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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti

lei, Agatha Mary Clarissa, è capitato. A tutti gli altri scrittori no. Nel 1975, poco prima delle festività natalizie, il Times di Londra, il giorno 6 dicembre, pubblica in prima pagina la notizia della morte di Ercule Poirot, investigatore di professione, belga di nascita ma abitante in un affollato condominio di Londra, città ove svolse il suo brillante mestiere di sciogli-rebus. A leggere le prime righe di quell’inconsueto necrologio, ci fu chi si interrogò su chi mai fosse monsieur, anzi mister Poirot. Sì, perché c’è sempre qualcuno, in ogni dove, che ignora del tutto la letteratura, pure quella più popolare. Poirot era morto per volontà della sua «mamma». Un terribile omicidio, dunque? La stragrande maggioranza degli inglesi ben sapeva però che la scomparsa di quell’omino dai passetti brevi, un po’lezioso, azzimato, sicuro di sé e talvolta - diciamolo pure - arrogante nel suo coriaceo understatement, si doveva attribuire a una decisione violenta ma curiosamente senza sangue e lamentazioni. Poirot era un personaggio, non una persona. Ovvio che a decidere la sua sorte fosse il suo creatore. Il quale decise appunto, dopo aver dato alle stampe il romanzo Sipario, di sbarazzarsi del «figlio» che, come tutte le creature, rischiava di diingombrante, magari faPer ventare stidioso. Se noi chiedessimo celebrare a un narratore di sognare, con tutta regina del giallo, franchezza,

A

A centoventi anni dalla nascita della Christie

ESTATE CON AGATHA

la nata il 15 settembre del 1890, il suo editore italiano pubblica 73 quaderni segreti e due storie inedite di Poirot. Un’occasione per rileggere un’autrice da miliardi di copie. un’ipotesi di faCome Shakespeare ma mondiale, certae la Bibbia... mente questi risponde-

Parola chiave Discoteca di Franco Ricordi Sting formato Deutsche Grammophon di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Gozzano, i versi da camera dell’anti-Vate di Filippo La Porta

A lezione da Lady Godiva di Marco Respinti In autunno sui nostri schermi di Pietro Salvatori

rebbe: «Leggere su un giornale la sorte del mio personaggio». È chiaro che la Agatha di cui stiamo parlando di cognome faceva Christie. Cognome del suo primo marito, che pure la tradì e le procurò sofferenze, anzi addirittura fu la causa di un periodo (mai esattamente scandagliato) di amnesia e di squilibrio psichico.

Mobydick va in vacanza Anche quest’anno in agosto Mobydick non uscirà, ma tutti i giorni su liberal, a partire da martedì prossimo 3 agosto, troverete un inserto di otto pagine di cultura dedicate alle grandi imprese, ai numeri sbagliati della tradizione, ai film estivi, ai tesori delle grandi civiltà e con un inedito romanzo giallo a puntate. L’appuntamento con Mobydick è per sabato 4 settembre. Buone vacanze a tutti!


estate con

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Agatha nata Miller, da donna semplice e pratica, mai abbandonò il cognome acquisito. Appunto perché era donna con i piedi per terra e commercialmente astuta e cinica. Diventata famosa come Christie, non ripudiò mai il nome maritale. Del resto una ditta che va a gonfie vele mai muterebbe la ragione sociale a causa di questioni sentimentali. Business is business. Oh, bien sure avrebbe commentato il baffuto e pelato (testa a uovo) Poirot che quando si trattava di approvare qualcosa muoveva, e con riluttanza, un sopracciglio: eh sì, era diventato britannico in tutto e per tutto malgrado tenesse sempre a precisare d’essere nato altrove: in Belgio per carità, non in Francia. Belga come Maigret. Il prossimo 15 settembre madame Christie compirebbe 120 anni. Come ricordare e omaggiare la regina del giallo? Il suo editore italiano, la Mondadori, ha deciso di mobilitare la redazione della sezione Oscar e di mandare nelle librerie 73 quaderni segreti che la riguardano. Inevitabile che un autore poliziesco lasci dietro di sé, consapevolmente o no, qualche traccia odorante mistero. Precisiamo che non si tratta di uno scoop editoriale visto che gli appunti della scrittrice nata a Torquay (e morta nel 1976, in terra britannica dopo tante peregrinazioni all’estero) sono stati divulgati dalla figlia (unica) Rosalind nel 2004. Quaderni, ma anche due storie inedite con Poirot come protagonista: quel figurino dalle scarpe sempre lucide continua a essere imprevedibile, forse un po’burlone con il suo ricomparire in scena quando nessuno se l’aspetta. Gli scritti di Agatha, da lei tenuti gelosamente in un cassetto (forse per modestia, forse per distrazione, chi lo può dire) contribuiscono alla conoscenza approfondita di un’autrice che rivaleggia con Shakespeare e addirittura con la Bibbia in quanto a divulgazione mondiale dei suoi testi. Il curatore del lascito letterario è John Curran, dublinese. Ovviamente accanito fan della Christie, già consulente del National Trust durante il restauro della Greenway House, la casa di vacanza della giallista. Attualmente si adopera per fondare l’Archivio di Agatha Chistie. Il lavoro di Curran s’intitola I quaderni segreti di Agatha Christie (408 pagine, 13,00 euro). Di più la Mondadori non vuol dire, ligia a una sorta di calendario misterico.

Sul metodo di lavoro della giallista più famosa e più tradotta al mondo molte cose si sanno. Lei è l’esempio della donna che si mette davanti alla macchina da scrivere con la stessa determinazione di una massaia in procinto di calibrare gli ingredienti di una torta, la famosa english pie. Il tratto peculiare è l’abilità artigianale, assieme a una forte dose di candore. Voleva attirare l’attenzione dei lettori, vendere, affermarsi. E come, se non parlando di veleni e cadaveri? Su di lei una splendida frase di Winston Churchill: «È la donna che, dopo Lucrezia Borgia, è vissuta più a lungo a contatto col crimine». Ebbene, imparò tantissime cose sulle sostanze letali quando lavorò come infermiera negli anni della prima guerra mondiale, all’ospeda-

Un’immagine di un videogioco ispirato ai racconti di Agatha Christie. Sopra, la scrittrice inglese al tavolo da lavoro e i due più recenti interpreti delle serie televisive dedicate alle avventure dei suoi due mitici detective: Hercule Poirot e Miss Marple

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le di Torquay. Mette in pratica ciò che sa. E a questo punto occorre dire che Agatha colta non lo era proprio: rimase affascinata leggendo alcuni libri lasciati sul comodino da soldati feriti al fronte. E come è frequente in certe biografie di «grandi», spunta un elemento molto personale: Agatha, che in famiglia passava per «lenta» (eufemismo che sta per «tonta» o ingenua) volle prendere la rivincita su sua sorella, considerata genio in casa Miller. Scommise e vinse. La sorella non credeva assolutamente che l’Agatha svagata, un po’dura di comprendonio, fosse in grado di scrivere una detective story. Una soltanto? Be’, certo, all’inizio fu una. Ma il seguito è impressionante: solo dei romanzi della Christie in inglese è stato venduto oltre un miliardo di copie. Poi ci sono le traduzioni, in almeno 56 lingue, per un analogo risultato numerico. I contabili più accorti stimano che la giallista abbia guadagnato qualcosa come venti milioni di sterline. Circa la sua famiglia, Agatha non ebbe mai l’occasione, e la volontà, di recriminare alcunché. Nella sua autobiografia (La mia vita, Mondadori) si mostra candidamente obiettiva. A cominciare dall’infanzia, che considerava periodo molto felice. Del padre annota la

sua non-grandezza intellettuale, ponendo in risalto la sua bonarietà prendendo in prestito un passo di David Copperfield di Charles Dickens, laddove si legge un giudizio su un familiare: «Vostro fratello è un uomo affabile?». Risposta: «Oh, molto affabile». Questo è ciò che per lei conta. Questa è la dote principale di una persona.Tanto è vero che alla morte del padre notò con piacere il raggrupparsi di un gran numero di amici sinceri. Padre che, grazie alle sue floride condizioni economiche, poteva permettersi di alzarsi e andare diritto al club, per poi tornare in carrozza. Lei stessa ebbe a dire più tardi che l’invenzione è quasi sempre figlia dell’ozio. Con altrettanta sincerità descrive la madre: «Dotata di personalità eccezionale e vagamente enigmatica, molto più forte di quella di mio padre, era creativa e originale, anche se timida e molto insicura e, forse, afflitta da un fondo di malinconia». Pennellate scar-

Agatha

ne, essenziali, dello stesso tono di quelle usate per descrivere i suoi personaggi letterari. Nessun profondo scandaglio psicologico, solo quel che basta per caratterizzarli dal punto di vista comportamentale.Agatha non era né Freud né Proust e nemmeno si cimentò nell’analisi dell’anima nascosta. Le sue «torte» letterarie riuscivano bene anche perché veniva adoperata una lingua precisa e semplice, del tutto priva di barocchismo e lontana da ambizioni sperimentalistiche. Un esempio tra i tanti? Rileggiamo l’incipit di uno dei testi più famosi, e reso tale grazie anche alla trasposizione teatrale, ossia Dieci piccoli indiani: «In un angolo dello scompartimento fumatori di prima classe, il signor Wargrave, giudice da poco in pensione, tirò una boccata di fumo dal sigaro e scorse con interesse le notizie politiche del Times. Poi, depose il giornale sulle ginocchia e guardò fuori dal finestrino. Il treno correva attraverso il Somerset. Diede un’occhiata all’orologio: ancora due ore di viaggio. Ripensò a quello che i giornali avevano scritto su…». Abbiamo accennato alla modesta cultura di Agatha. Ebbene: non frequentò mai alcuna scuola e fu istruita dalla madre Clara Boehmer, donna della buona società, dalla nonna e dalle governanti di casa. Il padre, Fred Miller, agente di cambio americano, morì nel 1901. Si appassionò alla musica, andò a Parigi (nel 1906) per studiare canto, ma si accorse che il gorgheggio lirico non era nelle sue corde. Con quel senso pratico che contraddistingue gli inglesi, vi rinunciò senza mai recriminare per un mancato destino. Se una torta riesce male, se ne fa un’altra. Cambiando ingredienti. Semplice, no? Tornata in patria conobbe Archibald Christie, colonnello della Royal Flying Corps. Fidanzamento e poi matrimonio. Dall’unione nascerà, nel 1919, la figlia Rosalind.

Non è ancora madre quando si mette a scrivere, negli anni della guerra, The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court, titolo in italiano). Il libro uscirà solo nel 1920. Incuriosita dal romanzi dei soldati ricoverati all’ospedale di Torquay, le venne in mente di disegnare un personaggio «attraente» come l’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc o come il giornalista-investigatore Joseph Rouletabille di Gaston Leroux. Agatha aveva troppo buon senso per lasciarsi andare alle suggestioni. E quindi evitò di fare fotocopie di Sherlock Holmes. Sapeva che l’imitazione avrebbe prodotto un fiasco. Nacque Poirot, che «visse» in dodici romanzi. Seguì la petulante Miss Marple (comparve per la prima volta nel romanzo La morte nel villaggio, nel 1930), tutta pettegolezzi e tè con le amiche. Lo scenario è il tranquillo paese St. Mary Mead: prototipo della campagna inglese, quasi da cartolina. Per questa donna attempata ma in ottima forma fisica, naturalmente intrigante, dotata di grande buon senso e di finissimo intuito, la Christie si ispirò a sua nonna. Miss Marple alterna riflessioni criminologiche allo sferruzzare a maglia. Senza sbandierlarlo ai quattro venti, si cimentò nel 1949 con prose decisamente sentimentali. Accorta manager di se stessa, volle adottare uno pseudonimo (Mary Westmacott). Su Agatha Christie si sono scritti numerosissimi studi. Curioso è quello che sostiene che la giallista inglese scrisse gli ultimi romanzi quando era vittima del morbo di Alzheimer.A sostenerlo sono due docenti dell’università diToronto. Con l’aiuto della comparazione informatica, hanno individuato la ricorrenza degli stessi vocaboli e dei nomi, e la sequenza delle frasi. E hanno concluso che l’impoverimento del linguaggio cominciò a risultare evidente già attorno al 1968-‘70 arrivando alla conclusione che la degenerazione mentale (ah, le famose «celluline grigie» citate con orgoglio da Poirot) era ormai evidente nella Christie già intorno a quegli anni. Lei fu in qualche modo conscia del proprio declino? Pare di sì se si analizza un passo di un libro in cui un personaggio femminile afferma di essere incapace a risolvere un mistero proprio perché colpita da amnesia, e chiede aiuto a Poirot. Un’altra prova di buon senso, di pragmatismo. La regina del giallo era infatti così: se la torta era impastata male, non esitava a rimediare, magari con l’aiuto di qualche vicina di cottage. Anche in questo modo si può costruire un monumento a se stessi.


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DISCOTECA o posso confessare? Ebbene sì, sono stato un grande discotecaro. Ho iniziato giovanissimo, all’età di 14 anni al New Jimmy’s di Riccione, erano i primi anni Settanta. Pertanto mi sono goduto quella che è stata sicuramente la musica migliore della nostra epoca, fra i Settanta e gli Ottanta. Nel ’78, al tempo della Febbre del sabato sera, la scuola riccionese aveva dato «i suoi frutti», e avevo maturato bene la maniera di stare sulla pista e, se vogliamo, anche l’arte di conseguire qualche divertente incontro (anche se va detto per inciso che la discoteca non sia sempre il luogo migliore a quei fini). Così, fino all’età di circa 28 anni, la discoteca ha rappresentato per me qualcosa di non poco intrigante e comunque divertente. Poi, una volta sposato, con figli, tutto si è naturalmente affievolito, quasi finito. Però (confessione di un peccatore) ogni tanto qualcosa si risveglia, e ancora oggi a 50 anni una volta all’anno vengo trascinato in discoteche, come dire «per adulti», tipo l’Alpheus di Roma.

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La discoteca non perde il suo fascino: è viva, simpatica, in certi casi irresistibile. Un celebre discotecaro, che adduceva anche motivi sociali e politici, fu l’ex ministro Gianni De Michelis: a suo tempo scrisse pure un libro, una guida alle 250 discoteche più divertenti d’Italia, che poi nell’epoca Tangentopoli costò al già potentissimo ministro degli Esteri la definizione, da parte di Enzo Biagi, di «avanzo di balera». Tuttavia De Michelis aveva ragione quando precisava la differenza fondamentale fra discoteca e night club; discoteca implica evidentemente un rimando quasi adolescenziale all’ebbrezza del ballo, a ritrovarsi, conoscersi e forse anche comunicare attraverso la danza sfrenata. E allora, visto che ci siamo, diciamolo chiaramente, ha ragione anche Woody Allen: quando due ballano stanno «facendo in verticale quello che vorrebbero fare in orizzontale». E tuttavia non si tratta soltanto di un impatto erotico: sono profondamente convinto che la discoteca possieda una peculiarità che solo Nietzsche ha saputo descrivere adeguatamente: il dionisiaco. Certamente la discoteca è dionisiaca, proprio perché è strutturata - per tutti coloro che partecipano al divertimento - alla stessa maniera di come viene descritta l’essenza del Coro greco: è così che Nietzsche descrive il fenomeno drammatico originario, appunto il dionisiaco: una dimensione in cui si è contemporaneamente attori e spettatori. Quando siamo in discoteca ci troviamo inevitabilmente spettatori delle bellissime ragazze e ragazzi che ballano, ma possiamo e siamo tenuti a essere anche attori, gettandoci nella pista e interpretando a nostro modo la musica del momento. E in quel momento siamo guidati da quel linguaggio che anche per il maestro di Nietzsche, Arthur Schopenhauer, rappresenta in ogni caso l’anima del mondo: la musica. E nella migliore delle ipotesi l’espressione

Come nell’essenza del Coro greco, la sua peculiarità è il dionisiaco, una dimensione in cui si è contemporaneamente attori e spettatori. Condotti nell’ebbrezza dalla musica, che è l’anima del mondo

Volando su piedi leggeri di Franco Ricordi

Tutto nacque a Parigi, all’inizio degli anni Cinquanta, quando Paul Pacini fondò “Le Whisky a gogo”. Da allora ha subito infinite trasformazioni, perdendo talvolta quell’aspetto ludico anche socialmente significativo. Dal “Piper” a Tony Manero, alla lap-dance del nostro corpo si abbandona, ma anche si realizza, in un divertente ma anche simpatico senso di ebbrezza. L’ebbrezza dionisiaca di cui parla Nietzsche si può certo ritrovare nell’ambito della discoteca novecentesca, che ha saputo comunque divertire e lasciare alla nostra giovinezza un bel ricordo. La storia della discoteca si può dire che inizi negli anni Cinquanta a Parigi, con la creazione del celebre Le Whisky a gogo da parte di Paul Pacini. Ma ancora negli anni Sessanta non si può dire sia del tutto acquisito il concetto, che sottintende anche l’essenziale e carismatica figura del Deejay. Alla fine degli anni Sessanta il celebre Pi-

per di Roma era caratterizzato proprio da complessi di musica dal vivo, ospitando e talvolta lanciando artisti di successo. È evidente come nell’ulteriore evoluzione ci siano stati i pro e i contro: ricordo come una volta si entrava in discoteca anche alle 21,30, si ballavano i lenti, e c’era una possibilità di parlare senza necessariamente urlare. Poi, col tempo, la musica è cambiata, è divenuta sempre più assordante, con un ritmo a volte anche insopportabile: alla Disco Music degli anni Settanta subentrò l’elettronica negli anni Ottanta, e l’orario di entrata e soprattutto di effettiva partecipazione alla festa si è sempre più spostato in avanti,

tanto che non si accede prima di mezzanotte e comunque fino alle due del mattino non si crea atmosfera. Tutto questo si è poi connesso - o forse è stato in parte causato - dalla strumentalizzazione avvenuta da parte dei gestori. E così sempre più si è aperto il business delle discoteche, causando tutti i problemi che conosciamo, spaccio, alcol, rientri a notte fonda e tanti ragazzi che hanno perso la vita nelle strade verso casa. L’involuzione si è creata anche attraverso la massificazione delle entrate, e certo ha nuociuto e non poco anche al lato architettonico della situazione, che aveva peraltro acquisito diversi stili a volte assai significativi.

Sicuramente un turning point, in ogni senso, fu rappresentato da John Travolta e dal successo del film suddetto, nella creazione del personaggio italo-americano Tony Manero: il film sul sabato sera evidenziava anche lo squallore di quelle esibizioni e di quei week end passati col pensiero rivolto «al rimorchio», e tuttavia era guidato da una mano leggera che sapeva interpretare assai bene il senso della discoteca e dei ragazzi che per essa vivevano. E la straordinaria musica dei Bee Gees (la colonna sonora che ha prodotto i dischi più venduti di tutti i tempi) fece epoca nell’accompagnamento di quella che era divenuta la sola ideologia, forse l’unica in grado di alleggerire i presupposti della guerra fredda che cominciava a venir meno: il boogie. E se già allora si notavano le meravigliose cubiste, che a volte non disdegnavano nemmeno di esibirsi in un provocatorio strip, il film segnò pure l’avvento della pornografia maschile, con Travolta-Manero che si tirava su lo zip dei pantaloni sculettando a suon di rock. Da allora anche lo strip maschile ha cominciato a imperversare e, se sul lato femminile la discoteca è degenerata nei locali della lap-dance, altrettanto si è potuto vedere in senso inverso: feste della donna a suon di machi spogliarellisti, fino al disperato ancorché simpatico esibizionismo esistenziale degli squattrinati-organizzati protagonisti di Full monty. Anche la loro precarietà sociale, insieme a tutti i problemi annessi e connessi, veniva in qualche maniera rinfrancata da un senso di leggerezza che promanava dalla musica di Hot stuff, cantata da Diana Ross, da loro ballata mentre si trovano all’ufficio di collocamento. In questo senso la discoteca ha sconfinato e anche resistito; e si può dire che, se tenuta con la giusta misura e soprattutto il gusto coreografico e musicale necessari, può rappresentare ancora oggi un punto di incontro molto allegro e socialmente significativo. E speriamo che anche i ventenni del XXI secolo possano godersi qualche serata bella e simpatica: il segreto della discoteca sta certamente nella leggerezza; e come scriveva sempre Nietzsche, «tutto ciò che è divino vola su piedi leggeri».


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Pop

musica

Se il Doctor House SI DÀ AL BLUES di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi acciamo un po’ di conti. Questo è il decimo album di Sting, e se ci aggiungiamo le antologie, i dischi registrati dal vivo (su tutti Bring On The Night del 1986: cercatelo, ne vale la pena) e i blitz nelle colonne sonore, arriviamo a venticinque. Per ritrovare l’ex bassista dei Police alle prese col pop, dobbiamo risalire al 2003 di Sacred Love, incisione furbetta e alquanto routinier. I successivi Songs From The Labyrinth (2006) e If On A Winter’s Night… di fine 2009, hanno infatti visto all’opera un Gordon Matthew Sumner per così dire «elisabettiano»: nel primo disco, coi madrigali per voce e liuto recuperati dal canzoniere di John Dowland; nel secondo, con le vetuste carole natalizie e i gingilli folk che fanno tanto atmosfera da scoppiettante caminetto. Con Symphonicities (il titolo ammicca al classico Synchronicity d’epoca Police) il musicista di Newcastle torna al pop rivisitando il meglio da solista e di quand’era in trio, ma senza elettricità. Sinfoneggiando, cioè, da artista che si è ormai «laureato» fra i nomi di spicco dell’etichetta Deutsche Grammophon. Se lo può permettere, a cinquantott’anni suonati: come Peter Gabriel, che con una bella orchestrona ha stravolto in Scratch My Back le canzoni altrui. È l’ultimo step, questo disco dalla copertina ispirata alle geometrie pittoriche di Mondrian. Tutto è nato nel 2008, quando Sting viene invitato a esibirsi prima con la Chicago Symphony Orchestra e poi con la Philadelphia Orchestra. In entrambi i concerti, rielabora schegge del nutrito back catalogue per vedere l’effetto che fa. Ottimo, naturalmente. Al punto da dettargli l’ipotesi di un tour vero e proprio. Contatta la

F

a che gliene importa a uno di voler essere Doctor House se può sognare di essere Hugh Laurie? Vogliamo dire, per molto tempo il modello etico - non estetico, da quel punto di vista vorremmo assomigliare a Giuseppe Paviglianiti, il grassone di Ciprì & Maresco che mangiava i fagioli e rispondeva «certamente»- è stato il dottore zoppo. Un livello di difficile accessibilità, considerato che sulla filosofia di House sono usciti diversi libri, e che a ogni puntata si era costretti a prendere la penna e a segnare certe battute incomprensibili lì per lì, risultati di aforismi tra Occam e Ruggero Bacone. Ma ora scopriamo su youTube che l’attore che impersona House è meglio del personaggio. Caso raro, rarissimo, unico. Hugh Laurie, figlio di una famiglia della buona società britannica, laureato in antropologia e archeologia a Cambridge, vincitore di campionati inglesi di canottaggio, ha sostenuto il provino per la parte di House nel bagno di un albergo africano (era in Namibia per girare un film) ed era già Lui, il dottore zoppo, naturalmente. Ora si scopre che sta incidendo un disco di blues, nonostante i precedenti di attori/cantanti non siano proprio esaltanti. Abbiamo ancora nelle orecchie l’orrore della Scarlett Johanson che canta Tom Waits, e che tuttavia ingaggeremmo subito avendo i danari, come cantante fissa al Blue Tango di Caulonia Marina. Ma non divaghiamo. Laurie, siamo sicuri, farà un bel disco. Suonerà e canterà bene. Su youTube si trova anche una sua parodia di Elton John (o di Billy Joel, non abbiamo chiare le idee) un po’ nello spirito di Checco Zalone, e un magnifico duetto scespiriano insieme a Rowan Atkinson, sì proprio Mister Bean. Insomma, il talento è talento. Se non fa miracoli, di certo può fare un po’ di buon blues.

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Sting formato

Cheney (in curriculum vantano fior di collaborazioni con Bob Dylan, Bonnie Raitt, John Legend, Steely Dan e Fleetwood Mac), snocciola una dozzina di pezzi riletti in modo del tutto originale. Targati Police, ecco Next To You (orecchio ai violini rockeggianti), Every Little Thing She Does Is Magic (arpa e flauto a introdurre l’inconfondibile, ariosa melodia) e Roxanne, habanera mai così credibile e sofferta. Poi, fra le solitarie cose migliori, tengo a segnalarvi una più che mai swingante e pizzicata Englishman In New York, la felpata e folkeggiante I Hung My Head, la morbida e pianistica When We Dance, una The End Of The Game dai cromatismi irlandesi, la percussiva I Burn For You (ripescata dalla colonna sonora di Brimstone & Treacle, film degli anni Ottanta) capace di evolversi in un’ondeggiante danza tribale, la trascinante She’s Too Good For Me che raccoglie per strada il meglio del boogie fra archi e ottoni da capogiro. Sting e la sua voce che non teme l’usura del tempo, vi danno appuntamento il 25 ottobre a Firenze (Teatro Verdi), il 2 novembre a Milano (Teatro Arcimboldi), il 3 a Torino (Palaolimpico) e il 10 a Roma (Accademia Nazionale di Santa Cecilia).

Deutsche Grammophon

Jazz

zapping

Philharmonic Royal Concert Orchestra diretta da Steven Mercurio (già protagonista di concerti con Luciano Pavarotti e Andrea Bocelli), rintraccia il chitarrista di fiducia Dominic Miller, i percussionisti David Cossin e Rhani Krija, il bassista Ira Coleman, la giovane cantante jazz Jo Lawry e via, partenza da Vancouver lo scorso 2 giugno, applausi a scena aperta e sold out il 13 e 14 luglio alla Metropolitan Opera House di New York. Symphonicities, dunque, è il compendio ideale alla tournée che il 3 settembre approderà in Europa. Prodotto da Rob Mathes e Sting, mixato da Elliot Scheiner, Claudius Mittendorfer, Alex Venguer e Ed

Sting, Symphonicities, Deutsche Grammophon, 15,90 euro

Scatenato, lirico, ineguagliabile... Thelonious Monk la celebre e importante casa discografica, Riverside, questa volta a pubblicare nuovamente le registrazioni che il 21 aprile 1961 vennero realizzate al Teatro Lirico di Milano dal Quartetto di Thelonious Monk. La Riverside le aveva già stampate a suo tempo su un disco long playing da tempo immemorabile fuori catalogo. Ben venga dunque la ristampa su cd di quel concerto che tanto interesse aveva suscitato fra gli appassionati e i critici. Era quella la prima tournée europea del celebre pianista e compositore che aveva portato con sé i musicisti che da qualche tempo suonavano al suo fianco, il sassofonista Charlie Rouse, il contrabbassista Johnny Ore e il batterista Frankie Dunlop. Tre giorni prima, il 18 aprile, Monk aveva suonato all’Olympia di Parigi e le registrazioni vennero anch’esse pubblicate. Dopo Milano, Monk e i suoi furono il 22 al Duse di Bologna e, il gior-

È

di Adriano Mazzoletti no successivo, al Sistina di Roma. Non sappiamo se Riverside abbia registrato questi ultimi due concerti, ma le esibizioni parigine e milanesi rappresentano assai bene il mondo musicale di Monk di quel periodo. Di quella stessa tournée faceva anche parte il trio di Bud Powell e l’aver potuto ascoltare nello stesso concerto i due massimi esponenti del panismo bop fu un’occasione che non ebbe mai più a ripetersi. A più di mezzo secolo di distanza, oggi che il jazz è così profondamente mutato, la musica di Monk appare di una

semplicità disarmante assai meno «buia e densa, acre e stravolta, dura e risentita» così come ci era apparsa quella sera al Lirico di Milano. Perciò è di grande importanza, per lo studioso e l’appassionato di jazz, poter riascoltare antiche esecuzioni dal vivo e confrontare con lo spirito di oggi quanto ci era sembrato di aver ravvisato a suo tempo. Monk appare, in queste registrazioni, nel pieno possesso delle sue doti di pianista, ma soprattutto di indiscusso leader musicale che riesce da imporre le sue idee ai musicisti, Rouse e Dunlop,

soprattutto. Scatenato nelle composizioni a tempo veloce, Jackie-Ing, Epistrophy, lirico in uno splendido Body and Soul eseguito senza accompagnamento. Coloro i quali in passato e ancor oggi possono avanzare dubbi sulle sue capacità strumentali debbono per forza ricredersi. Certo il pianismo di Monk inizia e termina con lui. Alcuni suoi contemporanei, Russ Freeman, Hampton Hawes, Kenny Drew, Horace Silver hanno spesso cercato di imitarlo senza mai riuscire a eguagliarlo. Il cd, la cui durata complessiva di è soli quarantasei minuti - la prima parte del concerto era dedicata a Bud Powell - comprende altri temi immortali come Straight no Chaser, Bemsha Swing, Crepuscule with Nellie, Rhythm-a-ning, testimonianza della sua irresistibile forza d’urto.

Thelonious Monk in Italy, Riverside, distribuzione Egea


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arti Mostre

on si perda mai occasione di visitare la sempre «vulcanica» casa di Goethe, assai attiva nelle sue proposte artistico-culturali. Questa è la volta del gradevole disegno (unico in una collezione italiana) di Goethe stesso, che come è noto venne, nel suo «viaggio in Italia» (così magicamente riverberato nel suo vivacissimo diario di bordo) anche come pittore: amico di pittori, allievo di pittori illustri, accompagnato da pittori conterranei, nei suoi continui spostamenti, nella penisola da lui tanto amata e cantata. Disegnatore assai interessante e per certi versi sperimentatore in anticipo sui suoi tempi, con annunci di scurori preromantici e di semplificazioni inusuali. Il disegno in questione (uno scorcio profondo di montagne sconfinate e cilestrine, e un dettaglio centrale piuttosto eleborato, che documenta un’ampia costruzione conventuale) ha avuto una complessa vicenda attributiva, e ancora oggi viene precauzionalmente presentato come «attribuito a Goethe», anche se l’opinione critica è piuttosto concorde nel ritenerlo autentico del poeta-pittore. È vero, abitualmente Goethe non è così dettagliato e puntuale nel sottolineare i particolari costruttivi delle abitazioni, preferisce sentimentalmente tracciare linee sommarie ed evocative, ma per questo foglio, probabilmente databile intorno al 1786-’87 non dobbiamo nemmeno dimenticare il peso che ebbe, su di lui, l’insegnamento, piuttosto accademico e soffocante, del paesaggista-principe Haeckert. Oltre alle vicende attributive, il disegno ha avuto una divertente carriera collezionistica, provenendo dalla raccolta di Anna Laetitia Pecci-Blunt, la pronipote di Papa Leone XIII, che sposò un ricco banchiere americano e diventò una musa coccolatissima nel mondo culturale romano anni Trenta. Non meno avventurosa vicenda, dal punto di vista conservativo, ha avuto lo splendido Amalfi-Schizzenbuch del sen-

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Moda

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Blechen, Goethe e la luce d’Italia di Marco Vallora sibile pittore romantico (pre-romantico? Pre-impressionista?) Carl Blechen, che venne anche lui nella Roma, e soprattutto nel Sud campano, che aveva appena conosciuto gli occhi olimpici, ma tormentati, di Goethe. È così bellissimo «leggere» questo magnifico album di viaggio, accanto all’altra mostra, d’ambito goethiano, che illumina una Roma tanto diversa e spettrale, che è la Roma rembrantiana di Piranesi, lontanissima da quella rilassata e ombrata di Blechen. Che importa davvero, poi, sapere se questo fragile taccuino era già album rilegato all’epoca in cui l’artista lo redigeva e acquerellava en plein air, quasi fosse un diario visivo quotidiano, oppure se lo fu successivamente, quando, gonfio di nostalgia, Blechen ritornò nella frigida Berlino, ancora dominata dal gusto di

Schinckel (che pure fu un suo grande sostenitore) e si rese conto che quel «viaggio» seppiato aveva una sua impressionante unità emotivo-sentimentale. Sperava di tornare nella calda, amata Italia, Blechen. Bettina Brentano von Arnim, prototipo della donna romantica, che aveva acquistato uno di questi suoi fatati acquerelli, tentò, con una nobile colletta, di supportare quel desiato «ritorno» terapeutico in Italia, che però non avvenne mai. Perché, giovanissimo, il pittore, poi morto a 42 anni, sprofondò presto in una sorta di follia febbricitante, molto simile a quella di Nietzsche, che lo allontanò per sempre dalla pittura. E dire che con un solo quadro scolastico, l’unico davvero della sua carriera (ora scomparso, a partire dal simbolico 1945), Blechen, che era un autodidatta e che veniva dal

mondo della scenografia, meglio dell’illuminazione teatrale (il che spiega anche la qualità magica di questi suoi schizzi «disegnati con la luce», come vuole il titolo della bella mostra curata da Mareike Henning e gradevolissimo, piccolo catalogo Casa di Goethe), si regalò un sia pure «misero e frugale» viaggio in Italia, che durò ben 14 mesi. Non senza prima passare da Dresda, per ottenere un viatico speciale dal grande paesaggista nordico Dahl, che in Italia era già stato (ci sono degli «scorci» ottici dei due maestri che sono praticamente sovrapponibili). Anche se lo stile di Blechen, che con la seppia tenta di riprodurre la sensazione volatile e soggettiva d’uno sguardo catturato nel gioco mutevole, frastagliato di luci solari e ombre colorate (molto prima dell’impressionismo atmosferico di un Monet) è davvero inconfondibile, e inconfrontabile. Unica poi quella sua idea grafica e quasi meta-pittorica, di sottolineare l’effetto circolare (e di oblò) d’un occhio abbagliato, che guarda le bellezze marine dal chiuso claustrofobico d’una grotta. Roma, Casa di Goethe, Disegno attribuito a Goethe; Carl Blechen, Disegnato con la luce; Piranesi, Rembradt delle rovine, fino al 26 settembre

La seduzione? Basta un lembo di pizzo icevano che faceva volgare. Dicevano che faceva escort. Dicevano che faceva Madonna anni Ottanta, orrore. E invece il pizzo dilaga ovunque con un successo travolgente, sui costumi da bagno, negli accessori, nelle borse, sulle unghie come tattoo (esagerato), oltre che, ovviamente nei vestiti. Stampato persino. Quando ha cominciato Prada, nel 2008, con preziosissimi, lussuosi macramé, erano tutti un po’ perplessi, poi l’effetto lingerie l’ha avuta vinta. E si è visto di tutto: pizzo e maculato, pizzo e jeans, pizzo, pitone e swarowski. Satin doppiato da Dior, strati di merletto color crema da Valentino, fiocchi, nastri e trine. Adesso è arrivata l’ironia, la citazione spiazzante, perciò è obbligatorio avere un mezzo guantino, una manica, una borsa, un paio di sandali o di occhiali con le opportune applicazioni, o almeno un segno grafico che ricordi l’orlo delle sottovesti, l’architettura di certi complicati corsetti dell’Ottocento. Dolce e Gabbana, La Perla, Antonio Marras hanno smorzato l’effetto nudo, un po’ sado e un po’ maso (tremendo, se non si ha il corpo filiforme di Margareth Madè

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di Roselina Salemi o Zoe Saldana) con fodere e colori, Ermanno Scervino si è divertito soprattutto con i dettagli e sì, i sandali di pizzo sono accettabili in una sera d’estate, anche fuori dal Billionaire. Leona Lewis si è presentata a una festa con una decorazione di pizzo sull’occhio, Marion Cotillard ha preteso un casto ritocco su un abito di John Galliano, altrimenti sottile come una ragnatela. Certo, i leggins di pizzo con la t-shirt sul lungomare (visti addosso a Paris Hilton e a Kate Perry) sono sconsigliabili, a meno di non voler attirare l’attenzione come lady Gaga, o tentare la via del burlesque con Dita von Teese. Però, nella moda, l’occhio si abitua. Alla fine cede anche un’insospettabile come Gwyneth Paltrow, alla fine la maglietta con l’inserto di pizzo vintage diventa elegante, diventa una citazione retrò. Perciò troviamo la versione low cost da Mango (che tra poco arriva in Italia) e nel solito Topshop, perciò l’estate sarà popolata da gattine sexy e signore bon ton che osano il costume intero traforato al laser, effetto pizzo, appunto. O il reggiseno del bikini di sangallo

nero. Ma la storia continua anche nell’autunno-inverno. Vedremo gli ormai familiari ricami, trafori e ghirigori sul camoscio, sulla pelle e sull’argento dei bracciali (ancora Scervino) mentre Valentino rilancia con la collezione Collezione Ermanno Scervino Lace, borse e stivali antipioggia… in pizzo, ovviamente (è arrivata nei negozi in questi giorni). Una sfida estrema, dato che si tratta di materiali delicatissimi, risolta così: il pizzo chantilly (quello delle tende e delle spose, per intenderci, quello dei ricchi corredi di una volta) è accoppiato al nylon e ricoperto in pvc per diventare impermeabile e sfidare con grazia le intemperie. Segno che i tempi possono cambiare, le mode pure, ma nel vecchio - e sempre nuovo - gioco della seduzione gli strumenti restano gli stessi: tacco alto e un lembo di pizzo, che un tempo era l’orlo tentatore di una sottogonna, e oggi è diventato il vestito.


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iprendiamoci Robin Hood. Forse era un fairy silvano dei celti, certamente il folclorista statunitense sir Francis James Child (18251896) ci mise del suo tramandandolo nei cicli altrimenti dispersi di ballate inglesi e scozzesi che raccolse per una vita, ma il leggendario arciere sassone che si batté nei boschi di Sherwood contro gli sgherri del principe normanno Giovanni Plantageneto detto «il Senzaterra» (1166-1216) non era affatto un protocomunista ridistribuzionista che «prendeva ai ricchi per dare ai poveri». Era il paladino della giustizia, della società a misura di uomo, della proprietà privata e del governo temperato. Non rubava, settimo comandamento. Riprendeva ciò che lo «Stato» sottraeva con la frode, cioè senza diritto né giustizia, ovvero bestemmiando. Esercitava, Robert di Locksley, padrone di terre e castelli, il sacrosanto diritto di resistenza alla tirannia. Lo stesso che, una volta divenuto re il Senzaterra con il nome di Giovannni I d’Inghilterra, portò l’aristocrazia al patto siglato a Runnymede nel 1215, la Magna Charta Libertatum: né il governante né il governato stanno sopra il diritto positivo generato dal diritto divino. Robin «col cappuccio», the hooded-man, era un patriota, sul muso di re Giorgio III d’Inghilterra (17381820) avrebbe detto volentieri Don’t tread on me! assieme agli americani, era un legittimista, un vandeano, un sanfedista in anticipo contro le spoliazioni giacobine. Little John e Will Scarlett dei «Merry Men» portarono il popolo al suo fianco, frate Tuck la benedizione di Santa Romana Chiesa alla sua guerra giusta, la tradizione stava dalla sua e lui era più «moderno» di tutti. Alla fine il potere legittimo, re Riccardo I detto Cuor di Leone (1157-1199), riconobbe in lui la forza del diritto e della verità, e lo ricompensò per avere preservato il regno dalla decadenza (per certo al normanno Riccardo costò molto inginocchiarsi all’eroe sassone, ma lo fece comunque, e volentieri, questioni di verità e di giustizia). Riprendiamoci Robin Hood, eroe di tutti i «Tea Party» contro lo Stato mangiatutto, e riprendiamoci la sua antesignana, dama Godgyfu, madrina di

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Guglielmo detto il Conquistatore (1028-1087) a travolgere l’«Anglosassonia» da tempo stabilita nella maggiore tra le isole britanniche già celtiche. La sua storia la narra in latino medioevale il Liber Eliensis, dal nome dell’abbazia di Ely, nel Cambridgeshire orientale, dove nel secolo XII un tal monaco Thomas, altri dicono Richard, fissò per iscritto le cronache salienti dell’epoca. E la sua leggenda è tramandata, sempre in latino, dal Flores Historiarum, ovvero per exempla la storia scritta a molte mani di quella che si chiamerà Inghilterra ab ovo fino al 1326, di cui gran penna fu Ruggero di Wendover (†1236).

Per disegno misterioso e imponderabile, il Cielo sottrasse a Godgyfu il primo marito, ma Leofric conte di Mercia se ne innamorò. Davanti all’Onnipotente, si unirono in matrimonio. Si fecero fama di sovrani generosi, elargivano a cenobi e conventi, Leominster, Chester, Much Welock, Worcester ed Evesham portano tutti il loro sigillo. Attorno al 1043 ricostruirono la cittadina di Coventry, rovinata dalle incursioni danesi e rinverdirono i fasti di quell’insediamento un po’ romano è un po’ sassone, e su cui pesava benignamente pure la mano di una santa locale, facendone la capitale della loro «Camelot».Vi fondarono anche un nuovo monastero benedettino, dedicato a santa Maria. Dietro alla bontà di Leofric vi era sempre dama Godgyfu, dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, dietro un grande re una grande regina. Sire Leofric era bravo, ma, si sa, come dirà molto più tardi sir John Emerich Edward Dalberg noto come lord Acton (1834-1902), il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Fu così che un dì Leofric affamò Coventry con nuove tasse, pesanti, inutili. Una ingiustizia palese, un gesto insano con cui il sovrano cancellava anni di munificenza. Il popolo protestò, reagì, ma non riusciva a far rimangiare a Leofric quell’affronto alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità. Come nelle fiabe più belle, allora, la regina, Dio benedica le donne, le mogli, le madri, prese le parti del popolo e di

La traduzione letterale del suo nome, Godgyfu, è “dono di Dio”. Probabilmente nacque nel 990 e morì nel 1067. La sua vicenda è narrata nel “Liber Eliensis” ogni battaglia contro le tasse insopportabili che umiliano l’uomo e offendono Dio. Nacque, Godgyfu, nel 990, forse, e morì, forse, nel 1067, era sassone consorte di sire sassone, occhi chiari e chiome brune, sinuosa e casta, incantevole e pia. Il mondo la ricorda latinizzata in Godiva, ma l’etimo Old English è sublime: «dono di Dio». Ricorda donde veniamo, tutti: noi, la verità, la vita, la libertà, il diritto, la giustizia, la resistenza all’invasore e al tiranno, il buongoverno. La sua vicenda si svolse a un passo da quel 1066 di Hastings che portò i normanni del duca anno III - numero 30 - pagina VIII

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Antesignana di Robin Hood, è la madrina di ogni battaglia contro le tasse che umiliano l’uomo, tanto da diventare l’icona del movimento di liberazione fiscale oggi. La sua leggenda ci ricorda i nostri autentici diritti: la libertà, la verità, la giustizia, la resistenza all’invasore e al tiranno, il buongoverno, il diritto alla felicità

A lezio petto il marito. A Leofric Godiva domandò che quelle imposte venissero levate; erano indegne di un sovrano giusto quale il nobile signore di Coventry, erano brutte agli occhi di Dio, erano disastrose per tutti. Per tre volte chiese Godiva a Leofric e per tre volte Leofric non rispose alla bella dama, senza pietà. Ella tornò allora a chiedere, altre volte, altre tre volte, altre tre volte tre. Leofric era esasperato; e quello che poteva ridursi a un peccato lieve presto perdonato dal pentimento ingigantì, generando cupidigia. Oramai il suo cuore non ricordava più chi egli fosse. E così il sire, torvo in volto, oscuro nei pensieri, nero nel cuore vedeva solo i denari, le sue orecchie non udivano più lo stridore dei denti. Il re voltava le spalle a Coventry, sputando in faccia a Dio, re dei re, per mez-

zo del quale egli regnava. Accadde là, nella terra del santo Graal dove il re e la terra sono tutt’uno, dove se uno incanutisce l’altra avvizzisce senza la benedizione del sangue divino sparso dalla Croce. Che demone si era fatto quel Leofric!, in quale orrenda creature degl’inferi si era trasformato quel sovrano un dì puro e magnanimo. Nono, non desiderare la roba d’altri.

Ma lady Godiva non si perse. Domandò, supplicò, implorò, candida, bella, immacolata. Fu così che, sprezzante e beffardo, il marito la sfidò. «Ascolterò le tue lagne, o donna che non temi umiliarti, se avrai cuore di cavalcare per le strade di Coventry al ludibrio dei volti, alla lussuria degli occhi, all’affronto delle mani. Nuda! Monta senz’abiti, e toglierò la mercede al popolo», ghignò Leofric. L’avidità e l’orgoglio avevano bruciato il suo animo, che non esitava a mercificare il corpo della moglie per riscattare poche monete in più. Sesto, non commettere atti impuri. Godgyfu non conosce-


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persona, il suo corpo, a spese dei contribuenti, anche perché ciò che dentro dà vita e libertà, l’anima, non può essere posseduto. Don’t tread on me. Sic semper tyrannis. Al balcone del sovrano, le guardie corsero dal re. Che giunse, affannato, incredulo, sbigottito. La regina aveva sfidato la sua sfida com’egli non avrebbe creduto possibile. I preraffaelliti s’impadroniranno grandiosamente del mito, loro che amavano il Medioevo di «prima dello Stato», Alfred lord Tennyson (1809-1892) lo eternò: To meet her lord, she took the tax away/ And built herself an everlasting name.

one da Lady Godiva di Marco Respinti va più il marito. La proposta sconcia la inorridì, si coprì il volto per la vergogna. Pianse. Si raccolse in preghiera, meditò, offrì penitenza e digiuno. Alla fine si risolse. Accettò la sfida del mostro per il bene e per la giustizia. Una ordalia, che sia. In una notte di luna splendente, la dolce madre del popolo si sfilò allora lentamente, con gesto regale, con cerimonia nuziale, con liturgia devota, le vesti nobili, scese nelle stalle reali, montò la più fiera delle cavalcature e prese per le vie della città. Si sparse la voce, la gente si dava di gomito, la signora sarebbe passata da lì. Ma quando apparve, lenta e fiera nella propria mestizia, nessuno ne vide le nudità, nessuno scorse altro che purezza, lindore, candore. Non desiderare la donna d’altri. Uno solo degli occhi sgomenti di quella notte si posò sulle sue forme con smania di desiderio, quello

del giovane «Peeping» Tom il guardone, che subito venne punito perdendo la vista. Ne ringraziò per l’intera sua vita, se il tuo cuore ti dà scandalo cavalo.

Null’altro poteva offrire, Godiva, e dette se stessa, come Cristo, denudato dai carcerieri. Pensava, caracollando

Fu un attimo. Nudo era Leofric. Cadde all’indietro. Si rialzò ebbro, disgustato di sé e della propria malvagità, che in quell’attimo però sparve. Il dono di dio, Godgyfu. Godiva l’aveva vinto. Il popolo era libero, il sovrano anche. Leofric si precipitò per la scalinata, tre gradini a balzo, con gesto ampio si spogliò del mantello, lo depose sull’amata. Che sorrise, lievemente, con dolcezza. Le tasse che uccidevano il popolo furono tolte. Questa è la leggenda di Conventry, di come un dono di Dio, disadorno e debole, vinse la cattiveria di un potere senza senso. Seguirono anni di durezze e di prosperità, com’è sempre, ma fra avversità e gaiezze si cantava di quel re amabile la cui sposa si rivestì

I preraffaelliti che amavano il Medioevo di “prima dello Stato” s’impadronirono del mito, eternato poi da Alfred Tennyson: “To meet her lord, she took the tax away...” sul destriero, che un buon re è Iddio in terra per il popolo, e che se per un attimo Leofric aveva smarrito ragione e diritto allora toccava alla regina sacrificarsi per raddrizzare la città. Rovescerà i potenti dai troni, dicevano le Scritture, schiaccerà i nemici sotto gli zoccoli dei cavalli. Al vederla le prostitute del borgo arrossirono. Com’era lontano il loro darsi per oro da quel suo combattere con l’ultima spada rimasta, l’ultima proprietà inalienabile, l’unico diritto che solo la morte data dall’Alto può sottrarre per renderlo in Paradiso. Il corpo come bandiera, arma, grido di battaglia. La proprietà della vita e della libertà contro il dispotismo. Lo Stato non deve toccare la

di gloria.Venne poi il giorno in cui Leofric spirò, nel 1057. Godgyfu restò di nuovo sola. Ma, dice il Domesday Book, cioè il «libro del giorno del giudizio» voluto dal conquistatore normanno per censire i beni del regno, che ella fu tra i pochi sassoni, e certamente l’unica donna, a conservare signoria sulle proprie terre. Dorme sepolta non si sa dove, ma ha ragione chi dice che giace nella chiesa principale di Coventry accanto al consorte. Questa è la storia romanzata di lady Godiva, giunta fino alla TaxPayers’ Alliance, i Robin Hood di Gran Bretagna che ne han fatto l’icona del movimento di liberazione fiscale oggi. Un dono di Dio. www.marcorespinti.org


Narrativa Quei due fidanzatini inghiottiti dal deserto

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di Maria Pia Ammirati empi estivi, tempi di massacri. Coincidenze, fatalità e statistiche alimentano la cattiva fama di una stagione, l’estate, portatrice di caldo e follia, generatrice di mostri da rimitizzare opportunamente in cronache balneari, facilonerie giornalistiche. Anche quest’estate non smette di dare i suoi frutti, i delitti sono all’ordine del giorno e gli assassini, sempre più esperti di cronache dettagliate, affinano le tecniche. La cronaca non è un elemento inerte, la sua capacità di trasformazione e di adattabilità ne ha fatto un elemento strutturale di parte della narrativa degli ultimi decenni. Questa introduzione per arrivare alla nostra lettura e per chiarire la scelta di uno scrittore, Andrea Di Consoli, tra le migliori promesse italiane, che decide, dopo una serie di romanzi, di affrontare un nuovo genere. La commorienza butta lo scandaglio proprio dentro una scrittura di genere marginale per qualità e popolare per quantità: la nera. Di Consoli sente subito che un caso di cronaca nera, per di più avvenuto ventidue anni fa, per essere affrontato deve avere un significato profondo, e per farlo bisogna anche essere misurati nello stile e nell’espressione da dare

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Autostorie

al testo. Scarta dunque la forma romanzo (sarebbe stata una debolezza) e dichiara senza dubbio la scelta di non scrivere «né un romanzo giornalistico, né un reportage narrativo», ma «una disperata inchiesta giornalistica». L’inchiesta è considerata un genere no-

bile della scrittura giornalistica perché fondata sull’accertamento diacronico dei fatti e delle fonti, e questo è un elemento chiaro nel percorso di Di Consoli. Ma perché quell’aggettivo, perché parlare di disperazione di fronte al genere principe dell’analisi? Un’inchie-

sta può essere appassionata, veemente, dissacrante e perciò parziale invece che distaccata, ma cosa significa per Di Consoli disperata? Nella parola credo sia da trovare la vera radice del perché questo libro nasca nella testa del romanziere, e non sia solo l’occasione per misurarsi con scritture altre. Quest’inchiesta nasce sulla spinta di una passione viscerale di Di Consoli per la propria terra (la Lucania dei suoi primi libri) e di una grande forza morale che rende Di Consoli un giovane appassionato della verità. La ricerca della verità in un luogo di desertificazione dei sentimenti, come alcune provincie nel mondo (nel mondo, e non solo nel meridione d’Italia), può partire da qualsiasi episodio, ma lo scrittore comincia là dove tutto sembra essere perduto, dall’oscura morte dei due fidanzatini di Policoro avvenuta nella notte del 23 marzo del 1988. Quella notte di inizio primavera, intorno alla mezzanotte nel paese di Policoro, nel materano, la signora Andreotta tornata a casa dopo un concerto, scopre il corpo senza vita della figlia e del fidanzato. I giovani ventunenni, Marirosa e Luca Oriolo, sono nudi in bagno, la ragazza nella vasca, il giovane adagiato ai piedi della vasca. La stanza da bagno in poche ore diviene il teatro (dell’assurdo) di un andirivieni di persone che indagano e depistano allo stesso tempo quello che sarà dichiarato, solo dopo dieci anni, un possibile duplice omicidio. I ragazzi vengono seppelliti con una dichiarazione di morte per folgorazione. E tutto viene insabbiato. Perché? Pietà e compassione sono le chiavi di entrata di un intricato giallo irrisolto che ha come mandanti il senso del pudore, l’omertà, la vergogna, il provincialismo, la paura. Andrea Di Consoli, La commorienza, Marsilio, 122 pagine, 13,00 euro

libri ALTRE LETTURE

LA MATEMATICA È UNA COSA MERAVIGLIOSA di Riccardo Paradisi

a storia della matematica inizia alcune migliaia di anni fa, quando l’uomo sente il bisogno di organizzare la propria conoscenza del mondo a partire dai suoi aspetti più pratici. Da quel momento la lettura matematica della realtà non ha mai smesso di affascinarci e di stimolare la nostra fantasia, spingendoci a creare ed esplorare nuovi mondi. Un mondo di matematica (edizioni Dedalo, 266 pagine, 15,00 euro) di Peter Higgins ci racconta come si è sviluppato il rapporto tra l’uomo e la matematica dai suoi albori fino ai nostri tempi, sottolineando il ruolo fondamentale della geometria nella nostra comprensione del mondo, dalle intuzioni di Talete e Pitagora alla nascita dei mondi non euclidei, e della simmetria.

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I VENT’ANNI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO *****

vent’anni trascorsi dalla caduta del Muro di Berlino a oggi sono stati tra i più intensi e drammatici: hanno visto conflitti in Europa e Medio Oriente, gli Stati Uniti attaccati sul loro stesso suolo, una crisi economica epocale, nuove sfide come la questione climatica, l’ingresso nell’area del benessere di miliardi di persone e nuovi paesi. In questo ventennio, che pone le premesse di un nuovo scenario mondiale, gli Stati Uniti come potenza egemone e l’Europa hanno vissuto cambiamenti che ne stanno ridefinendo sia il ruolo internazionale sia i rapporti reciproci: Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda (Il Mulino, 196 pagine, 13,00 euro) li ricapitola in un’esposizione chiara e documentata che si propone come primo bilancio critico di questo ventennio.

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Nostalgia per le sgommate sulla Giulietta Sprint ra chi scrive di auto, la stragrande moltitudine si occupa di prove di nuovi modelli; commentati, non di rado, con toni sin troppo enfatici nello sforzo di rendere omaggio a qualsivoglia delle ricorrenti presentazioni delle case. Diversi sono anche gli osservatori di questioni economiche del settore, mentre restano davvero pochi coloro che manifestano interesse per fenomeni di cultura e costume legati all’utilizzo e alla diffusione delle quattroruote. Una categoria giornalistica, quest’ultima, tanto più rara se si tratta di considerare testi letterari nei quali l’automobile figura, a diverso titolo, da protagonista e come continua a fare - per inciso - questa rubrica. Prossima a compiere dieci anni da quando, al termine del 2000, sull’allora bimestrale della Fondazione Liberal apparve la prima delle nostre Autostorie. Apripista di un solingo cammino nel quale si è posta, da cinque anni, la pagina tenuta mensilmente su Autocar da un personaggio del calibro di Loris Casadei: direttore generale di Porsche Italia e tanto amante dei libri da creare, insieme al figlio Lorenzo e in quel

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di Paolo Malagodi di Padova, una iniziativa editoriale opportunamente denominata CasadeiLibri. Per comunanza di interessi e reciproca stima, avviene di scambiare talvolta con l’amico Casadei attenzione agli stessi testi e come capita, ora, per un agile volume dall’elegante copertina in azzurro pastello (Sfogliar verze, edizioni Excelsior 1881, 120 pagine, 12,50 euro). Opera dell’astigiano Giorgio Conte, avvocato, nonché compositore e jazzista, che «insieme al fratello Paolo ha dato vita a un sodalizio musicale culminato in brani come Una giornata al mare e La Topolino amaranto. Poi lo studio legale, le tournée teatrali e i programmi radiofonici accanto alla carriera internazionale di concertista». Così specifica il risvolto delle ventinove brevi storie, che ritraggono soprattutto la provincia italiana di quando, sino agli inizi degli anni Sessanta, l’automobile offriva il privilegio di muoversi in libertà. Magari affiancato, su vetture con impronta sportiva e per strade poco trafficate, dal

In “Sfogliar verze” Giorgio Conte descrive in ventinove racconti la provincia italiana

piacere di sfoggiare la propria guida e come accade al protagonista del racconto iniziale: che da Asti a Nizza Monferrato, grazie a «una Giulietta Sprint coupé verde acqua», offriva l’ebbrezza di una volata con «sgommate a ogni occasione, curve su due ruote, rettilinei da brivido»; ad amici stipati in un abitacolo tanto limitato che «finalmente arrivati scesero dal coupé. Quello che aveva viaggiato davanti riuscì a stento a piegare le ginocchia, gli altri, provati dalla sacrificatissima posizione uscirono a testa bassa e, solo dopo alcuni metri di terraferma, riassunsero la postura eretta». La tessitura dei ricordi giovanili incentra altre pagine sull’automobile, ad esempio per andare da Sestri Levante a Portofino «con la Seicento blu scuro, gomme con fascia bianca, porte con apertura controvento e volante grigio in plastica. Pochi i tratti dove si poteva superare il torpedone. Qualche curva in discesa per far stridere le gomme … gridolini … risate». Cronache di un perduto tempo, che concedeva di associare al muoversi in automobile queste, in genere innocenti, trasgressioni e con il sogno di possedere anche solo una Topolino amaranto, elegantissima se con i parafanghi neri!


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poesia

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I versi da camera dell’anti-Vate nche se Guido Gozzano non ha mai avuto niente di Filippo La Porta da spartire con le avanguardie, e ad esempio l’altro poeta crepuscolare Sergio Corazzini è appar- scoli: metro irregolare, accenti spostati, rime forzate ,etc.) so a molti critici più sperimentale, quando lessi la si insinua un desiderio torbido, appena represso, e pronto prima volta quei versi in cui faceva rimare «Nietzsche» a tradursi in modi patologici e in rituali sado-maso. Prencon «camicie» (nella Signorina Felicita) ebbi diamo l’autoparodia L’esperimento (dalle un sussulto di entusiasmo. È stato forse il noPoesie sparse), dove invita un’amica a «fastro primo poeta a far cozzare, come scrisse re un gioco», a travestirsi da Carlotta e a Montale, l’aulico con il prosastico. E ciò servicantare l’Ernani, mentre lui sul divano le bacia la «gola nuda e palpitante», ne accava a mostrare quanto vi era di finto nell’aulirezza le morbide forme, e poi smette per co e di retorico nel prosastico apparentemenpaura che li sorprendano gli zii «dabbene». te più familiare. Mentre D’Annunzio, suo moQui c’è tutto Gozzano: il teatro, la commedello giovanile, da un lato credeva così tanto dia, non come in D’Annunzio per fingere all’aulico da irrigidirlo e trasformarlo in feticiun sublime di cartapesta, ma per scoprire smo del Kitsch, dall’altro estenuava la prosa interamente il gioco (l’abbandono della del mondo in un vitalismo troppo enunciato e fantasia a figure ingiallite, spettrali), la protutto letterario. Modello poi abiurato e parodiato innumerevoli volte (in una preghiera a Dio: «invece pria trepida e inerme sensibilità, la propria innocente deche farmi gozzano/ un po’scimunito ma grezzo,/ farmi ga- pravazione: «commediante del mio sognare fanciullebrieldannunziano;/ sarebbe stato ben peggio!» - L’altro), e sco…». Mentre nelle Golose, dichiarando il proprio innache certo lui dovette attraversare per intero, fino a rivelar- moramento per le tutte signore «che mangiano le paste ne la intima pochezza. Gozzano, in tal senso, ci si presenta come l’anti-Vate: per la grazia sommessa dei versi (direi quasi una poesia da camera), per il distacco ironico, AMICA DI NONNA PERANZA per l’undestatement sentimentale, per la sfiducia nel ruolo dell’intellettuale, e soprattutto per la percezione molto novecenGiungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo, tesca di uno scarto inevitabile tra la vita e ligio al Passato, al Lombardo-Veneto, all’Imperatore; tutto ciò che rimuginiamo e teorizziamo intorno alla vita. giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,

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Alcune volte Gozzano, poeta liberty amabilmente discorsivo («poesia parlata» disse il Croce) e non lontano da certe suggestioni del verismo ottocentesco (gli amori ancillari, per sartine e signorine…), si rivela di una intelligenza - psicologica, sociologica, perfino filosofica - superiore. Penso alla irresistibile satira sociale su Totò Merumeni parodia dell’Eautontimorumenos (punitore di se stesso) diTerenzio e poi di Baudelaire -, dove compare in scena un personaggio memorabile, immerso nella sua «villa-tipo»: «tempra sdegnosa/ molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,/ senza cervello, senza morale, spaventosa/ chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro». Un personaggio degno del Gastone petroliniano: «Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,/ non è cattivo». O anche ai Difettivi sillogismi (dalla Divina commedia: in Gozzano molte le memorie dantesche e poi petrarchesche): «Ah! Difettivi sillogismi! L’io/ che c’è sì caro muore ad ogni istante/ senza rimpianto. Muore nel riposo/ e nella veglia. Un calice di vino/ un grano d’oppio uno sbigottimento/ una ferita, basta a dileguarlo./ Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio/ ritroveremo intatto e vigilante/ il buono fanciulletto interiore/ che ci ripete d’esser sempre noi». Ecco, se si pensa a tutta la stucchevole, parassitaria bibliografia sull’io diviso e plurale, fluido e rizomatico, qui Gozzano ci ricorda sobrialigia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna... mente che l’io è sì illusione e costruzione provvisoria, ma che poi l’unità della perso«Baciate la mano alli Zii!» - dicevano il Babbo e la Mamma, na è garantita da qualcos’altro, da qualcoe alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii. sa che in noi si sottrae al divenire («Solo eterno è lo spirito… perché l’io/ ed il non io «E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta son frutto d’ignoranza»). L’intero canzoniere gozzaniano è un monumento elegiaCapenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza» co alla vita che non si è vissuta, che anzi è «Ma bene... ma bene... ma bene...» - diceva gesuitico e tardo stata vissuta da un nostro alter ego («Io piansi e risi per quel mio fratello/ che pianlo Zio di molto riguardo. «Ma bene... ma bene... ma bene... se e rise»). Siamo sempre un po’ in ritardo Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna... sulle cose, sugli eventi. Ci innamoriamo di tutto ciò che è sfiorito, passato di moda. Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro...» Gozzano non aspetta che il nuovo invec«Gradiscono un po’ di moscato?» «Signora sorella magari...» chi: gioca d’anticipo e fabbrica direttamente l’obsoleto (Sanguineti). Un sentire del E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari. genere dovrebbe appartenere, secondo la «... ma la Brambilla non seppe...» - «È pingue già per l’Ernani...» convenzione, a una temperie decadente e molto fin de siècle. A me sembra però un «La Scala non ha più soprani...» - «Che vena quel Verdi... buon punto di partenza per fare esperienGiuseppe!...» za della realtà, che, al contrario di quanto volevano vitalisti esagitati e un po’mitomani, è qualcosa di inafferrabile, che soltanto Guido Gozzano a posteriori infatti possiamo tentare di ricomporre: «solo nei miei sogni d’arte/ narrai la bella favola compita».

L’

Nell’Amica di nonna Speranza - strofe distiche di versi doppi, composti da novenari, ottonari e settenari a rime interne (e tratta dal suo volume più importante, I colloqui, 1911) - il poeta si ispira a una vecchia foto del 1850 che ritrae la nonna con l’amica Carlotta. Quel piccolo mondo antico, con i suoi oggetti del decoro borghese, viene raffigurato con un misto di affetto, nostalgia e pietas. Qui l’epigono Gozzano, considerato l’ultimo dei classici, quasi a chiusura di un’intera epoca storica, immette dentro il linguaggio poetico (di origine simbolista) materiali bassi, inerti, come semplici brani di conversazione - «Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...» -, rimodulandoli e anticipando involontariamente soluzioni formali successive. Un erede indiretto di Gozzano potrebbe essere perfino l’Arbasino di Fratelli d’Italia, dove la chiacchiera mondana, svagata, assurge a protagonista indiscussa della narrazione. E poi: dietro il cantabile, delicato ricamo dei versi (che pure Contini severamente associa a una decadenza metrica della nostra poesia dopo Pa-

il club di calliope

nelle confetterie», con le bocche al sapore di crema e cioccolato, immerse nei vassoi, celebra quasi una personale utopia: l’istinto che non sa trattenersi, la natura incontinente, cedevole, incapace di (borghesemente) governarsi.

S

GLI ABBANDONI POETICI DI DE ROBERTO in libreria

Il cuore, concentrato in pochi chilometri quadrati, non ha deluso le aspettative (ma in Belgrave sq., all’inizio, ho stentato a riconoscere la prospettiva della casa latina). È stato uno dei giorni più lunghi dell’anno, il 27 di un piovoso Aprile, il «tornerò presto» deciso dopo aver attraversato svelto il Mall per sbirciare da sopra le teste uno spicchio di regale controluce. Avrebbe potuto durare un secolo, a quel punto, il tragitto in pullman nell’anticipo prescritto, nel polvericcio denso del crepuscolo, incontro alle prime stelle e al loro incurante balbettio. Tiziano Broggiato

di Loretto Rafanelli

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uando, nel 1939, Benedetto Croce definisce Federico De Roberto «un ingegno prosaico, curioso di psicologia e sociologia, ma incapace di poetici abbandoni, di poco affetto e di fantasia» e I Vicerè un’«opera pesante che non fa battere il cuore», ne certifica l’esclusione dal canone letterario nazionale. Ci vorrà l’impegno di Bo, di Sciascia («il più grande romanzo dopo I Promessi sposi) e di altri critici per riportare la dovuta attenzione verso il grande scrittore. Rosario Castelli, giovane docente dell’Università di Catania, è uno di questi, addirittura egli ha scoperto e curato diversi inediti dell’autore siciliano. Un suo libro (Il punto su Federico De Roberto, Bonanno Editore, 230 pagine, 20,00 euro), ne ripercorre, con una catalogazione accurata, gli scritti, anche quelli giornalistici, e la storia della critica. Castelli ritiene questa scarsa considerazione verso De Roberto, assolutamente fuori luogo, in quanto egli fu «estremamente moderno perché seppe interpretare la crisi del secolo agonizzante e il deficit dei valori etici», oltre a essere uno scrittore dal respiro europeo.


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di Diana Del Monte oral de la danseuse aveugle di Régine Chopinot è una di quelle cose che non ti aspetteresti mai di trovare al Festival di Avignone off, eppure era lì, incluso nel programma di una piccola rassegna all’interno del gigante «Off». La danza avignonese non ufficiale, infatti, si è organizzata in un piccolo festival nel festival chiamato 100% danse, organizzato dal Centre de développement choreographique Les Hivernales di Avignone. Questa piccola rassegna, che si è svolta dal 11 al 24 luglio, è semindipendente; parzialmente gestita dall’organizzazione dell’off, che si occupa della vendita dei biglietti, è, allo stesso tempo, abbinata anche al Festival di Avignone tradizionale, che ne segnala, invece, gli appuntamenti a ingresso libero. In tutta questa confusione, dunque, scovare la Chopinot non era facilissimo, ma chi è stato così fortunato da imbattersi in lei, ha trovato un piccolo tesoro. All’interno de La Maison Vilar, in una piccola sala dal pavimento in pietra e il soffitto a volta, originariamente adibita a locale di servizio, la Chopinot, danzatrice e coreografa nata nell’Algeria francese, mette in scena un frammento della propria memoria. Conosciuta dal grande pubblico per la sua collaborazione, negli anni Novanta, con Jean Paul Gautier, la Chopinot lascia l’Algeria all’età di dieci anni e oggi, nel suo personalissimo percorso artistico che ha ben presto abbandonato le grandi organizzazioni per una maggiore libertà creativa, cerca di riportare alla memoria e, di conseguenza, in scena questi suoi primi rari ricordi. Uno di questi, racconta la Chopinot, è legato al mare e a un bambino «piedi-neri» sulla spiaggia di Bains-Romains, nell’ovest dell’Algeria che la Chopinot fa rivivere attraverso una performance di natura assolutamente non didascalica, ma sensoriale. Il titolo si riferisce a un mito orale kanak, il mito della danzatrice cieca, appunto, che la coreografa utilizza per sottolineare l’importanza dell’ascolto, in tutte le sue declinazioni, a

L’

Televisione

Danza L’orecchio obbediente della danzatrice cieca MobyDICK

spettacoli DVD

QUANDO L’UOMO DECISE DI VOLARE ato dalla inesauribile abilità ricombinatoria di Leonardo Tiberi, Le ali del Novecento è l’ennesima conferma dell’importanza di un patrimonio sconfinato come quello dell’Istituto Luce. Un imponente lavoro di selezione, che ha permesso a questa breve storia del volo di trasformarsi in un piccolo saggio socio-culturale sul secolo scorso. Percepiti con timore, i primi velivoli danno lustro a tutti quegli emuli di Icaro che vollero spesso rischiare le penne, a bordo di macchine bizzose. Un lungo racconto, che dedica ampio spazio anche ai pioneri nostrani: dal volo di Mario Calderara all’incredibile Eurofighter che si sollevò su Centocelle.

N

PERSONAGGI

COBAIN ALLA CONQUISTA DI HOLLYWOOD L’emozionante performance di Régine Chopinot ispirata alla sua infanzia algerina fronte di una sempre maggiore preponderanza, nella realtà contemporanea, della vista. Dedicato a un ristretto pubblico, circa 25/30 persone, seduto su una fila di panche di legno tutt’intorno alla sala, L’oral de la danseuse aveugle crea, tra i pochi spettatori, una condizione di totale intimità. La performance è un’immersione in un territorio di estrema delicatezza che trova nello sguardo della Chopinot, unica danzatrice in scena, uno dei suoi

punti focali, sostenuto da un’ambientazione sonora altrettanto delicata e attenta, fatta di suoni, parole e musica elaborata al computer e alternata a una chitarra classica suonata dal vivo. Tutto l’assolo dura solo 25 minuti, durante i quali la Chopinot percorre tutto lo spazio disponibile, sfiorando i piedi degli spettatori, salendo sulla fontana in pietra e, infine, salutando dai quattro angoli della sala. L’oral de la danseuse aveugle verrà presto rielaborato per includere la partecipazione di Moïse Kuiesineda, coreografo della compagnia neozelandese Wetr a Drehu, prevista per il Festival di Auckland; in seguito sarà in tournée, anche in Giappone, a Nouméa (Nuova Caledonia) e a Parigi per poi tornare nel sud della Francia.

educe dai lusinghieri risultati di I’m not there, Oren Moverman era la scelta giusta. Sarà il cineasta israeliano di stanza a New York a dirigere infatti il biopic che omaggia il genio ribelle di Kurt Cobain. Secondo le anticipazioni date al quotidiano britannicoThe Guardian, si tratterà di un film «crudo e caotico». «La gente conosce la versione per scorciatoia: che si faceva di eroina, che ha composto Smells like teen spirit, che diventò la rockstar più grande del mondo, e infine che si uccise. Beh, per me queste cose sono le meno interessanti», ha spiegato. Intanto è scattata la caccia all’interprete di mister Nirvana. Puntate cinque euro su Pattinson di Twilight.

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di Francesco Lo Dico

The Riches: il sogno americano a portata di mano iamo agli ultimi fuochi, come si suol dire. E in attesa che la valanga delle repliche inondi interamente il piccolo schermo. Rivedremo Don Matteo, I Cesaroni e tanti altri serial che, con un sussulto di ingenuità, avevamo messo nella soffitta della memoria.Tuttavia qualche piccola novità la si può ancora trovare. Non su Rai e nemmeno su Mediaset, ovviamente. È ancora Sky che butta l’asso sul tavolo verde. Il canale FX manda in onda The Riches (ricchi, in italiano). A seguire il primo episodio francamente si avverte un senso di repulsione. La domanda che ci si pone è questa: se le cose continuano così è meglio spegnere.Troppa volgarità. Ma c’è un «invece». D’altra parte il riscatto, come genere concettuale, fa parte dell’America, dove ognuno può essere quel che vuole diventare (più o meno). The Riches è la storia di una famiglia psichicamente

S

di Pier Mario Fasanotti disgregata: padre e madre truffatori e ladri, tre figli apprendisti.Viaggiano in un camper secondo le nuove regole del West di quel continente: lunghe e larghe strade, spazi aperti, niente grattacieli. Come base hanno un «campo», proprio come i nomadi. Non a caso chiamano se stessi «gli zingari bianchi». Elemento in comune, forte come l’acciaio, è l’odio contro la borghesia.Wayne, il padre protagonista, è un camaleonte, orgoglioso

d’essere furbo, svelto nel rubare, rozzo, lontano da ragionamenti sottili. Lui e i suoi tre figli, complici nei furti, vanno a prelevare Dalhia, moglie e madre, appena uscita di prigione e in libertà vigilata. La donna è sciupata, le sue vene sono massacrate dalle siringhe. Dopo varie vicende non proprio edificanti, Wayne e la sua scombinata famiglia sono costretti a fuggire dal campo. Un viaggio costellato di improvvisazioni, linguaggio volgare, assenza di delicatezza salvo il continuo ribadire l’amore coniugale. I figli? Quelli devono seguire. Il caso vuole che si imbattano in un’auto uscita di strada, i cui conducenti, gente agiata, muoiono. Wayne trova chiavi e documenti che gli permettono di entrare, con identità rubata, in una villa situata in un villaggio residenziale, abitato da quei borghesi tanto disprezzati. Il protagonista se

la cava subito. S’inventa un passato da avvocato. Dalhia è più in difficoltà, anche per la dipendenza dalla droga. I vicini di casa in qualche modo aiutano. Dunque la borghesia non è così male, anche se continua a essere oggetto di scherno. Certo, è la medio-alta borghesia americana che punta sull’apparenza, che parla per frasi fatte, che giudica in base alla riuscita sul campo da golf. Quesito: rimanere in quella casa comprata via Internet da due persone defunte oppure… Le alternative sono poche, quasi inesistenti. Se da un lato ci sono pesanti conti in sospeso con la comunità zingaresca di provenienza, dall’altro canta la sirena dell’agiatezza. Wayne è un profittatore. La moglie, che confessa di volere soltanto l’amore del marito, accetta la sfida della nuova (falsa) identità. Hanno soldi, rubati. Retorica è la risposta alla domanda che si pongono, ossia come investirli: «Investiamo su noi stessi. Questo è il sogno americano e noi ce lo prendiamo». Il seguito della storia si può anche vedere.


Cinema

MobyDICK

nche questa stagione cinematografica è conclusa. Dopo i botti di fine estate la scorsa settimana, che è stata contrassegnata dalle uscite di The box di Richard Kelly - quello dell’idrolatrato e controverso Donnie Darko - e del Solista, l’intensa storia di un violinista-clochard che allieta i piccioni per le strade di Los Angeles con il suono del suo strumento, ieri al cinema non è uscito nulla. O meglio, se considerate degni della vostra attenzione La città invisibile, commedia di Giuseppe Tadoi che, nonostante tratti un tema sensibile come quello del terremoto aquilano, non è riuscito a meritarsi una data migliore per arrivare in sala, o piuttosto Time of darkness, horror polacco dalla trama improbabile, allora in bocca al lupo. Al posto dei fondi di magazzino di qualche distributore annoiato, noi preferiamo invece offrirvi una panoramica di quel che ci aspetterà al ritorno dalle vacanze. Ovviamente sarebbe impossibile rendervi conto di tutto quello che la sala potrà offrire. Abbiamo scelto così tre film, ognuno a suo modo intenso, legati da un unico filo conduttore. You don’t know Jack ha già fatto un fracasso incredibile oltreoceano. E non tanto per l’eccezionale trio di attori che lo animano, nonostante stiamo parlando di gente del calibro di Al Pacino, Susan Sarandon e John Goodman. E nemmeno per la regia, che porta l’altrettanto prestigiosa firma di Barry Levinson (il premio Oscar per la regia di Rain Man, per capirci). No, loro malgrado, le star hollywoodiane coinvolte nel progetto una volta tanto non sono state al centro del chiacchiericcio che ha fatto di contorno al film. Il dibattito è infatti sorto e si è infiammato intorno alla storia del film di Levinson. Quella del medico del Michigan Jack Kevorkian, il primo negli Stati Uniti a praticare sistematicamente l’eutanasia in barba alle leggi dello Stato americano, fino a essere incarcerato con un’accusa di omicidio dal 1999 al 2008. La tesi del dottor Kevorkian è piuttosto eterodossa: il medico di origini armene, infatti, non è tanto favorevole al suicidio assistito di pazienti tenuti in vita da terapie mediche più o meno invasive, argomento al centro del dibattito odierno, quanto alla soppressione di persone che, in caso di patologia gravissima o senza speranze, decidono deliberatamente, facendone domanda, di porre fine ai propri giorni, indipendentemente dalla qualità della vita o dal tempo che gli rimarrebbe da vivere. Schierando campioni dell’anima liberal più accesa del panorama cinematografico yankee quali la pasionaria Susan Sarandon, la pellicola non poteva che essere fortemente simpatizzante nei confronti del «lavoro» di Kevorkian, ostacolato da «estremisti che faranno di tutto per impedirgli di rifarlo», e che si difende affermando che quella che sopprime «ormai non è vita». Dopotutto si è solo limitato a rendere «un servizio medico». Il controcanto è riservato alla solita macchietta del procuratore repubblicano che serra la mascella e dice «ho tre figli, non li ho educati in questa maniera» e agli altrettanto usuali attivisti dalla testa di legno che urlano il più banalizzato dei Deus non vult. Un film a tesi, dunque, di quelle che spaccheranno il pubblico tra accaniti sostenitori e acerrimi detrattori. Negli Stati Uniti è passato direttamente in televisione sulla Hbo, in aprile. I diritti in

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A

Deus non vult ma… Kevorkian sì Italia sono stati acquistati da Sky, dunque è probabile che un’analoga sorte distributiva sia riservata al Belpaese. Forse un peccato, perché, al di là dell’aspetto contenutistico, il film ha ritmo, non annoia, gode di una fattura di altissima qualità. Ma soprattutto ci restituisce un Al Pacino di nuovo ai livelli di un tempo, dopo anni e anni impiegati a cercare di imitare se stesso, e qui invece impegnato in un’opera di sottrazione e di cesellamento del suo personaggio davvero pregevole.

togliersi la vita e, questa volta ci riesce. Jacob sta cercando di superare la perdita quando, tra le pagine di un libro di Anker, trova un necrologio perfettamente identico a quello che il novello sposo ha appena dedicato alla sorella appena morta. Una coincidenza troppo sinistra per non indagare almeno un po’. Johansen costruisce un film che fatica a tenere lo spettatore sulle spine, arranca nel trascinare con sé l’incertezza, ma ha dalla sua le solide basi di un’idea che non chiede eccessivi sforzi per dare buona prova di sé sullo schermo. Senza voler svelare troppo (ma i lettori più attenti avranno già capito), si può dire che il vero interesse della pellicola non si cela nel voler sapere come andrà a finire, ma nell’indagare le ragioni di determinate azioni. E si scoprirà pian piano che il legame che unisce la storia personale di Anker a quella del dottor mutatis Kevorkian, mutandis, è molto più sottile e meno improbabile di quanto non ci si aspetti.

Il tema è lo stesso, l’angolatura radicalmente diversa. Parliamo di Morke, nel suo titolo originale, o Murk, in quello anglofono, o ancora di Tenebre, nella sua (estremamente provvisoria) localizzazione italiana. Siamo di fronte a un caso di mala-distribuzione clamoroso. Murk è un film che risale addirittura al 2005 e che ancora non ha trovato spazio nelle nostre sale. La speranza è che possa finalmente arrivare in Italia prima di Natale. È uno dei solidi prodotti ormai abituali per una delle cinematografie più promettenti d’Europa, quella danese. Jannik Johansen, il regista, accoglie il proprio pubblico con un esergo di Camus, e poi lo avvolge nella refrattaria cornice della campagna danese. Colori sapidi, regia asciutta che bada al sodo, recitazione senza fronzoli. Jacob ha una sorella. Disabile per aver tentato, con poco successo, il suicidio. Julie, questo il nome, un bel giorno incontra Anker (lo si è visto di recente in Brotherhood, la pellicola danese sull’omosessualità nel mondo neonazista). È amore a prima vista. Ma subito dopo il matrimonio, la tragedia. Julie riprova a

affronta i grandi temi della vita: la vecchiaia, gli affetti, una vita degna di essere vissuta, ma lo fa in modo più lieve. Lo firma Kirk Jones, che fece il botto qualche anno fa con Svegliati Ned, e che dopo l’insipido Tata Matilda ci riprova con un remake dell’omonimo film del 1990 di Giuseppe Tornatore. A interpretare un anziano padre che si mette in viaggio sotto Natale per andare a fare visita ai suoi quattro figli allora era Marcello Mastroianni, oggi è Robert De Niro. Una commedia sul senso profondo dei rapporti familiari, che dispiega sulla scena la fin troppo facile morale della necessità di guardarsi in faccia e dirsi le cose come stanno, in particolar modo alle persone alle quali si tiene veramente. Fortunatamente il cast eccellente (oltre a De Niro anche Sam Rockwell, Drew Barrymore e Kate Beckinsale) e la regia fresca non fanno appassire una storia che facilmente poteva scivolare nel banale. Negli Stati Uniti è uscito il 9 dicembre. In Italia era atteso per aprile, ma la distribuzione ha rinviato tutto al 5 novembre.

di Pietro Salvatori

Anche Stanno tutti bene

In autunno sui nostri schermi: un grande Al Pacino nei panni del medico armeno che praticava sistematicamente l’eutanasia e Robert De Niro alter ego di Mastroianni nel remake del film di Tornatore “Stanno tutti bene”. E poi, finalmente, arriva “Morke” di Jannik Johansen


MobyDICK

Fantasy

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ra qualche anno ci sarà ancora chi si ricorderà di Dan Brown, della Meyer e forse anche della Rowling, nonostante tutto il can-can che hanno suscitato? Non credo moltissimi: ci si ricorderà più delle vagonate di soldi di questi bestelleristi alla moda che dei loro parti letterari. Tutti invece si ricordano di Michael Ende, delle sue fiabe, di Momo e soprattutto della Storia infinita, da cui venne tratto un buon film nel 1984 (che però l’autore ripudiò violentemente al punto da intentare una causa, che perse, contro i produttori) e di un suo seguito, questo sì pessimo. Due splendidi romanzi fantastici il cui senso profondo era la vittoria, alla fine, della Fantasia sul Nichilismo e sulla Tecnologia. Ma Ende (1929-1995), dopo il successo in Germania delle sue storie per bambini e soprattutto delle Avventure di Jim Bottone (1960) che ebbe grande popolarità (fu premiato nel 1961 come miglior libro per l’infanzia), venne attaccato dalla critica impegnata tedesca e accusato di «escapismo», vale a dire la famigerata «fuga dalla realtà».

ai confini della realtà conversazione - parla attraverso immagini e il suo segreto sta nella pluralità dei suoi significati» (giacché, aggiungiamo noi, le immagini trasmettono simboli): di conseguenza l’interpretazione della fiaba attraverso «concetti astratti» come fanno gli esperti del folklore è un errore. Infatti, «là dove c’è il mistero (…) il sogno (…) il razionalismo risulta mortifero»!

F

Amareggiato, nel 1971 decise di andare «in esilio», precisamente in un paesino dei Castelli Romani, Genzano, dove scrisse, lontano dai «nemici», i suoi due capolavori, appunto Momo (1973) e La storia infinita (1979), che gli diede successo internazionale. Del resto amava il nostro Paese: a Roma si era sposato nel 1964 e conosceva benissimo la nostra lingua, tanto da aver seguito da presso la traduzione in italiano del suo capolavoro riuscendo a risolvere alcune difficoltà interpretati-

Solo le immagini ci possono salvare di Gianfranco de Turris to a In difesa di Dagon di H.P.Lovecraft e Sulle fiabe di J.R.R.Tolkien. Perché? Come in questi testi l’autore americano e il professore di Oxford rispondevano efficacemente alle critiche che erano state rivolte al loro modo peculiare di intendere, e quindi scrivere, l’orrore e il fantastico, così Ende, in questi testi, risponde anch’egli ai luoghi comuni che i parrucconi progressisti tedeschi rivolgevano ai suoi racconti e romanzi. Sicché da queste argomentazioni si può

duazione che ci indurrà a creare nuovi miti», poiché «raggiunto il punto zero del Nulla con la dissoluzione dei valori si può costruire Fantàsia per un nuovo mondo di valori»: da Jung a Nietzsche per giungere alla sua Storia infinita. Dunque, come tutti coloro che hanno capito il vero senso del fantastico, Ende afferma che esso è intessuto di miti che si esprimono per immagini, gli unici e le uniche universali. Aggiunge infatti lo scrittore tedesco in questo stesso testo

L’argomento viene approfondito polemicamente nel Piano della fiaba, il piano della realtà, anch’essa una conversazione registrata, dove Ende prende di petto quei «pedagogisti benpensanti che si sforzano di sterilizzare le fiabe popolari per eliminare da esse ogni passaggio che contiene una qualche crudezza», facendo l’esempio del famoso Il principe ranocchio, il cui finale viene modificato per paura che i bimbi poi se la prendano con questi batraci! Tale ridicola incomprensione, che oggi, a quindici anni dalla morte di Ende, ha raggiunto i vertici grotteschi del buonismo e del politicamente corretto, nasce dal fatto che gli adulti in genere, e certi specialisti in particolare, «non sanno più comprendere la realtà “altra”della fantasia», mentre viceversa il bambino «riesce a dimenticare temporaneamente la realtà esterna senza però mai confondere i due piani» (un esempio è proprio il Bastiano della Storia infinita), sicché non verranno condizionati dalle crudeltà favolistiche. Invece l’adulto ha una «mentalità assolutamente deformata in senso naturalistico» e vede solo l’aspetto esteriore di una scena truce, mentre il bambino vede solo l’immagine descritta dalla fiaba «che non è affatto intesa in senso naturalisti-

Raccolti in volume cinque testi “critici” di Michael Ende, dove l’autore della “Storia infinita”, rispondendo ai suoi detrattori, spiega la sua idea di fantastico, difende le fiabe e il mondo dei miti, patrimonio culturale e spirituale dell’umanità ve. Ritornerà in Germania nel 1985, ormai autore affermato, tradotto e noto in tutto il mondo e ormai al disopra delle critiche faziose. Dopo aver conosciuto quasi completamente l’Ende narratore di fiabe e di romanzi fantastici, ora abbiano la possibilità di conoscere, anche se solo in parte, l’Ende saggista grazie a un volumetto curato da Saverio Simonelli per Rubbettino e giustamente intitolato Storie infinite, in cui vengono riuniti cinque suoi testi, tratti da due raccolte pubblicate in vita e una postuma: peccato che non ci vengano date le date esatte della pubblicazione originaria, in modo da capire quali sono gli inediti tratti dalle sue molte carte lasciate nei cassetti e pubblicate postume. Comunque sia, la prima impressione che si ha, in base alla scelta voluta (direi giustamente) da Simonelli, è di trovarsi di fronte un’opera da porre accan-

capire assai meglio quali fossero le sue intenzioni e soprattutto cosa Ende intendesse per «fantasia»: temi ancora d’attualità nel dibattito senza fine sul fantastico. Inoltre, da queste parole si può capire meglio il perché lo scrittore non godesse della simpatia della critica cosiddetta impegnata, in specie durante gli «anni di piombo».

Tanto per cominciare Ende è contro qualsiasi politica esplicita nella narrativa, contro una letteratura pedagogista che cerca di indottrinare il pubblico, contro la «cerebralizzazione» dell’individuo odierno che non riesce ad andare oltre la razionalità. «Uno scrittore - afferma in Alle radici del racconto - non deve predicare per una visione del mondo, ma averne una che gli consente di trasmetterla attraverso visioni e immagini della storia che racconta». È questo «un procedimento d’indivi-

(un estratto delle sue conversazioni con Jorg Krichbaum), di non avere intenzione di spiegare alcunché con i suoi libri «ma di trasmettere immagini», cioè qualcosa che non si deve spiegare esplicitamente ma si intuisce e si capisce nel profondo. Tanto è vero che le immagini della Storia infinita (così come quelle del Signore degli Anelli e dei veri capolavori immortali del fantastico) sono subito comprese in tutto il mondo, anche in Giappone, dove Ende è popolarissimo (e dove sposò la sua seconda moglie dopo la morte della prima), dato che esse sono un «patrimonio spirituale», quello che costituirà poi il «patrimonio culturale» dell’umanità futura. Da questi concetti Ende, proprio come Tolkien, non può che passare alla strenua difesa delle fiabe nei confronti dei suoi detrattori e di tutti coloro che le vogliono stravolgere adattandole ai tempi. «La fiaba - afferma sempre in questa

co». Michael Ende ha dunque utilizzato nelle sue opere immagini tratte dal profondo di quello che potremmo definire l’Immaginario collettivo dell’umanità, e quindi da ognuno comprese, «immagini che precedono i concetti» (Alle radici del racconto), quindi pre-logiche e universali e comuni a tutte le favole, le leggende e i miti dei popoli: «Ulteriore conferma che la cosiddetta letteratura fantastica o favolistica e i miti di tutti i popoli e di tutti i tempi sono sorprendentemente simili nella loro struttura». Quindi è semplicemente demenziale, come è stato fatto, da un lato voler criticare Ende (ma anche Tolkien, Lovecraft e tanti altri) di «fuga dalla realtà»; e dall’altro voler manipolare, edulcorare, sdrammatizzare, banalizzare i miti e la favolistica classici, accusandoli di essere impolitici o magari reazionari usando sistemi sociopsicologici tipo quelli di Jack Zipes.


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