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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Perché la filosofia vende più della psicoanalisi

di Pier Mario Fasanotti trano, ma vero. Ogni giorno nel mondo c’è qualcuno che compra un’opera di Sant’Agostino o comunque un libro dove si parla del filosofo cristiano autore delle Confessioni e La città di Dio, nato nel 354 e morto nel 430 d.C.. E Sigmund Freud, Gustav Jung e compagni? Non sono certo in testa alle classifiche. Come non lo sono più i manuali di psicoanalisi. Semmai a occupare una posizione privilegiata sugli scaffali sono gli scritti di Leopardi, Platone, Nietzsche, Seneca (va molto Lettere a Lucilio), Schopenhauer. Per citarne solo alcuni. Stiamo assistendo a una sterzata culturale dopo la sbornia freudiana, che ha alcolizzato, o «terapeutizzato», l’America. Se un regista come Woody Allen dovesse girare un nuovo film, e non fosse così (a volte) ossessivamente legato alle sue esilaranti esperienze sul lettino del terapeuta, dovrebbe inserire come personaggio laterale il consulente filosofico. È una nuova figura, cui si rivolgono non solo i singoli ma anche le aziende. A tutto vantaggio di coloro che credevano, fino a una decina di anni fa, che la laurea in Filosofia fosse un elegante documento da consegnare allo sportello per i disoccupati intellettuali. Certo, il linguaggio psicoanalitico improntato sul sentito dire continua a circolare. Basta sfogliare le riviste femminili e andare alle «lettere del cuore». Basta afferrare brandelli di discorsi al bar o in autobus: di fronte a una vedovanza c’è sempre qualcuno che consiglia di «elaborare il lutto», e se uno racconta un episodio che ha una certa stranezza, immancabile è il riferimento all’«inconscio». La rivoluzione freudiana operata all’inizio del Novecento (è di quella data L’interpretazione dei sogni) si è infilata nel tritatutto lessicale, il più delle volte sganciata dal vero significato che il pensatore austriaco conferiva ai conflitti interiori.

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W PLATONE W FREUD 9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Ipocrisia di Rino Fisichella Jesse Malin riletture d’autore di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Il canto delle Sirene tra minaccia e armonia di Roberto Mussapi

Dopo la sbornia freudiana stiamo assistendo a una sterzata culturale per cui al lettino del terapeuta si preferisce la nascente figura del consulente filosofico. Per la ricerca di significato ci si affida più volentieri a Schopenhauer che a Jung

Tessere una storia partendo dalla cronaca di Maria Pia Ammirati Raymond Carver il cesellatore di Francesco Napoli

L’art sauvage che piaceva a Peggy di Marco Vallora


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segue dalla prima

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

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A sinistra, dall’alto in basso, Freud, Jung e Seneca. A destra, dall’alto in basso, Nietzsche, Schopenhauer e il dipinto di Raffaello che raffigura Platone e Aristotele

Nello stesso tempo si avverte, sempre nei luoghi più affollati, un marcato fastidio verso quell’idraulica psichica che collega i nostri detriti più dolorosi e ostacolanti a traumi della prima infanzia o a un pansessualismo che spesso non si sa bene se sia più fuorviante o più ridicolo. Un filosofo junghiano come James Hillman, oggi il più autorevole e noto nel mondo, s’è preso la briga di togliere la maschera a certi stereotipi. Affermando per esempio che certi automatismi di marca freudiana devono rimanere nei libri e non devono essere più applicati alla vita quotidiana. È da idioti, dice Hillman, non considerare l’ipotesi che un abitante di Los Angeles soffra di disagi per colpa dell’inquinamento, del traffico e dei traumi urbani. Che senso ha dirgli che il suo disorientamento interiore è necessariamente da ricondurre a un cattivo rapporto con la madre o con il padre? Insomma, è sempre colpa della nostra infanzia, come se fossimo nati in Ruanda nel pieno del genocidio tribale?

Lou Marinoff, docente di Filosofia al City College di New York, ha scritto (in Platone è meglio del Prozac, Piemme editore) una pagina da consigliare a tutti. Mettiamo che un giocatore di scacchi (attenzione: è solo una metafora) muova una pedina. Lo psicoanalista chiede il perché. E lui: per mangiare la torre. Lo specialista dell’inconscio parte lancia in resta e tira in ballo l’intera esistenza del giocatore, contesta le sue frustrazioni giovanili, discetta sul fatto che l’atto di mangiare la torre deriva dall’essere stato svezzato dall’allattamento al seno.Altra domanda: che cosa ti ha indotto a fare quella mossa e non un’altra? Se la risposta è la stessa, e ragionevolmente lo è visto che è davanti a una scacchiera e non a un confessionale, ti può urlare addosso: «Ah, eccolo qua: turba della personalità aggressivopossessiva». Se invece a osservare il gioco fosse un filosofo, spiega Lou Marinoff, questi analizza la mossa «non soltanto come effetto di una causa precedente, ma come qualcosa di significativo nel contesto della partita, nonché la causa di futuri effetti». Insomma, la «voglia» così divorante di torre fa parte del gioco, perché «la vita non è una malattia». Il filosofo Umberto Galimberti, che pure è analista, è severamente

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sintetico: «Le nostre sofferenze psichiche non sempre dipendono da conflitti interni, ma il più delle volte dalla nostra troppo angusta visione del mondo». E ancora: «Le pratiche psicoanalitiche hanno perso il loro referente, ossia la realtà». Una frase, questa, appuntita come una lancia. Da scagliare contro quel garbuglio freudiano e post-freudiano che ha reso felici, e assai confusi, molti intellettuali à la page. Gli stessi che esultano dinanzi all’intricatissima prosa di Jacques Lacan, o a certe sue affermazioni. Una a caso: «La donna non esiste». Se questa è psicoana-

lisi, ovvia è la licenza alla risata, al dileggio. O allo spostare la nostra ricerca di significato e di valori sulla vecchia e cara filosofia. Sono tuttavia in molti a sostenere che la filosofia oggi non ha più validi eredi. Semmai ci sono divulgatori, esegeti, masticatori raffinati del pensiero antico. Con questo ruolo, in ogni caso, aiutano ad affrontare quesiti come quelli che derivano dall’assioma di Nietzsche: «Manca il fine, manca la risposta ai perché». È lo stesso filosofo tedesco che racconta in modo molto efficace, nella Gaia scienza, una sorta di parabola. C’era una volta un pazzo che accese una lanterna e si recò in un mercato e cominciò a sbraitare: «Cerco Dio! Cerco Dio!». Si sollevarono grandi risate e il folle venne ridicolizzato con provocazioni di questo tipo: «Si è forse perduto come un bambino? Ha paura di noi?». Ma il pazzo raggelò gli astanti dicendo che Dio era morto. E aggiunse: «Siamo stati noi a ucciderlo!». Affermava l’uomo con la lanterna che «la nostra vita è un eterno precipitare» a causa di questo evento eccezionale.

Due sono le risposte-rimedi, tra loro non conflittuali: l’avvicinamento agli insegnamenti di Gesù, e la riflessione su ciò che scrissero i grandi filosofi. Pierre Hadot accosta il credo religioso alla filosofia (i suoi libri sono editi da Einaudi e Aragno) e nel saggio Esercizi spirituali e filosofia antica, afferma che «furono proprio le filosofie antiche a formare gli animi piuttosto che informarli». Se oggi la filosofia spesso sonnecchia nella muffa accademica, mostra la sua vivacità appena oltrepassa i muri delle accademie. Uno studioso come Giovanni Reale (autore della Saggezza antica, Cortina editore) evidenzia il nichilismo e il relativismo oggi imperanti: «Quando Nietzsche diceva che Dio è morto, si riferiva alla sfera dei valori. E prevedeva un’epoca di vuoto». Reale sa bene che la divulgazione dei classici del pensiero è un dato di fatto. Platone è un best seller. Malgrado gli accademici si chiudano spesso nelle loro ricognizioni storiche, e questo accade, come dice lo storico della filosofia Giovanni Foriero, «dopo la fine dei grandi si-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

stemi di idee e il fallimento delle vie verso l’utopia». Ma Fornero avverte al contempo che è robusto oggi il ritorno al pensiero religioso e alla filosofia che lo spiega e lo sorregge. Varie case editrici come Einaudi, Laterza e Apogeo dedicano collane alla storia del pensiero. Si parte dalla bellissima frase di Eschilo: «Il sapere ha potenza sul dolore». Gli antichi greci non a caso sostenevano - anticipando così il nucleo della psicoanalisi - che il logos (la parola) cura. Siamo alla rivalutazione di grandi «farmacisti dell’anima» come per esempio Marco Aurelio. Oggi, come suggerisce il professor Reale, c’è l’homo viator, ossia il viandante che continua a

cercare. Oppure l’uomo che nella fede religiosa scopre insegnamenti duraturi. Nell’epoca della complessità e della crisi identitaria, il punto di riferimento è Gesù o è Seneca, per schematizzare ovviamente. Non certo le suggestioni che provengono dall’Oriente: quelle agiscono sui comportamenti, predicano la teoria del distacco, dell’atarassia, della meditazione senza cardini potenti. Dicevamo prima della nuova figura professionale che è il consulente filosofico. Ha indubbiamente un vantaggio: non prospetta dieci anni di analisi del profondo, si stacca da tecniche di ascolto snervanti, ha l’intento di inserire il disagio di una persona nel suo contesto di vita reale con l’aiuto del pensiero dei grandi classici. Uno dei più noti è Gerd B. Achenbach, filosofo tedesco che ha insegnato a Klagenfurt e a Berlino. Ha scritto molti libri tra cui Del giusto nel falso (Apogeo editore, vedi Mobydick del 12 luglio, p. 7, ndr). Ha spiegato così il suo lavoro: «Il nostro è soprattutto un chiarimento sul senso della vita, sui suoi malintesi, sulle sue banalizzazioni. Se l’esistenza si misura esclusivamente sul successo, il denaro, la bellezza, la giovinezza, l’essere umano collassa, svanisce, inevitabilmente vive la propria vita come un progressivo e inarrestabile declino. Per dirla con Voltaire, chi non possiede lo spirito della propria età subisce i malanni dell’età. Uno dei sintomi della sindrome da burnout, che in inglese significa proprio bruciarsi, è il lavoro eccessivo, l’ossessione della carriera che conduce al deserto emozionale. Oggi a esserne colpite sono anche le donne che hanno corretto un errore facendone un altro: una volta individuavano il senso della vita nell’allevamento dei figli, ma poi i figli crescevano e loro si ritrovavano invase dal senso del vuoto, oggi lavorano come dannate e alla sera si sentono comunque svuotate, de-personalizzate. Il problema principale è che c’è la costrizione a essere “qualcuno”, e intanto vengono meno i presupposti per essere un individuo». Achenbach precisa che non intende assolutamente insegnare a pensare. Semmai a vivere. O vivere meglio grazie al pensiero. Hegel diceva che «la filosofia è la domenica della vita». È chiaro che gli stupidi non hanno mai una domenica. E nemmeno vanno a casa di chi spiega loro che una delle ragioni fondamentali dell’infelicità è il porsi obiettivi irraggiungibili. O il non averli.

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26 luglio 2008 • pagina 3

IPOCRISIA come ipocrisia. Ci sono molte qualità nelle persone, ma con esse coesistono inevitabilmente anche diversi difetti. Uno dei peggiori, a nostro avviso, è l’arte di fingere per ingannare l’interlocutore o, altrimenti detto, ipocrisia. È, di fatto, la paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere se stessi; la finzione impedisce di avere coraggio per dire apertamente la verità e, in questo modo, ci si sottrae facilmente all’obbligo morale di dirla sempre, dovunque e nonostante tutto. In un mondo dove la verità si è frantumata e dove le relazioni interpersonali si vivono all’insegna del formalismo, gli ipocriti hanno vita facile. La coltura del virus dell’ipocrisia, infatti, abbonda e fermenta facilmente là dove tutto è dato come apparenza e mai come sostanza. L’ipocrita, d’altronde, non sarà mai capace di amore, perché vive di egoismo e non ha il coraggio di mostrare il suo vero volto.

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L’ipocrisia ha una derivazione semantica interessante che aiuta a comprendere il valore traslato a cui si è giunti. Gli antichi greci erano soliti definire gli attori con il termine «ipocrita» in quanto erano chiamati a interpretare la parte nella recitazione. Erano, quindi, riconoscibili «ipocriti drammatici», «ipocriti comici» e «ipocriti tragici» a seconda della loro interpretazione nella parte assegnata. La vita dell’uomo, nel passato molto più che nel presente, era assimilata al palcoscenico e il modo di viverla faceva riferimento all’attore. Oggi, le cose non sono particolarmente cambiate. Forse, nessuno più si sente un attore sulla scena del mondo; eppure, in tante circostanze siamo ancora chiamati a recitare la nostra parte. Ibsen, nel suo Catilina, ha mostrato con durezza che l’uomo continua a recitare nella sua vita, ma adesso lo fa solo davanti a se stesso. Nietzsche, da parte sua, scrive testualmente che «la vita è una commedia che si recita», ma essa è così ambigua che può essere o una rappresentazione ingenua e innocente di sé oppure «la più astuta e consapevole ipocrisia». Nel suo Al di là del bene e del male, giungerà a dire che l’uomo è «condannato alla commedia» e ogni parola che pronuncia è sempre e solo «una maschera». Pirandello non è stato l’ultimo in Sei personaggi in cerca d’autore, a mostrare come l’esistenza personale sia drammaticamente soggetta alla rappresentazione fino a prescindere dall’autore stesso che l’ha posta in essere: «Quando un personaggio è nato acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può essere da tutti immaginato in tant’altre situazioni in cui l’autore non pensò metterlo». Potremmo continuare nelle citazioni, ma si arriverebbe sempre alla stessa conclusione: l’uomo ama recitare; pur-

Gli antichi greci chiamavano “ipocrita” l’attore che interpretava una parte nella recitazione. Oggi la vita dell’uomo è più che mai assimilata al palcoscenico e l’arte di fingere, di lusingare, di trarre in inganno è diffusa in molte situazioni…

Condannati alla commedia di Rino Fisichella

Paura della verità. È questo il confine, la differenza che non si riesce a cogliere tra ciò che è e il ruolo che si svolge, tra ciò che si rappresenta e ciò che deve essere. “Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno”, ha detto Gesù. È una questione di sostanza, non di forma

troppo, non sempre riesce a cogliere la differenza tra ciò che è e il ruolo che svolge; tra ciò che rappresenta e ciò che deve essere. L’ipocrisia si pone su questo confine. Quando si pensa che tutto è apparenza, finzione, ruolo da svolgere… allora ci si nasconde a sé e agli altri e si recita una parte sfidando noi stessi a verificare quanto siamo bravi. Più la finzione e la menzogna riescono ad apparire come la verità e più riusciamo a dire che siamo ottimi attori, «ipocriti».

Il senso negativo di ipocrisia sorge nella sacra Scrittura. Un chiaro esempio è dato dal vecchio Eleazaro il quale si rifiuta di «fingere», cioè di essere ipocrita, e accetta la morte perché nessuno pensi che «per la mia ipocrisia altri siano tratti in inganno a causa mia» (2 Mac 5,24). L’ipocrita viene identificato con lo stolto, il malvagio e l’empio. I Vangeli riportano diverse situazioni in cui Gesù rimprovera fortemente l’ipocrisia. Essa viene intesa come il comportamento falso di chi dinanzi a lui mostra compiacimento per la sua parola, ma nell’intimo pensa il contrario e agisce poi di conseguenza. Di fatto, questa situazione è rimasta nell’uso comune del termine. L’ipocrita è identificato come colui che finge, che lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto e non ha la forza né il coraggio di confrontarsi con la verità. Ci sono molte situazioni in cui è dato verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro dove si cerca di apparire amici con i colleghi mentre la competizione in atto porta a colpire poi alle spalle. Nella politica non è inusuale trovare forme di ipocrisia che portano a mostrare una schizofrenia nei comportamenti delle persone in pubblico e in privato. Se situazioni di ipocrisia sono facilmente prevedibili in alcuni ambienti e diventano perfino tollerate, destano dolore e tristezza quando si manifestano in ambienti dove meno ci si aspetta, quali le religioni. Diventa difficile, ad esempio, sopportare l’ipocrisia nella Chiesa perché viene identificata come il luogo in cui non solo si annuncia la verità, ma si vive del comando dell’amore. Incontrarsi con degli ipocriti non è mai desiderabile, ma è detestabile quando questi sono ministri del Vangelo. Non dovremmo mai dimenticare le parole del Signore, che in questo contesto assumono un valore paradigmatico da cui nessuno può prescindere: «Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno» (Mt 5,37). Se l’uomo desidera la verità e per tutta la vita la ricerca allora deve rifuggire dall’ipocrisia; è una questione di sostanza non di forma. È in gioco la credibilità della propria esistenza dinanzi al mondo, non l’illusione di una fugace apparizione davanti a un’anonima telecamera.


musica Jesse Malin MobyDICK

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rock

il songwriter che piace al Boss di Stefano Bianchi l Boss, che se ne intende, ha tenuto d’occhio questo ragazzo del Queens. E lui, figlio della pulciosa New York dei sobborghi, tra alveari di cemento e schiere di abitazioni da lower-middle class, lo scorso anno l’ha voluto a ogni costo in Broken Radio, pungente storia d’amori perduti. Si sono stretti la mano, Jesse Malin e Bruce Springsteen. E dopo avere incrociato voci e chitarre, hanno trasformato quei tre minuti e mezzo nel pezzo forte dell’album Glitter In The Gutter, terzo esempio di garage rock furente e romantico all’indomani di The Fine Art Of Self Destruction e The Heat. Dunque, la ruvida poesia urbana di Jesse Malin ha messo radici in quelle tracce sonore di vita vissuta diluite dal 2002 al 2007. Altro che milleluci di New York. Qui si respira aria da bassifondi, con un orecchio ai Ramones (nati nel Queens, come lui) e l’altro a Elliott Murphy. Ma prima di diventare solista, Jesse aveva debuttato nell’hardcore degli Heart Attack e nei D Generation, ragionando di glam-punk. Bollenti spiriti giovanili. Finché il cantautore Ryan Adams, convinto che quel talento si penalizzasse nei limiti angusti di una band, gli ha prodotto The Fine Art Of Self Destruction promuovendolo songwriter a tutto tondo. E Jesse, a quel punto, s’è sbizzarrito ad affinare la propria indole stradaiola ispirandosi a padri putativi quali Neil Young e Tom Waits. Che ora si affacciano nel canzoniere di On Your Sleeve, affettuoso omaggio a quei gruppi e a quei solisti che non si stancherà mai d’ascoltare. Apprezziamolo, quindi, mentre rivisita Looking For A Love di NeilYoung tra-

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in libreria

IGGY POP, UN CUORE AL NAPALM

mondo

sformandola in un rhythm & blues stile Motown, e addolcisce a tal punto Tom Waits da strizzarne fuori tutto il romanticismo possibile (I Hope I Don’t Fall In Love With You). Nel selezionare queste canzoni, Jesse Malin s’è comportato come quei segugi del disco che bazzicano minuscoli negozi del Greenwich Village alla ricerca del vinile perduto. E la pesca s’è rivelata miracolosa, se i Rolling Stones di Sway (epoca Sticky Fingers) vengono infilati nei bassifondi con un sound elettronico che somiglia a quello dei gloriosi Suicide; i Clash di Gates Of The West acquistano una solidità tutta mainstream; i Ramones di Do You Remember Rock’n’Roll Radio sono più che mai anni Cinquanta e il Paul Simon di Me And Julio Down By The SchoolYard non si sarebbe mai sognato d’essere tanto rockabilly. C’è affetto, nelle riletture del rocker con la chitarra. Anche quando fa il romanticone pizzicando alla maniera di Willy DeVille Wonderful World di Sam Cooke, spruzzando di rugiada folk Operator (Jim Croce), riempiendo di tenerezza Everybody’s Talkin’ (Harry Nillson), sussurando a fior di labbra Harmony di un Elton John anni Settanta. Walk On The Wild Side di Lou Reed, invece, è la piccola stonatura del disco: troppo zuccherosa. D’altronde, l’originale è inavvicinabile. Dovrà farsene una ragione, Jesse Malin: il re di New York, per il momento, è ancora il vecchio Lou. Jesse Malin, On Your Sleeve, One Little Indian/ Goodfellas, 18,90 euro

riviste

EXTREME: A VOLTE RITORNANO...

JOHNNY B. GOODE? INTRAMONTABILE

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ià il nome invoglierebbe chiunque a lanciarsi nella lettura. Se poi si aggiunge che il centro della narrazione ruota tutto intorno a lui, Iggy Pop, l’anima del rock più camaleontico, il gioco è fatto. In Cuore di Napalm (Stampa Alternativa, 15 euro), Andrea Valentini e Gabriele Lunati provano a tracciarne un profilo «il più delineato possibile», seguendo passo passo tutte le tappe della sua vita.

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n Italia li ricordiamo soprattutto per le note suadenti di quel goloso pasticcino che fu More than words, una delle canzoni più intonate dai tastieristi ai matrimoni anni Novanta. E invece gli Extreme, gruppo funk metal balzato agli onori delle cronache di quel periodo grazie al funambolismo chitarristico di Nino Bettencourt, furono sino all’irruzione del grunge una compagine capace di raccogliere le pesanti eredità la-

acua, forse futile ma del tutto sapida. Fresca come una bibita, la nuova classifica estiva pubblicata dalla celeberrima rivista americana Rolling Stone mette in fila le canzoni chitarristiche migliori di ogni tempo, secondo i lettori. Prontamente rimbalzata su musica.excite.it l’accozzaglia di gioielli vede al primo posto il mitico fondatore del double stop pentatonico, Chuck Berry, con l’intramontabile Johnny

Fresca di stampa una biografia che ricostruisce tutte le tappe della vita del ”camaleonte del rock”

Un nuovo album entro l’anno e un tour di 12 mesi per lanciarlo segnano la ricomparsa della band

Chuck Berry in vetta alla classifica delle canzoni “chitarristiche” migliori d’ogni tempo

Iggy Pop, al secolo James Newell Osterberg, nasce il 21 aprile 1947 vicino al Lago Michigan. Sua madre, impiegata in una ditta aerospaziale, il padre insegnante di letteratura inglese in una high school. Uno scenario middle class che può far immaginare «un futuro da colletto bianco per Jimmy». In realtà c’è qualcosa che influenzerà per sempre la vita del giovane: l’abitudine degli Osterberg di condurre un’esistenza ai limiti del nomadismo spostandosi spesso in diversi trailer park, «zone di “crepuscolo”in cui gli scenari di emarginazione erano all’ordine del giorno». Il resto, lo sappiamo, è storia... del rock.

sciate dai Queen e dai Van Halen. Dopo la reunion di quattro anni fa, Bettencourt e soci si sono finalmente decisi a pubblicare un nuovo album che probabilmente vedrà la luce entro la fine del 2008. Dal titolo non troppo enigmatico, Saudades de rock sarà accompagnato da un massiccio tour mondiale della durata di dodici mesi e vedrà la partecipazione della band al completo: Gary Cherone alla voce, Nuno Bettencourt alla chitarra, Pat Badger al basso e Paul Geary alla batteria. «Il vero rock and roll è quasi estinto», ha fatto sapere Bettencourt a chi gli chiedeva come mai gli Extreme avessero deciso di tornare sulle scene. Se ne vanno sempre i migliori ma a volte ritornano.

B.Goode. A breve distanza segue la postmoderna e sempre immaginifica Paranoid android dei Radiohead, mentre la terza piazza è appannaggio dei Led Zeppelin, che con i riff immalinconiti ed eterni di Starway to heaven hanno segnato l’immaginario degli anni Settanta. Ben classificati i Guns N’ Roses, quarti con la sempre vitaminica Sweet child o’mine e i Deep Purple con Smoke on the water, ai giovani italiani tristemente nota come la sigla di Lucignolo. Il mito di Hendrix colpisce ancora con Voodoo child e Purple haze, rispettivamente al sesto e ottavo posto, mentre chiudono la hit One dei Metallica e While my guitar gently weeps dei Beatles.

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zapping

IL VUOTO DELLE VACANZE? Si riempie con l’air guitar di Bruno Giurato imentichiamo la pila di libri su cassapanca e/o comodino che aspetta l’estate per ridursi. Se è vero, come dice il professor Umberto Eco, che chi ha una biblioteca ha anche un senso di colpa, l’estate è il momento migliore per liberarsene. Perché, qui tra noi possiamo confessarcelo, l’estate non è fatta per la cultura. Estate e in particolare agosto vuol dire vacanza, e l’etimo non tradisce: vacanza assomiglia a vacante, latino vacuum, vuoto. La vacanza estiva sarà tanto più riuscita quanto più asseconderà il destino che è già nel suo nome, il vuoto. E infatti l’entertainment stagionale è fatto di cose vuote. Per esempio giocare a racchettoni, leccare il gelato di nocciola prima che si squagli (quale miglior metafora del carpe diem?) e caschi sulla Lacoste, scrivere poesie d’amore sul bagnasciuga. Vuoto e ancora vuoto. E sul lato musicale, che è quello che ci interessa di più, l’entertaniment stagionale ha fatto miracoli di vuoto. Non parliamo delle hit estive da radio e da discoteca. Parliamo della cosa più vuota che si possa fare: l’air guitar, che si sta affermando nelle ultime stagioni. Per i pochi che non lo sapessero la pratica consiste in questo: si mette su un pezzo di musica rock e si mimano i movimenti e le pose del chitarrista, senza strumento, con una «chitarra d’aria». Ecco, nei ristoranti e nei locali invece che i noiosissimi karaoke che ci tormentano con i cantanti stonati ci piacerebbe vedere tanti air guitarist. E che i convitati che assistono siano tutti ben brilli. Tanto per godere del rock diffuso dalle casse, e dimenticare che lì di fronte c’è chi fa azione e figura del niente. Questa sì sarebbe la dolcezza del vivere.

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jazz

classica

Torna l’Olimpiade di Leo e Metastasio di Jacopo Pellegrini on per far concorrenza ai prossimi giuochi di Pechino, ma più modestamente per offrire una ribalta a giovani usciti dai corsi dell’Accademia di canto Carmina et Cantica, l’Estate del Bibiena 2008 (la rassegna di concerti e spettacoli organizzata dal Teatro Comunale di Bologna) ha messo in programma L’Olimpiade di Leonardo Leo, versi di Pietro Metastasio, composta nel 1737 per l’allora neonato Teatro di San Carlo a Napoli. Una riesumazione, si sarebbe detto una volta con immagine macabra ed efficace: troppe volte, infatti, i ritorni dal passato di testi dimenticati si rivelano morti-viventi, se non addirittura morti-morti. Non però stavolta. Unico neo, l’aver bruciato l’impresa in una sola recita, per giunta di lunedì e a fine luglio. Risultato: pubblico scarso ancorché plaudente. Leo (1694-1744), organista della cappella reale e insegnante nei conservatori della Pietà dei Turchini, di S. Onofrio, fu un tipico esponente della Scuola napoletana, uno di quei musicisti, ci apprendono le storie della musica, dediti da mane a sera a scovare cantilene dolci regolari orecchiabili, infischiandosene degli altri parametri compositivi (armonia, contrappunto, orchestrazione) e di qualsivoglia aspetto drammatico-psicologico, eccezion fatta per la pittura sonora di «affetti» stereotipati (rabbia dolore gioia ecc.). Sarà; ma allora, come spiegare il taglio irregolare di molte melodie, la varietà degli schemi ritmici, le modulazioni frequenti e improvvise, la scrittura densa con accompagnamenti accuratissimi, infarciti di voci interne e controcanti? Per non parlare del contrappunto scolastico esibito dai cori (un coro vero, non i solisti riuniti secondo la prassi italiana corrente nel Settecento). Sul fronte dell’inventiva canora è innegabile la molcente tenerezza di certi motivi cullanti, ma anche da questo punto di vista il ventaglio espressivo esibito da Leo è molto più ampio di quanto non voglia la vulgata critica formatasi sugli esempi di Durante e del suo pupillo Pergolesi (autore nel 1735 di un’altra Olimpiade). Mentre quest’ultimo, più giovane d’una generazione rispetto a Leo, persegue e ratifica la nuova voga musicale che tralascia di buon grado ogni complessità, il collega più anziano resta per certi versi ancora fedele alla musa severa di Alessandro Scarlatti. Nei recitativi, nelle arie e nell’unico duetto dettati da Metastasio (il libretto risale al 1733) al tradizionale intrico amoroso -

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Licida, già legato ad Argene, aspira alla mano di Aristea, che ama, riamata, Megacle - si mescola un altro tema portante, quello dell’amicizia virile (di omerica memoria) tra Licida e Megacle. Leo, dal canto suo, amplifica l’importanza di questa componente sia quando riserva ai due giovani i soli recitativi accompagnati dall’orchestra (uno ciascuno), sia quando rispetta l’ordine degli interventi voluto dal Poeta Cesareo, con Megacle al centro dell’opera (atto II, scena X: «Se cerca, se dice», con quei patetici rallentando in corrispondenza del botta-e-risposta descritto dal testo: «L’amico dov’è?» «morì») e Licida in chiusura dello stesso atto.

Le interpreti delle due parti non possiedono ancora lo spolvero virtuosistico preteso dal compositore, ma pur tra inevitabili acerbità sia la Golemi sia, soprattutto, la Pacileo riescono a dare l’idea di individui preda di sentimenti contrastanti (amore contro amicizia in Megacle, ira e viltà in Licida) e non semplici veicoli di «affetti». Tra gli altri interpreti spicca il promettente tenore Kllogjen. Un vero peccato la resa approssimativa dei recitativi. Statico nei movimenti e impacciato nei gesti (comprensibile trattandosi di esordienti), l’allestimento, curato da Antonio Petris, consta di pochi elementi scenici dalla vaga impronta metafisica e di un velario di tulle al proscenio impiegato come schermo per proiezioni. Responsabile anche dell’edizione musicale, Alessandro D’Agostini elimina tre arie e qualche da capo, cerca il giusto carattere (stacchi, fraseggio, colori) per ogni pezzo, ha energia e personalità da vendere.

Sellani-Rea, la perfezione in un duo pianistico di Adriano Mazzoletti l duo pianistico ha nel jazz origini assai lontane. Già all’inizio degli anni Venti ogni grande orchestra aveva in organico due pianisti che spesso si esibivano in intermezzi. Lo stesso George Gershwin si trovò, quando suonava con l’orchestra di Paul Whiteman, accanto al pianista, ma soprattutto arrangiatore, Ferdie Grofé. E gli esempi potrebbero continuare all’infinto, Fats Waller e Bennie Payne, i pianisti di boogie woogie Albert Ammons e Pete Johnson. In Italia fra il Trenta e i Quaranta celebre è stato il duo Bormioli-Semprini e in epoca recente Martial Solal con Hampton Hawes e ancora Martial Solal con Stefano Bollani. Ultimamente due altri pianisti, Renato Sellani e Danilo Rea, il primo con una assai lunga attività che risale ai primi anni Cinquanta, il secondo leader del celebre Doctor 3, hanno deciso di speri-

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mentare il duo pianistico in un disco appena pubblicato. L’esecuzione a due pianoforti senza accompagnamento nel jazz non è semplice. L’improvvisazione ove i due strumentisti debbono incrociare le frasi cercando di indovinare le linee melodiche che uno dei due sta per eseguire e inserirsi di conseguenza è straordinariamente difficoltosa. Perché il duo pianistico non è semplicemente l’esecu-

zione di un brano suonato prima da uno dei pianisti accompagnato dall’altro e viceversa, ma l’improvvisazione estemporanea a «due voci», agevole quando a dialogare sono due strumenti diversi, arduo con due strumenti identici. È necessaria pertanto una lunga consuetudine e soprattutto la conoscenza profonda dello stile, delle idee e del fraseggio del partner. Famosa era la perfezione del dialogo raggiunta da Enrico Bormioli e Alberto Semprini che suonarono in duo per oltre dieci anni. Nel caso di Sellani e Rea, la perfezione è quasi raggiunta, non certo perché i due solisti siano soliti suonare in duo, ma perché la loro sensibilità e la capacità di percepire con rara intuizione le idee di uno e dell’altro, li portano a trovare quelle soluzioni assai rare in duo pianistico improv-

visato. Inoltre è la scelta dei temi a determinare la fusione fra i due esecutori. Rea e Sellani hanno scelto alcuni celebri standars quali My Foolish Heart e My Funny Valentine, canzoni italiane come Mi sono innamorato di te e Quando di Luigi Tenco, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno e di autori francesi Les Feullies Mortes e Once Upon a Summertime di Michel Legrand. Ma sono quattro i temi che più di altri si prestano all’improvvisazione di Rea e Sellani, Wave di Antonio Carlos Jobim, Afernoon in Paris composizione di John Lewis e inoltre la celebre Amapola, che dà il titolo al disco, ma soprattutto You Never Told Me, struggente melodia che Piero Piccioni compose per il film Fumo di Londra, che mirabilmente si adatta all’improvvisazione jazzistica. Renato Sellani e Danilo Rea, Amapola, Venus Records, Distribuzione Egea


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narrativa

libri

Storia di un rapimento partendo daNatascha di Maria Pia Ammirati

ra i superfavoriti al premio Campiello il romanzo di Paolo di Stefano Nel cuore che ti cerca, ancorato alla cronaca recente, è un corposo libro che scava in profondità sul senso e la proprietà dell’essere genitori, e per rovescio sullo sforzo di essere figli. Per far questo lo scrittore propone dei ragionamenti per mancanza, trova cioè in una formula per sottrazione il modo di arrivare a comprendere il mondo padre-figlia. Certo parliamo di una sottrazione non teorica e filosofica ma reale, parliamo di mancanza vera e provata, parliamo del rapimento di una figlia, un fatto clamoroso e temuto da ogni genitore che ha un suo inequivocabile iter burocratico, la terribile ricognizione col mondo normale e poi un inesplicabile rapporto con se stessi e con l’altro genitore, una sorta di feroce faccia a faccia dove ognuno cerca nell’altro le colpe. Quel che fa uno scrittore quando si serve del fatto di cronaca, che è pur sempre materiale inerte, è scomporre i piani, e poi farli dialogare tra loro, cosa che nella realtà non può avvenire. Ecco invece un fatto di cronaca recente, come la storia della ragazza austriaca Natascha Kampusch rapita nel 1998 e tenuta prigioniera non lontanissima da casa da un uomo qualunque per otto anni, si trasforma in un libro sul dolore, la solitudine, la sopravvivenza, l’odio e la solidarietà.Tutti temi tenuti insieme dai personaggi del romanzo che hanno spesso un

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voce di cronaca mentre il padre di Rita, la bimba che viene rapita, ha il compito di io-narrante. È proprio al padre, Toni Scaglione, il tessitore della storia, che tocca il compito più gravoso, quello di scendere in profondità dei fatti, lui che di mestiere fa il giornalista e che non sempre ha il tempo (e la costanza) di scandagliare. Scendere in profondità in un fatto di brutale cronaca ha risvolti anche imprevedibili e non certo consolatori, come vorrebbe la circostanza. Rita, la bimba di dieci anni, viene rapita da un uomo una mattina che da sola percorrere la strada per la scuola. Perché Rita è sola? Perché Rita, pur avendo un’età che le permetterebbe di non fidarsi, accetta di salire su di un furgoncino azzurro? Due domande che diventano un rovello e che scoprono una parte di verità sommerse, il rapporto difficile e conflittuale della bambina con la propria madre, quel gesto di ribellione e di fuga, accettare un passaggio da uno sconosciuto, che determinerà la sua vita. Toni Scaglione e Rita alternano le loro voci nel romanzo calibrandole intorno al senso della solitudine che ognuno di loro è costretto a vivere per i lunghi otto anni che li separano. Il padre passa gli otto anni in un’inesausta ricerca, attraverso le folgorazioni del passato e un presente incolore: «ecco come sono passati i miei otto anni in attesa di Rita. Niente di speciale. Non anni bianchi,

d’accordo. Grigi diciamo… scomparsa Rita, Rita era per me più presente che mai». A Rita resta la parte più cruda della realtà, la descrizione del rapporto con il suo carceriere, un rapporto di alterazione e malattia che parte dall’uomo e arriva alla bambina che nella prigionia diventa una ragazza e una donna. Uno spietato report che accavalla la cronaca al romanzo con un finale, che rispetta fedelmente i fatti, liberatorio ma ambiguo e allusivo. Rita, durante la schiavitù, sognando la normalità sogna la televisione, sogna di poter accedere al piccolo schermo per raccontare la sua storia. La tv come surrogato della vita, soprattutto quando, in apparenza, la vita sembra non contare più nulla. Paolo Di Stefano, Nel cuore che ti cerca, Rizzoli, 296 pagine, 19,00 euro

riletture

Quelle due paroline che sono la nostra vita di Giancristiano Desiderio a storia della filosofia - è stato detto e se non è stato detto lo diciamo ora - potrebbe essere una lunga, lunghissima contesa tra l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito, ammesso che il filosofo di Elea e il filosofo di Efeso dicano cose tra loro realmente diverse e opposte. Certo, il primo dice che l’essere è, è uno e immobile, mentre l’altro dice che l’essere è giorno e notte, è e non è, tutto scorre (come dice anche il mio idraulico) e niente è fermo. Insomma, da una parte la quiete, dall’altra il movimento. Non sembra proprio che ci sia conciliazione. Aprendo l’ultimo libro di Eugenio Scalfari L’uomo che non credeva in Dio, edito da Einaudi - ci si imbatte nel penultimo ca-

L

pitolo il cui titolo suona così: Eraclito detronizza Parmenide. Il divenire, che tutto porta via, vite, intelligenze, affetti, vince sull’essere. Chi di noi non vede o non ha visto la vita e quella particolare condizione dell’unico ente capace di domande e (parziali) risposte, cioè l’uomo, attraverso le «categorie» di Parmenide e di Eraclito? La storia della filosofia è senza dubbio la storia del tentativo di conciliare i due antichi presocratici, di accordare - proprio come si accorda uno strumento musicale - tra loro l’essere e il divenire. Chi si impegnò da subito nell’impresa fu un postsocratico: Platone. La rilettura da fare sul tema è il Sofista. In quale edizione? Non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma consiglio di procurarsi la bella e intrigante edizione che

Einaudi porta ora in libreria nella classica collana della Piccola Biblioteca con la nuova traduzione e ottima introduzione di Bruno Centrone. In questo dialogo della maturità, Platone, ormai al di là degli ottant’anni, non teme di affrontare non solo il «venerando e terribile» Parmenide, ma anche la sua stessa «teoria delle idee» e, in pratica, mette mano al suo sistema filosofico, ammesso e non concesso che si possa parlare per gli Antichi di «sistema filosofico» e che lo si possa fare, poi, soprattutto per il pensiero platonico. Ma se Platone affronta Parmenide perché il dialogo si intitola con il sostantivo con cui si indicavano Protagora, Gorgia,Trasimaco? Perché per stanare il sofista, che è furbo, è un camaleonte, ne sa una più di Socrate (che infatti diceva di sapere solo di non sapere),

bisogna trasgredire al celebre divieto di Parmenide: il non essere non è, non si pensa e, in verità, non si potrebbe neanche dire, pronunciare. Sennonché, ecco il punto, se il non essere non è e non si pensa, allora, non potremmo neanche pensare il falso, l’errore, l’inganno e il sofista, scambiando indebitamente vero e falso, essere e nulla, avrà sempre la meglio. Non resta altro da fare che costringere quelle due paroline, «non è», a essere in qualche modo, a essere in modo «diverso» rispetto all’essere-vero. Fare questa operazione significa pensare insieme l’essere e il non essere, Parmenide ed Eraclito, il divenire tramite l’essere e l’essere tramite il divenire. Sembra una cosa complicata e invece è la nostra vita (che un po’ complicata lo è).


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storia

Soldati ebrei di fronte alle leggi razziali di Riccardo Paradisi antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nell’esercito». È il marzo del 1932 quando Benito Mussolini pronuncia queste parole: manca solo poco più un lustro alla promulgazione delle leggi razziali in Italia. Un cambio di rotta repentino che va di pari passo con la sterzata totalitaria e l’avvicinamento alla Germania nazista. Giovanni Cecini in I soldati ebrei di Mussolini racconta la vicenda

«L’

filosofia

di quei cittadini israeliti la cui partecipazione alle forze armate italiane dal 1848 al 1938 era stata attiva e decisiva sia in pace che in guerra, dimostrando un forte senso d’identità con la nazione. «In molti - scrive Cecini - sono convinti che il fascismo sia stato antisemita sin dall’inizio e quindi che nelle forze armate non ci fosse stata più traccia di ebrei sin dal 1922. In realtà gli ebrei, come tutti gli italiani, conti-

nuarono la loro vita anche militare sia in pace che in guerra fino al 1938, anno in cui d’ufficio e senza spiegazioni logiche furono allontanati da ogni incarico». E così la reazione della maggior parte degli ebrei di fronte alla promulgazione delle leggi razziali del ‘38 oscilla tra lo sconforto e l’incredulità. Per Bruno Jesi la possibilità di essere escluso per motivi razziali dall’esercito è qualcosa di incompren-

sibile. In una delle molte lettere rivolte al capo di Stato Maggiore della Milizia e allo stesso Mussolini arriva a scrivere: «Se circostanze che mi sfuggono impongono che io deponga queste spalline che ho macchiate solo col mio sangue nessun rancore… nulla al mondo però può impedirmi di levare il braccio nel saluto romano quando passa un gagliardetto, di amare tanto questa mia adorata Italia e di sentirmi fratello di ogni camerata in camicia nera o in grigio-verde, quale che sia la sua razza o la sua religione». Giovanni Cecini, I soldati ebrei di Mussolini, Mursia, 276 pagine, 17,00 euro

La storicità come unica prospettiva di Renato Cristin

i Julien Freund, geniale filosofo della politica morto nel 1993, è stata tradotta in italiano una decina di opere, ma l’attenzione nei suoi confronti è sempre decisamente bassa. Secondo Alessandro Campi, le cause sono ravvisabili principalmente nella sua produzione sterminata ed eterogenea, e nella sua posizione di intransigenza verso qualsiasi conformismo, ma, aggiungerei, è stato trascurato anche perché chi ha sostenuto che «l’hitlerismo è stato un figlio naturale del giacobinismo e del leninismo» non poteva trovare grande accoglienza in Italia. Allievo di Aron, Freund si inserisce nel filone tutto continentale del realismo politico, ricercando «i meccanismi fondamentali (e perenni) che presiedono all’agire politico», da

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personaggi

una prospettiva che si può definire come «machiavellismo moderato». Una sua tesi centrale recita: anche se lo Stato scomparisse, la politica si salverà, perché la politica è «un’essenza», più cioè di una categoria, è una dimensione ontologica, che precede qualsiasi forma statuale e istituzionale, e la precede perché nasce nella metafisica e con la metafisica, con il pensiero stesso, con l’essere umano. Ma accanto a ciò egli ritiene, in consonanza con Vico, che l’esperienza della sfera politica sia sempre legata all’azione dell’uomo nella storia. Lo Stato come noi lo conosciamo oggi è una costruzione storica che può essere superata e, anzi, è probabile che nel futuro verrà sostituita da altre forme socio-istituzionali, ma la politica resterà come elemento costante. Freund storicizza - e quindi re-

lativizza - le strutture politico-sociali, ma tematizza pure un elemento permanente, che egli chiama «natura umana». La considerazione della storicità è l’unica prospettiva che ci permette di respingere «l’ideologia rivoluzionaria, idea pessimista e mortifera in quanto antistorica», di ammettere il fatto che «l’umanità non potrà mai liberarsi del suo passato», di accettare che le forme di organizzazione politica ed economica nascono e periscono nel tempo, di confidare nel fatto che «l’uomo continui a essere uomo attraverso i tempi» e di riconoscere che «l’uomo di domani non sarà né peggiore né migliore di noi». Julien Freund, La crisi dello Stato tra decisione e norma, Guida editore, 289 pagine, 15,50 euro

Giannini, l’ironia di un aristocratico

di Massimo Tosti iente a che vedere con Bandiera rossa o con O biancofiore. L’inno dei qualunquisti era un mix fra una canzonetta orecchiabile e un canto goliardico: «Ma perché, perché la gente / crede sempre a chi più strilla / e per vivere tranquilla / lo fa duce, presidente, / lo fa re, lo fa padrone / per averne calma e pace I ma poi soffre, paga e tace, / governata dal bastone? / Ogni tanto spunta un fregno / che si piazza avanti a tutti, / grida: abbasso i farabutti! / Via di qui chi non è degno! / Chi ci sfrutta e ci maltratta! / E poi sai di che si tratta? / Scaccia gli altri e resta lui. / Le tue frasi co-

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nosciamo, / le sappiamo le intenzioni / e per questo ti preghiamo / di non romperci i cordoni». Il testo era del paroliere Zorro, pseudonimo - manco a dirlo - di Guglielmo Giannini, commediografo, giornalista, intruso nella politica (un po’ come Berlusconi quasi mezzo secolo più tardi), fondatore e padrone dell’Uomo qualunque (un po’ come Berlusconi…), il partito della protesta anti-casta che alle elezioni per la Costituente raccolse un milione e 200 mila voti (5,3 per cento). Fu una meteora il suo partito. Due anni dopo - alle elezioni stravinte dalla Democrazia Cristiana - i voti si erano ridotti a un milione, e il simbolo non appariva più assorbito nel Blocco nazionale del-

le libertà che comprendeva anche i liberali. A Giannini, Carlo Maria Lomartire ha dedicato una bella biografia che mette in luce l’eclettismo del personaggio. Non è un saggio politico (a quello provvi-

de trent’anni fa Sandro Setta con L’uomo qualunque 1944-1948, edito da Laterza) ma la storia di un uomo geniale che aveva previsto anche la fine del suo movimento, con questa epigrafe: «L’uomo qualunque, una volta diventato assessore comunale di Rocca Priora, ha cessato di essere uomo qualunque e ha preteso di mettersi a fare quello che fanno i politici tradizionali». Non usava il vaffa dei grilli d’oggi, ma l’ironia sottile di un aristocratico con il monocolo incastonato nell’occhio destro. Carlo Maria Lomartire, Il qualunquista - Guglielmo Giannini e l’antipolitica, Mondadori, 182 pagine, 18,00 euro

altre letture L’opera di Rudolf Steiner è molto vasta, ma il grosso pubblico conosce soprattutto la branca pedagogica del suo sistema di pensiero. Steiner chiamò la pedagogia «la figlia della preoccupazione» avvertendo già agli inizi del Novecento come l’infanzia fosse minacciata da una didattica sempre più finalizzata alla formazione e al potenziamento dell’intelletto, trascurando l’educazione della volontà e del sentimento. «Secondo il pensiero di Steiner invece - come scrive Giovanna Chiantelli nell’introduzione a L’Educazione dei figli (Mondadori, 154 pagine, 7,00 euro) - il corpo è lo strumento attraverso il quale l’individualità umana può attuare il proprio peculiare compito sulla terra. Oggi invece i bambini vengono sollecitati intellettualmente sempre più presto invece di essere avviati gradualmente al loro impatto col mondo».

Iconostasi. Saggio sull’icona (Medusa, 156 pagine, 14,80 euro) è uno dei lavori più importanti del teologo e filosofo Pavel Florenskij. Un caposaldo della riflessione teologica e filosofica che nasce dalla fusione di parti diverse, riguardanti il platonismo e l’iconografia, l’origine dell’incisione e l’iconostasi vera e propria. Riguardo al ruolo di primaria importanza conferito all’icona nella spiritualità ortodossa in quanto testimonianza visibile del mondo invisibile, Florenskij sottolinea la fondamentale differenza che esiste tra le iconografie d’Oriente e Occidente: essa sta proprio nel fatto che l’icona non è un’opera d’arte creata dalla fantasia del pittore ma nasce dalla visione di un santo. Un affresco della

società slovena negli anni Settanta, arricchito da immagini di vecchie foto che ritraggono persone, marche di prodotti alimentari, locandine di film d’epoca e di gruppi musicali: Il giradischi di Tito di Miha Mazzini (Fazi editore, 282 pagine, 16,00 euro) è un romanzo sulla musica occidentale che comincia ad arrivare nei paesi socialisti e i giradischi sono finalmente in vendita. Ego, un giovane jugoslavo ne vuole assolutamente uno, per lui il giradischi infatti è un miraggio di libertà e divertimento. Gli incontri con i famigliari, hippy, appassionati di musica, compagni di scuola, comunisti e dissidenti sono le tappe che porteranno alla conquista del giradischi e all’emancipazione di Egon.


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ritratti

RAYMOND CARVER

NASCEVA SETTANT’ANNI FA, E MORIVA NEL 1988, IL CAPOSTIPITE (SUO MALGRADO) DEL MINIMALISMO LETTERARIO AMERICANO. SCRIVERE, DICEVA, È UN LAVORO DI SCOPERTA. E NELLE SUE ESPLORAZIONI, CHE DIVENTANO “SHORT STORY”, INDIRIZZA IL LETTORE ATTRAVERSO LA GRIGIA QUOTIDIANITÀ PER SVELARGLI QUEL POCO DI POESIA CHE RESTA

Il piccolo, grande cesellatore di Francesco Napoli na vita definita romanzesca potrebbe perfino suonare paradossale per Raymond Carver. Eppure, nell’andare a leggere della sua esistenza, si è come sospinti nella trama di un capolavoro russo di fine Ottocento, in un affresco maudit di questo straordinario scrittore americano. Lui, nato nella provincia americana (Clatskanie, Oregon, 1938), dove è vissuto a lungo traendo la linfa del suo successo, ha attraversato cinquant’anni esatti del suo paese, letteratura e cultura e contraddizioni tutte comprese, prima di terminare la sua parabola a Port Angels, nel 1988. Di famiglia umile, fin da giovane, quando il padre lo chiamava frog, si barcamena tra le più disparate occupazioni, coltivando al tempo stesso una grande passione per la scrittura. Ma quasi non fa in tempo a crescere, ad assaporare il bruciare della gioventù che conosce, non ancora quindicenne, Maryann Burk. Si sposeranno due anni dopo in seguito alla nascita di un figlio a cui ne seguirà presto un altro. Sarà, indirettamente, la sua fortuna: «devo dire che l’influsso più grande sulla mia vita, e sulla mia scrittura, è venuto, direttamente o indirettamente, dai miei due figli. Sono nati prima che avessi vent’anni, e dal primo all’ultimo giorno che abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, circa diciannove anni in tutto, non c’è stata una singola zona della mia vita nella quale il loro pesante, talora malefico influsso non sia arrivato». Così è stato costretto a sbrigarsi, a scrivere le sue cose tra un pianto e un altro, tra una pappa e un cambio. La sua ispirazione na-

U

gratificante e che gli consentisse di coltivare la sua passione letteraria con studi appena decenti arriva a Chico, California, nel 1959. È l’anno e il posto giusto: inizia a frequentare i corsi di scrittura creativa di John Gardner - che diverrà suo maestro e mentore - al Chico State College. Sarà Gardner a sostenerlo con convinzione, a farlo esordire su una rivista universitaria, a credere nel suo talento forse molto più di quanto non ci creda lui stesso. Arriva alla forma racconto e gli si apre uno spiraglio inatteso: per la prima volta riesce a entrare in contatto con l’ambiente che amava. Basta segherie, ospedali o supermercati dove lavorare per mantenere se stesso, la famiglia e i suoi studi.

Conosce il mondo intellettuale, finalmente legge e inizia a pubblicare i suoi racconti, prima al modo di Faulkner (Stagioni furiose) poi sempre più con uno stile proprio. E scrive poesie, tante. Ma non basta, nonostante altre pubblicazioni di riconosciuto valore (Ventiquattro ettari, La moglie dello studente, Vuoi star zitta per favore?), deve cambiare ancora città, nel suo ramingo peregrinare per la provincia, nella speranza di uscire da quella che veniva definita la categoria dei working poor e della quale egli sentiva di appartenere, come ironicamente disse, di diritto. Califor-

“È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro, prima che risulti trasparente, cristallina...” sce anche in un lavasecco a gettoni dove trova un po’ di pace prima di rituffarsi nella rumorosa vita famigliare («Durante questi feroci anni di paternità, di solito non avevo il tempo, o l’animo, di pensare di lavorare a qualcosa di molto lungo»). Vuole emergere, ma la vita sembra affossarlo: dover sbarcare il lunario è una complicazione non da poco. In uno dei suoi tanti spostamenti alla ricerca di un lavoro sufficientemente

nia, Sacramento. Vi trova lavoro come custode presso un ospedale, dapprima di giorno e in seguito di notte. Questo gli consente di scrivere lontano dalla confusione dei figli e dalle discussioni con Maryann. Poco dopo la morte del padre, avvenuta nel 1967, Carver ottenne il suo primo lavoro stabile, da impiegato presso una casa editrice di Palo Alto, come redattore dei libri di carattere scientifico. Lì Carver incontra e conosce

Gordon Lish che diventerà il suo editor e la poesia, sempre prepotente in lui, sboccia nella prima raccolta di versi dal titolo Near Klamath. Carver è stato un maestro della narrativa breve e viene considerato il ca-

postipite del minimalismo letterario americano suo malgrado. I suoi racconti hanno per protagonisti individui umili, spesso disperati, che si dibattono e si trascinano tra le difficoltà della vita dell’America di provincia. Con la sua scrittura lineare ma finemente cesellata (writing is an act of discovery), Carver indirizza il lettore attraverso la grigia quotidianità per svelargli, improvviso e appena per un attimo, quel poco di poesia che resta nelle modeste vite descritte. Se due maestri poi possono essere indicati, allora il nome va al Fitzgerald del Grande Gatsby o all’Hemingway dei racconti. Lui procede per «omissione» di tutto quello che non è fondamentale enunciare: «È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c’è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un


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cano. Ci combatterà contro Tess Gallagher, ma dopo, quando vuol mettere nella giusta luce, da seconda moglie, le composizioni del marito e ne pubblica gli originali. Nonostante i successi e gli incarichi ricevuti, l’economia familiare rimane sempre piuttosto precaria e tra sussidi di disoccupazione e lavori occasionali hanno inizio i primi gravi problemi di salute dovuti all’alcolismo. Senza lavoro, tra-

matrimonio. Poi d’improvviso, quasi inatteso, il 2 giugno del 1977, come lo stesso scrittore racconta, smette in modo drastico di bere e si riconcilia con la moglie. Ancora per poco, doveva incontrare, nel novembre di quell’anno, la poetessa Tess Gallagher che apre le porte alla sua seconda vita e che sposerà poco prima di morire nella consapevolezza di proteggerla dalle altrui pretese ereditarie. Il 14 aprile del 1983 viene pubblicata la raccolta Fires The Stories of Raymond Carver che apparirà da noi con il titolo Voi non sapete che cos’è l’amore: racconti, poesie, saggi. Sono Riccardo Duranti, traducendolo con passione e sapienza, e la Minimum Fax editandolo, a portare in Italia Raymond Carver.Trentacinquemila dollari annui netti e per un lustro una munifica borsa dell’American Academy and Institute of Arts and Letters, lo liberano finalmente dall’incombenza del quotidiano e i risultati ci sono. Alla terza raccolta di racconti, Cathedral, critica e pubblico si rendono conto di quanto sia maturata la sua scrittura negli ultimi anni, passando da quella minimalista della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore a quest’ultima ben più articolata. Scrive Gigliola Nocera introducendo il Meridiano Mondadori di Tutti i racconti: «Tra il realismo rarefatto delle prime raccolte e il realismo visionario delle ultime si colloca dunque il cammino di Raymond Carver, e con esso una stagione estremamente significativa per la short story americana del Novecento. Egli è stato un grande narratore perché ha saputo trasgredire e sconvolgere ogni teoria, ed essere un fuorilegge in grado di scrivere nuove leggi. Ha cercato dei maestri, da John Gardner a Gordon Lish, per imparare a non seguirli, e ha saputo allargare i confini del realismo americano». Segue allora la celebrità e Carver si dedica con ardore allo scrivere, soprattutto poesia. Tess Gallagher, la sua Tess, gli ha costruito a Port Angels il rifugio ideale per coltivare scrittura e successo, la Casa del Cielo. C’è il tempo per una sceneggiatura per Michael Cimino sulla vita di Dostoevskij, scritta a quattro mani con la sua nuova compagna, e si cimenta, estremo ingrediente del romanzo della sua vita, nel racconto degli ultimi giorni di Cechov, autore tanto amato, mae-

Se due maestri si possono indicare vengono in mente Fitzgerald del “Grande Gatsby” e Hemingway. Ma lo stile di Carver si trasforma, nel tempo, dal realismo rarefatto delle prime raccolte a quello visionario delle ultime processo». Non vuole però per questo sentirsi definire minimalista, perché egli non si considera tale, «è un’etichetta usata per designare un sacco di scrittori straordinari, ma è solo questo, un’etichetta».

Arrivano anche per Carver i mitici anni Settanta e sono quelli della fama. «Verso la metà degli anni Settanta, mi sono reso conto che avevo qualche difficoltà a concentrare l’attenzione su opere narrative di una certa lunghezza»: la scelta formale è fatta, racconto sì, romanzo no, non ci riuscirà mai. I suoi lavori appaiono su diverse riviste, Gordon Lish, editor di Esquire lo prende definitivamente sotto la sua ala protettiva e inizia a lavorare su di lui. Carver gli si affida e lui ritocca i racconti, sembra nascere più tra le mani dell’editor che in quelle di Carver il mito del minimalismo ameri-

scorrerà alcuni anni scrivendo nei pochi momenti di lucidità. In preda all’ubriachezza diventerà spesso violento nei confronti di Maryann e l’equilibrio della coppia, già in bilico, ne risentirà definitivamente. Eppure nel 1976 viene pubblicata la terza raccolta di poesie e dalla McGraw-Hill, nella collana diretta da Gordon Lish, la sua prima raccolta di racconti intitolata Vuoi star zitta, per favore?. E nello stesso periodo il racconto Con tanta di quell’acqua a due passi da casa ispirerà uno dei più riusciti e commoventi episodi del film Short cuts (in Italia America oggi) che il regista Robert Altman realizzerà nel 1991 intrecciando nove racconti e una poesia di Carver. In pochi mesi, tra l’autunno di quell’anno e l’inverno del successivo, varcherà più e più volte le soglie dell’ospedale per disintossicarsi dall’alcol nel pieno naufragio, annunciato, del suo

stro come lui dell’arte del racconto. Si intitolerà L’incarico, ma nel settembre del 1987 all’improvviso la sorte maligna lo attacca: emorragia al polmone. Si opera, ma è un tumore con metastasi inguaribili al cervello.Vede ancora, il giorno dei suoi cinquant’anni, l’autoantologia Da dove sto chiamando.Tra gli appunti finali di una vita si legge: «Vorrei avere ancora un po’di tempo. Non cinque anni, e nemmeno tre non potrei sperare così tanto - ma se avessi anche solo un anno. Se sapessi di avere un anno». Ma non riesce ad andare avanti. Il romanzo della sua vita, quello che seppe solo interpretare sulla scena dell’America e del mondo, ha termine il 2 agosto 1988 al monito di questi suoi versi: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì./ E cos’è che volevi? / Sentirmi chiamare amato, sentirmi/ amato sulla terra».


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tv

di Pier Mario Fasanotti

L’autunno delle Jene

i rivedremo a settembre con questa rubrica. Non perché chi scrive debba andare al mare, ma perché la televisione in agosto è un cadavere con antenna. Repliche (poche quelle di buoni film), frattaglie, inquadrature di canottiere e tanga. Il cosiddetto «lato B» colonizza lo schermo. Tanto per dire: sappiamo anche noi che c’è l’estate. Ma l’estate così come la propongono in tv sembra Barbie, leziosissima caricatura. Molti s’interrogano su che cosa porterà l’autunno. E a questo proposito ci sono due notizie. Una buona, e una cattiva. Cominciamo dalla prima, che ha i contorni del dubbio. Il Grande fratello ci sarà ancora e come sarà fatto? Niente è scontato, visto che quell’esibizione che si chiama reality show sta traballando sulle onde dell’audience. Rispetto alle prime edizioni (Canale 5) c’è stato un tonfo: da una media di 9.848.000 spettatori si è passati a 5.503.000 di quest’anno. Lo share medio è scivolato dal 37,4 del 2000 al 25,3 del 2008. Ciò non significa che la scemenza schiumosa e globalizzata si stia ritirando dall’arena del cattivo gusto. Azzardato fare gli ottimisti, è battaglia persa. Significa piuttosto che gli utenti si sono annoiati a sentire frammenti di discorsi pseudoamorosi in versione divano, amaca o bordo di piscina. Pure il voyeur ha il diritto alla novità. In Australia il Big

C

con Teo, lo spiritosone

web

video

games

Brother va in soffitta. Dicono che il pubblico ormai conosce il meccanismo troppo bene. Quindi stop. Anche i bambini, quando hanno smontato il giocattolo, raramente vogliono ricostruirlo. Ne chiedono un altro. E veniamo alla seconda notizia, quella brutta. Secondo le indiscrezioni del settimanale Chi, lo spilungone Teo Mammuccari passerebbe alle Jene (Italia 1). Pietosi auguri alla graziosa Ilary Blasy (Totti) che pensiamo preferisca i rigori (del marito) ai salivosi e sbraitanti monologhi di Teo. Il quale è un personaggio televisivo volgare. Probabilmente è un gran signore nella vita privata, ma quando gli buttano addosso i riflettori rappresenta il bullismo in tv. Ha trasferito (e sporcato) il dialetto di Sordi in suburre neo-metropolitane dove si comunica con gli spintoni e il turpiloquio. «Andovai, chiattona?», «Ammazza’o ‘sta vecchietta»: e quelle che non hanno la fortuna di un bikini mozzafiato pure sorridono. Ma sì, divertiamoci tutti, come nelle bettole di periferia.Teo si crede il mago Merlino dello scherzo. Il nonnismo da caserma ha ormai una location televisiva. Come spiritosone ha iniziato nei villaggi turistici. Quante bionde avrà buttato in piscina, e che risate. Ha condotto anche il programma Libero, imperniato sugli scherzi telefonici: trattava da cretini e umiliava molte persone. L’aggravante è questa: ha 44 anni.

dvd

ONLINE CERTIFICATI MEDICI FINTI

JIMI HENDRIX RIVIVRÀ NELLA PS2

LA FOTOGRAFIA COME VIA D’USCITA

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embra proprio che il regno dei fannulloni viaggi nella rete. Dove? Su www.doctorsnotestore.com. Su questo sito, infatti, si possono ordinare certificati medici finti. La compagnia opera da undici anni e si considera «una vera leader nel settore». Per il momento il servizio copre soltanto il Regno Unito, l’Irlanda e l’Australia, ma chissà che presto il servizio non venga esteso a pae-

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ccordo raggiunto tra Activision e l’etichetta musicale Front Line Management per lo sfruttamento dei diritti necessari all’utilizzo dell’immagine del celebre Jimi Hendrix, più alcune delle celebri canzoni dell’artista. Il motivo? Inserire il tutto nel prossimo Guitar Hero: World Tour. Le canzoni riproposte saranno The Wind Cries Mary e una versione dal vivo di Purple Ha-

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Si possono ordinare indicando il tipo di malattia di cui si ”soffre”. L’utilizzo concesso solo per gioco

Successi e immagini del chitarrista di Seattle nella prossima edizione del ”Guitar Hero: World Tour”

“Born into Brothels” documenta la vita di un gruppo di ragazzi in un postribolo a Calcutta

si di lingua non anglosassone. La procedura è semplice: basta riempire un modulo indicando, oltre ai dati personali, il nome della malattia di cui si «soffre». Fatto questo, si sceglie il centro medico di provenienza del certificato medico finto: Londra, Glasgow, Manchester, ma anche una qualsiasi altra località. Si procede quindi al pagamento via carta di credito (costo: 24,99 sterline). Unica raccomandazione indicata, l’utilizzo ludico dei certificati, «intesi come articoli da regalo, da usare come scherzi o, magari, durante rappresentazioni teatrali». Le responsabilità dal punto di vista legale sono, così, tutte del cliente.

ze, con altre tracce che verranno proposte nel futuro come contenuti scaricabili. L’etichetta ha dunque preferito il nuovo Guitar Hero al futuro Rock Band 2, che dalla sua aveva già l’accordo con i Guns’N Roses, Bob Dylan e gli Ac/Dc per proporre le migliori canzoni dei rispettivi repertori nella colonna sonora del prossimo titolo. La guerra fra le band nel frattempo continua, con i vari Van Halen, The Eagles e Led Zeppelin ancora in lizza per diventare uno degli aspetti esclusivi dei due titoli. Guitar Hero: World Tour sarà disponibile entro la fine dell’anno in versione PlayStation 2, PlayStation 3, Xbox 360 e Wii.

do lucido che nulla concede ai fumi delle lacrime. Depurato dalla tentazione sentimentale quanto dalla facile indignazione, il film segue i giovani protagonisti nel corso delle loro giornate particolari, che contemplano per alcuni di loro anche l’obbligo di prostituirsi in virtù della sopravvivenza. Il corso di fotografia organizzato per loro dalla Briski assume quindi in sé il potere simbolico di uno sguardo sovrapposto al loro esistente. I ragazzi del bordello osservano dall’obiettivo il loro mondo secondo una logica creativa che consente loro di rimanipolarne i confini, e di ritagliare tra quelle logore pezze d’ambiente uno straccio di dolente poesia.

mmerso in una Calcutta sudicia e disperante, Born into Brothels racconta le imprese quotidiane di un gruppo di bambini prigionieri di un’esistenza livida raccolta tra le quattro pareti di un postribolo. La fotografa Zana Briski e il documentarista Ross Kauffman inchiodano i volti di questi ragazzini segnati dall’angoscia ma non ancora privi di speranza nella cornice di un lavoro severo, dallo sguar-


cinema

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Profondo dark di Francesco Ruggeri

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uando Spider-Man fece la sua prima apparizione nelle sale americane nell’ormai lontano 2002, fu una specie di shock. Perché l’Uomo Ragno è New York. È lo skyline di Manhattan, l’Empire State Building, le Torri Gemelle. Un newyorkese come tanti altri, dotato di poteri che gli danno la possibilità di vivere la metropoli anche verticalmente. Impossibile assistere alle sue gesta e non pensare a quell’11settembre dell’anno precedente. La geografia della città era mutata, lo spirito dell’America pure. Arriviamo dunque a noi, immersi in questa calda estate 2008. Corsi e ricorsi storici, anzi, mutatis mutandis. Perché New York da qualche giorno in qua non è più la stessa. Si respira l’aria dell’evento e si cammina con gli occhi puntati al cielo. In tantissimi angoli della città campeggia il simbolo oscuro e magnetico di questi ultimi mesi di cinema.

Si tratta del cartellone pubblicitario del Cavaliere oscuro con il ghigno malefico di Joker, incarnato dagli occhi tristi di Heath Ledger. Un semplice manifesto, frutto di oculatissime scelte di marketing, che sa trasformarsi però in spia lampeggiante degli umori odierni, della precarietà sempre più opprimente di questi tempi, dell’inquietudine strisciante. Spider-Man trasfigurava la rielaborazione del lutto, il Joker del Cavaliere oscuro invece ci immerge nella notte dell’anima, nelle tenebre anguste dello spirito. Stiamo parlando del film più atteso dell’anno (uscito da noi in contemporanea con l’America), capace di segnare al primo giorno di programmazione negli States un record da storia del cinema: più di 66 mi-

lioni di dollari. I giornali americani hanno gridato all’evento e si sono accodati persino i critici più duri da convincere. Peter Travers del Rolling Stone ha addirittura lanciato l’idea di nominare all’Oscar (in questo caso postumo) Heath Ledger. Beh, che hanno ragione. In questo caso la tempesta emotiva innescata dalla morte prematura di Ledger e tutto quello che c’è stato subito dopo non hanno fatto altro che confermare in pieno quello che si vede sullo schermo. Perché Il cavaliere oscuro fa davvero paura. È un film morboso e buio, fasciato da luci cimiteriali e attraversato come un treno in corsa da pulsioni di mor-

ta terribile realtà. Perché è il Joker (supercriminale conciato come un clown) a essere reale, concreto, fisico, spaventoso come sul grande schermo non è mai stato. Il film ruota attorno alle sue orbite agghiaccianti, ai suoi occhi spenti e al suo trucco che non smette di colare, trasformando il volto in maschera ancestrale di morte e il film in un suo one-man-show ghignante.

L’intuizione perfetta di Nolan (ricordiamolo, regista di Insonnia, Memento e The Prestige) è stata questa: dare corpo al male, proiettandolo nelle viscere più scoperte del quotidiano. Il Joker non appare a sor-

Un’agghiacciante e perfetta metafora di un mondo agli sgoccioli. “Il cavaliere oscuro” di Nolan, seguito di “Batman Begins”, è un film che non lascia scampo, dove il Male, impersonato da Joker, dilaga fino a sbriciolare il sogno americano te che mettono i brividi. In confronto il Batman firmato da Tim Burton nel 1990 era un film solare. Inutile anche fare confronti con Batman Begins, il film precedente diretto da Nolan di cui Il cavaliere oscuro è il sequel. Quello era un film semplicemente interessante, il tentativo di riesumare l’originario spirito gotico che animava il fumetto della DC Comics, facendo leva sulla performance fisica di Christian Bale (Batman) e su quella pirotecnica di Cillian Murphy (il terribile criminale chiamato Spaventapasseri). Qui invece abbiamo oltrepassato del tutto il segno, ci troviamo in un mondo agli antipodi. Quella che in Batman Begins era premonizione di una catastrofe, ora diven-

presa, si limita semplicemente a esserci. Come un newyorkese, alla stregua di tutti gli altri abitanti della Grande Mela. Che di fatto nel film non esiste, visto che il racconto si svolge nell’immaginaria Gotham City. Le allusioni però sono evidenti. Ebbene, quella che sarebbe potuta essere la solita trasposizione (riuscita o meno) di un fumetto, diventa una straordinaria riflessione sulla presenza del Male nel modo. E la cronaca scura come la notte della tentazione che emana, del potere seduttivo che esercita su chiunque. La verità è che nel Cavaliere oscuro regnano le zone d’ombra e non esistono più colori netti, marcati, definiti. Come in un noir della Hollywood dei bei tempi, le di-

stinzioni fra Bene e Male scivolano via, frantumandosi in sfumature impercettibili. Non esiste sicurezza, non c’è pace, non può esserci tranquillità. Gli squilli di tromba della cavalleria non arriveranno mai. Al loro posto si fa strada il mantello svolazzante di un giustiziere notturno e misterioso che non avrà mai l’aspetto rassicurante di Superman, né tantomeno le forme giovanili di Spider-Man. Christopher Nolan sa benissimo che Batman è l’eroe «negativo» per eccellenza. E non fa niente per nasconderlo. L’alone di ambiguità che lo ricopre nel film non lascia dubbi. E già il titolo è una promessa mantenuta in pieno. Anche perché a differenza del film precedente e ancor di più dei due Batman burtoniani, qui il supereroe subisce come non mai l’influenza di Joker.Tanto che per rintracciarlo, scovarlo e toglierlo di mezzo è capace di fare qualsiasi cosa, camminando sul filo di zone dell’anima poco illuminate. Ed è proprio in questo vibrante e crepuscolare noir deviato che esce fuori la radiografia fantastica e allucinata di un popolo disorientato, allarmato e incapace di fronteggiare una minaccia terribile partorita dal suo ventre più rassicurante. Addio slogan, addio facili identificazioni, addio happy-end. Come dimostra perfettamente il rocambolesco incipit del film (la pirotecnica e violentissima rapina di Joker in banca), il pericolo è ovunque. Come un virus infettivo che dilaga, che inquina e che corrode lo spirito, come una piaga purulenta che trasforma l’american dream in cancrena. Ecco, più di tutto, Il cavaliere oscuro ci sembra una agghiacciante e perfetta metafora di un mondo agli sgoccioli. L’Apocalisse è vicina…


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poesia

Il canto delle Sirene e la potenza dell’assoluto di Roberto Mussapi irce, la maga incantatrice, gli predice il primo pericolo a cui andrà incontro nel suo viaggio di ritorno verso Itaca: le Sirene, esseri magici che appaiono in mare, dalla voce che genera un irresistibile incanto. Ma quell’incanto cancella memoria e identità, trascinerà il navigatore in fondo al mare, dissolvendolo. Ulisse conosce quindi in anticipo il supremo inganno del mare, il mistero di una voce ammaliante che proviene dal canto di esseri alati, donne e uccelli, che in mare appaiono. Uccello, voce, acqua oceanica, i tre elementi si fondono nel mistero supremo e nel pericolo della perdita totale di sé, il naufragio assoluto. L’Odissea, il poema in cui l’umanità si riconosce in una ciurma, salpata da un porto e diretta a un altro porto, e in cui nasce la letteratura di viaggio e d’avventura, ci presenta un viaggiatore naufrago e in lotta col mare. Ulisse deve sfuggire a Polifemo e ai Ciclopi, esseri giganteschi che hanno un solo

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occhio, che rimandano a un’età antica dell’uomo, alla primigenia angoscia dell’abisso. E, in mare, ecco apparire l’isola dei Lotofagi, i mangiatori del fiore che reca oblio, fino a farti smemorare la tua origine, la tua meta, lo scopo per cui stai viaggiando e sei partito. Dal mistero marino appaiono quindi i giganti preumani, prereligiosi, prememoriali, e gli incantanti nemici dell’uomo.

I veri nemici dell’uomo in mare, di isola in isola, di sponda in sponda, ossesso volontà del ritorno, non sono soltanto i miraggi che cercano di impedirlo, non sono quindi gli allettamenti di Calipso e di Circe, ma esseri che negano civiltà e memoria, cancellando il tempo: i bestiali Ciclopi, i mangiatori di loto. Ma il primo di tutti questi nemici è un essere mostruoso, in parte donna in parte uccello, che appare su un’isola nel mare baluginante, nelle ore di bonaccia, ore dall’incanto malefico e paralizzante, un essere dal fascino irresistibile

Verrai alle Sirene, che stregano qualunque umano a loro si avvicini. Chi approda ignaro e ascolta la voce delle Sirene , mai più ritroverà la casa, la sposa festante, e i piccoli, perché esse col loro canto armonioso lo stregano sedute sul prato, come evanescenti: attorno la riva è piena di scheletri, uomini marcescenti e carni che disfanno sulle ossa. Tu fuggi, tura le orecchie ai compagni, sciogliendo cera dal profumo di miele, sì, che nessuno di loro possa udirle, ma se tu volessi se ti piacesse ascoltare, fatti legare piedi e mani, bloccato saldamente con le corde all’albero, lì a godere in pace il canto delle Sirene. Ma ordina ai compagni che se ordinerai di scioglierti, disobbediscano e con nodi più duri ti stringano. OMERO dall’Odissea (traduzione di Roberto Mussapi)

il cui canto trascina i naviganti verso l’abisso. Sull’isola rivelatasi d’incanto come un miraggio, distesa sul prato, e nell’attimo stesso della visione cessa ogni vento, mentre il canto irresistibile trascina a lei il viaggiatore. La sua voce che ammalia è in realtà un grido inumano che ti trascina nell’abisso, che ti cancella da te stesso, dalla tua navigazione, mentre la rotta sulla superficie dell’acqua dilegua e svanisce. Gli orecchi dei compagni di Ulisse devono essere riempiti di cera, mentre a lui, il capo, il nocchiero, il re della piccola petrosa Itaca, il marito della tessente Penelope, è concesso udirne il canto, come si concede a un eletto. Ulisse è un iniziato in perenne iniziazione, incarna lo spirito dell’esplorazione e della sete di conoscenza, e quindi «deve» udire quel canto. Ma a patto che si faccia legare all’albero: altrimenti sarebbe trascinato alle Sirene, non resisterebbe. Chi è, Sirena? Un essere alato, che con gli alati condivide il dono del canto, da sempre associato al cielo, alla felicità beata di chi si libra in volo allontanandosi dalla terra. Gli angeli cantano, i poeti, Shelley, Keats, Whitman, ascoltano rapiti nel canto degli uccelli, le armonie del cielo: il canto è un dono divino, e le sirene appartengono a quel regno, come le Muse, a cui solo sono musicalmente inferiori. Il loro canto irresistibile è simile a un grido, simile al suono dell’aulos, il flauto, e in qualche misura si oppone a un altro canto, anch’esso rapinoso ma del tutto diverso. È il canto di Orfeo, il poeta, la cui voce evoca e ricrea armonia, accompagnata non dal grido o dal sibilo dell’aulos, ma dalle dolci corde della lira. La poesia lirica, che scioglie le corde del cuore, è filiazione del canto e delle corde di Orfeo, l’archetipo stesso della poesia, il mitico progenitore di tutti i poeti, Orfeo che con la sua voce inteneriva le rocce e le rupi, Orfeo che muoveva al suo seguito gli alberi e le fiere, commosse e intenerite. La voce di Orfeo non annichilisce, ma ricongiunge. Conosciamo però l’esito della sua storia, la giovane moglie Euridice, appena sposata, muore, morsa da un serpente. Orfeo, con la forza rapinosa del suo amore e la magia del suo canto, riesce a convincere le cupe, inesorabili divinità del Tartaro, l’altro oltretomba dei greci, a lasciar accedere al loro regno un vivente. La voce di Orfeo sarà infine sconfitta dalla morte, poiché è la voce divina che parla nel poeta, versata nel mondo umano,

il poeta è tramite, interprete, ma è uomo, la sua moglie è mortale. La voce di Sirena, al contrario, ha la potenza dell’assoluto: dove ci condurrà, che cosa incontreremo nell’abisso, in fondo al mare? Forse l’essere che terrorizza Omero altro non è che un supremo agente dell’assoluto, del mondo prima e dopo la vita, di ciò che ai vivi è del tutto sconosciuto. Non necessariamente negativo. Forse per questo ritroviamo la Sirena altrove, non siamo più in mare, nella caliginosa e ammorbante bonaccia, ma in cielo, nella contemplazione dell’armonia delle sfere.

«E in alto sopra ognuno dei suoi cerchi stava una Sirena, che veniva porta in giro nelle rivoluzioni e che emetteva un unico suono, un’unica nota. Da tutte e otto risuonava un’unica armonia. Altre tre figure sedevano intorno a eguale distanza, ognuna sul suo trono, le Moire figlie di Ananke, dal bianco chitone, con ghirlande sui capelli: Lachesi, Cloto e Atropo, che cantavano all’unisono con l’armonia delle Sirene: Lachesi le cose che sono state, Cloto le cose che sono, Atropo le cose che saranno. E Cloto, con il tocco della mano destra, faceva girare il cerchio esterno del fuso, introducendo degli intervalli di tempo, mentre Atropo con la sinistra muoveva alla stessa maniera i cerchi più interni, Lachesi toccava ora con una mano ora con l’altra ognuno dei cerchi». È una visione estatica, nel racconto di Platone, supremo filosofo, ma narratore dell’essere attraverso favole. Platone parla per bocca di Er, il soldato che ha avuto in sorte di contemplare la struttura dell’universo, il quale riferisce di avere visto, tra le creature sovrumane che presiedono al movimento dei corpi astrali, ben otto sirene. Siamo al cospetto della musica degli astri, modello ideale quanto irraggiungibile per quella degli uomini, e le Sirene, che in Omero e in tutta la tradizione iconografica successiva rappresentano le figure del caos, sono divenute custodi dell’armonia del mondo.


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il club di calliope PAPPAGALLI A PORTA VENEZIA Li ho visti, una mattina, cinque o sei su un platano tra il Planetario e la torre di Gio Ponti. Pappagalli. Are araruna, are macao, cacatua, forse rimasti dai tempi dello zoo, ultimi a sapere che c’è stata la jungla nella selva ordinata del signor Piermarini. Sembravano incerti, né diurni né notturni, spersi, disabituati dalla vita nelle voliere. Il piumaggio però era ancora di lacca e la madreperla vibrava sotto le penne timoniere. D’altra parte anche tu vivi in questa città. Antonio Riccardi

ALLA SCOPERTA DI VASKO POPA in libreria

UN POPOLO DI POETI Bevo vino rosso dalla tua bocca, cade in rivoli sul mio collo mentre il tramonto si stringe all'orizzonte. Il mare in fiamme ci accoglie e inonda le anse dei nostri corpi, la sua spuma disegna arabeschi senza segno. Guardo l'ora ferma sul tuo nome e aspetto che il tramonto ci finisca. Antonella Berni

in letture folli scivolano virgole senza suoni tacite intese emanano discolpe al di là paesaggi avvampati l’ape arpeggia sulla sua preda melodie

di Loretto Rafanelli

opo il grande poeta croato Krleza, vogliamo dirvi di Vasko Popa, uno dei più illustri poeti serbi del Novecento, l’occasione viene fornita da un libro (Omaggio a Vasko Popa, Hammerle Editori, 8,00 euro), voluto dall’Associazione Iniziativa Europea, diretta dallo psichiatra Augusto Debernardi, organizzazione triestina che intende porre un ponte, attraverso la cultura, tra le martoriate terre della ex Jugoslavia e

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ri registri espressivi, privilegiando infine quello umoristico e surrealista, il che non è cosa da poco per chi come lui ha operato all’interno di un regime comunista. Per seguire questa via egli peraltro dovette formulare un nuovo linguaggio, distanziandosi dai canoni di un certo realismo. I suoi versi appaiono come una trama segreta e misteriosa, che giungono a disorientare il lettore più che a rassicurarlo. Popa infatti sembra

Il poeta serbo, tra i più illustri del Novecento, tradotto per la prima volta in Italia per volontà della triestina Associazione Iniziativa Europea il nostro paese. Per approfondire il percorso poetico di Popa (1922-1991), è stato anche tenuto un Convegno a Trieste nel 2007, in seguito è giunta questa prima traduzione nella nostra lingua, effettuata da Betina Prenz, una scelta di poesie non molto ampia, purtroppo, ma determinante per iniziare a conoscere lo scrittore serbo, in attesa che lo sguardo verso le vicine letterature dell’Est, da parte della nostra editoria, si faccia più generoso. Dalla lettura, l’impressione che ne esce è di un poeta che alterna va-

voler porre di continuo degli enigmi, ma non al modo di un costruttore di rebus, piuttosto come userebbe fare un bambino quando ricorre a una formulazione senza senso, seguendo solo una sua geometria del gioco. Ma mentre nel bambino c’è la spontanea descrizione di uno stato d’animo gioioso, in Popa c’è la profonda amarezza della vita, con le sue sofferenze e durezze. Come nel caso dei descritti «compagni» operai che non possono amare la poesia, perché annientati dalle quotidiane fatiche.

Lino Giarrusso

La mia essenza è libertà della presenza eterna che fluisce ed influisce su un’alterna vita. La mia lenza è l’omertà della potenza divina che intuisce il suo programma nel buio della china. Gemelli Gianna Pinotti «Un popolo di poeti», che ogni sabato uscirà sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

erto che si poteva sospettare, e agli occhi attenti dei detective delle testimonianze fotografiche d’epoca, questa non è in effetti una vera scoperta. Ma Peggy Guggenheim, la collezionista anglo-veneziana, come un tardo racconto stagionato di Henry James, con i suoi occhialoni fatali, le pellicce intemerate, il biondo platino da diva al tramonto e le eccentricità vistose da abile femme fatale, che supplisce all’ormai scarsa avvenenza con bigiotterie d’alto calibro e bordo, amava l’art sauvage, l’arte primitiva, come la chiamava lei, con un certo snobismo cosmopolita (erano gli anni dell’entusiasmo per il Primitivism in Modern Art di Robert Goldwater, 1938). E del resto è sufficiente sfogliare l’album di memoria delle sue case, per vederla letteralmente «appesa» o abbracciata o in dialogo solitario e silente con totem, maschere, feticci, cimieri ecc., quasi fossero affettuosi ospiti, figli mancati, accolti nell’abbraccio entusiasta dell’esuberante padrona di casa. Si sapeva e si poteva sospettare: ma non si poteva pensare che nei penetrali della palazzina di questa Madama Barbablue transoceanica, fossero imprigionate ben trentacinque opere notevolissime, di provenienza soprattutto africana e oceanica (era la moda americana) che ben restaurate, catalogate e vivificate di studi sostengono il fascino di quest’interesante mostra alla luganese Galleria Gottardo, che già ci ha abituato negli anni a bellissime rassegne di fotografia. Ethnopassion, il titolo azzeccato (la mostra è curata da Franco Rogantini e Philip Rylands): nell’utile catalogo

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L’art sauvage che piaceva a Peggy di Marco Vallora Mazzotta si scoprono molte cose di questa passione privata. Che è più una sorta di succedaneo amoroso-domestico, che non una vera dedizione estetico-scientifica (forse non siamo a livello di collezioni imbattibili, come quella Barbier-Mueller, o anche d’artisti pionieri, quali Vlaminck): e infatti quando leggiamo con attenzione le fotografie rivelatrici, vediamo che l’atteggiamento della signorapoco-mamma è più quella di stringere a sé delle bambole inanimate, che non di prendere la distanza scientifica dell’analisi dei veri esperti. Ma c’è ancora una fotografia rivelatrice, quella in cui, invasato, Max Ernst posa letteralmente davanti a casa, assediato da una nidiata di feticci, figure d’antenati, copricapi: pare uno di quei miliardari-cacciatori, fieri dei loro trofei venatori. Ebbene, il vero patito ed esperto di casa era lui, il ribaldo fidanzato, che non perdeva occasione (trascurando Madame, che molto se ne lamenta) per cacciare esemplari rari, convertire il denaro delle sue forti vendite d’artista, e magari anche quelli di lei, la magnate distratta, in capolavori da museo, insomma per non farsi mancare compulsivamente il gran bel pezzo quatidiano.

arti

Frequentando soprattutto il celebre gallerista Julius Carlebach, che lei nelle memorie chiama con sufficienza «quell’ometto di Carlebach», e lo ammette chiaramente: ah se Max mi amasse con la stessa intensità con cui ama i suoi pezzi di legno. Gelosa, insomma, come una bimba. E quando lui se ne va di casa, portando via di colpo tutti i suoi «amori», lei ovviamente si rifà, istericamente, correndo presso l’ometto disprezzato (che in realtà è il sofisticato fornitore dei De Menil, il gallerista di Duchamp amico di Breton e Claude LéviStrauss) e cercando di battere l’ex-consorte, in un’evidente crisi di sostituzione amorosa, si rimpinza, tutto d’un colpo, d’un numero elevato di più o meno capolavori (Carlebach è pur sempre un mercante) di rabbiosa art nègre. Oggi i rigidi conservatori del politicamente corretto, che dominano per esempio il Museo parigino del Quai Branly, aborrirebbero i metodi estetizzanti e a-scientifici, con cui Peggy disponeva i suoi feticci di rivalsa amorosa, ambientandoli tra i mobili di casa, in dialogo con i suoi pezzi d’arte moderna, spesso inseguendo una simmetria rigorosa, da collezione Barnes, che lei aveva visitato da giovane e da cui era rimasta influenzata. Ma la mostra di Lugano, affidata a studiosi preparati, sotto la vigile attenzione di Paolo Campione, ristabilisce con molta acribia l’ «origine» di questi importanti documenti etnici afrooceanici, con anche qualche rilevante incursione in ambito pre-colombiano.

Ethnopassion, Lugano, Galleria Gottardo, fino al 23 agosto

autostorie

Tornare a correre per vincere la paura

di Paolo Malagodi on capita spesso di iniziare un libro definito, dagli stessi autori, «impossibile, tormentoso, sentimentale, esaltante, ironico, qua e là romantico, retorico, disuguale nel ritmo, però convinto di quello che propone come messaggio. Libro per tutti, che può attirare in particolare i fanciulli, perché la parte più bella dei piloti è proprio il loro essere ancora fanciulli». Come si legge nella prefazione di pagine scritte da due personaggi ricchi di talento e umanità, che interpretano i fondamentali temi del vivere partendo dall’angolatura delle loro esperienze, nel campo delle quattro come delle due ruote. Uno degli estensori è, infatti, Alex Zanardi che a quasi 42 anni è tra i più seri contendenti

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al mondiale turismo, nella classe Wtcc (acronimo di World Touring Car Campionship). Nel corso di una lunga carriera che il pilota bolognese, nato il 23 ottobre 1966, ha iniziato tredicenne sui kart sino ad approdare nel 1991 in Formula 1. Dopo alcune stagioni del campionato iridato, in diversi team e con altalenanti risultati, la definitiva affermazione di Zanardi si ebbe nei circuiti statunitensi, su vetture simili a quelle della Formula 1 e con il titolo nordamericano vinto nel 1997 e 1998. Tuttavia, l’episodio destinato a segnare la sua vita avverrà il 15 settembre 2001 su una pista tedesca, con la monoposto di Zanardi in testacoda mentre arrivava a tutta velocità un’altra vettura, che troncò di netto quella del pilota italiano all’altezza delle gambe, con la loro traumatica amputa-

zione. Nonostante le condizioni disperate, dopo due settimane di coma Alex incredibilmente si riprese e in alcuni mesi di ostinata riabilitazione cominciò a camminare, grazie a particolari protesi e decidendo di tornare a gareggiare su una Bmw appositamente adattata al suo handicap fisico. L’altro autore del libro (Alex guarda il cielo, Fucina editore, 384 pagine, 24,00 euro), è Claudio Costa, il medico imolese che dal 1977 gestisce la Clinica Mobile da lui creata come ospedale viaggiante, per seguire e curare i campioni del motomondiale direttamente sui circuiti.Conosciuto per la sua capacità di rimediare in poche ore i traumi degli incidenti, trasfondendo ai propri assistiti fiducia in un rapido recupero; così, quando visitò Zanardi ancora in lotta con la morte, disse: «Quest’uomo tornerà a fare tutto quello che faceva pri-

ma, camminare, guidare, sciare e soprattutto portare in spalla suo figlio».Tutte cose che Alex è riuscito a fare, sostenuto da un grande amore per la vita «perché è capace - come annota il dottor Costa - di essere felice davanti a un bicchiere vuoto, figuriamoci se lo trovasse pieno a metà. Queste chiavi le possiedono i miei piloti, i miei più cari amici, i miei eroi, che per inseguire il loro sogno, per cavalcare il loro unico amore, sconfinano con la follia». La stessa messa in mostra, per certi versi, dall’ironia di Zanardi in occasione della consegna di un premio alcuni mesi dopo il drammatico incidente «e tutti nel teatro dove si svolgeva la cerimonia, lo pensavano castigato sulla sedia a rotelle, quando Alex si alzò in piedi e sorrise al pubblico esterrefatto, dicendo: “Per l’emozione mi tremano le gambe!”».


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architettura

“EdA”, un laboratorio di qualità

Progetto di Zaha Hadid per il “waterfront” di Reggio Calabria

di Marzia Marandola ella fiorente pubblicistica dedicata all’architettura, affollata di riviste patinate dove sempre più i testi si riducono a brevi schede di commento, se non addirittura a didascalie, per lasciare spazio a immagini strepitose e accattivanti, si è aggiunto da un anno un nuovo periodico quadrimestrale intitolato EdA Esempi di Architettura, pubblicato dall’editore Luca Parisato per i tipi il prato di Padova, dove i testi conservano un’adeguata presenza. Si tratta di un’iniziativa singolare e pregevole per una piccola casa editrice che investe sui giovani e sull’architettura. Sostenuta da un comitato scientifico composto da personalità di collaudata competenza, e radunata da Olimpia Niglio, che insegna restauro architettonico all’Università di Pisa ed è direttore scientifico oltre che ideatrice della rivista, la redazione è quasi interamente composta da quarantenni: architetti, ingegneri, storici dell’arte provenienti dalle Università di tutta le penisola. Sono ricercatori, professori a contratto, funzionari e liberi professionisti che attraverso la rivista possono dare conto dei propri temi di ricerca, presentare progetti e costruzioni nazionali e internazionali di particolare

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moda

interesse. Ogni numero della rivista, che conta intorno alle 200 pagine, è incentrato monograficamente su un tema, su cui convergono saggi, interviste e progetti, redatti anche da collaboratori esterni; al nucleo monografico si affianca, in ogni numero, un’ampia sezione, la cui dimensione rimane costante ed è curata interamente dalla redazione, costituita da rubriche dedicate alla storia, al progetto, alla costruzione, ai materiali, alla ricerca, ai laboratori. Il primo numero, allestito da Chiara Visentin, affronta Lo spazio pubblico, dispiegando e illustrando variamente il valore e le articolazioni dello spazio collettivo nella progettazione architettonica; il secondo, composto da Alessio Pipinato, è dedicato a un tema di grande attualità quale è il Corridoio V. L’evoluzione nella progettazione delle infrastrutture e analizza i progetti di infrastrutture, realizzati e in costruzione, per il Corridoio V, ossia l’asse strategico di collegamento Lisbona-Kiev, nel tratto Lione-Venezia-Budapest. Recentemente sono usciti quasi contemporaneamente due numeri: il nu-

mero 3 (2007), dal titolo enigmatico Info-architecture. L’architettura performativa dell’età dell’informazione, curato da Maurizio Meossi, indaga le modalità con cui le nuove tecnologie costruttive ma anche e soprattutto la strumentazione informatica hanno cambiato le forme e l’assetto del cantiere dell’architettura contemporanea. Da pochi giorni è disponibile il quarto numero, curato da Romano Del Nord con la collaborazione di Cristina Donati dal titolo L’Ospedale del futuro. Modelli per una nuova società, interamente illustrato da foto a colori, che

indaga la complessa progettazione e la configurazione architettonica dei luoghi di cura. In un solo anno di vita EdA ha suscitato l’interesse degli addetti ai lavori: lo testimonia l’uscita anche di un numero speciale, curato da Alberto Parducci, La sfida dell’isolamento sismico, destinato proprio a favorire la collaborazione tra architetti e ingegneri nel progettare soluzioni architettoniche di qualità, conformi alla nuova normativa sismica.

EdA, Esempi di Architettura, 20,00 euro (www.esempidiarchitettura.it)

Quel Beckham “sotto sotto” che piace a tutti di Roselina Salemi he cosa ci fa David Beckham in mutande, in dello spot di Monica Bellucci per Intimissimi, della via Broletto, a Milano? (Non in carne e ossa, campagna di Eva Mendes per Calvin Klein. Il culto ovviamente, ma in una notevole gigantogra- del corpo maschile, atletico, palestrato, senza un fifia). Fa il testimonial di Emporio Armani Un- lo di grasso, senza maniglie dell’amore, è la vera derwear, la moda sotto sotto. Un lancio in grande sti- novità del secolo appena cominciato e si avvia a dile, con le immagini scattate sulla spiaggia di Malibu, ventare l’ultima, laica religione. California, da Mert Alas e Marcus Piggott, star delle Il trionfo dell’underwear (che dura tutto l’anno, foto di moda, e una presentazione con tanto di mu- non la breve estate delle vacanze) è anche la conrale a San Francisco il mese scorso. L’irresistibile sacrazione di un uomo ansioso, che si scruta, si peascesa dell’intimo (e annessi costumi da bagno) nel mondo della moda, non è un fenomeno da sottovalutare, anche in termini di fatturato. Mentre scendono le vendite degli abiti, salgono quelle della lingerie. Non c’è stilista, a cominciare dallo snobissimo Ermanno Scervino, che non abbia trasformato il suo catalogo underwear in vere e proprie collezioni, dal pizzo al tecnico al leopardato per lei, alle cuciture in lurex, con tocchi d’argento e arditi lampi fluo per lui. E i testimonial contano. Dolce&Gabbana hanno scoperto, in tutti i sensi, l’irresistibile David Gandy, un modello inglese dall’aria molto mediterranea, acclamato, a furor di popolo, tra gli uomiDavid Beckam ni più sexy del mondo. Roberto Catestimonial valli, per abbondare, si è affidato, da della collezione giugno, a una squadra di rugby, cinEmporio Armani que giocatori della Montepaschi Viaunderwear dana. Hanno fatto più notizia loro

C

sa e deve essere sempre all’altezza: pettorali scolpiti, pancia piatta, addominali a regola d’arte. Confortato dalla forza del marchio anche nell’intimità, può esibire la perfezione duramente conquistata in palestra. E, se è vero che i due David (Beckham e Gandy) piacciono molto alle signore, è anche vero che sono acclamate icone gay. Piacciono soprattutto ai maschi. Rappresentano un modello e un oggetto di desiderio per il «terzo sesso» che, molto più del secondo (le donne) è affascinato dal mito della bellezza. Nel dialogo con lo specchio, l’uomo scopre le angosce, per tanto tempo solo femminili, della ceretta, dei cuscinetti e della pelle floscia. C’è poi la potenza dello streetstyle e quella della crisi economica. Non si sa chi, anni fa, tra i giovani metropolitani, ha cominciato ad andare in giro con i jeans a vita bassa dai quali spuntava l’elastico di una mutanda Calvin Klein, ma la tendenza è finita anche in passerella. Un’idea per esibire qualcosa, in mancanza di mezzi per comprarsi un look più glamour. Un lusso democratico, che rende tutti uguali. Come se, spogliati di tutti gli orpelli e simboli, in fondo, si potesse ancora tornare all’essenziale, al corpo, nudo e crudo, bello o brutto, coperto, quel tanto che basta, da una consolante, firmatissima foglia di fico.


pagina 16 • 26 luglio 2008

cristalli sognanti

MobyDICK

ai confini della realtà

Blog d’altri tempi chiamati fanzine anzine. Una parola che, in termini proustiani, è in grado di evocate tante cose. Una parola che, per le giovani generazioni a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo scorso, ha rappresentato uno strumento per rompere con il conformismo della comunicazione ufficiale e per raccontare il mondo delle scoperte, delle contestazioni e delle proposte culturali spesso boicottate o inespresse, in termini diversi e, soprattutto, originali. La fanzine, questo oggetto che il vocabolario Zingarelli liquida come «rivista per lo più realizzata in economia e a bassa tiratura, destinata agli appassionati di un settore», a guardare bene, è l’antesignana dei blog e coloro che per tanti decenni si sono dedicati alla sua realizzazione con mezzi di fortuna perfino improba-

F

bili, non sono altro che i padri, per mutazione genetica, degli attuali blogger. Per questo non rappresenta solo un’operazione nostalgia quella realizzata per tutto il mese di luglio all’interno del Magazzino Parallelo di Cesena e dedicata al Cinquantennale dell’editoria fanzinara italiana. Una mostra che ha chiamato a raccolta fanzinari provenienti da tutto il mondo che hanno esposto numeri zero, numeri rari o ultimi numeri delle loro riviste amatoriali. Prodotti editoriali spesso stampati in non più di una decina di copie o addirittura scritti a mano e poi fotocopiati a cui l’avvento dei nuovi programmi di scrittura

di Roberto Genovesi per i computer ha donato a volte una dignità grafica insperata. Un modo per contarsi quello di Cesena, per ritrovarsi, che ha messo in evidenza almeno due cose. Da una parte l’importanza che le fanzine hanno avuto fin dagli anni Cinquanta come elemento di rottura nel contesto troppo rigido dei mass media ufficiali. Dall’altra la certezza che il mondo delle riviste amatoriali non è affatto morto ma, anche grazie a internet, si va affacciando verso nuovi e sorprendenti scenari.

Le fanzine nascono negli Stati Uniti proprio attorno agli anni Cinquanta. Si tratta di riviste realizzate in modo davvero amatoriale (il termine viene dalla contrazione di fans-magazine, ovvero pubblicazione di appassionati) che hanno lo scopo di porre all’attenzione di pochi eletti approfondimenti dedicati a tematiche, filoni, argomenti di non larghissima diffusione o perfino semi sconosciuti riferibili ai vari campi del sapere e della cultura. In Italia il fenomeno delle fanzine esplode conte-

vera e propria casta di adepti che si ritrova ogni anno ad appuntamenti fissi ritenuti irrinunciabili come l’ormai celebre Italcon. C’è un solo modo per contarsi e per tenere le fila di un fenomeno culturale in espansione ma praticamente ignorato o almeno sottovalutato dagli intellettuali dei salotti buoni: la rivista ciclostilata. Basta un foglio scritto a mano o con la macchina da scrivere agli inizi, la buona volontà di qualche disegnatore, una fotocopiatrice che non sbavi troppo e il prodotto, in poche decine di copie, riesce a essere perfino leggibile. Se poi si considera che spesso, a guardar bene tra i contributi, si ritrovano articoli e racconti di acerbi futuri grandi maestri del fantastico italiano, allora diventa inevitabile pensare alle fanzine come al più importante serbatoio di mantenimento e crescita che il fantastico made in Italy abbia avuto nella sua travagliata storia. Se non ci fossero state le fanzine molti scrittori che poi hanno vinto premi importanti o pubblicato per case editrici di altissimo livello, avrebbero ab-

A basso costo e controcorrente. Fin dagli anni 50 sono state un elemento di rottura nel contesto troppo rigido dei mass media ufficiali. Nel cinquantenario dell’editoria fanzinara italiana, una mostra a Cesena chiama a raccolta gli antesignani dei blogger stualmente al boom della fantascienza e del fantastico. Le case editrici che pubblicano libri di science fiction sono poche, le riviste di genere, nate dalla buona volontà di editori votati al martirio, hanno vita breve ma gli appassionati di genere aumentano in modo lento ma costante creando una

bandonato la contesa scoraggiati e oggi farebbero i ragionieri in qualche sperduta filiale di banca. Insomma, come scrive Gianluca Umiliacchi, dell’Associazione di Promozione Sociale Fanzine Italiane che ha curato la mostra di Cesena, le fanzine hanno rappresentato quelle produzioni

«che si offrono come alternativa alle pubblicazioni ufficiali e alle reti di informazione tradizionali» e che «con la rabbia e la disperazione tipiche dei ricambi generazionali e con un modo di porsi spesso sgrammaticato e oltraggioso, utilizzando un linguaggio autentico, diretto, senza regole e divieti» hanno difeso i lati più in ombra del dibattito culturale. E non è forse questo uno dei principali elementi alla base della nascita dei blog? Le fanzine sono state soprattutto terreno di confronto, di dibattito, di espressione controcorrente.

Il loro scopo non è mai stato solo quello di pubblicare articoli o racconti ma quello di favorire il brainstorming generazionale. Oggi, attraverso il web, si possono permettere confezioni accattivanti e a

basso costo e una forza di diffusione centuplicata. Il gemellaggio con i blog appare pressoché scontato ed è per questo che l’universo dei blogger dovrebbe porre più attenzione al fenomeno delle riviste amatoriali per le quali parlare al passato sembra fin troppo sbagliato. Un viaggio a Cesena, un videoreport, una galleria fotografica da condividere e un dibattito da avviare online potrebbero aiutare a capire un fenomeno di nicchia ma di vitale importanza per l’universo di coloro che non si accontentano di leggere le notizie. Intanto una vista su www.fanzineitaliane.it sembra un buon aperitivo.


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