianno III - numero 29 - pagina II
Beethoven
IL SOLISTA GENERE BIOGRAFICO, DRAMMATICO, MUSICAL
DURATA 109 MINUTI PRODUZIONE GRAN BRETAGNA, USA 2009 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL
REGIA JOE WRIGHT INTERPRETI ROBERT DOWNEY JR., JAMIE FOXX, CATHERINE KEENER, TOM HOLLANDER, RACHAEL HARRIS, STEPHEN ROOT
A guardar bene, nel Solista le pecche si trovano, eccome. Una regia fin troppo lirica, che lascia un eccessivo spazio alle parole, alla spiegazione pedissequa di quel che sta succedendo, trascurando quel tessuto concretissimo di fatti, sguardi e azioni che, da soli, raccontano molto di più del dialogo anche se bene articolato. Il ritmo a volte si perde, fatica a riprendere il filo di un discorso annacquato nel tentativo di trovare una conclusione esplicita a ogni sequenza. Una sceneggiatura eccessivamente laccata, che lascia poco spazio alla musica, vera architettura portante di tutta la storia,per far parlare tutto quello che le ruota intorno.Tutte difficoltà che hanno relegato il film a una posizione di seconda fila nel mercato statunitense (dove è uscito nell’aprile dell’anno scorso), mentre i rumors prima del lancio lo accreditavano come sicuro protagonista degli Oscar. Dalla sua, però,Wright, oltre a Robert Downey Jr., schiera un grandissimo Jamie Foxx, che torna a cimentarsi con gli strumenti dopo la magistrale interpretazione di Ray: convincente nei panni di Nathaniel nell’invecchiare, contorcersi, deturparsi, vivere sulla propria pelle gli anni vissuti per la strada. Un piccolo gioiello in un’opera che poteva essere meglio confezionata. È lui infatti a rendere intenso un film che, in caso contrario, forse avrebbe faticato in Italia anche a conquistarsi un’uscita «tecnica» estiva per approdare direttamente sul mercato dell’home video, come per un periodo si era temuto. Il pregio del film è comunque fare emergere con discrezione e dignità il valore di un’amicizia gratuita, la prospettiva di una vita vissuta degnamente solo come dono di sé a un altro, come possibilità che un rapporto, uno sguardo inaspettato ti colpisca nella massa indistinta, possa dischiudere orizzonti prima inimmaginabili. La critica ha smontato la pellicola: troppo formale, storia dai canoni ripetuti senza fantasia,regia troppo distaccata,eccessiva leziosità nella prova degli attori. Forse. Ma non sempre quel che conta emerge in una visione distratta. Anzi, quasi mai. Il solista, al contrario, è un esempio di come, spesso, l’essenziale sia invisibile agli occhi.
MobyDICK
parola chiave
erfino le parole sono accaldate. Faticano a uscire per mettersi in fila, una dietro l’altra. Esprimono la sofferenza di chi scrive con il solo conforto di una musica refrigerante che fa da contrappunto al sibilo dell’aria condizionata. Cercano le parole di lenire il dolore che questa stagione violenta provoca in tutti coloro che ne restano delusi. E sono tanti. Già, perché l’estate non mantiene mai le promesse. Dovrebbe essere il tempo della liberazione e invece ci fa stare tappati in casa davanti a un refrigerante qualunque; dovrebbe indurci a fuggire la pazza folla, ma al solo pensiero di incontrarne di più imponenti, sudaticce, chiassose e volgari preferiamo rifugiarci nel solito guscio; dovrebbe favorire incontri e scambi, serate gioiose e pigri pomeriggi, invece ci assediano la calura infame e la solitudine anche quando si sta in spiaggia attorniati da migliaia di bagnanti soli come noi, annoiati, come noi, nervosi forse più di noi. In colonna sulle autostrade o davanti ai chioschi marini, ma anche nelle alte malghe o nei più abbordabili agriturismi, la verità è che d’estate diventiamo intolleranti verso noi stessi e poi nei confronti degli altri.
P
Una volta non era così, come sanno coloro che hanno passato la quarantina. L’estate manteneva le sue promesse. E ci si divertiva con poco, si era tutti più spensierati, le vacanze non erano le bolsceviche «ferie» da fare a tutti i costi e a caro prezzo. Bastava non essere schiavi di orari e impegni per sentirsi liberi e dunque immersi in una stagione che regalava molto, dal caldo sopportabile ai frutti saporiti e profumati, e non esigeva nulla da nessuno, men che meno l’esibizione di riti di massa ai quali oggi nessuno può sottrarsi e chi lo fa o è uno snob da evitare o un poveraccio da non frequentare. Per di più l’estate un tempo avvicinava, oggi divide. Le famiglie si riunivano, adesso si frantumano. Ognuno per conto suo e arrivederci a chissà quando. Il mio paese, nel profondo Mezzogiorno, raddoppiava gli abitanti, ora d’agosto sono la metà. Gli immigrati al Nord o all’estero, ritornavano gioiosi per riappropriarsi della loro vita in quel mese «rubato» alla civiltà della disarticolazione familiare, necessaria ma quanto dolorosa. Si passavano le controre inseguendo sogni a occhi aperti e le sere a raccontarsi di inverni lunghi e talvolta avventurosi. Il mare, per chi poteva permetterselo, era una specie di Graal su cui fantasticare prima e tuffarcisi poi. E, soprattutto, comunque e dovunque, l’estate era la stagione degli amori anche se si sapeva che difficilmente sarebbero durati. Con le canzoni, i suoni, le chimere che l’amore sapeva suggerire
24 luglio 2010 • pagina 13
ESTATE È solo il colonnino di mercurio che ormai sale vertiginosamente ad avvisarci dell’arrivo della stagione. Per il resto non c’è più traccia delle promesse mantenute di un tempo
Non chiamatela più così… di Gennaro Malgieri
Perché non dovremmo nasconderci ai devastatori della nostra tranquillità, i forzati delle ferie a tutti i costi, i consumisti in servizio permanente, e restarcene nel nostro angolo di Paradiso sul terrazzino di casa nostra o in un metro quadro di giardino? Due mesi all’insegna del non-senso che ci fanno rimpiangere l’autunno ai creatori di miti banali, ma quanto entusiasmanti. E adesso? No, non è un per spirito di contraddizione, magari un tantino folle, desiderare che l’autunno torni presto annunciato dagli acquazzoni d’agosto. È che l’estate ha perduto il suo fascino nei modi di con-
cepire lo svago, il divertimento, la stasi sublime sotto il sole, lo stacco con la normalità, la rottura con il tran tran. Non ha più una sua specificità, insomma, se si esclude il clima torrido che per qualche settimana ci annebbia fino a distruggerci letteralmente, letale
come mai nei tempi da noi conosciuti, opprimente al punto di desiderare il ritorno a temperature più fredde con tutto quel che comportano. Insomma, la «mitica» estate non la riconosciamo più. Se non fosse per la colonnina di mercurio che s’alza vertiginosamente, non sapremmo neppure che luglio e agosto sono arrivati. Ho provato a girovagare, più d’una volta, in diverse ore del giorno, per le strade di varie città in queste settimane. Sapevo già che non avrei incontrato ciò che speravo, ma volevo rendermene conto empiricamente, come si dice. E ho avuto la conferma che d’estate la gente è addirittura meno allegra rispetto agli altri periodi dell’anno. Diventa più intollerante negli uffici e nei negozi. Si fa prendere più facilmente dalle smanie del riposo forzato che tutto è tranne che riposo. È maggiormente incline al litigio per un nonnulla, mentre vorrebbe sbarazzarsi del problema di come e dove trascorrere le ferie ancor prima di averle fatte. Sono i non-sensi del nostro tempo, direte. È certamente così. Ma allora perché non barricarsi in casa e sbarrare la porta ai barbari che vorrebbero trascinarci sui loro mari sporchi, sulle loro montagne infestate dai cultori del chiasso, nelle campagne devastate da dancing dove si fa rumore e la musica è sconosciuta? Perché non dovremmo nasconderci ai devastatori della nostra tranquillità e conquistarci un metro quadro sul nostro terrazzino, tra i gerani e il basilico, o, per chi può permetterselo, quell’angolo di giardino profumato che sa tanto di Paradiso?
Mi verrebbe voglia di gridare: ridateci l’estate o, meglio, se proprio non è possibile, abrogatela. Ma so, ovviamente, che il mio grido susciterebbe la compassione di quanti dovessero avere la ventura di ascoltarlo. E allora, lasciatecela godere come ci pare la nostra estate. Voi gossipari inariditi dal solleone, voi giornalisti da ombrellone alla ricerca di una politica che non c’è a dicembre figurarsi ad agosto, voi consumisti in servizio permanente effettivo che ci ordinate di divertirci come avete deciso, pianificato, imposto, voi assatanati dell’ultima follia sfornata dal market del turismo straccione, tutti voi, esercito di folli che viene santificato ogni mattina sulle spiagge e per i viottoli agresti, provate a dimettervi da professionisti dell’estate soltanto per farci vedere una volta, una volta sola, l’effetto che fa. Ecco. Mi sono preso il classico colpo di sole. L’estate è allo zenit. Se ne sono andati tutti. Spero che almeno qualche lettore sia rimasto qui, con Mobydick in mano, sognando come me un’altra estate. Quella che non c’è e che chiamano estate, comunque.
pagina 14 • 24 luglio 2010
MobyDICK
Cd
musica
SANTANA: L’ARTE come opera di vita di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi hi ha inciso nel 1991 Alta marea? Che domanda, vi risponderà chiunque: Antonello Venditti. E la canzone fa parte dell’album Benvenuti in Paradiso. Ma è stato proprio lui a scriverla? Pausa, occhi al cielo, aria da compatimento: vuoi prendermi in giro? Il Venditti nazionale! E oltretutto è diventato uno dei suoi più famosi successi… Sbagliato. Alta marea è il rifacimento di Don’t Dream It’s Over, pezzo di quelli che fanno la storia del pop, composto da Neil Finn e inserito nell’86 nel disco di debutto dei Crowded House.Talmente bello che anche Paul Young ne ha architettata una cover. Quatti quatti,Venditti &Young hanno capitalizzato al massimo il gran talento di Neil Finn, classe ’58, neozelandese adottato dall’Australia, mito dappertutto tranne che in Italia. Artista di nicchia, si dice. Negli anni Settanta, lui e il fratello maggiore Tim militavano negli Split Enz, geniale gruppo dell’Art Rock. Dopo lo scioglimento, Tim si mette a fare il solista e Neil, nell’85, dà vita ai Mullanes. Cerca fortuna a Los Angeles, dove i discografici della Capitol lo mettono sotto contratto non prima d’averlo convinto a cambiare nome in Crowded House. Al disco griffato Don’t Dream It’s Over seguono Temple Of Low Men (’88), Woodface (’91) e Together Alone (’93). Successo planetario, eppure nel ’96 si decide di stoppare: il 24 novembre, alla Sydney Opera House, il gruppo di esibisce nel concerto d’addio che coincide con Recurring Dream, antologia dei pezzi più belli. Due anni dopo e nel 2001, il non plus ultra delle capacità soliste di Neil Finn coincide con Try Whistle This e One Nil; nel 2004, dopo il progetto 7 Worlds Collide con un sacco di amici (tipo Eddie Vedder dei Pearl Jam), l’artista insie-
C
Opera
zapping
er la legione degli ignorantoni Carlos Santana è il Fausto Papetti del rock. E invece per chi ama la ferina maestà della chitarra elettrica è il maestro, venerato e venerando. Perché ha un suono oggettivamente arrapante, per la sensibilità da percussionista, perché ha suonato con tutti dal pop al rock al jazz alla afro mettendoci il suo vocabolario e la sua sensualità. Si ascolti Love, Devotion, Surrender con John Mc Laughlin, jazz rock spericolatissimo, o Amen, con Salif Keita, dove tra l’altro il suo nome appare in piccolo nel booklet. Perché anche davanti a trecento spettatori spersi in uno stadio polveroso - ascoltato con queste orecchie - è in grado di scatenare l’audience. E adesso abbiamo un motivo nuovo per amarlo. In un concerto chicaghese ha concluso un memorabile duetto con la sua batterista, Cindy Blackman, e le ha chiesto pubblicamente di sposarla. E il fatto non ha niente a che vedere con il ragazzino che scrive ti amo sotto casa alla sua bella, o con Stranamore del compianto Castagna. Niente a che vedere con la scemologia del reality. Qui c’è un Love, Devotion, Surrender nell’habitat naturale di un uomo che sul palco ci campa, e che più volte scommettiamo ha chiesto alla sua bella chitarra Paul Reed Smith: perché non parli? Quella ha sorriso curiosa, e allora l’uomo l’ha presa in mano e l’ha fatta cantare. Fatti d’arte e non di vita, per fortuna. Ed è proprio per questo che d’ora in poi Santana sarà il maestro venerato, venerando e pure invidiato. In fondo fare della propria vita un’opera d’arte è un saggio precetto baudelairiano. Ma fare della propria arte un’opera di vita è un sacrosanto principio artigianale e cantastoriale.
P
Il ritorno di Neil Finn, Re Mida del pop me a Tim concretizza con Everyone Is Here il cantautorato piacevolmente rétro dei Finn Brothers. Ma siccome prima o poi la nostalgia è canaglia, nel 2007 ecco rimaterializzarsi i Crowded House con Time On Earth: la musica non ha perso un grammo del luccicante smalto che fu, le canzoni filano via che è un piacere e Neil Finn si riconferma singer-songwriter di razza. Uno che quando tocca il pop lo trasforma in oro: come Paul McCartney, che guarda caso è il suo punto di riferimento. E arriviamo a Intriguer. Il che significa reunion più che consolidata con Neil che canta, suona la chitarra e il pianoforte facendosi accompagnare da Mark Hart (chitarra), Nick Seymour (basso) e Matt Sherrod (batteria). Il nuovo canzoniere, va da sé, vale ampiamente il prezzo del disco. Le tracce sono dieci, e ce ne fosse
una che zoppica almeno un po’. Macché: si va dal pop tintinnante di Archer’s Arrows, increspato dal violino e da un magico intreccio di voci, all’agile e giocoso dipanarsi di Either Side Of The World; dalla fluttuante, eterea e in corner psichedelica Isolation, a Twice IfYou’re Lucky che è la pop song perfetta, sulla falsariga di Don’t Dream It’s Over e Weather WithYou; dalla vellutata dolcezza di Elephants, col retrogusto country della pedal steel guitar e dell’armonica a bocca, al tris di ballate (Amsterdam, Falling Dove, Even If) che più Macca (McCartney) non si può. Neil Finn, lo avrete capito, non è un rockettaro. E il rock non è la sua cup of tea. Ma quando lo tira in ballo (nella muscolare, orecchiabilissima Saturday Sun e nella schietta Inside Out) fa sempre una gran bella figura. Lui e i Crowded House. E meno male che sono di nicchia. I modaioli, se ne stiano pure alla larga. Crowded House, Intriguer, Universal, 19,50 euro
Tesi e antitesi del “Giro di vite” alla Fenice cclamato dalla stampa nazionale, Il giro di vite allestito dalla Fenice poteva dirsi buono, molto buono per certi versi, ma nulla più. Mi spiace trovarmi ancora una volta in disaccordo coi «confratelli» della critica musicale, eppure i fatti sono andati come adesso tenterò di raccontare. L’opera di Benjamin Britten - ché, a dispetto dell’anagrafe (venne alla luce nel 1954, in questo stesso teatro), d’un’opera vera e propria si tratta, basata com’è sull’eloquenza ed espressività del fattore «canto» - pretende innanzitutto una scansione verbale nitida dagl’interpreti: il principio melodico vi è decisamente estratto dalla parola. Una dizione eloquente sfoggiava il tenore Marlin Miller, ch’era Peter Quint, ovvero il suo fantasma, giacché nel libretto di Myfanwy Piper, diversamente dal racconto originario di Henry James, gli spettri (oltre a Quint c’è anche la defunta istitutrice, Miss Jessel) si esprimono a parole né più né meno come i viventi (i bimbi Flora e Miles, la nuova isti-
A
di Jacopo Pellegrini tutrice, la governante Mrs Grose); anche per voce e intelligenza Miller si rivelò un lieto acquisto, lo stile melismatico mediante il quale il cameriere chiama a sé e incanta il fanciullo, essendo affrontato e risolto in souplesse. Questi vocalizzi vengono dritti dal repertorio polivocale sacro e profano inglese tra Rinascimento e Ottocento, madrigali glees catches e compagnia cantante, laddove invece i sinistri pargoletti (nella mia recita i grandicelli, affidabili, ma non troppo convincenti come interpreti la Tirebuck e McNelly) simulano innocenza intonando gli schemi elementari e le poche note di filastrocche canzoncine nursery rhymes: Britten, dopo il parziale precedente di Albert Herring (1947), fertilizza il declamato vocale colla linfa della musica popolare britannica, la quale s’insinua in ogni anfratto e convive alla perfezione cogli slanci lirici, le linee ampie «italiane» dell’istitutrice. Nella fattispecie Anita Wat-
son esibiva mezzi di tutto rispetto non supportati però da tecnica adeguata, ragion per cui non si capiva una parola. Discrete, la Mellor e la Oakes. L’acustica alquanto risonante della Fenice ricostruita favorisce l’orchestra.Tuttavia, Jeffrey Tate si guardò bene dal mettere ai tredici esecutori a sua disposizione la sordina e affrontò la partitura da un’angolazione marcatamente espressiva: un lirismo fervido, ma come filtrato attraverso un fondo pudico tipicamente british, formicola negli interludi orchestrali, negli inquadramenti paesaggistici, nei momenti gravidi di attesa tensione paura (pedali armonici o bassi ostinati ripresi da antiche danze, passacaglia o ciaccona). Purtroppo i tredici non furono sempre in grado di assicurare la necessaria pulizia e nitidezza della trama strumentale, così che qualche effetto risultò sminuito, qualche finezza gualcita. In antitesi con Britten e, soprattutto, con Tate, lo spettacolo conce-
pito in toto da Pier Luigi Pizzi. Elegante, si capisce, ma gelido e manierato in quell’eterno svariare di grigi e neri su un ambiente d’impronta razionalista: il terrore la tragedia incombono sin dall’inizio, e se non c’è spazio per l’ironia o per l’ansia montante, ce n’è invece per qualche inopinato vuoto registico o per bizzarri accoppiamenti tra defunti.
MobyDICK
arti Mostre
na prima considerazione d’opportunità, per evitare conflitti d’interesse privato. Sì, c’è un mio testo, in catalogo di questa mostra, meglio un mio dialogo con l’artista, a baton rompu, come direbbero i francesi, scarrucolato giù dalle vette del senso comune. E difatti, spiritosamente, Guarienti ha pensato d’intitolarlo: Fuori onda. Perché ci siamo fatti sorprendere, da noi stessi, ovviamente, nel buio intelligente e rigoroso del Bill Viola, nel romano Palazzo delle Esposizioni, mentre proferiamo anche tante sciocchezzuole divertite, e malignità ben assestate (io credo) contro le vanità inutili, davvero vane, altro che vanitas! dell’arte contemporanea, e liberi commenti, forse persino un po’ troppo strafottenti. Il resocontato «fuori onda», e Guarienti ci ha rimesso le mani divertite, era nato (e fu accasato, del resto) per un’altra mostra e catalogo, e ora si ritrova qui, per generosa volontà dell’artista. Anche facendomi un po’ scricchiolare, perché verificata poi la portata potente e terremotante di questa mostra, che si potrebbe definire davvero «strabiliante», un po’ invero ci si pente: si meritava ben altra serietà! (meglio l’ironia della retorica, comunque). Allora, eleganza deontologica, cui non derogo mai, vorrebbe ch’io non scrivessi d’una mostra di cui mi sono occupato in catalogo. Ma l’occasione della mostra è così eccezionale, e la mostra così superba, che pazienza, ci si perdoni l’eccezionale deroga, che permette pure di rettificare il tiro e di declinare una più consona, degna ammirazione. Anche perché, ci chiediamo, chi in questo mondo distratto e sbilanciato di valori, della cosiddetta critica, assoggettata al Potere della Scemenza e alla dittatura della velina-alias-comunicato-stampa, s’accorgerà d’un risultato così alto e sorprendente? Ecco, tante volte, anche da questo pulpitino, ci è capitato di sparare contro la croce-rossa, paonazza di vergogna, d’una pletora di fenomeni di sott’arte, senza più alcuna qualità. Questa è invece la volta, finalmen-
U
Moda
24 luglio 2010 • pagina 15
L’altra realtà di Carlo Guarienti di Marco Vallora te, di segnalare un’occasione grandiosa e senza esitazioni di risultati più che nobili, strabilianti, abbiam detto. Perché il venetissimo Guarienti c’insegna a guardare («stra») in modo diverso e rapinoso, anche terribililmente (per dirla col Vasari), quasi teppistico: perché poi non ha ovviamente la vocazione, o la pedanteria del pedagogo e d’accompagnarci, nel nostro stupore. Di farci traversare il guado, come il bravo boy scout fa, tenendo la mano sollecita al vec-
chietto quasi cieco (lo vedete in quale folletto sulfureo e pestifero, alla Klossowski, s’è trasformato il nostra Artista, saltellando dovunque, nello specchio lastricato dell’aria, lastricato di cattive azioni e dispetti cromatici, in un’ossessione dell’autoritratto eroso, che è il contrario stesso dell’invadenza narcissica di tanti colleghi contemporanei?). Bafometto invecchiato e satiresco, dalla bocca sciancata in un grido afono, ci getta ripetutamente nel bel mezzo
della calce viva e urticante dei suoi sperimenti leonardeschi, che non muoiono mai, ma sopravvivono sempre come in coma cromatico, in un nevischio di perplessità eventuale. Ci abbandona lì, garrulo, in mezzo a quel gran combattimento dechirichiano, agonistico e agonico (ma del De Chirico vero, non quello bollito e findus delle sputtananti mostre di oggi: mercantili-falsarie), un anchilosato combattimento di larve, che non han più voglia, come lui, di recitare l’ipocrita ruolo dei burattini di parata della pittura realista. Si guardino quei bellissimi ritratti d’atelier, mattutini o serotini, di cui parla così bene Alain Tapié: i rimasugli sfibrati (e sfebbrati) della sua pittura d’antan, più bretoniana e diligente ai dettami dell’inconscio. Qui sono sfingi disoccupate, che come nello Schiaccianoci di Cajkovskij, ma senza il concorso del superfluo fiabesco etnico, entrano ed escono dal cavalletto scavalcato, come scimmie perverse dalla loro gabbia onanista. Conversano perplesse, litigano la loro claustrofobia, si spulciano del loro color carpaccesco: sono sinopie in pensione, slavate, che non hanno smesso di tirar scherzi burloni al loro artista, che s’aggira nudo, come in un utero spoglio, inospitale. Sedendosi altero al tavolo slabbrato d’una Vocazione di San Matteo, che non lo redimerà, ma ove si tracanna la filtrate penombra di Caravaggio, quasi fosse una boccata d’assenzio, o bussando allo specchio illusorio del cavalletto-crocefisso d’un Golgota da camera (La visita di Goya), come fosse un labirinto rotto, da luna park orsonwellesiano della Malinconia manierista (en attendant Goya, Duerer e ovviamente anche il Velazquez delle Meninas, assistente-arredatore). Magnifica la mess’in scena corale di Alberto Zanmatti a Castelvecchio, ma senza confronti l’effetto rampicante e sovranamente parassitario dei finti affreschi-ritrovati, dentro le stanze familiari di Palazzo Canossa, tra i fantasmi boccheggianti di Bernardino d’India e del Moro.
Guarienti. Oltre il Reale, Verona, Museo di Castelvecchio e Palazzo Canossa, fino al 19 settembre, catalogo Silvana Editoriali a cura di Paola Gribaudo
Prima del sexy lo chic, il ritorno della Bamboo on ci sono ancora notizie dai negozi Gucci di Cannes, Capri e Forte dei Marmi (è presto), ma la New Bamboo bag limited edition (soltanto in blu, soltanto in pitone o pelle cellarius, soltanto dodici pezzi per ogni materiale), in vendita da dieci giorni, è un oggetto-feticcio per vere collezioniste. A nobilitarla, a dare quella patina di desiderabile aristocrazia, c’è la mostra itinerante Bamboo Forever che dopo Berlino,Vienna, Barcellona e Parigi è arrivata felicemente al mare (a Capri, a Cannes e a Forte dei Marmi fino a domani) per raccontare una storia favolosa cominciata 64 anni fa. era L’originale una piccola borsa creata nel 1947 in pelle di cinghiale, con il manico in bambù curvato a semicerchio, un’idea dettata dalla necessità: la guerra era appena finita e scarseggiavano le materie prime. Nessuno pen-
N
di Roselina Salemi sava che, vista al braccio di Ingrid Bergman e Vanessa Redgrave, la Bamboo bag sarebbe diventata un irrinunciabile status symbol per le dive degli anni Cinquanta e Sessanta. Le trendsetter di allora si chiamavano Liz Taylor, Liza Minnelli, Audrey Hepburn: prima del sexy, veniva lo chic. Le foto dell’Archivio Gucci sono quasi commoventi. La bella Ingrid Bergman è a spasso con tata e bimbo, a Napoli, nel ’53. È vestitissima, tailleur longuette, maglioncino dolcevita, guanti di camoscio e Bamboo bag. Vanessa Redgrave (nella foto) invece è su un set, occhi ardenti, camicia a quadretti, gonna sopra il ginocchio, trasgressiva, ma non troppo. Bamboo bag anche per lei. La mostra suggerisce che dentro quella borsetta c’è una filosofia, un pensiero, oltre che un pezzo di storia. E forse è proprio così. Altrimenti, non sarebbe nata, questa primavera, la New Bamboo, già scelta da Carla Bruni, Evan Rachel Wood (True Blood) e Ashley Greene, la vampira Alice di Twilight.
Oltre che nella sua dimensione originale, ne esiste una versione più grande, con elementi in nichel. Al manico sono state aggiunte una lunga tracolla, una catena di metallo e nappine con dettagli di bambù. C’è in coccodrillo, in pelle, e addirittura in tricot. In un arcobaleno di colori, dal fucsia al grigio, oltre ai classicissimi bianco e nero. Per farne una, servono tredici ore. Costa dai 1300 ai 13 mila euro. Dicono, da Gucci, che la nostalgia non c’entra. Possibile. C’entra di sicuro il bisogno disperato di bon ton, di esclusività, di alto artigianato, il bisogno di uscire dall’onda sexy-trasgressiva, perciò è necessario guardare indietro, verso Ingrid Bergman con i guantini, tanto signora (scarseggiano, le signore). Ma il passato, come sostiene qualcuno, è una terra straniera. E anche l’esclusività, a parte le limited edition numerate, che danno grande soddisfazione a chi se le può permettere e sono difficilmente taroccabili, è un confine fragile. Chiunque può essere Carla Bruni per un giorno. Su www.myluxury.biz/ è possibile consultare un ricco catalogo di borse, originali… in affitto, con prezzi a partire da quindici euro a settimana. Le cacciatrici di status symbol sono avvisate.
MobyDICK
pagina 16 • 24 luglio 2010
il paginone
Fece di tutto per rimanere nell’ombra, adoperando vari pseudonimi per firmare traduzioni e collaborazioni a riviste e giornali. In vita ha pubblicato tre soli libri, ma la sua figura e la sua opera (che si compone di saggi e poesie) sono tra le più significative del nostro Novecento. Ora l’uscita di un volumetto di lettere indirizzate a María Zambrano ci offre l’occasione di ritrovarla… di Pasquale Di Palmo er i tipi delle edizioni Archinto esce un raffinato volumetto che raccoglie una manciata di lettere inedite di Cristina Campo: Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975 (96 pagine, 14,50 euro). Il libretto, curato da Maria Pertile, propone una serie di epistole e brevi messaggi che Cristina Campo scrisse alla filosofa spagnola, incontrata presumibilmente a Roma intorno alla fine degli anni Cinquanta. In quell’arco di tempo la scrittrice si legò sentimentalmente a Elémire Zolla che, non a caso, intrattenne con la Zambrano, nello stesso arco cronologico, «un’altra, intensa corrispondenza epistolare, a volte condivisa sulla stessa pagina di quella di Vittoria-Cristina con María», come rileva la curatrice.
P
Si rimane colpiti innanzitutto dall’estrema varietà dei
toto, quelle di María, «che s’indovinano stupende nel riflesso delle stesse lettere campiane», come suggerisce ancora la curatrice. Ma, nonostante l’esiguità dei messaggi pervenutici, è emblematico come il rapporto di stima reciproca e di delicata, fraterna collaborazione appaia evidente nel tono con il quale Cristina si rivolge all’amica: «Maria cara, tu mi hai salvato dalla confusione. Lascia che io ti aiuti nella fatica: portare i battenti della porta di Gaza in cima alla montagna (conosco bene ogni pietra, e posso servirti, con umiltà e con precisione). Tu mi hai detto: “la paura è il demonio stesso” e questo mi ha salvato, in un momento di orrore. Lascia che te lo dica io, nel momento dell’ansia - non avere paura, cara - e lascia che io ti aiuti in silenzio, minutamente». Alcuni messaggi sono la semplice trascrizione di brani che
Cristina Campo, mannsthal. Vi sono poi trascrizioni di testi di Borges, Pasternàk, del poeta mistico persiano Gialal al Din Rumi, presumibilmente tradotto dalla stessa autrice. A questi testi d’occasione bisogna aggiungere la consuetudine di
riferimenti ai suoi modelli letterari e religiosi si limitano a una serie circoscritta di situazioni e nomi privilegiati. Irrinunciabile è il richiamo a Simone Weil di cui si parla nella lettera inviata il 15 agosto 1965: «Cara, grazie di
Andare controcorrente nell’affermare la suprema aristocrazia dell’idea in un’epoca in cui tutto scivola verso il basso. Questo il suo tratto distintivo, sulle orme di Simone Weil e Hugo von Hofmannsthal messaggi: brevissimi, essenziali taluni, poco più di un bagliore che rischiara il momento privilegiato della lettura, altri invece più articolati e dettagliati come l’ultima lettera riportata, risalente alla festa di San Giovanni 1975, in cui si rievoca la figura del poeta argentino e amico comune Héctor Murena, morto nello stesso anno e di cui Cristina Campo aveva tradotto sei liriche, originariamente apparse in un numero dell’Approdo Letterario del 1961. Il materiale fin qui rinvenuto è ben lungi dall’essere completo, in quanto mancano sicuramente altre lettere di Cristina e, in anno III - numero 29 - pagina VIII
intrigavano particolarmente Cristina Campo, magari in occasione di una particolare ricorrenza: nella lettera del Natale 1967 è riportata, manoscritta, la poesia La Tigre Assenza, dedicata alla memoria degli amati genitori («Ahi che la Tigre,/ la Tigre Assenza,/ o amati,/ ha tutto divorato/ di questo volto rivolto/ a voi! La bocca sola,/ pura,/ prega ancora/ voi: di pregare ancora/ perché la Tigre,/ la Tigre Assenza,/ o amati,/ non divori la bocca/ e la preghiera...»), quella del Capodanno 1961 è la semplice riproduzione dattiloscritta della versione della lirica In verità più d’uno di Hugo von Hof-
inviare immagini riproducenti opere d’arte che per Cristina rivestivano un particolare significato. È il caso delle cartoline, inviate il 3 giugno e il 3 ottobre 1961, del Ponte a Santa Trinita di Firenze o del ritaglio di illustrazione, non datato, raffigurante un calice con l’Adorazione dei Magi, accompagnato da questa semplice postilla: «El caliz azul de la Navidad y de los Santos Reyes (por Maria, su Cristina-Vittoria)».
Come in tutti i carteggi della Campo (si pensi ad esempio alle Lettere a Mita e a Caro Bul, pubblicati da Adelphi rispettivamente nel 1999 e nel 2007) i
avermi annunciato l’uscita del tuo libro - dei tuoi libri - e il tuo progetto di tradurre Simone. Sono tra le poche notizie capaci di rallegrarmi, in questo tempo tenebroso». Non è un caso che sarà proprio l’opera della pensatrice francese a segnare in maniera inimitabile il lavoro della Campo, con quella netta contrapposizione tra La pesanteur et la grâce, come si intitola una fondamentale raccolta di saggi weiliana del 1948, che sembra sottendere alla sua stessa poetica. L’uscita di questo volumetto ci consente di rivisitare la figura di una singolare autrice che fece di tutto per rimanere nel-
l’ombra, adoperando vari pseudonimi per firmare traduzioni e collaborazioni a riviste e giornali (Cristina Campo era infatti un nom de plume, in quanto il suo vero nome era Vittoria Guerrini) e pubblicando in vita soltanto tre libri: la silloge poetica Passo d’addio (All’Insegna del Pesce d’Oro, 1956) e le raccolte di saggi Fiaba e mistero (Vallecchi, 1962) e Il flauto e il tappeto (Rusconi, 1971). Proprio sulla bandella di quest’ultimo libro appare la nota che sembra caratterizzare il suo percorso letterario, mai disgiunto da una macerazione spirituale che rasenta un’ascesi di ascendenza quasi monacale: «Cristina Campo è uno pseudonimo. È cresciuta a Firenze nell’ambiente del padre compositore. Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno. [...] Oltre alla poesia il suo maggiore interesse è la liturgia: l’ex romana, la bizantina».
È quanto mai significativo che, in un’epoca dominata dal dogmatismo ideologico che aveva irretito gran parte dell’intellighenzia italiana, gli interessi di Cristina si orientassero in direzione pressoché antitetica: la poesia e la liturgia. È presente infatti, negli scritti di Cristina, un profondo legame interdisciplinare che crea accostamenti insospettati fra materie diverse come poesia e traduzione, saggio di taglio erudito e investigazione esegetica.
24 luglio 2010 • pagina 17
In bianca maglia d’ortiche Di Cristina Campo ci parla con rigore e passione anche Massimo Morasso che ne traccia un ritratto profondo e partecipe nel libro In bianca maglia d’ortiche (Marietti, 128 pagine, 14,00). Il critico ci instrada nella più adatta comprensione della poesia della scrittrice, a quel «silenzio in versi», espresso come «bellezza a doppia lama» o come preghiera, e che fa assumere alla Campo, come dice Morasso, una «arcaica funzione sacerdotale, fra nostalgia del fondamento veritativo e nostalgia del fondamento liturgico». (l.f.)
po classico derivata dai suoi innumerevoli lavori di traduzione e dai suoi maestri dichiarati come Hofmannsthal e la Weil. Scrive Margherita Pieracci Harwell che, oltre a essere raffinata esegeta dell’opera della Campo, fu una delle sue più care amiche: «Per penetrare più a fondo nel pensiero di Cristina Campo le due guide più sicure sono Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil - fino ai tardi anni Sessanta i più costanti phares di questa instancabile, ma soprattutto selettiva e fedelissima lettrice».
I versi che figurano in questa silloge, composti tra il 1954 e il 1955, con eccezione della prima poesia datata 1945, risentono degli spunti e delle atmosfere più varie, nel tentativo di rendere «bianche tutte le mie lettere,/ inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa». Sembra un inno alla grazia che si riverbera talora in delicati versi di ascendenza dickinsoniana, talaltra in enigmatiche asperità di stampo
raccolta di saggi intitolata Spagna di María Zambrano. Entrambi i primi due titoli pubblicati denotano la scarsa propensione dell’autrice a diffondere i propri testi in maniera indiscriminata, bensì la tendenza a rendere note con parsimonia le proprie pubblicazioni. Non è un caso che, a parte qualche sparuta segnalazione, i due libri venissero subito relegati nel dimenticatoio. La stessa autrice scriveva a Leone Traverso il 10 ottobre 1962 a proposito di Fiaba e mistero: «Ora anche di questo libretto mi è venuto un enorme desiderio che nessuno si accorga. Una parola è sufficiente per toglierti tutto il piacere di averlo scritto, farti sentire as public as a frog, il che equivale a non scrivere più». Il flauto e il tappeto, pubblicato da Rusconi nel 1971, costituisce il terzo e ultimo libro pubblicato in vita. Si tratta di una raccolta di saggi (alcuni di questi ripresi dal volumetto precedente) in cui l’autrice disquisisce intorno agli argo-
sciti, etica ed estetica. Non è un caso che la vita stessa della scrittrice risentisse in maniera esclusiva di questo connubio dagli intrecci indissolubili: si pensi, in tal senso, alle relazioni che Cristina allacciò con il finissimo traduttore Leone Traverso e, in seguito, con quella straordinaria figura di intellettuale a tutto tondo che fu Elémire Zolla, o al fascino che esercitò su di lei il poeta Mario Luzi. Dopo la morte le prose della Campo, che si possono considerare come il punto più alto della sua opera, furono riproposte e integrate in due volumi adelphiani, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1998: Gli imperdonabili e Sotto falso nome. Quest’ultimo volume raccoglie tutti gli scritti che Cristina pubblicò in periodici con diversi pseudonimi, spesso declinati al maschile: da Puccio Quaratesi a Bernardo Trevisano, da Benedetto P. d’Angelo a Giusto Cabianca. La Tigre Assenza, pubblicato da Adelphi nel 1991 raccoglie tutta la produzione poetica della Campo, comprese le traduzioni in versi. Oltre a Passo d’addio figurano altre due brevi sezioni, intitolate rispettivamente Quadernetto e Poesie sparse. In tutto si tratta di una trentina di liriche che, per il loro potere ipnotico e per la loro intrinseca bellezza, si configurano tra le espressioni più adamantine e compiute della sua opera.
l’imperdonabile Risulta perciò un po’ riduttivo circoscrivere i suoi interessi variegati nell’ambito di un genere tout court, definito in maniera netta e lineare. Si dovrà considerare il fatto che qualsiasi occasione può costituire lo spunto per argomentare sopra un determinato tema: la nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto, l’eco di una fiaba rappresentano, come una madeleine proustiana, il richiamo per modulare variazioni in-
eliotiano: «Ora non resta che vegliare sola/ col salmista, coi vecchi di Colono». E non è un caso che sia Emily Dickinson sia Eliot furono tra gli autori prediletti della Campo che li tradusse da par suo. Già Leone Traverso, in una recensione apparsa sulla rivista Letteratura nel 1957, rimarcava sia le fonti plurime d’ispirazione che sottendono alla nascita di certe poesie (con riferimenti, più o meno espliciti, alle
menti più disparati creando insospettabili accostamenti. Il punto di partenza collima con il punto di arrivo solo grazie a un procedimento narrativo che persegue tale obiettivo attraverso una sequenza di corrispondenze di ardua decifrazione agli occhi del profano. Il cerchio si chiude in maniera affascinante ed enigmatica, dopo un continuo peregrinare intorno ai simboli della redenzione e della perdizione. Dall’in-
La nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto, l’eco di una fiaba rappresentavano per lei, come una “madeleine” proustiana, il richiamo per modulare variazioni intorno a una dimensione spirituale torno a una dimensione spirituale autentica e rigorosa. Passo d’addio, il suo esordio poetico che rappresenta anche l’unico libro di liriche pubblicato in vita, raccoglie soltanto undici componimenti, dominati da uno stile che si differenzia notevolmente rispetto ai canoni letterari del tempo, impostati sulle tendenze più contrastanti: da una parte il neorealismo, dall’altra le derive dell’ermetismo, con l’avvento ormai incombente degli schematismi imposti dalle neoavanguardie. La poesia della Campo sembra invece risentire di uno stile semplice, quasi frugale, che si basa su una compostezza di ti-
Mille e una notte, a Lawrence d’Arabia, a san Paolo), sia l’oscurità di taluni passaggi: «Ci si incontra in altre liriche a passi che sembrano a prima vista invalicabili, non per arbitrii sintattici o lessicali, ma perché occulto rimane il pozzo profondo da cui sorgono certe immagini». Il secondo titolo della Campo fu Fiaba e mistero, edito da Vallecchi nel 1962 nella collana dei «Quaderni di pensiero e di poesia». Il volumetto, contenente cinque tra i più riusciti saggi della scrittrice, fu pubblicato in un’edizione numerata di 600 esemplari. Nella stessa collana vedrà la luce anche la
treccio di un tappeto persiano a una «frase glaciale» di Proust, dalle considerazioni sul tema della «sprezzatura» alle suggestioni del rito gregoriano, la prosa della Campo si delinea come un perfetto emblema araldico miracolosamente scampato alla distruzione e alla rovina incombenti. Come Borges, la Campo si interroga a lungo sui propri ideali e modelli letterari, stabilendo un’opera di interpretazione quanto mai preziosa, anche se dai tratti atipici. La letteratura rappresenta per la Campo una sorta di modello che riesce a coniugare mirabilmente, nei suoi esiti più riu-
Le copertine delle opere di Cristina Campo ritratta in diverse immagini sopra il titolo. A sinistra, Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil
Bisogna segnalare inoltre gli ultimi versi, composti negli anni Settanta e ispirati a una religiosità dominata da figure bibliche o attinenti al mondo della liturgia (la Campo, oltre a condurre una strenua battaglia a favore dell’opera di monsignor Marcel Lefèvbre per il ripristino della messa in latino, predilesse il rito bizantino-slavo). In quest’ottica risaltano i versi di Missa Romana e dell’intenso poemetto intitolato Diario bizantino. «Perfezione, bellezza. Che significa? Tra le definizioni, una è possibile. È un carattere aristocratico, anzi è in sé la suprema aristocrazia. Della natura, della specie, dell’idea» scriveva la Campo nel saggio Gli imperdonabili. Gli imperdonabili sono i poeti che vanno controcorrente, che corteggiano lo stile nell’epoca in cui tutto scivola irrimediabilmente verso il basso, che, come Pound, scelgono di tacere laddove regna il più assordante dei vaniloqui. La stessa Cristina Campo si può annoverare tra quelli che lei stessa aveva definito «imperdonabili», questi araldi della perfezione che scelgono l’ombra, il silenzio, l’anonimato nel periodo in cui impazzano l’arrivismo più abietto, la volgarità più truce, l’esibizione più sfrenata.
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 24 luglio 2010
l titolo è semplicemente Corte d’Assise, ed è questa, con tutto quel che ci sta dietro, che Simenon mette sotto accusa. Un romanzo «giudiziario» che scrisse nell’agosto del 1937 all’Isola dei Pescatori, Lago Maggiore. Apparve però solo quattro anni dopo: la direzione di Paris soir lo rifiutò giudicandolo immorale. Simenon anzi frusta corde istituzionali delicatissime perché solenni e totemiche, scuoia quello che a volte agisce e si mostra come un animale che carica a testa bassa. In questa operazione ne mostra i difetti genetici, il disequilibrio organico, la malformazione cerebrale che porta diritto al seguente assioma: «l’imputato è un mascalzone, quindi è colpevole». Altrettanto forte è il colpo che assesta quando afferma che il giudice istruttore, scrupoloso a senso unico, costruisce un fascicolo di 823 pagine con ben 237 testimonianze senza ammettere, o dubitare, di aver eretto una piramide criminale che risponde a criteri architettonici suoi e non a quelli che dovrebbero ispirarsi all’imparzialità. In quel fascicolo c’è quasi tutto di un giovane uomo, salvo la verità dei fatti. Romanzo scritto in Italia, abbiamo detto. Forse per questo, Simenon calca la mano sugli italiani, verso i quali non ha mai dimostrato molta stima. E questo è francamente irritante. Come infastidiscono, in tutta la sua opera, certi stereotipati riferimenti ad alcune nazionalità. La prima parte di Corte d’Assise pare abbia l’andamento del feuilleton tirato un po’ come un elastico. Poi ci si accorge, con la svolta giudiziaria della trama, che certi particolari sono essenziali. Si passa da una chansonette delinquenziale a toni dostoevskijani, senza la rinuncia del ritmo brillante e delle ripetizioni a effetto. Al centro di tutto c’è il ventiquattrenne Louis Bert detto Le petit Louis. Entra in scena come un bulletto, uno sciupafemmine, uno che in un clan marsigliese crede d’avere il suo peso. Poveretto: quelli della mala, infinitamente più astuti di lui, lo giudicano un incapace. In occasione di un «colpo» riesce ad affascinare Constance Ropiquet che si fa chiamare contessa d’Orval: è una donna avanti con gli anni, ma Simenon lascia al lettore immaginare l’esatta sua età. Potrebbe avere circa cinquant’anni. Passa sempre per una «tardona» per il fatto che diventa subito l’amante di un ventenne. Ospita a casa sua, a Niz-
Georges Simenon CORTE D’ASSISE Adelphi, 180 pagine, 18,00 euro
I
Riletture
libri
Il destino giudiziario del Petit
Louis di Pier Mario Fasanotti
za, quel gigolo così bravo ad ammaliare i gonzi, senza sapere che oltre non è in grado di andare. Fa niente, la fasulla contessa, agiata ma anche mantenuta da un attempato funzionario, è in estasi, si guarda attorno «per assicurarsi che Petit Louis non è un sogno». Vanitosamente desidera che la gente sbirci un po’ più del solito e sappia che lei è dorme con un giovane. Lo soffoca con «baci umidicci e interminabili, con il suo seno pesante», ma gli consente una vita assai diversa da quella precedente, intrisa di miseria, espedienti e
ambizioni grossolane. Louis è schifosamente cinico, approfitta di quel che lei può offrirgli, ossia vantaggi materiali, e respinge l’ossessiva dolcezza dei sentimenti di una donna che penosamente sfida la verità dell’anagrafe. E poi c’è Nizza con i viali a mare, il profumo dei fiori, i palazzi dai colori pastello. Gli sembra di vivere «in una confetteria». Nato nel Nord, costretto a coabitare con una madre moralmente distratta e con l’ex datore di lei diventato suo amante, tale Dutto (altro nome italiano!), laido, esibizionista, vizioso, Petit Louis è contento della svolta. Continua nella sua parte di duro. A Louise Mazzone (altro cognome italiano!), che lavora in una casa chiusa e che lui vuole «liberare», scrive una lettera in cui elogia ciò che gli regala «una che ha soldi ma è anche un po’ spilorcia». Fa il gradasso, dice che «dovrà metterla in riga». Louise, giovane che «profuma di verbena», lo raggiunge a Nizza. All’inizio passa per sua sorella, ma Constance poco dopo scopre tutto. Non le conviene indignarsi più di tanto. «Cattivo!», lo rimprovera con ambiguità materna, poi accetta il ménage à trois. Abilissimo Simenon nel tratteggiare la famosa atmosphére, stavolta molto vischiosa. Non viene solo creato un personaggio, ma un intero ambiente, e minuziosamente. E poi il punto di rottura, tema caro a Simenon. Da una certa insofferenza verso «un appartamento saturo di vita indolente» al dramma: Constance finisce con la gola tagliata. Inizio di errori e di stupide avidità. Alla fine Louis è arrestato. Nessuna prova per quanto riguarda l’assassinio (mai si ritroverà il corpo della donna), ma quel meccanismo «tritatutto» della magistratura riesuma il suo passato «dal letame» e inventa il suo presente. E non lo fa mai parlare. La giustizia è burla e tirannide. Con un sorriso sornione guarda i giudici in toga rossa. Senza mai poter spiegare nulla di sé.
Heidegger sotto l’ombrellone? Basta bagnarsi la testa o so, Essere e tempo di Heidegger non è una lettura da farsi sotto l’ombrellone. Il pensiero del filosofo dell’essere è troppo difficile ed esige una concentrazione che la spiaggia non permette di raggiungere. Ma ne siamo sicuri? Perché dobbiamo immaginare la lettura di libri di filosofia come cose estremamente complicate? In fondo, i filosofi cosa fanno se non parlare di noi stessi? Un testo di filosofia non «funziona» come tutti gli altri libri? Come dobbiamo abituarci al linguaggio dello scrittore e come dobbiamo entrare nella storia o nello spirito di un romanzo, così non dobbiamo entrare in sintonia anche con il linguaggio e il pensiero dei filosofi? Essere e tempo, dopo tutto, non può essere letto come un «romanzo»? Magari un particolare romanzo, quello che si usa chiamare «romanzo di formazione», ma che è pur sempre un romanzo, ossia un libro che racconta una storia. E qui la storia che si racconta è la nostra, perché noi stessi siamo quell’ente particolare che è interrogato e che risponde:
L
di Giancristiano Desiderio l’esser-ci. Le edizioni per leggere Essere e tempo sono varie: la Longanesi ha da poco aggiornato la versione classica della traduzione di Pietro Chiodi, mentre la Mondadori ha dedicato un Meridiano al libro di Heidegger con un nuovo tentativo di traduzione di Alfredo Marini. Insomma, procurarsi il testo heideggeriano è una cosa molto semplice perché c’è l’imbarazzo della scelta. Se poi la cosa vi appassiona vi suggerirei anche di procurarvi alcuni testi che vi possono aiutare nella lettura o nella comprensione - o anche il fraintendimento, a volte sono la stessa cosa - del pensiero di Heidegger: potete, ad esempio, cercare un piccolo classico come Introduzione a Heidegger di Gianni Vattimo edito da Laterza, oppure un testo appena uscito del povero Franco Volpi Heidegger e Aristotele, ancora per Laterza. Ma la cosa migliore, probabilmente, è quella di affidarsi a due libri di Adriano
Fabris: uno è un’introduzione complessiva al filosofo di Essere e tempo e s’intitola Heidegger, mentre un altro è Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, entrambi editi da Carocci. Il secondo libro di Fabris vi guiderà passo passo nella lettura e nella comprensione di Essere e tempo. Fabris, infatti, sa cosa dice ed è oggi probabilmente il maggior conoscitore dell’opera di Heidegger. Tuttavia, tutti questi consigli e queste cautele non rischiano di allontanare piuttosto che invogliare alla lettura di Essere e tempo? Che cosa fa Heidegger in questo suo libro? Ci dà la vita, ossia il nostro essere-nel-mondo, sotto forma di pensiero scritto. Detto in parole semplici Heidegger fa questo: mostra come l’uomo (l’esserci) può entrare in rapporto con tutto ciò che è (gli altri uomini, gli animali e le cose) perché questo rapporto è già mediato o «aperto» o reso possibile da una particolare comprensione di ciò che chiamiamo «essere». Come potremmo dire l’essere se non fossimo già da sempre coinvolti nell’essere? Il mio Croce lo dice in modo più chiaro: l’uomo vive nella verità. Anche sotto l’ombrellone (se ogni tanto si rinfresca la testa).
Accostarsi a “Essere e tempo” come a un romanzo non è una missione impossibile
Memorie Incontri ravvicinati con Nostro
MobyDICK
milio Cecchi in Ritratti e profili dedica alcune pagine al Piovano Arlotto, un vecchio canonico dei suoi tempi. Il Piovano «camminava dondolando e soffiando, panciuto ed elefantesco. I beceri per istrada si toccavano nel gomito dicendo, non tanto a voce bassa “quelli son tutti polli” al che egli replicava stentoreo “e son fagioli”. Sulla sua tomba il Piovano aveva fatto dettare: “Questa sepoltura il Piovano Arlotto la fece fare per sé e per chi ci vuole entrare”». E Cecchi prosegue: «Non è una cinica sfida, un sogghignante invito mortuario, un salamelecchi di danza macabra; ma come dire che se c’era qualcuno così misero da mancargli perfino dove stendersi per l’ultimo sonno, il Piovano si sarebbe tirato un poco più in là e gli avrebbe fatto posto volentieri».
E
A Pontassieve vicino a Firenze c’era l’osteria del Tomboloni, molto frequentata da scrittori della città: Bilenchi, Luzi, Bo e altri. A un cliente normale il Tomboloni offriva seccamente spaghetti, bistecche e vino locale; ma se ci andavamo noi, con amici scrittori, ecco che c’erano le penne strascicate, il fritto di pollo e coniglio con funghi e carciofi. Si trovavano dal Tombolini un certo numero di vecchietti al medesimo tavolo che si raccontavano cose del passato, con un’aria certamente bonaria, ma fervidamente anticlericale. Si ricordavano ad esempio di un vecchio amico ateo che giunto vicino alla morte fu con insistenza pregato dalla moglie di ricevere il prete. Non ne voleva sapere, ma alla fine il prete arrivò. Si svolse pressappoco questo colloquio: il prete: «In Chiesa non ci siete stato mai», il malato: «È vero non ci sono stato mai»; il prete: «Avete bestemmiato sempre», il malato: «Sì, ho molto bestemmiato»; il prete: «Gliene avete fatte a nostro Signore», il malato: «Sì, gliene ho fatte ma come quella che mi sta per far Lui non gliene ho fatta mai!». Nella stessa situazione un altro vecchio amico che rifiutò sul letto di morte di vedere il prete, ma la moglie lo fece entrare lo stesso. Accanto al moribondo il sacerdote gli sussurrò nell’orecchio: «Dite Giuseppe Gesù e Maria. Dite Gesù Giuseppe e Maria» e il moribondo a botta: «Tre assi e napoletana a picche!». Molto vecchio il Vescovo di Arezzo aveva buona frequentazione con i fedeli e particolarmente con il Prefetto e la moglie che per le feste usavano portargli una scatola di cioccolatini e una bottiglia di cognac. Quando fu sul letto di morte il Vescovo ricevette dal Prefetto una scatola di cioccolatini e gli disse: «Sarebbe stato gradito anche il cognac».
Il grande Vescovo di Livorno contava su fedeli molto affezionati, malgrado il loro colore preferito politicamente. Quando venne da Roma la scomunica per i comunisti, il Vescovo suggerì ai suoi sacerdoti di non chiedere in confessione a quale partito fosse iscritto il penitente. Di lì a poco - il Vescovo era già molto anziano gli fu messo accanto un “coadiutore” di carattere molto duro e spigoloso. Proibì al Vescovo di presiedere le funzioni in Duomo, fidando in qualche modo sulla mente indebolita del Vescovo; lo intimoriva e lo spaventava. Quando il grande Vescovo fu sul letto di morte il coadiutore decise di portargli i sacramenti in forma
Signore di Leone Piccioni
24 luglio 2010 • pagina 19
Il proverbiale anticlericalismo toscano, un incontro con Malaparte sul letto di morte, Davide Lazzaretti al Teatro povero di Monticchiello, secolarità e spiritualità dei Vescovi, Papi e tv... Brevi notizie tra sacro e profano da un carabiniere. Alla fine dello spettacolo di Monticchiello si svolse come sempre un dibattito fra il pubblico. Era presente un sacerdote di Pienza, intelligentissimo, spiritoso e di grande vocazione che fu ripetutamente invitato a prendere la parola. Era riluttante, ma alla fine si alzò e disse: «Lo vedete, io sono un sacerdote cattolico. Che volete che vi dica? Posso solo confessare - con trepidazione - che nella mia vita in seminario e in parrocchia ho dubitato una o più volte della prima incarnazione del Cristo: figuratevi se posso credere nella seconda!».
Il famoso scrittore
privata. Ma il grande Vescovo, che era ormai in coma, ebbe come un sussulto, si tirò su dai cuscini e disse imperiosamente: «Al Vescovo che muore i Sacramenti si portano in forma solenne». E così fu.
Un brav’uomo di Pienza non aveva mai nascosto il suo ateismo ma tutti gli volevano bene anche per la sua vita di miseria e si fermavano con lui anche i sacerdoti della bella città toscana con i quali disputava francamente. Ebbe lutti in famiglia, rimase solo e si avviava alla disperazione. E un giorno, uno dei preti che lo conosceva bene, con grande sorpresa lo trovò in Chiesa davanti al Crocifisso che bisbigliava: «Io non ce l’ho con Te, che hai tanto sofferto, ti hanno picchiato, ti hanno crocifisso; non ce l’ho con Te, ce l’ho con tu’ Padre che m’ha ridotto così». A Monticchiello, vicino a Pienza, si svolge ogni anno un evento teatrale che porta a recitare in piazza tutti i cittadini del posto su nuovi copioni che dovrebbero essere di interesse generale. Anni fa fu scelto come soggetto della recita un personaggio come Davide Lazzaretti: era un carrettiere toscano dell’Ottocento e intorno a lui si esercitò un culto, una sorta di vera religione che lo indicava come il nuovo Gesù dell’epoca industriale, perché il Cristo sarebbe stato l’apostolo delle genti dell’età agricola. Il culto intorno a lui permane come “Giurisdavismo”. Era morto durante una manifestazione ucciso
Curzio Malaparte, ormai morente per un tumore, era ricoverato in una clinica di Roma. Aveva frequentato la bella zona di Bagni Vignone divenendo grande amico di un albergatore del luogo fervente cattolico. La sala d’aspetto della clinica era piena di politici comunisti e di personaggi cattolici che si disputavano l’anima del morente, da una parte comunista, dall’altra credente. Un microfono convocava via via i visitatori. L’albergatore di Bagni Vignone venne a Roma e si inserì anche lui nella sala d’aspetto prevedendo di dover aspettare tanto tempo: fu invece chiamato subito con sorpresa di tutti gli altri. Cercò di dire parole di speranza e di conforto a Malaparte ma lui taceva e si rivolgeva all’amico solo per dirgli: «Ti devo chiedere una cosa: prega per me, prega per me», e l’altro: «Porca…(e giù una bestemmia), che vuoi che non preghi per te, lo faccio, porca… sempre».
Due brevi battutine per chiudere. Quando la Tv era in bianco e nero l’operatore Giandinoto ebbe l’incarico di riprendere in televisione Papa Pacelli, Pio XII, ma staccò quasi subito l’occhio dalla telecamera e disse: «Non mi viene bene: Santità il bianco spara». Un altro operatore si recò con Piero Angela per una ripresa a Papa Montini, Paolo VI. Inquadrò la telecamera, non si decideva a girare finché disse rivolto al Pontefice: «Eccellenza, faccia finta di pregare». L’occhiata di Paolo VI si può immaginare.
ALTRE LETTURE
MARX STA ANCORA BENE, PAROLA DI EDGAR MORIN di Riccardo Paradisi
entre «il liberalismo realmente esistente», si dispiega sul mondo e lo affonda in un abisso ecologico, finanziario, politico ed etico, Edgar Morin in Pro e contro Marx (Erickson, 104 pagine, 10,00 euro) ci invita a ritrovare il filosofo di Treviri nelle sue intenzioni più feconde sotto le macerie dei marxismi. Morin si pone contro lo spirito di sistema che uccide il pensiero e sterilizza l’azione utilizzando il pensiero di Marx per esplorare i meccanismi che agiscono in ogni sistema dogmatico e chiuso. Meccanismi attivi anche all’interno del marxismo stesso. «La concezione antropologica di Marx era unidimensionale: né l’immaginario né il mito facevano parte della realtà umana profonda. L’essere umano era un homo faber senza complessità, un produttore prometeico. Sappiamo invece, come hanno mostrato Montaigne, Pascal, Shakespeare, Dostoevskij, che homo è sapiens demens - un essere complesso, multiplo, che porta in sé il cosmo di sogni e fantasmi».
M
QUANDO LE PAROLE SONO MINIERE DI ZOLFO *****
l Dizionario del diavolo (Guanda, 189 pagine, 13,00 euro) ha avuto una genesi durata più di quarant’anni, durante la quale si è chiamato in vari modi: Dizionario del cinico, Dizionario del demonio, Dizionario del comico. In sostanza si tratta di un lavoro di correzione della lingua del giornalista Ambrose Bierce allo scopo di modificarne il cuore più profondo, di sovvertire il comune senso delle parole a favore di un significato paradossale. Bierce costruisce un testo estremo ed esilarante in cui tutto viene dissacrato compresa la sacra rivoluzione: «Il brusco passaggio da una forma all’altra di malgoverno».
I
LA GUERRA PERSA DALLA SOCIALDEMOCRAZIA *****
rande sconfitta delle ultime elezioni in Europa, in Germania nel 2009 come nel Regno Unito nel 2010, la socialdemocrazia ha subito un ridimensionamento tale da oscurare le sue prospettive politiche. Il suo declino elettorale, secondo Giuseppe Berta (Eclisse della socialdemocrazia, Il Mulino, 156 pagine, 10,00 euro) è la conseguenza dello smarrimento dell’istanza di equità che l’universo socialdemocratico aveva incarnato nella storia del Novecento, col grande e nobile progetto di correggere l’evoluzione capitalista mediante una forte spinta all’eguaglianza sociale. Un’analisi severa e stringente che rende conto del disorientamento della sinistra europea d’oggi.
G
pagina 20 • 24 luglio 2010
di Diana Del Monte l’artista associato designato per l’edizione 2011, ma anche una novità nel panorama di questa 64esima edizione del Festival di Avignone. Si tratta di Boris Charmatz, coreografo e danzatore di formazione classica, ma votato a «l’altra danza», che quest’anno è entrato, per la prima volta, in territorio avignonese. Per saggiare il terreno di questa sua prestigiosa conquista artistica, Charmatz ha portato ad Avignone due coreografie dall’anima profondamente diversa, quasi opposta: Flip Book, in scena dal 9 all’11 luglio, e La danseuse malade, che stasera aprirà il sipario per l’ultima volta. Entrambi prendono ispirazione da una figura emblematica della storia della danza, Merce Cunningham per Flip Book e Tatsumi Hijikata per La danseuse malade, ed entrambi lavorano sull’insolito e ignorato ruolo della scrittura all’interno dell’universo del corpo. Flip Book è stato rappresentato, per la prima volta lo scorso dicembre al Theatre de la Ville di Parigi e può essere considerato un lavoro in itinere, il primo capitolo della nuova avventura di Charmatz nella storia e nello stile del coreografo statunitense; La danseuse malade, invece, è una coreografia del 2008 riallestita per l’occasione. Un lavoro, quest’ultimo, che si pone a metà tra la danza e il teatro e che prende avvio dal testo Matériau du dedans, D’envier les veines du chien di Hijikata; uno scritto surreale, che porta in sé la corporeità del padre del butoh e che non è mai stato pubblicato in nessuna lingua europea. «Ma attenzione alla confusione: noi non ricostruiamo il butoh a partire da questo testo allucinante - ha precisato il coreografo - si tratta, piuttosto, di assumere il pensiero di un immenso artista in modo tale da lasciarci completamente liberi di andare verso la nostra personale deriva». E di butoh, in effetti, non ce n’è; né tradizionale, filologicamente corretto e adatto a una ricostruzione della scena di Hijikata, né di seconda generazione. Sulla scena un camion, Charmatz e Jeanne Balibar, attrice e cantante francese, intenti a
È
Televisione
Danza Butoh e rock and roll ispirano Charmatz MobyDICK
spettacoli DVD
VIAGGIO SULLA LUNA DAL DIVANO DI CASA ono trascorsi quasi quarant’anni dal primo sbarco, ma la graziosa Luna sembra non aver perso un’oncia di fascino. Meta cult del prossimo futuro per lunatici magnati, il satellite che suggerì la tintarella alla Mazzini e indicibili livori alla Bertè continua a essere inseguito dalla Nasa, che conta di condurre alla scoperta delle meraviglie locali un drappello di passeggeri disposti a scucire cento milioni di dollari per l’offerta lancio. Per gli astro-muniti farà da sapido antipasto La Luna come non l’aveta mai vista, bel documentario Bbc ricco di immagini inedite. Per i comuni terrestri è sufficiente il divano in dotazione.
S
PERSONAGGI
SE TRA MICK E KEITH ROTOLANO LE PIETRE strionico e trasgressivo sulle sei corde, tanto quanto con il calamaio. Nonostante l’età avanzata, il mitico Keith Richards sfoggia ancora sul palco polmoni d’acciaio, ma soprattutto una memoria tutt’altro che labile. A tal punto che dopo le iniziali remore, il chitarrista degli Stones ha sfornato una striminzita biografia di sole 550 pagine per l’editore Little Brown. Non fosse che la dovizia di particolari, su cui la stampa si è tuffata in branco, ha prodotto importanti movimenti tellurici nei pressi del baricentro basso di sir Jagger. A tal punto, che molti danno per imminente il divorzio del secolo. Altro che mister e misses Trump.
I
diffondere l’epidemia Hijikata attraverso la loro strada. Diverso, quasi opposto, come lo era d’altronde il suo ispiratore, è, invece, Flip Book; un lavoro che prende origine anch’esso dal rapporto con la lettura, tentando di diventare lui stesso una sorta di libro/palcoscenico fatto di immagini suggerite all’autore dallo scritto di Cunningham, 50 anni di danza. Una coreografia dai ritmi rapidissimi, «rock and roll» l’ha definita il coreografo francese, che si avvicina al genio della danza postmoderna come una forma di museologia della danza, fatta di corpi in movimento. Un omaggio al coreografo statunitense pensato da Charmatz come un lavoro collettivo - e in questo molto poco cunninghaniano - e interattivo, che, come di-
chiara lo stesso artista, non vuole lasciare spazio a nessuna forma di nostalgia o rivalità. Dopo Avignone, l’esperienza di Flip book confluirà in 50 anni di danza, il nuovo lavoro di Charmatz su Cunningham, in prima a Berlino il 24 e 25 agosto in occasione del primo anniversario della morte del coreografo; La danseuse malade, invece, grazie all’interesse suscitato ad Avignone, sembra pronta a una nuova giovinezza della scena. Per ora, il suo avvenire già prevede un viaggio nella patria di uno dei genitori del butoh: «Abbiamo avuto un grande ritorno da parte degli specialisti giapponesi di Hijikata per questo spettacolo - ha spiegato Charmatz per questo ci piacerebbe portarlo lì, come una sorta di orizzonte ultimo».
di Francesco Lo Dico
A caccia di serial killer da Quantico a L.A.
rmai è piena estate, senza retromarce meteorologiche. E siamo agli sgoccioli, almeno sugli schermi Rai e su quelli di Mediaset. Francamente nessun rimpianto: l’annata, come si dice con i vini, non è davvero stata delle migliori. Un discorso a parte meriterebbe l’informazione: bisogna andarla a cercare, ed è una fatica perché non è proprio in primo piano. Per chi ama la fiction e non vuole subire le repliche stantie delle grandi emittenti, segnalo la resistenza e una certa - ma non totale - freschezza di Sky. È il caso di dirlo: per fortuna c’è Criminal Minds (su Fox Crime a orari diversi, con repliche su Fox Crime 1). Siamo alla quinta stagione. Csi Miami è addirittura alla settima, Csi alla decima. Insomma un Beautiful nero che ha diverse versioni, ognuna delle quali con-
O
di Pier Mario Fasanotti notata dalla città dove si svolge il serial. Criminal Minds parte da Quantico, città cult per chi ama i polizieschi. È una squadra quella che appare in video, esperta in «analisi comportamentali». Psicologia e criminologia applicate alla ricerca di chi compie il male. Campeggia l’attore Joe Mantenga, ma anche gli altri sono bravi e credibili. Il gruppo di
psico-detective è suddiviso per caratteri personali. Immancabile la donna che fa ricerche al computer e dialoga con chi va sulla scena dei reati. Stereotipata, televisivamente clonata: non bella, grassoccia, occhialuta, efficientissima, amicona dei colleghi, battuta pronta, ironia e autostima. Poi c’è l’immancabile «primo della classe». In questo caso il giovane e plurilaureato Spencer Reed: apparentemente pedante, con le tasche mentali piene di citazioni e di fardelli statistici, in realtà un buon giovane con comuni debolezze. Lasciata la base, la squadra trova una polizia locale un po’ grezza, e soprattutto diffidente verso i «cervelloni». Il tutto poi si appiana. Così anche in uno degli ultimi episodi intitolato Il principe delle tenebre (potevano ave-
re più fantasia, in effetti). Costui ammazza e stupra da 26 anni, spostandosi in vari Stati americani, ma avendo come baricentro Los Angeles. È l’uomo nero, che si muove nel buio. Brutale, ignorante (lascia messaggi sgrammaticati), fuma in continuazione (c’è sempre un perché nei copioni, ideati da Jeff Davis). Gli analisti si muovono quando trovano connessioni criminali, mai per un singolo episodio. Sono esperti di serialità. Il Ba-Bau della città degli angeli approfitta dei black-out dovuti al caldo torrido e quindi al sovraccarico elettrico. Uccide chi trova nelle sue «invasioni domestiche» e lascia sempre un testimone. Gli esperti con la pistola spiegano ai policemen locali che questo ha a che vedere con la volontà di ottenere «potere e controllo». La squadra di Quantico lavora su un puzzle e a furia di confrontare dati e dettagli si mette sulla pista giusta. Non rivelo l’epilogo, che sarà in un’altra puntata. Certo è che Criminal Minds ha i presupposti per diventare uno o più film.
MobyDICK
poesia
24 luglio 2010 • pagina 21
Nel regno illimitato di Apollinaire di Francesco Napoli i conoscevano bene. Avevano condiviso gli slanci culturali di una Parigi inizi del Novecento, per ambedue estremamente decisiva nella formazione e una donna amata: Giuseppe Ungaretti e Guillaume Apollinaire. Quando nel dicembre del 1918 il grande poeta italiano ritorna dal fronte francese del conflitto nella capitale parigina ha sottobraccio una scatola di sigari toscani promessi all’amico. Entra nella città in fermento contro la Germania del kaiser e urlante A mort Guillaume e ha come un presagio, «l’equivoco del grido era atrocissimo». Corre verso SaintGermain des Prés col cuore in gola, sale le scale e viene accolto dalle donne dell’intellettuale francese, la madre e la moglie. Gli cade il pacchetto dei sigari dalle mani mentre di sottofondo gridavano sempre a morte Guillaume. «Apollinaire era morto. Non era morta la sua poesia».
S
Guillaume Albert Wladimir Alexandre Apollinaire nasce a Roma il 26 agosto 1880, figlio naturale di Angelica de Kostrowitzky, polacca d’origine, e del napoletano Francesco Flugi d’Aspermont. Giovanissimo si trasferisce in Francia dove procede negli studi e nel 1899 va a stabilirsi a Parigi. Ha bisogno di guadagnarsi da vivere e lo fa con la penna, pubblicando nel 1901 il romanzo erotico Mirely ou le petit trou pas cher. Trova una migliore sistemazione in Germania, al seguito dei visconti Milhau come precettore della figlia. Lì s’innamora della governante della bambina, ma dura poco. Nel 1902 avverte il richiamo culturale di Parigi e vi fa ritorno. Lavora in banca di giorno e la sera frequenta scrittori e artisti: Picasso (che gli regalerà una tela per le nozze), Max Jacob, Vlaminck, Jarry e avvia un’intensa attività culturale collaborando a giornali e riviste. Il nom de plume Guillaume Apollinaire compare per la prima volta sulla Revue Blanche sottoscritta alla novella fantastica L’Hérésiarque. Dopo aver curato una edizione delle opere di De
il club di calliope
L’ADDIO Ho colto questo briciolo d’erica L’autunno è morto ricordalo Non ci vedremo più su questa terra Odor del tempo filo di brughiera E io t’aspetto ricordati
Sade e pubblicato in prosa, nel 1911 compaiono i suoi primi versi del Bestiaire ou Cortège d’Orphée. In seguito ad alcuni furti avvenuti al Louvre, e tra le tele sottratte perfino la mitica Gioconda, viene clamorosamente arrestato nel 1913 con l’accusa di ricettazione, ma ne esce assolto. Dopo aver pubblicato Alcools (1913) cresce la sua fama anche in Italia e prima sulla Lacerba (1914) e poi sulla Voce (1915), con il poemetto A l’Italie, compaiono suoi versi. Fa appena in tempo a vedere pubblicati i suoi celebri Calligrammes (1918) e il 9 novembre di quell’anno, colto da un attacco di influenza spagnola, muore a Parigi.
Apollinaire non è stato certo un teorico o un trascinatore come Marinetti e neppure un capo scuola come Andrè Breton; di Valery non ha avuto l’altezza di commisurarsi e interrogarsi sul significato e sulle condizioni della sua produzione poetica; la sua opera non ha avuto la forza d’attrazione, o di repulsione, come quella di Mallarmé pur tuttavia non è un solitario degli inizi del Novecento, tutt’altro. È ammirato, ispira tanto musicisti, come Poulenc, e le sue opere vengono illustrate da Braque, Matisse e Dalì. Sembra quasi che la sua poesia non abbia frontiere delineate: poche sono le tendenze che, durante la sua attività, non abbia sperimentato a dovere, e altrettanto poche sono anche quelle che, dopo la sua morte, in un modo o nell’altro, non abbiano fatto i conti con la sua opera poetica. A quei critici che avevano trovano «tristi» le poesie di Alcools lo stesso Apollinaire rispondeva che quella raccolta rappresenta in verità «la vita stessa, con una costante e cosciente volontà di vivere, di conoscere, di vedere, di sapere e di esprimere». Certo, la dolorosa malinconia del «malamato» e un diffuso sentimento di fuga dalla vita e della vanità delle cose vi sussistono. Eppure con un guizzo d’ironia neppure
Guillaume Apollinaire da Alcool
velata o una parola audace Apollinaire riesce a neutralizzare un sentimento del tempo che non poteva non essere amaro visto quanto attorno succedeva. Un sentimento del tempo che si sviluppa e si precisa nei Calligrammes, raccolta che principia nell’allegria della creazione di un verso totalmente libero da ogni ingabbiatura formale e capace di «dipingere» una tela sul foglio bianco e termina con La jolie rousse, ambiziosa affermazione di poetica e commovente confessione di umiltà. In questa raccolta, al pari della prima ungarettiana dell’Allegria, la guerra vi compare come un’esperienza e una spettacolo senza precedenti, una prova di una crudeltà inumana alla quale fa da contraltare un’esaltazione del sentimento dell’esistenza e dell’amore. Il linguaggio militare, tecnico o gergale che sia, le esagerazioni della retorica patriottica - tenendo comunque presente che Apollinaire resta molo più misurato della maggior parte dei suoi colleghi - le violenze e le tenerezze della solitudine amorosa, gli accenti quasi messianici si alternano a una riscoperta fascinosa dell’ottosillabo tradizionale.
Andare a scoprire queste pagine per riconoscere una sintonia govoniana non significa però non intravedere l’estrema libertà sempre osservata da Apollinaire, in grado ancora di sfruttare la tradizione metrica e di disporre un calligramma in ottosillabi rimati come La colombe poignardée et le jet d’eau. Il poeta pratica con assoluta coscienza e sicurezza la poesia figurata, il cui disegno corrisponde al senso, mette insieme anche più figure per comporre un testo (Paysage), si misura con una ambiziosa costruzione astratta come Lettre-océan, si abbandona in Case d’armons a un gioco tipografico che soltanto in apparenza assomiglia alle parole in libertà futuriste, ma Apollinaire appartiene certamente, come il giovane Hugo delle Odes o Claudel, alla schiera dei poeti per i quali il regno della poesia è illimitato.
I FLUSSI DELLA VITA E LA STRETTA DEL TEMPO in libreria
di Loretto Rafanelli
Così ritornano e sentono un lungo bacio senza luce, un mutismo che non trova il battito del sangue. Escono da quella stanza nello spavento delle strade con un volto invisibile e uno straziato, nessuna impronta li segnala e allora tornano in questo bar di Affori, dove li aspetto con un piede nel vuoto. Milo De Angelis
i Fabio Scotto, è bene rendere conto non solo del suo straordinario impegno come traduttore, specie di Yves Bonnefoy, di cui esce a giorni il Meridiano da lui curato, ma pure della sua scrittura poetica, di cui l’ultima raccolta Bocca segreta (Passigli, 130 pagine, 14,50 euro), ne è una ulteriore felice prova. Già l’inizio del volume ci consegna tre eccellenti poesie dedicate alla morte del padre, versi profondi e dolenti di rara intensità. Scotto è un poeta che attraversa i luoghi, le persone, i loro stati d’animo con attenzione e candore raccontando con dovizia di particolari i flussi della vita, nella stretta di un tempo che «cola come una febbre densa/ sui campi arsi dal gelo». Scotto è un poeta «generoso» che vuole molto dire e riferire delle gioie e dei dolori degli uomini, e sente quasi come un dovere la necessità di guardare nel quadrante del mondo, senza sfinimenti interiori. Egli, con la dovuta riflessione, e un chiaro linguaggio, si spinge verso i più oscuri meandri della vita, perché solo attraverso questo slancio si può ricavare la cifra ultima dell’umanità («se non vivi non muori»).
D
MobyDICK
Essere&Tempo
pagina 22 • 24 luglio 2010
ai confini della realtà
Leonardo Da Vinci sul lettino di Freud di Leonardo Tondo er molti il Rinascimeno italiano rappresenta il momento in cui l’individuo emerge dalla massa e si esprime con tutta la sua forza creativa. Leonardo di ser Piero da Vinci percorse sessantasette anni di quell’esplosivo periodo storico e più di tutti ne incarnò il senso. Il suo eclettismo lo portò a sviluppare ricerche nell’ingegneria e nell’anatomia, ma anche a contribuire da protagonista alla storia dell’arte. Passano quattro secoli e l’artista diventa il protagonista di un piccolo saggio di Freud, attratto dai suoi labirinti psicologici. Che il personaggio potesse stimolare l’attenzione investigativa dello psicanalista non è difficile da capire.
P
Enigmatico dall’inizio alla fine, a partire dal suo originale modo di scrivere leggibile soltanto allo specchio, per arrivare alla rappresentazione di Monna Lisa la cui identità è ancora in discussione, così come quella di uno degli apostoli dell’Ultima cena che ha ispirato Dan Brown nel suo fortunatissimo Codice da Vinci. Eppure l’interesse psicanalitico va verso un dettaglio artisticobiografico che porta alla scrittura di Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (Skira, 144 pagine, 15,00 euro). Oltre al centenario della sua prima pubblicazione, alle ragioni della ristampa non sarebbe estranea la modernità sia dell’artista (vegetariano e pacifista, tanto per dire) sia dello stesso saggio che esplora l’intricato e intrigante rapporto fra psicanalisi e arte. Lo scritto parte dall’indagine sull’attività sessuale dell’artista scartandone frettolosamente una componente omosessuale agita (ma limitata agli aspetti più emotivi) e sostenendo che in generale non fosse «di alto grado». Anzi, il suo atteggiamento sarebbe stato molto controllato e indifferente a spinte passionali positive o negative che
Il San Giovanni Battista di Leonardo Da Vinci. Sotto, il suo autoritratto e una foto di Sigmund Freud. In basso, particolare del foglio 186 v dal “Codice Atlantico” di Leonardo: nelle prime tre righe in alto Leonardo ricorda l’episodio infantile del nibbio. In basso, a destra la copertina del volumetto edito da Skira
fossero. Questa interpretazione dà la possibilità di sviluppare il concetto di sublimazione, «il potere di sostituire al suo scopo immediato altri scopi che possono essere maggiormente stimati e che non sono sessuali», in altre pa-
sul volo del nibbio, ricerca probabilmente influenzata da quella sua prima ricordatione in cui gli pareva di essere in una culla e che un nibbio «venissi a me e mi aprissi la bocha colla sua coda e molte volte mi per-
Un ricordo d’infanzia annotato su una pagina dedicata al volo del nibbio fornisce allo psicanalista viennese l’occasione per spiegare l’omosessualità non agita dell’artista. Con molte notazioni convenzionali e puritane per non offendere la morale del tempo role quel meccanismo di difesa dell’Io per cui l’individuo insensibile o bloccato converte le sue passioni sessuali in attività socialmente utili nella ricerca o in campo artistico. Leonardo ebbe successo nei due rami, il primo probabilmente per esprimere la sua razionalità e il secondo le sue emozioni; pur rimanendone insoddisfatto fino al momento della sua morte («mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio… non avendo operato nell’arte come si conveniva»). Il ricordo d’infanzia a cui Freud fa riferimento riguarda una rara annotazione personale in un brano scientifico
chotessi con tal coda dentro alle labbra». A un secolo di distanza dalla scrittura del saggio ed educati ormai ai sospetti psicanalitici, anche uno studente di liceo che ignora la grammatica, vede nella ricordatione leonardesca riferimenti chiaramente sessuali, ma al tempo di Freud non era ancora apparso sulla scena un suo alter ego che gli avesse spianato la strada. Non solo. Il pudore dell’inizio del Novecento viennese (peraltro caratterizzato da eccessi libertini ben nascosti) non permetteva di parlare di piedi, figuriamoci di fellatio, tanto che Freud ritiene utile
spiegare in dettaglio di cosa si tratti per poi scusarsi con il lettore sperando che «si domini e non permetta a un impeto di sdegno di impedirgli di seguire ulteriormente la psicanalisi solo perché conduce a un’imperdonabile calunnia alla memoria di un uomo grande e puro». Preoccupazioni che a un secolo di distanza fanno sorridere e che potrebbero addirittura invogliare la lettura se non fosse che l’argomento è ormai venuto a noia. Tra le pieghe del saggio si mette in evidenza il cambiamento di percezione della sessualità quando Freud si dilunga su quella che lui chiama una «disgustosa perversione sessuale» che si «ritrova con notevole frequenza tra le donne di oggi» (inimmaginabile riportare che avvenisse anche tra uomini) e che «nella condizione di trasporto amoroso sembra perdere il suo aspetto ributtante». Per meravigliarsi che «le donne non abbiano difficoltà a produrre spontaneamente questo genere di fantasie di desiderio». Le affermazioni sono convenzionali e puritane (e Freud certamente non era né l’uno nell’altro), ma è evidente la sua preoccupazione che una maggiore concessione all’argomento non sarebbe stata accettata mettendo a rischio il suo impianto interpretativo. Così, se da una parte parla di fantasia disgustosa, dall’altra afferma che la morale del tempo condannava con tanta severità nient’altro che la rappresentazione della suzione di un capezzolo.Tesi suggestiva ma discutibilissima visto che la maggior parte degli uomini va direttamente all’origine e molte donne non lo ritengano assolutamente necessario (a meno che non sia in gioco una carriera) nella gamma delle possibili effusioni sessuali.
Per tornare a Leonardo sul lettino di Freud, la fantasia del nibbio aiuta lo psicanalista a fare outing dell’artista e a spiegare che la sua omosessualità fosse legata alla ricerca della madre attraverso la considerazione che il nibbio era creduto nell’antichità egizia (conosciuta a Leonardo) essere soltanto di genere femminile. Da qui Freud costruisce una teoria dell’orientamento omosessuale del genio rinascimentale come un attaccamento erotico verso la madre nei primi anni di vita a cui rimane fedele per tutta l’esistenza, una figura che lo riempie di attenzioni e di sorrisi, che dà al figlio le carezze e le attenzioni che lei stessa non ha ricevuto (il padre di Leonardo la confinò in una sua proprietà appena nato il figlio). Quegli stessi sorrisi di Sant’Anna e la Madonna che nel celebre quadro del Louvre guardano il Bambino ma che diventeranno la cifra misteriosa e inquietante di molti altri soggetti, da Monna Lisa, a Bacco e a San Giovanni Battista.