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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

È tempo di filosofia prêt à porter

TUTTI PAZZI PER SOFIA

di Pier Mario Fasanotti on una buona dose di banalità e approssimazione si potrebbe dire autorevole modello interpretativo della realtà. I titolari più colti di rubriche, che oggi siamo «tutti pazzi per Sofia». La donna in questione o addirittura di poste del cuore, fanno talvolta ricorso (magari con un I classici non è una donna, non la corteggiamo per le sue gambe o non detto saccheggio: capita) ai filosofi. In genere antichi, che oggi per i suoi occhi, ma per la sua capacità di seduzione inappaiono come i più limpidi e più duraturi. Non è proprio cavanno per la tellettuale. Fuor di metafora Sofia è la sofia (in greco, sagsuale, anzi, il fatto che le ultime invenzioni tecnologiche maggiore ma anche i manuali inglobino la filosofia come faro per illuminare il reagezza) che compone la parola filo-sofia (amore per che aiutano a interpretare la realtà. le. S’intitola AskPhil («Chiedi al filosofo») un’apla saggezza). Anche nei romanzi di quest’ultimo decennio i grandi del pensiero diventano plicazione scaricabile sui cellulari e su iPad. Intanto “AskPhil” si può scaricare su cellulari personaggi. Troneggia Schopenhauer, si conSi formulano domande e si ricevono risposte. e iPad, mentre il “New York Times” tendono la pole position Seneca, Platone (anche il Secoli di pensiero profondo a portata di pollice. genere poliziesco si è appropriato dell’Accademia ateha aperto un forum via web. Ecco Un docente americano spiega questo fenomeno: «Da un lato tutti si confrontano con problemi filosofici durante niese), Spinoza, Nietzsche (da prendere cum grano salis), come cresce la voglia la propria vita. Dall’altro pochi hanno l’opportunità di conosceCartesio, Agostino. Davvero in ribasso è Marx. Non solo gli amedi “agorà” re la filosofia, solitamente insegnata soltanto nei college». Il New York ricani, espertissimi in pillole editoriali, ma anche gli europei sfornano manuali o trattati in forma di conversazione sulla filosofia intesa come Times ha aperto un forum sul pensiero via web.

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Parola chiave Genio di Sergio Valzania Il risveglio black di Sheryl Crow di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

E l’anima di Napoli incontrò Salvatore Di Giacomo di Francesco Napoli

Il memoriale inedito su Edda e i diari di Mauro Canali Questioni di bioetica diffusa di Gabriella Mecucci

La drammaturgia del tempo pittorico di Marco Vallora


tutti pazzi per

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Le domande poste sono all’incirca tremila. Non sono poche. In testa i quesiti sulla filosofia pura e sulla conoscenza, seguono le tematiche sul linguaggio e la matematica. Contrariamente alle aspettative, pochi digitano domande sulla razza, sul femminismo, sul sesso. Il filosofo Pier Aldo Rovatti non si dice contrario a questa nuova metodologia del dialogare, anche se è un po’ scettico per via dell’assenza del contatto diretto tra interlocutori, insomma del rapporto empatico. E avverte: «Attenzione però, la filosofia non è una cura». Certo, è un metodo di pensiero. Tanto più necessario in un’epoca di velocità nevrotica e di superficialità, in tempi in cui le tanto consigliate pause di riflessioni sono assai ridotte e gli spazi, o le occasioni, di scambiarsi opinioni sono sottili o addirittura inesistenti.

In questi ultimissimi anni, infine, s’è rotto definitivamente un tabù, ossia quello secondo cui la filosofia ha sede nell’empireo, affascinante sì ma nella sua astrattezza, lontana dal variegato mondo reale quotidiano. Ed ecco che i «gestori» del pensiero filosofico, sulla scia dell’invito lanciato anni fa da Umberto Eco, cominciano a spiegare un serial poliziesco, un programma cult come Lost o i testi della musica rock applicando criteri filosofici. Nasce quindi quella che

viene chiamata «filosofia pop». Addirittura si scrivono libri che chiariscono significati più o meno profondi, o allegorici, sul mondo di Harry Potter.Viene da ridere ripensando a quanto lo scrittore americano Don DeLillo diceva: «La sola cosa che i filosofi leggono sono le scritte sulle scatole dei cereali a colazione». Ovviamente i rischi e le scivolate sono frequenti, come quando ci si imbatte su ragionamenti in apparenza sofisticati e contorti attorno a temi francamente e spaventosamente banali. Ma, a parte l’ondata di libri che si rifanno a Platone o a Schopenhauer, occorre registrare il numero crescente di persone che affollano convegni e dibattiti di sapore e di impronta filosofici. Il «Festival della filosofia» di Modena conta ormai centinaia di migliaia di spettatori. Il «Festival della mente» di Sarzana non è da meno. Se una volta erano in tanti a sedersi sugli scranni dell’Università della terza età, a rispolverare il sapere o a scoprirlo per la prima volta, oggi c’è un efficace passaparola, una segnaletica che convoglia migliaia di persone verso le nuove agorà. Ovviamente la televisione, almeno quella italiana, si tiene alla larga dal sentire quotidiano, preferendo il solito «lato B», veline, gossip e scemenziari a forma di show. Non solo Dante, grazie a Roberto Benigni o a Vittorio Sermonti, è diventato passione (quasi) popolare. Se qualche intellettuale dall’eloquio serio e accattivante spiega il mondo moderno anno III - numero 31 - pagina II

Nella pagina precedente, in copertina, “La scuola di Atene” di Raffaello. In questa pagina, alcuni ritratti celebri: a sinistra, Agostino d’Ippona; sotto, Seneca (nel famoso dipinto della sua morte di David), Schopenhauer e Platone. In basso, le copertine di “Parole in gioco” di Ermanno Bencivenga e “Vivere con filosofia” di Luc Ferry con il microscopio ereditato dall’antica Grecia, c’è da scommettere nel «pienone» di pubblico. Molti cominciano a convincersi che la filosofia, se offerta con sapienza (scusate il gioco di parole), non è affatto noiosa. La Mondadori ha appena mandato in libreria un libricino interessante e spiritoso. L’autore è Ermanno Bencivenga, ordinario di filosofia all’università di California. Titolo: Parole in gioco. Sottotitolo: Il linguaggio stralunato della filosofia. Premessa non dichiarata ma ovvia: il pensiero è, e quindi naturalmente diventa, logos (parola). E il logos può essere estremamente divertente. Scrive Benvinvenga nella prefazione: «La filosofia è un gioco. Ci mette in gioco, si prende gioco di noi, ci invita a giocare d’azzardo, a giocare col fuoco, a giocare al massacro… disegna scenari fantastici, contesta l’ovvio, schernisce l’autorità: tutto quello insomma che sapevamo fare benissimo a tre anni, quando giocavamo sul serio, quando niente era sul serio; prima dei cellulari, delle playstation, degli zainetti firmati. Il gioco non si ferma davanti a nessuna barriera, a nessun recinto sacro; invade e contamina, mescola e turba, profferisce profonde profanità, a profusione». E ancora: «Si può cercare la saggezza in occasioni quotidiane, in parole umili e costantemente ab-usate, usate senza rispetto, senza attenzione. Anche una vita qualsiasi può essere affascinante; non solo il re è nudo, ma anche il bottegaio di fronte. Anche lui, anche tutti noi, abbiamo bisogno di riscatto, di invenzione, di rimescolare il vecchio, consunto e bisunto mazzo di carte».

Se la filosofia è di moda, ci si deve chiedere quali altri terreni del pensiero sono stati devastati o considerati delle quasi-discariche o comunque, evitando manichee esagerazioni, piazze non più frequentabili. Mi riferisco soprattutto alla sociologia, da anni considerata alla stregua di un ferro vecchio, anzi diventata sinonimo di imperfetta ovvietà o di confusione sorretta da statistiche discutibili. Ma anche alla psicoanalisi, superba lente di lettura dell’anima ma contenente il

sofia

vizio di contorcersi in se stessa, di tramutarsi in una serie di ripetitivi schemi e schemini, anzi gabbie interpretative, col risultato che, agli occhi dei terapeuti, sei dalla parte del torto se esci dal «suo» giardinetto e ti azzardi a contestare facili e ripetitivi, nonché talvolta ridicoli, automatismi. Il rischio, molto forte, è che ciò che con Freud è nato all’insegna della flessibilità diventi recinto dogmatico. E prevedibile come ogni dogma. A tal punto che la psicoanalisi spesso è spunto per barzellette o per numeri di cabaret.

Tra i non pochi libri che compaiono sugli scaffali, ritengo utile segnalare la ripubblicazione (Garzanti editore) del testo di Luc Ferry (Vivere con filosofia). L’autore, docente universitario ed ex ministro dell’Educazione (in Francia si ha ancora il coraggio civile di chiamare al governo chi è competente), da del tu al lettore per evitare quella detestabile cosa che si chiama deferenza (di chi legge) o spocchia (di chi scrive). Come recita il sottotitolo, il libro è un Trattato di filosofia a uso delle nuove generazioni. Fa l’occhiolino allo stoico greco Epitteto e a Montaigne, secondo i quali la filosofia serve o per «imparare a morire» o, comunque, per sottrarsi al panico della dissoluzione dei corpi. I pensatori greci, ci ricorda Ferry, ci mettevano in guardia sui due mali che gravano sulla vita dell’uomo: il passato e il futuro. Il famoso carpe diem altro non è se non la ri-

valutazione dell’attimo presente. Laqualcosa non è in scandalosa contraddizione con l’insegnamento di Cristo allorquando fa risorgere Lazzaro, dimostrando che l’amore è più forte della morte. La vita come passaggio, come apparenza: salvo che c’è il dovere di essere onesti e altruisti qui sulla Terra, e non beatamente (o beotamente) indifferenti come certi maestri «illuminati» dell’estremo Oriente (spesso coinvolti in traffici illeciti e comunque facilmente accusabili di plagio: ad alcuni di loro si dovrebbe rammentare che molti di noi conoscono le frasi di Gesù e di Seneca). La filosofia, scrive Luc Ferry, «ci induce a cavarcela con le nostre sole forze, se mai riusciamo a servircene nel modo giusto, con audacia e fermezza». E si pone immediatamente un quesito, attorno al quale ruota spesso il libro del filosofo francese: la filosofia è ricerca di salvezza senza Dio? Senza dubbio sono privilegiati i credenti inquantoché conoscono la via della salvezza. Ma non è così automatico pensare che il fine ragionare non serva al cristiano o all’islamico. Tutt’altro. La filosofia, tiene a precisare Ferry, è un modo per «ampliare il pensiero». E se anche le varie scuole filosofiche per secoli si sono combattute senza mai riuscire ad accordarsi sulla verità, è pur vero, anzi verissimo, che il pensiero filosofico spinge alla flessibilità, alla tolleranza, alla messa in discussione. In tempi di sfrenato conformismo non è poco.


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parola chiave

artedì 3 agosto Elvira Sellerio ci ha lasciato. Due giorni dopo, durante la funzione di commiato nella chiesa di Sant’Espedito, Nino Buttitta definiva la casa editrice da lei creata a Palermo, una delle città più difficili d’Italia, un miracolo. La parola miracolo attribuita all’attività di una donna non particolarmente prossima alla fede da parte di un uomo dalle profonde radici laiche mi ha fatto riflettere sul rapporto misterioso intercorrente fra genio e santità, doni misteriosi di Dio e caratteri che pochissimi possiedono. Che Elvira Sellerio sia stata una donna di genio non ci possono essere dubbi. Il modo nel quale affrontava le questioni della cultura e dell’industria editoriale trascendeva l’intelligenza. Non affidava le sue decisioni e le sue scelte a una riflessione elaborata al termine della quale veniva raggiunta una decisione sofferta. La sua comprensione dei problemi era immediata, le sue soluzioni improvvise come lampi, accompagnate da una sicurezza assoluta sulla necessità di realizzarle, sia che si trattasse di un titolo, di un’immagine con la quale illustrare un volume della collana La memoria, sia fosse in gioco una modifica della sua residenza estiva a Marina di Ragusa. Il suo comportamento intellettuale si potrebbe definire napoleonico, e questo riporta all’intuizione manzoniana del 5 Maggio, per la quale il tratto del genio si definisce come una più profonda impronta divina impressa nell’animo di un singolo essere umano. In una maggior capacità di compiere miracoli, quindi. E la creazione dal nulla di una casa editrice in grado di lanciare un numero impressionante di scrittori italiani e stranieri in un mercato dei libri che non si espande da quasi un secolo ricorda quella di far sgorgare acqua da una roccia percuotendola con un bastone.

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Elvira Sellerio non era solo un imprenditore culturale capace di riconoscere a colpo d’occhio i pregi di un testo e le sue debolezze, di consigliare lo spostamento di un capitolo in testa a un romanzo o la cassazione di brani meno felici o troppo ostici per i lettori. Oltre all’istinto per la scrittura aveva il carattere del capo. Era decisa fino alla prepotenza, di un’insofferenza impaziente verso i collaboratori che non riuscivano a riconoscere quello che lei aveva visto con chiarezza e indicato loro con precisione e perciò non agivano di conseguenza. Insieme a questo era dotata anche di una bontà geniale, e viene da pensare che non si trattasse di una parte accessoria dei pregi necessari lungo la strada verso il successo. Elvira Sellerio non era generosa in una sola direzione, la sua bontà non consisteva unicamente nella prontezza a donare nei confronti delle persone care o di quanti pensava ne avessero bisogno. La sua virtù era più

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GENIO È un’impronta divina impressa nell’animo di un essere umano. Una dote che trascende l’intelligenza e che rende capaci di compiere miracoli. Come nel caso di Elvira Sellerio scomparsa un mese fa...

Un lampo all'improvviso di Sergio Valzania

Come scrive il Siracide in un passo del testo biblico “Elogio dello scriba”: «Molti loderanno la sua intelligenza, essa non sarà mai dimenticata... I popoli parleranno della sua sapienza... Se vivrà a lungo, lascerà, più che mille, un nome, e se muore, quanto ha fatto è sufficiente» raffinata e agiva anche nella direzione opposta. Lei era generosa nel chiedere. A Bufalino il romanzo chiuso nel cassetto, a Camilleri di osare in grande, di far valere appieno la sua capacità di scrittura. Riconosciuto un talento, una propensione, una vocazione si ingegnava nello stimolarne la crescita, nell’offrire loro occasioni di sviluppo, nell’indirizzarli verso i risultati migliori. Questa è la dote più grande di un vero editore,

per molti aspetti simile a un agricoltore o un giardiniere che sa scegliere per ogni pianta il giusto terreno, la miglior esposizione e poi ne accompagna la crescita concimando le radici, eliminando erbacce e parassiti, ma anche potando, gesto d’amore estremo e misterioso. Una bontà aperta a ricevere, la vera bontà, ché chi dà solamente esercita una sottile forma di violenza. A Elvira Sellerio piaceva fare regali e riceverne, lo

scambio era parte della sua natura, come l’ospitalità e la curiosità, altro ambito prossimo all’amicizia e all’amore. Primo gradino di ogni affetto, la curiosità è l’interesse per il mondo e per quanti lo abitano e lei spaziava in tutti gli ambiti, non esclusa la vita privata, che non pensava si potesse disgiungere dall’opera di nessun uomo. L’ho sentita sostenere che pensarlo costituiva una debolezza degli strutturalisti. La seconda parte del discorso, bello chiaro, luminoso e conciso, di Nino Buttitta presentava un aspetto segreto della curiosità di Elvira Sellerio. In una conversazione lontana nel tempo lei aveva detto all’amico che al suo funerale le sarebbe piaciuto che venisse letta la prima parte del capitolo 39 del Siracide. Buttitta aveva tenuto per sé questo ricordo, le letture della messa sono state altre: il dialogo fra Dio e Abramo della Genesi, nel quale il patriarca contratta il numero di giusti necessario per salvare le città di Sodoma e Gomorra, poi il Salmo 88 e infine l’inizio del vangelo di Giovanni, dove si lamenta l’incapacità degli uomini nel riconoscere la venuta del Cristo nel mondo. La lettura che Elvira Sellerio aveva desiderato è arrivata dunque ultima e imprevista, con l’effetto di ricevere una sottolineatura più decisa, di imprimersi in modo più forte nella memoria dei presenti.

Il passo biblico viene intitolato Elogio dello scriba e si annida in un libro appartato dei testi sacri, che ha vissuto una storia travagliata ed è arrivato a noi solo nella traduzione greca e poi latina. Il testo ebraico è perduto. Buttitta non ha detto se Elvira Sellerio gli ha raccontato come è avvenuto il suo incontro con il testo, né se e quando ci ha meditato sopra. La preghiera è un’esperienza del tutto personale, come la chiamata di Dio, che insegue con determinazione ciascun uomo e ciascuna donna facendosi stringente in momenti imprevedibili. Nel silenzio della chiesa tutti i presenti hanno però colto senza esitazioni il fatto che le parole ispirate di un ebreo del terzo secolo avanti Cristo, giunte a noi attraverso le vie misteriose di una fede sempre incerta e faticosa, erano le più adatte per ricordare una donna straordinaria come Elvira Sellerio. Dello scriba, dell’editore, il Siracide scrive che: «Ricerca la sapienza di tutti gli antichi e si occupa delle profezie. Conserva i detti degli uomini famosi e penetra la complessità delle parabole. Cerca il senso nascosto dei proverbi ed è perspicace negli enigmi delle parabole». La conclusione del passo è esemplare per ricordare Elvira Sellerio: «Molti loderanno la sua intelligenza, essa non sarà mai dimenticata; la sua memoria non sarà perduta e il suo nome vivrà per tutte le generazioni. I popoli parleranno della sua sapienza e l’assemblea canterà la sua lode. Se vivrà a lungo, lascerà, più che mille, un nome, e se muore, quanto ha fatto è sufficiente».


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Pop

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ra con Detroit, Sheryl Crow ha ritrovato (artisticamente) se stessa, i primi amori musicali, i ripetuti ascolti dei 45 giri marchiati Stax e Motown. «La strada che conduce a Memphis - ha dichiarato - è immersa nelle fattorie. Chi vive là, oltre ad avere un senso profondo della comunità, è timorato di Dio e saldamente radicato alla propria terra. La musica che quello spicchio d’America ci ha saputo regalare, è l’ispirazione più grande per ciò che faccio e ciò che sono». Via libera, allora, a questo devoto omaggio alla black music prodotto dal chitarrista Doyle Bramhall II e da Justin Stanley che la vede sgattaiolare fra uno scoppiettante rhythm & blues (Our Love Is Fading) con fiati e coretti ad hoc che fanno molto Supremes, un altro errebì che derapa nel funky (Say What You Want) e un altro ancora che amoreggia col folk (Long Road Home). E caspita se ci sa fare, Sheryl, quando cattura insieme alla chitarra elettrica di Keith Richards il reggae di Eye To Eye; quando con Justin Timberlake rivisita Sign Your Name di Terence Trent D’Arby giostrandolo in soul alla maniera di Al Green; quando assapo-

di Stefano Bianchi on poteva pensarci prima? In fin dei conti, all’ex bimba prodigio figlia di Wendell (trombettista jazz) e Bernice (cantante e pianista) sarebbe bastato indietreggiare con la memoria a quando, negli anni Ottanta, si esibiva nei locali notturni del Missouri con una formazione rhythm & blues. Già, perché Sheryl Crow, dentro, è sempre stata black. E la «negritudine», prima o poi, salta fuori. Ma ribadisco: non poteva pensarci prima, anziché combinare guai? Mi spiego meglio. Disco dopo disco, la testarda Sheryl ha continuato a cincischiare su un countryrock sempre più anemico nella pia illusione di replicare il successo di Tuesday Night Music Club, l’album che nel 1993 superò i quattro milioni di copie vendute facendole vincere tre Grammy Awards. Gran bel disco, architettato su hit a presa rapida come Run Baby Run, All I Wanna Do e Leaving Las Vegas; frutto succoso d’informali session notturne che a Los Angeles la videro fare gruppo con fior di professionisti quali Bill Bottrell, David Baerwald e Kevin Gilbert. Disco, ovviamente, irripetibile: tant’è che i successivi (Sheryl Crow, ’96; The Globe Sessions, ’98; C’mon C’mon, 2002; Wildflower, 2005 e Detours, 2008) hanno prodotto la miseria di una sola canzone coi fiocchi (If It Makes You Happy, da Sheryl Crow) più Mississippi, il brano inedito che Bob Dylan ha gentilmente offerto alla cantautrice per dar più sapore a The Globe Sessions. Tutto il

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Jazz

musica

Il risveglio black di Sheryl Crow resto, ha girovagato in una specie di on the road musicale poco plausibile; in un viaggio, sempre più pop, nell’America delle highway. E allora? Svegliati!, dev’essersi detta Sheryl rendendosi conto che repetita non iuvant. Così, ha ristretto il raggio d’azione concentrandolo da Kennett (dov’è nata) a Memphis e ha inciso 100 Miles From Memphis. A cento miglia da Memphis, capitale della musica ne-

ra il funk notturno (stile Temptations) di Roses And Moonlight, il soul sincopato e le increspature gospel di Stop, le incantevoli orchestrazioni di Summer Day. E in fondo al cd, nel ricordo di quando dall’87 all’89 fece la corista per Michael Jackson nel Bad World Tour, c’è l’impeccabile rilettura di I Want You Back dei Jackson 5 accompagnata da una dedica: for Michael with Love. Di black in black, meglio tardi che mai, Sheryl Crow ha pescato il suo disco migliore. Dopo Tuesday Night Music Club, ovviamente. Sheryl Crow, 100 Miles From Memphis, A&M/Universal, 19,50 euro

zapping

FUNKY+RHYTHM’N’BLUES da diversi punti di vista di Bruno Giurato

inisce che uno va a lavorare nei posti in cui la gente va a divertirsi, addirittura in posti vippeschi. Essì: isola esclusiva, albergo che al dopocena, Malvasia fredda in mano e canto della luna su porto e barche, fa pensare: «soffrì pe’ soffrì mejo soffrì così». Vicina di stanza bellissima, vip e cantante in voga, insieme a fidanzato bruttarello e suonante. Lei racconta della sua tournée, di come fanno un rhythm’n’blues funky bello tosto, e chi scrive rimane ammirato. Poi Lei precisa che usano delle basi di archi in quasi tutti i pezzi. Chi scrive inorridisce. Con la solita diplomazia si dichiara contrario al playback anche parziale, alle basi preregistrate che inchiodano i musicisti alle partiture. Lei non capisce, è già bellissima e famosa, a che le servirebbe capire, anche? Lui sì. E infatti risponde con un sorriso acido di venirli a sentire dal vivo, ci si accorgerà del fatto che del playback non ci si accorge. Sembra il cameriere che ti vuole ammannire il risotto della casa con arancia, coniglio, pescespada e fave di cacao. Vabbè. Tornati sulla terraferma veniamo a sapere, a proposito di rhythm’n’blues e funky, che Sly Stone e George Clinton, cioè i due mammasantissima del genere, stanno facendo un disco assieme. Uscirà a Natale. Come sarà? Sarà tosto, funky, nero, perfetto diremo a naso. Sarà urban, farà sembrare esteticamente ineccepibile la puzza delle marmitte dei Suv, le sirene della polizia, gli sguardi folli dei guidatori all’ora di punta. E quando ci saranno i concerti dal vivo - dovessero capitare i due da queste parti - ci fionderemo. Non useranno archi preregistrati e altre forme di playbackismo, loro. Ci scommettiamo un soggiorno al Quartara, a Panarea.

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Shorter & Co., consigli (d’autore) per l’ascolto cco un libro di recentissima pubblicazione che tutti, soprattutto i critici e molti musicisti dovrebbero leggere. L’autore Ben Ratliff è il critico musicale del New York Times, ma è anche autore di una importante biografia di John Coltrane, The story of the Sound. Ratliff nel 2008 ha preso una decisione che prima di lui ben pochi si erano azzardati ad affrontare: chiedere a una quindicina di grandi solisti del jazz attuale, come «si ascolta il jazz». O forse meglio ascoltare il jazz assieme ai musicisti. Le conversazioni che ha avuto con Wayne Shorter, Sonny Rollins, Ornette Coleman, Paul Motian, Bob Brookmeyer, Frank Lowe sono illuminanti e dimostrano quanto siano state spesso imprudenti certe analisi critiche sull’opera di molti musicisti compresi quelli intervistati dallo scrittore americano. Frank Lowe ad esempio. Ecco come Ratliff descrive questo sassofonista, una delle icone del free jazz anni

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di Adriano Mazzoletti Sessanta: «Tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta era cresciuta una generazione di jazzisti coriacei, gente in grado di affrontare il più rigido inverno mai conosciuto da una musica rimasta senza pubblico. Di conseguenza Lowe era sopravvissuto per vent’anni in una piccola e bizzarra economia parallela. La sua musica era lontana dal mainstream jazzistico». Quando Ratliff lo incontrò, Lowe cominciava a sentirsi attratto dall’autorevolezza e dal fascino di musicisti più anziani: Lester Young, Coleman

Hawkins, Lucky Thompson: «Percepii subito due cose - racconta Ratcliff - che sapeva bene che genere di sassofonista avrebbe voluto essere e che probabilmente era già troppo tardi perché potesse riuscirci». Wayne Shorter asserisce: «Quando ascolto la musica non considero mai gli aspetti tecnici. Mi interessa capire se quel determinato suono sta bene con un altro». Alla domanda se gli capita di sentire una musica e di vedersi rispecchiato in essa, Shorter risponde: «Oh sicuro. Mi piace mettere un disco, un disco

di qualsiasi genere, poi tiro fuori il clarinetto e ci suono sopra. Una delle cose che mi piacciono di Charlie Parker è quella canzone, South of the Border Down Mexico Way. Quella sì che è una bella canzone: è uno dei grandi successi di Gene Autry. Niente di complicato, ma a me è sempre piaciuta». Paul Motian il personaggio centrale nell’evoluzione della batteria moderna, dichiara che fra i suoi batteristi preferiti, quelli che ascolta sempre con grande attenzione, sono Baby Dodds e Big Sid Catlett. A proposito di Dodds che fu il più grande batterista di New Orleans negli anni Venti, Motian dice ancora: «A quei tempi i batteristi non pestavano sui piatti come quelli di oggi. È delicato. È un piatto, mica un martello pneumatico». Una lettura importante e illuminante quella di questo libro, per tutti, musicisti e non. Ben Ratliff, Come si ascolta il jazz, Minimum Fax, 242 pagine, 16,00 euro


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arti Mostre

difficile non notare, sempre di più, in particolare nel cosiddetto mondo degli addetti ai lavori, un atteggiamento diminutivo e sufficiente nei confronti dei pochi grandi artisti che ci sono rimasti, in questo pelago sconfortante d’inutili replicanti. Anche l’integerrimo, e mai ripetitivo, nonostante le apparenze, Bill Viola è entrato ormai in questo clima-cono d’ombra di snobistica sufficienza critica (che poi è esattamente l’altra medaglia, imperdonabile, di quell’accettismo smidollato, che tutto tollera, incondizionatamente, come se i distinguo non avessero più ragion di esistere). Così Bill Viola diventa insulsamente «carino» (parola orrenda, intollerabile, comunque), gradevole, risaputo, «sì, va bene, però, basta... sempre quell’acqua, quel fuoco, quel meccanismo ripetitivo...». Che non è certo così vero, va da sé. Ma si usi dunque quest’originale e meritoria occasione pesarese, per tornare a meditare sul suo cammino, se non accidentato, per lo meno meditato, sempre. E si renda merito alle sempre stimolanti proposte pesaresi di Franca Mancini, che legandosi in modo anche capriccioso al genius loci che è Rossini, in quest’occasione si rivolge a Viola con un’iniziativa quanto mai interessante e nuova, che per la prima volta ci permette di scavare nel Bill Viola esordiente, nel Viola «principiante» e tentativo, prima dei risultati, oggi ritenuti patinati e scontati, del Viola che tutti conosciamo: quello paradigmatico del traversamento simbolico e quasi demonico, attraverso le prove iniziatiche di quelli che sono ancora gli elementi primordiali, fuoco, aria, acqua. Lo spiega bene il semiologo Paolo Fabbri, che ha collaborato al formarsi d’un catalogo, ancora in fieri, riflettendo sul rapporto emblematico tra la tela superata, oltrepassata e il nuovo spazio-video, quale rinnovata pala d’altare: «Lo stesso Viola, in più di un’occasione, ha insistito sul fatto che le sue costruzioni sono af-

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Archeologia

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Drammaturgia

del tempo pittorico di Marco Vallora freschi mobili, ipotesi legata a una sua prima riflessione sulla problematica del medium espressivo. Trattandosi di una quinta liturgica e insieme scenica non è errato affermare che l’opera ha una sua drammaturgia, un modo di restituire profondità sacramentale e teatrale a tecnologie che sembrano averla definitivamente perduta. Si riscontra una dimensione “traumaturgica” e taumaturgica, che va evidenziata e che riguarda, come sostiene Viola (1995) tanto la sfera visiva quanto quella musicale». Musicale, anche, degli occhi, s’intende con questo il necessario attraversamento della durata ottica, del guardare au ralenti, in un mondo sempre più affrettato e distrattamente orbo. Un trauma cer-

cato, dunque, che può anche diventare medicamento, sutura, cerniera tra le diverse arti, come indagine delle radici dell’esprimersi. E ovviamente, arrampicandosi con sapienza sugli specchi viscidi del salotto parigino rossiniano (con al centro il grande Mito ammaccato e riverito, che non riesce più a creare e che rinunzia all’enfasi dello spiegamento lirico dell’opera, che non è più in grado di rinnovare, odiando la modernità, e dunque si limita causticamente a triccottare domestici «peccati di vecchiaia» avvelenati d’accidia e spirito), il nume tutelare del Rossini Festival, Bruno Cagli, intravvede una capricciosa parentela tra queste bribes, queste briciole pianistiche, questi petits-fours sonori e da salotto, che rompono la fidu-

cia a gola aperta dell’aria virtuosistica, con gli esperimenti di Viola, che supera la tela tradizionale e crea una nuova sorta di drammaturgia del tempo pittorico. Ma appunto, che cosa sono questi Songs, queste Canzoni giovanili, questi esercizi indagatori del guardare, che Bill Viola non vuole mostrare o gestire mercantilmente, e che Franca Mancini donerà appunto all’Accademia di Urbino, per esclusivo uso didattico? È bello anche vederli in simultanea: uno è girato in una neurserie d’ospedale, a indagare la nascita dello sguardo e della consapevolezza d’essere di appena-nati, che ancora non vedono e sbadigliano il loro sconcerto ambientale, senza possibilità di appigli. L’altro scruta il nascere del mondo, attraverso una sorta di morgana desertica, ove la calura sfibra le sagome e gocce di umidità scavano il mondo. Anche la semplice stanza d’uno studente è una sorta di rettangolo pittorico, ove diventa primario e faticosamente facile analizzare in vitro la nascita progressiva di quel miracolo, per noi abituale, che è il quotidiano, sconcertante atto del vedere.

Bill Viola. 10 opere video single channel - 1976-1994, Pesaro, Galleria Franca Mancini, fino al 20 settembre

Tesori dall’Afghanistan, cerniera sulla strada della steppa ino al 3 ottobre la Kunst und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland di Bonn ospiterà la mostra itinerante Afghanistan i tesori ritrovati, progettata dal museo Guimet di Parigi in collaborazione con il ministero della Cultura e della gioventù della Repubblica islamica dell’Afghanistan. L’esposizione presenta oltre 220 capolavori sopravvissuti a guerre e saccheggi. Quattro sono i principali siti archeologici dai quali provengono i reperti.Tepe Fullol, scoperto per caso nel 1966, fa parte della cultura Battriana (nome antico di una regione settentrionale dell’Afghanistan al confine con Uzbekistan e Tagikistan) dell’età del Bronzo (2200-1800 a.C. circa). Da questo sito provengono, tra l’altro, le coppe d’oro con tori barbuti e le ceramiche con motivi geometrici simili a quelli della cultura dell’Indo. Ai-Khanum (fondata nel 300 a.C. da Seleuco I) rappresenta l’estremo avamposto orientale dell’ellenismo nel cuore dell’Asia centrale. Da questo sito provengono l’erma del filosofo, la fontana con la gargouille in forma di maschera comica, la stele funeraria rappresentante un Efebo e oggetti che illustrano la sim-

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di Rossella Fabiani biosi con le tradizioni orientali come la placca raffigurante la dea greca Cibele sul carro o la placca con scene mitologiche che rappresenta una delle più antiche testimonianze dell’arte figurativa indiana. Della tragica fine di Ai-Khanum, saccheggiata dai nomadi che la distrussero nel 145 a.C., sono testimonianza i lingotti d’oro ottenuti dagli oggetti preziosi fusi dai conquistatori e ora esposti anch’essi in mostra. Tillia Tepe, detta «la collina d’oro» (I secolo d.C.) con le sue sei tombe intatte è stata l’ultima importante scoperta archeologica effettuata in Afghanistan. Dalle ricchissime e raffinate sepolture di questa necropoli nomade (una di principe e cinque di principesse) provengono i reperti in mostra: pendenti, cinture, specchi cinesi, avori indiani e intagli greco-romani che sottolineano il ruolo dell’Afghanistan quale cerniera sulla strada della steppa. La corona di foglie d’oro che cinge il capo di una delle principesse è un modello da viaggio perfettamente

smontabile e rapidamente rimontabile, ha paralleli precisi nel mondo nomade e successivi esemplari simili si trovano fino nell’estremo Oriente, ai confini con l’attuale Corea. Il principe è un guerriero che riposa con il capo appoggiato su una coppa d’oro con una scritta in greco che indica il peso del metallo; porta armi da parata di ricchezza straordinaria, con materiali preziosi forgiati e lavorati fin nei minimi dettagli, come le fibbie delle calzature che rappresentano elementi iconografici cinesi, mentre i medaglioni della cintura d’oro sembrano rappresentare il dio greco Dioniso seduto sulla pantera. Begram, sul sito dell’antica Alessandria del Caucaso, mostra il potere e la ricchezza di un Afghanistan che, sotto la dinastia nomade dei Kushana, fu centro di unificazione di mondi diversi: quello greco-romano, cinese e indiano. Negli anni Trenta diverse spedizioni francesi rivelarono il «Tesoro di Begram»: due camere murate piene di oggetti provenienti dal Mediterraneo, dalla Cina e dall’India.Tra gli oggetti più preziosi vi sono gli avori indiani decorati e incisi, i più antichi e fino ad allora sconosciuti. Straordinari sono i vetri dipinti provenienti da Alessandria e risalenti al I secolo d.C.Tesori nascosti per paura delle invasioni, oppure campionario di mercanti o semplicemente una collezione. Questi straordinari oggetti d’arte ancora oggi conservano il fascino del loro mistero.


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il paginone

A cent’anni dalla nascita della figlia di Mussolini, la ricostruzione della morte del marito Galeazzo Ciano e del mistero dei suoi diari. Alla luce di documenti inediti e del memoriale scritto “a caldo” da Emilio Pucci, personaggio-chiave della vicenda, per i servizi segreti americani di Mauro Canali n occasione del centenario della nascita di Edda Ciano cominciano a fiorire rievocazioni di un personaggio, la figlia del Duce, che già nell’immediato dopoguerra fu al centro di un’attenzione mediatica il più delle volte orientata a mostrare la personalità spregiudicata, gli aspetti immorali e «scandalosi» della sua vita privata, con l’intento di distruggere, nell’immaginario collettivo degli italiani, insieme al Duce, anche la sua progenie vivente e futura. Oggi si torna a parlare di vecchie leggende, circolate ampiamente durante e dopo il regime, come quella, ricordata da Nello Ajello su Repubblica del 29 agosto scorso, in cui si cerca di nuovo di rilanciare, sulla base di alcune «battute» di Edda Ciano a un agente dei servizi segreti americani - il quale nello stesso rapporto premette che le era apparsa una donna che «si stava divertendo ad apparire strana e a comportarsi come un adolescente che ha fatto sega a scuola» - la versione di un suo improbabile concepimento da un amplesso di Mussolini, allora giovane socialista, con la rivoluzionaria russa Angelica Balabanoff. Poco importa poi che nelle sue memorie, in genere dirette e poco reticenti, Edda considererà sempre Rachele Guidi sua madre, non accennando mai a queste voci sulle sue cosiddette origini «russe», né che vi siano sufficienti testimonianze coeve della gravidanza di Rachele in quel lontano 1910. Ma per tornare alla storia reale, la tragedia di Edda Ciano e della sua famiglia ebbe inizio già

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co di Baviera, dove Galeazzo venne trattenuto in stato di arresto. Con la successiva liberazione di Mussolini e la costituzione della Rsi, l’ex ministro degli Esteri venne accusato dal suocero di alto tradimento per aver votato al Gran Consiglio del fascismo, la notte del 25 luglio 1943, l’o.d.g. Grandi con cui veniva di fatto sconfessato tutto l’operato del capo del fascismo. Trasferito a Verona, Ciano venne detenuto nel carcere degli Scalzi e, al termine di un breve processo-farsa celebrato davanti al Tribunale Speciale repubblichino, fucilato l’11 gennaio 1944, malgrado i disperati tentativi della moglie Edda di salvargli la vita. Alcuni filmati ritrovati in epoca più recente testimoniano della grande dignità e del coraggio con cui egli affrontò il plotone di esecuzione.

Dall’arresto di Galeazzo fino alla sua tragica fine, la vicenda di Edda si presenta strettamente legata a quella dei famosi «diari» del marito, poiché essa, in un ultimo disperato tentativo di salvargli la vita, prese ad agitare la minaccia che in caso di assassinio del marito avrebbe reso di pubblico dominio carte private di Galeazzo, risalenti alla sua attività politica quando ricopriva la carica di ministro degli Esteri, delle quali era entrata nel frattempo in possesso. Dalle reazioni che ebbero i vertici nazisti si evince che costoro, in effetti, temevano la pubblicazione di tali documenti. Protagonista del salvataggio dei «diari» e dell’espatrio clandestino di Edda in Svizzera fu un personaggio, amico

Mussolini nella decisione di fucilare Ciano, contribuendo a sgombrare definitivamente il campo dalla leggenda, circolata da allora con insistenza, che vorrebbe Mussolini in completa balìa dei tedeschi, anche nella decisione di uccidere il genero.

Tra questi nuovi documenti vi è anche un memoriale di Emilio Pucci, che questi stese per Allen Dulles, allora capo dei servizi segreti americani per l’Europa meridionale, quando il giovane aviatore italiano, dopo aver portato al sicuro Edda in Svizzera, a sua volta, dopo rocambolesche vicende, riuscì a riparare nella vicina confederazione elvetica. Lì operava appunto Allen Dulles che aveva indotto Pucci a mettere per iscritto le ultime vicende sue, di Edda e dei diari. Nel dopoguerra, Pucci aveva più volte affidato alla carta stampata i ricordi delle tragiche vicende che avevano preceduto la fucilazione di Ciano, ma i nuovi documenti sono memorie scritte «a caldo», e per i servizi segreti americani, e quindi hanno il sapore di una verità scritta di getto e all’indomani degli eventi, senza la preoccupazione di «gestire» aspetti della vicenda che nel clima del dopoguerra potevano risultare imbarazzanti o impolitici. Edda si era rivolta a Pucci agli inizi di ottobre del 1943, quando rientrata da Monaco e resasi conto che la detenzione del marito volgeva verso la tragedia estrema, non fidandosi delle vecchie, compromesse e in-

Personalità moderna, aperta, sgombra da pregiudizi e aliena dal conformismo aveva sopportato una vita tanto contraria alle sue aspirazioni per amore del padre. Che poi si rivelò il suo peggior nemico all’indomani della caduta di Mussolini, quando il marito Galeazzo, il 27 agosto 1943, in maniera molto ingenua, si consegnò, con i suoi famigliari, ai tedeschi per essere condotto in salvo in Spagna. Come è noto, l’aereo tedesco, invece che dirigersi verso la Spagna, indirizzò la sua rotta verso la Germania conducendo il prezioso carico a Monaanno III - numero 31 - pagina VIII

fedele di Edda Ciano, che nel dopoguerra era destinato a svolgere un ruolo molto importante nel mondo della moda italiana: lo stilista Emilio Pucci. Alcuni documenti inediti, che utilizzerò per un saggio complessivo della vicenda, consentono di far luce su alcuni aspetti ancora poco indagati delle vicende dei «diari» e sulle responsabilità dirette di

teressate amicizie dei «tempi d’oro», andò a trovare il giovane Pucci, in quel momento nella sua casa fiorentina, dopo aver valorosamente combattuto, come aviatore, durante tutta la campagna del nord-Africa. Pucci, rampollo di una nobile famiglia fiorentina, aveva avuto una educazione cosmopolita, avendo studiato tra il 1935 e il

Il coraggio 1937 in un paio di università americane di grande prestigio. Rientrato in Italia, pur aderendo al fascismo, non si era mai distinto per spiccate simpatie verso il regime. Come tanti giovani nati nel ventennio, considerava il fascismo la migliore risposta per l’Italia ai problemi del Novecento. Sportivo, abile sciatore, frequentatore degli ambienti più esclusivi, grazie alla sua passione per il volo aereo aveva conosciuto Bruno Mussolini, il figlio del Duce, e tramite lui aveva incontrato Edda, di cui aveva subito apprezzato la personalità moderna, aperta, sgombra dai pregiudizi e aliena dal conformismo. Tra i due era nata una solida amicizia, che, secondo alcuni biografi, s’era in breve tra-

sformata in un vero e proprio rapporto amoroso, e quindi non è certo un caso che Edda, nel momento del bisogno si rivolgesse a lui, del quale aveva sempre apprezzato la generosità e il coraggio. Edda riferì a Pucci che, obbedendo a direttive del marito, aveva messo al sicuro documenti appartenenti a Galeazzo, tra cui i famosi diari, che, per un ordine esplicito che il marito era riuscito a farle pervenire dal carcere, dovevano giungere nelle mani degli Alleati. Pucci operò molto abilmente. Fece intanto espatriare in Svizzera i figli di Edda che potevano rappresentare un elemento di ricatto qualora le cose avessero preso una certa piega. Sostenuta dalla presenza di


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suoi occhi, e indignata anche per l’ipocrisia di Mussolini, aveva infine deciso di aiutare Edda, facendosi latore delle lettere che l’ex ministro degli Esteri prese a inviare alla moglie. La Beetz cominciò a tenere minutamente informata Edda dei retroscena della vicenda e del reale atteggiamento vendicativo del padre nei confronti di Galeazzo. Racconta Pucci che la Beetz riferì a Edda «come Mussolini non solo non avesse fatto niente per farle avere il permesso di vedere suo marito, ma che al contrario egli aveva confermato gli ordini che impedivano che il Conte Ciano effettuasse la passeggiata nel cortile della prigione. Dichiarò poi che la sorveglianza della Gestapo sulla Contessa si era accresciuta in seguito alle «reiterate richieste di Mussolini». Infine la Beetz disse a Edda che «Mussolini aveva dato ordine che il processo avesse luogo il 28 dicembre alle 8 di mattina e che alle 10 dello stesso giorno gli imputati ve-

una lettera che la Beetz consegnò successivamente a Edda, Galeazzo tuttavia precisava alla moglie che esistevano due pacchi di documenti uno dal titolo Colloqui e un altro su cui era scritto Germania. Lei doveva consegnare ai tedeschi solo il primo, guardandosi bene dal consegnare il secondo, che «conteneva tutti i documenti che concernevano la Germania e che dovevano convalidare quanto era scritto nei diari».

I documenti erano a Roma in un nascondiglio che conosceva solo Edda. Tornava di nuovo in azione il fedele Emilio Pucci, che venne incaricato di andare a Roma a prelevare i documenti. Pucci racconta di aver fatto il viaggio in auto, insieme a un ufficiale e un sottufficiale della Gestapo e con la Beetz, e che giunto dove erano i documenti, con la complicità della Beetz riuscì a nascondere il fascicolo Germania, e poi consegnarlo di nascosto a Edda, che lo attendeva nella famosa clinica di Ra-

volumi che Edda portava con sé riguardavano gli anni dal 1939 al 1943, mentre a Ramiola lasciava i due volumi relativi agli anni 1936-1938. Nel 1948, uscì una nuova versione dei diari che comprendeva anche il periodo 23 agosto 1937-31 dicembre 1938. Come erano pervenuti a Edda Ciano i nuovi stralci del diario? Per comprenderlo bene bisogna tornare alla fuga di Edda da Ramiola. Lei e Emilio Pucci avevano nascosto questa parte dei diari nelle cantine della clinica, in un luogo noto solo al direttore della clinica, il prof. Elvezio Melocchi. Non appena si accorsero della fuga, le SS fecero irruzione nella clinica ma non furono in grado di mettere le mani su questi documenti. Tuttavia il generale Harster, capo dell’SD, i servizi segreti tedeschi, inviò a Ramiola uno dei suoi più intelligenti e fedeli collaboratori, un bolzanino che non tardò a far confessare il Melocchi e a impadronirsi del resto dei diari e del dossier

L’ipocrisia del Duce spinse l’agente tedesca Felicitas Beetz, adibita alla sorveglianza di Ciano, ad aiutare la moglie e a rendersi complice nell’occultamento del dossier. Finito però in parte a Berlino Sopra, alcuni scatti di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, immortalato con Chamberlain e nel giorno del matrimonio. A sinistra, foto di famiglia e di società; lo stilista Emilio Pucci, autore del memoriale inedito (una pagina è riprodotta a destra)

io di Edda Pucci, Edda si recò più volte a Verona per avere colloqui con Mussolini, al quale chiese insistentemente la liberazione del marito. Ma Mussolini oppose sempre un netto rifiuto adducendo a motivo che egli era prigioniero dei tedeschi e degli estremisti fascisti, e che erano costoro e non lui a volere il processo di Ciano. Edda chiese allora che ne venisse almeno alleviata la detenzione, ma anche queste richieste, malgrado le assicurazioni che il padre si affrettò a darle, caddero nel vuoto. Il memoriale consente di valutare fino in fondo l’impressionante «doppiezza» messa in mostra in questi drammatici frangenti da Mussolini ai danni della figlia. Mentre da una parte,

nel corso dei colloqui, si mostrava con la figlia generoso di promesse e ansioso di venire in suo aiuto, non appena Edda usciva, si affrettava a dare ordine alla Gestapo di sorvegliare strettamente la Contessa Ciano perché era «una donna pericolosa».

Naturalmente Edda e Emilio Pucci seppero ciò solo in seguito, quando stabilirono un inaspettato contatto con una agente dei servizi segreti tedeschi, Felicitas Beetz, al secolo Hilde Burkhardt, moglie di un alto ufficiale delle SS, la quale era stata adibita dalla Gestapo alla sorveglianza stretta di Galeazzo Ciano, ma che impietositasi dalla tragedia famigliare che si stava svolgendo sotto i

nissero fucilati. La mattina stessa di Natale il Conte Ciano aveva avuto ordine di fare il suo testamento. Egli si era rifiutato». Pucci vide Edda subito dopo questo colloquio con la Beetz, e racconta che «quando tornò da me, la Contessa era sconvolta. In pochi minuti tutto un mondo sprofondava ai suoi piedi. Suo padre, a cui ella aveva voluto così infinitamente bene e per cui aveva sopportato tutta una vita così contraria ai suoi gusti e alle sue aspirazioni, si dimostrava il suo più gran nemico». Il «memoriale Pucci» ci spiega che se l’esecuzione fu sospesa è perché Ciano in prigione aveva trattato con i tedeschi per la sua libertà, proponendo lo scambio della sua vita con la consegna di delicatissimi documenti in suo possesso. Kaltenbrunner e Himmler avevano accettato il baratto, e l’operazione aveva preso il via. Anche in questo caso fu la Beetz a mettere al corrente Edda Ciano che «i Tedeschi avevano deciso di liberarlo, contro il volere di Mussolini, a patto che certi documenti venissero loro consegnati». Quindi Mussolini era contrario a salvare la vita a suo genero, e venne scavalcato dai vertici nazisti interessati a mettere le mani sulla documentazione, la cui esistenza, secondo alcune testimonianze imparziali, li manteneva «in uno stato di forte nervosismo». Con

miola, vicino Parma, dove si era fatta ricoverare in considerazione della sua condizione fisica e psicologica. È noto come l’accordo per lo scambio non venne rispettato dai tedeschi, e che fu Hitler, consigliato da von Ribbentrop, a vanificare lo scambio. La Beetz fece pervenire a Edda un’ultima lettera del marito, con cui egli dava l’estremo addio alla moglie. Racconta Pucci: «La lettura di questa lettera fu un tale colpo che quasi subito, ella perse conoscenza. Feci appena a tempo a sorreggerla perché non cadesse a terra». Tuttavia, ripresasi dopo qualche ora, e con un enorme sforzo di volontà, acconsentì all’esecuzione di un piano messo a punto da Pucci: la fuga dalla clinica di Ramiola, portando con sé i diari del marito, dopo aver eluso la sorveglianza della Gestapo, l’espatrio in Svizzera, mentre Pucci avrebbe consegnato a Verona sue lettere a Mussolini e Hitler, con la minaccia di rendere pubblici i diari qualora venisse consumato l’assassinio del marito. E qui il documento di Pucci, insieme ad altri documenti inediti, ci dice qualcosa di più sulla storia dei famosi diari di Ciano. Pucci afferma che i volumi erano in origine sette, e che Edda, dovendoli nascondere su di sé non poté trasportarne che cinque, lasciando nella clinica di Ramiola gli altri due e, evidentemente, il dossier Germania. I

Germania. Trasportati a Verona e consegnati a Harster, una copia parziale dei documenti, quella appunto relativa al periodo 23 agosto 1937-31 dicembre 1938, venne trafugata dalla Felicitas Beetz, che la fece successivamente pervenire in Svizzera a Edda Ciano. Tuttavia, poiché Galeazzo Ciano tenne il diario, come sostiene Renzo De Felice, per tutto il periodo in cui fu ministro degli Esteri, continuano a mancare i fogli che vanno dal 10 giugno 1936 al 22 agosto 1937. Cosa si può desumere circa la fine di questi fogli mancanti? I documenti inediti in mio possesso consentono di concludere quanto segue: secondo i servizi segreti americani, a Verona vennero fatte 5 copie dei diari. Una copia venne inviata a Berlino, un’altra venne distrutta a Cernobbio, la notte della cattura di Mussolini (probabilmente si trattava di una copia che Mussolini stava portando con sé nella sua fuga), mentre, nel maggio 1945, ne risultavano ancora mancanti ancora tre, di certo nelle mani dei servizi segreti tedeschi. Una conferma viene dalla deposizione inedita del bolzanino, protagonista del rintraccio dei documenti a Ramiola, il quale confermò il possesso delle copie da parte dell’SD, mentre fonti americane, ancora nel 1946, testimoniano della vana caccia ai diari da parte dei servizi segreti americani.


Narrativa

MobyDICK

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libri Aleksandar Hemon IL PROGETTO LAZARUS Einaudi, 305 pagine, 21,00 euro

na prosa acuta, complessa senza essere contorta; una struttura narrativa che ingloba passato e presente, immaginazione e realtà. Con un filo d’acciaio storico ed esistenziale che la sorregge dall’inizio alla fine. Questo e altro si può dire del libro di Aleksandar Hemon, nato a Sarajevo nel 1964 e dal 1992 residente in America. Scrive in inglese, ma con il cervello - e quindi lo stile mai lontano dalla sua terra natia, la Bosnia. È unanimemente considerato un autore di prestigio, originale, e questo anche perché si porta sulla pelle i mille odori del Vecchio continente. Veritiero e crudele quando parla del viaggio di Vladimir Brik, l’io narrante aspirante scrittore, nei paesi dell’Europa orientale dove è impossibile non fissare le ceneri fumanti di decenni di dolore, miseria, sopportazione e sciatteria, individuale e sociale. Un territorio costellato da McDonald, da caricature gangsteristiche, da violenze e prepotenze ataviche imbellettate con orribili imitazioni occidentali: il peggio che ci possa essere dopo la morsa sovietica, i pogrom, le persecuzioni, le guerre fratricide ed etniche, l’aspirazione a essere diversi senza sapere bene come. Il romanzo di Hemon è la storia del viaggio di Brik, ormai stabile a Chicago, marito di una donna chirurgo abile a manovrare il bisturi nel cervello dei pazienti ma assai impacciata, anzi rigida, quando si tratta di sondare l’anima del coniuge, e pure la propria. Brik ottiene un finanziamento: con quei soldi decide di tornare nell’Europa dell’Est. È affascinato dal brutale omicidio, per mano della polizia, del giovane immigrato ebreo Lazarus Averbuch. Nel 1907, questo ragazzo ventenne, imballatore di uova ma aspirante poeta, viene freddato dai proiettili al capo e al cuore davanti alla casa del capo della polizia. Che ci faceva lì? È un mistero. Prima ancora di porsi questa domanda, le autorità metropolitane vedono in lui un ebreo, quindi un essere pericoloso in odore di anarchia e di sovversione. Hemon alterna capitoli dedicati alla ricostruzione di un pregiudizio fattosi violenza con capitoli che descrivono il viaggio di Brik, altro immigrato, stavolta lungo un percorso inverso. Nella Chicago dell’inizio secolo c’è un’America che ha continue crisi di isterismo dinanzi all’ondata migratoria, anche perché si aggira «la Regina Rossa» Emma Goldman, una donna che predica

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I destini

incrociati di Lazarus e Brik Tra America ed Europa dell’Est scorre il filo d’acciaio teso con maestria dal bosniaco Aleksandar Hemon

Il bibliofilo

di Pier Mario Fasanotti

la rivendicazione dei diritti umani in una terra che, dall’altra parte dell’oceano, è approssimativamente considerata paradiso delle libertà. Migliaia di disgraziati privati di case e affetti, brutalizzati dall’antisemitismo russo, romeno, polacco, e frastornati dallo scricchiolio dell’impero austro-ungarico, rischiano di trovarsi in situazioni quasi uguali di emarginazione e di soprusi. Scrive Hemon: «La guerra all’anarchia era molto simile all’attuale guerra al terrorismo, buffo come le vecchie abitudini siano dure a morire. Le leggi sull’immigrazione furono modificate; i sospetti anarchici perseguitati e deportati; si moltiplicarono gli studi scientifici sulla degenerazione e la criminalità di determinati gruppi razziali». Nei rapporti ufficiali della polizia e della magistratura si fa riferimento, spiccio e bestiale, al «tipo ebreo». Prima o poi salderemo i conti, dicono gli uomini in divisa, ideologicamente antenati dei nazisti. Non è la stessa America di Brik, il quale però sbatte contro un muro di diffidenza e di cattiveria in quanto «strambo europeo», catapultato nel «vuoto pneumatico chiamato progresso». Vladimir Brik non è ebreo, ma è lo stesso: viene da una terra di cui diffidare sempre. E lui, marito scomodo di un medico, perdipiù lungamente disoccupato, dirà a se stesso nell’ex dominio sovietico: «Quello che amo dell’America è che non rimane spazio per inutili questioni metafisiche. Lì non ci sono universi paralleli. Ogni cosa è quello che è, facile da vedere e da capire». Il disorientamento in terra polacca è simile a quello provato - fatte salve certe differenze - in terra americana: a Czernowitz, un tempo Cernici, «Sodoma dell’impero», il giovane Lazarus si sentì per la prima volta alla deriva e comprese che «l’umanità è malvagia e inestinguibile». Brik forse cerca una resurrezione sulla scia della tradizione cristiana riferita a Lazzaro. Assieme al suo amico fotografo Rora, ambiguamente coinvolto nelle trame insanguinate della guerra di Sarajevo, continua a interrogarsi sulla propria vita, su Mary che non si è mai sforzata di capire il suo mondo. Brik fa ricerche sul giovane ebreo e sulla sua famiglia, si trova alla fine in un cimitero e lì medita sul fatto che «la morte non è databile». Scriverà il romanzo?

La perfezione della grafica nel nome di Majakovskij e edizioni La Vita Felice ripropongono, in versione anastatica, uno dei gioielli dell’arte tipografica novecentesca, arricchito dalla classica traduzione di Ignazio Ambrogio: Per la voce di Vladimir Majakovskij (128 pagine, 10,00 euro). Il poeta russo affidò a El Lisitskij la progettazione del volumetto durante il soggiorno berlinese del 1923. Berlino era all’epoca la capitale del costruttivismo russo all’estero, straordinaria fucina di nuove idee e fermenti artistici. Il libretto, concepito come un’antologia dei testi majakovskijani che maggiormente si prestavano alla lettura in pubblico (da cui il titolo), venne composto nello stesso anno in una piccola tipografia della città tedesca, per conto delle Edizioni di Stato di Mosca. Il poeta aveva infatti l’abitudine di intraprendere vere e proprie tournée lungo lo sterminato territorio sovietico per declamare in pubblico i versi che l’avevano reso famoso, nonostante le autorità gli rimproverassero un ermetismo di fondo non sempre recepito dalle masse. Majakovskij, che si sentiva ripetere in continuazione di non venire compreso dagli operai e dai contadini, esasperato, scriverà nel

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di Pasquale Di Palmo 1927 la poesia intitolata Le masse non vi capiscono che presenta il seguente significativo incipit: «Fra scrittore/ e lettore/ ci sono i mediatori,/ e il gusto/ del mediatore/ è il più mediocre». Per la voce, comprendente tredici poesie di Majakovskij, è stato concepito da El Lisitskij, nominato non come illustratore ma come «costruttore del libro», in maniera quanto mai singolare: le pagine infatti si consultano come una rubrica dove, al posto delle lettere dell’alfabeto, figurano i temi trattati nelle poesie. El Lisitskij adottò al riguardo una soluzione semplice e geniale al tempo stesso, inserendo in margine a ogni singola voce della rubrica un piccolo simbolo grafico che sembra anticipare le icone del linguaggio informatico. Il mio Maggio, Internazionale, Armata delle Arti, Cadetto, Sole sono alcuni delle voci che si avvicendano nella rubrica che può dunque essere consultata con facilità da un eventuale dicitore o attore per la lettura in pubblico. Così El Lisitskij ricordò l’impresa: «Questo libro di poesie di Majakovskij è

Esce in anastatica “Per la voce”, affidato dal poeta nel 1923 all’estro di El Lisitskij

destinato a essere letto ad alta voce. Per risparmiare al lettore la ricerca delle singole poesie, ho fatto uso della rubrica. Questo libro è formato solo col materiale della cassa dei caratteri. Sfruttate le possibilità della stampa a due colori (sovrapposizioni, incroci di tinteggiature, e così via). Le mie pagine stanno alle poesie in un rapporto forse analogo a quello del pianoforte che accompagna il violino. Come per il poeta dal pensiero e dal suono si forma l’immagine unitaria, la poesia, così io ho voluto creare un’unità equivalente con la poesia e gli elementi tipografici». Al repertorio rivoluzionario di Majakovskij, fatto di esortazioni e apologhi dall’intento dichiaratamente sociale, si accompagnano così le modernissime soluzioni grafiche di El Lisitskij che, basandosi sul contrasto tra inchiostro rosso e nero, riesce a comporre un libro che diventerà una sorta di feticcio novecentesco, una Bibbia di Gutenberg dell’era moderna, i cui rari esemplari sono contesi dai collezionisti più importanti a suon di cifre elevatissime. Tale reciprocità tra poesia ed elemento visivo costituisce un tratto essenziale dello straordinario connubio tra poeta e «costruttore del libro», tanto che Majakovskij sosterrà che Per la voce «è dal punto di vista tecnico una perfezione assoluta d’arte grafica».


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libri Aleksandar Hemon IL PROGETTO LAZARUS Einaudi, 305 pagine, 21,00 euro

na prosa acuta, complessa senza essere contorta; una struttura narrativa che ingloba passato e presente, immaginazione e realtà. Con un filo d’acciaio storico ed esistenziale che la sorregge dall’inizio alla fine. Questo e altro si può dire del libro di Aleksandar Hemon, nato a Sarajevo nel 1964 e dal 1992 residente in America. Scrive in inglese, ma con il cervello - e quindi lo stile mai lontano dalla sua terra natia, la Bosnia. È unanimemente considerato un autore di prestigio, originale, e questo anche perché si porta sulla pelle i mille odori del Vecchio continente. Veritiero e crudele quando parla del viaggio di Vladimir Brik, l’io narrante aspirante scrittore, nei paesi dell’Europa orientale dove è impossibile non fissare le ceneri fumanti di decenni di dolore, miseria, sopportazione e sciatteria, individuale e sociale. Un territorio costellato da McDonald, da caricature gangsteristiche, da violenze e prepotenze ataviche imbellettate con orribili imitazioni occidentali: il peggio che ci possa essere dopo la morsa sovietica, i pogrom, le persecuzioni, le guerre fratricide ed etniche, l’aspirazione a essere diversi senza sapere bene come. Il romanzo di Hemon è la storia del viaggio di Brik, ormai stabile a Chicago, marito di una donna chirurgo abile a manovrare il bisturi nel cervello dei pazienti ma assai impacciata, anzi rigida, quando si tratta di sondare l’anima del coniuge, e pure la propria. Brik ottiene un finanziamento: con quei soldi decide di tornare nell’Europa dell’Est. È affascinato dal brutale omicidio, per mano della polizia, del giovane immigrato ebreo Lazarus Averbuch. Nel 1907, questo ragazzo ventenne, imballatore di uova ma aspirante poeta, viene freddato dai proiettili al capo e al cuore davanti alla casa del capo della polizia. Che ci faceva lì? È un mistero. Prima ancora di porsi questa domanda, le autorità metropolitane vedono in lui un ebreo, quindi un essere pericoloso in odore di anarchia e di sovversione. Hemon alterna capitoli dedicati alla ricostruzione di un pregiudizio fattosi violenza con capitoli che descrivono il viaggio di Brik, altro immigrato, stavolta lungo un percorso inverso. Nella Chicago dell’inizio secolo c’è un’America che ha continue crisi di isterismo dinanzi all’ondata migratoria, anche perché si aggira «la Regina Rossa» Emma Goldman, una donna che predica

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incrociati di Lazarus e Brik Tra America ed Europa dell’Est scorre il filo d’acciaio teso con maestria dal bosniaco Aleksandar Hemon

In memoria

di Mario Donati

la rivendicazione dei diritti umani in una terra che, dall’altra parte dell’oceano, è approssimativamente considerata paradiso delle libertà. Migliaia di disgraziati privati di case e affetti, brutalizzati dall’antisemitismo russo, romeno, polacco, e frastornati dallo scricchiolio dell’impero austro-ungarico, rischiano di trovarsi in situazioni quasi uguali di emarginazione e di soprusi. Scrive Hemon: «La guerra all’anarchia era molto simile all’attuale guerra al terrorismo, buffo come le vecchie abitudini siano dure a morire. Le leggi sull’immigrazione furono modificate; i sospetti anarchici perseguitati e deportati; si moltiplicarono gli studi scientifici sulla degenerazione e la criminalità di determinati gruppi razziali». Nei rapporti ufficiali della polizia e della magistratura si fa riferimento, spiccio e bestiale, al «tipo ebreo». Prima o poi salderemo i conti, dicono gli uomini in divisa, ideologicamente antenati dei nazisti. Non è la stessa America di Brik, il quale però sbatte contro un muro di diffidenza e di cattiveria in quanto «strambo europeo», catapultato nel «vuoto pneumatico chiamato progresso». Vladimir Brik non è ebreo, ma è lo stesso: viene da una terra di cui diffidare sempre. E lui, marito scomodo di un medico, perdipiù lungamente disoccupato, dirà a se stesso nell’ex dominio sovietico: «Quello che amo dell’America è che non rimane spazio per inutili questioni metafisiche. Lì non ci sono universi paralleli. Ogni cosa è quello che è, facile da vedere e da capire». Il disorientamento in terra polacca è simile a quello provato - fatte salve certe differenze - in terra americana: a Czernowitz, un tempo Cernici, «Sodoma dell’impero», il giovane Lazarus si sentì per la prima volta alla deriva e comprese che «l’umanità è malvagia e inestinguibile». Brik forse cerca una resurrezione sulla scia della tradizione cristiana riferita a Lazzaro. Assieme al suo amico fotografo Rora, ambiguamente coinvolto nelle trame insanguinate della guerra di Sarajevo, continua a interrogarsi sulla propria vita, su Mary che non si è mai sforzata di capire il suo mondo. Brik fa ricerche sul giovane ebreo e sulla sua famiglia, si trova alla fine in un cimitero e lì medita sul fatto che «la morte non è databile». Scriverà il romanzo?

Le ricognizioni di Cattaneo nelle profondità del ’900 a tristezza è più manifesta quando ci lascia un galantuomo, di mente e di anima. Giulio Cattaneo apparteneva a questa categoria che, se non è in via di estinzione, certo si assottiglia e si umilia sotto l’ondata dell’arroganza, della presunzione, del teorema, socialmente assai agitato, secondo cui una posa, o una «mossa» sul palcoscenico, vale più della profondità e della mitezza. Oggi queste doti raramente sono reclutabili dai gestori del Luna Park comunicativo. Cattaneo, morto giovedì scorso, era malato da tempo. Aveva 85 anni. Fiorentino di nascita e romano di adozione ha lavorato per quarant’anni alla Rai. Divulgatore culturale eccellente, correttamente sapeva tener separati i lati della sua personalità professionale: studioso accanito, puntuale e pignolo del Novecento letterario, porgeva ai lettori e agli ascoltatori le note più intime e veritiere di chi ha lasciato buona traccia nella nostra cultura. Sì, perché Cattaneo era anche saggista e scrittore. Ma questa sua intensa attività era, per così dire, privata. A parte moltissime prefazioni e postfazioni a testi importanti, ha pubblicato quattro libri di narrativa: L’uomo della novità (1968), Da inverno a inverno (1968 e riedito nel 1993), Le rughe di Firenze

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di Pier Mario Fasanotti (1970), Insonnia (1984). Si occupò biograficamente di Giovanni Verga (1963), di Federico di Svevia (1974) e di Carlo Emilio Gadda, con Il gran lombardo (Einaudi, 1991). Con la penna del critico scrisse Bisbetici e bizzarri nella letteratura italiana (1957), Letteratura e ribellione (1972), La biblioteca domestica (1983), Il lettore curioso (1992). Ha collaborato a Repubblica, all’Almanacco dell’Altana e anche a queste pagine con puntuali messe a fuoco di personaggi e temi. Alcuni scrittori li ha frequentati da vicino. Per esempio Giorgio Bassani oltre allo stesso Gadda col quale ebbe un lungo carteggio epistolare. Completò gli studi a Firenze assieme a Giovanni Spadolini, poi il trasferimento nella capitale. Dicevamo della sua passione per il Novecento (con felici incursioni nell’Ottocento e oltre). Cattaneo era affascinato dai decenni a cavallo dei due secoli. Studiò a fondo il Verismo, la Scapigliatura, i testi e la personalità di Giovanni Papini, l’opera di Benedetto Croce. In qualità di saggista raggiunse pregevole fama con il ritratto di Gadda. Dell’autore del Pasticciaccio e

Scrittore e saggista, restituiva ai lettori le note più intime e vere della letteratura

della Cognizione del dolore conosceva più cose di tutti, e montò un ritratto con l’andamento della sceneggiatura: a tratti il ritmo quasi cinematografico, senza mai perdere di vista la bussola dell’esattezza cronistica. Frasi, citazioni, episodi, effetti comici, ed ecco Gadda alle prese con il quotidiano, caricato sì di sarcasmo, ironia da rasoio, ma anche di una profonda e nevrotica tristezza che lo induceva a definirsi «creatura sfortunata e infelice». Si interessò anche di Ennio Flaiano e in occasione della pubblicazione della La solitudine del satiro, ebbe a segnalare «passi di straordinario interesse, a dispetto della - consueta - natura frammentaria del testo». Era il Flaiano degli aneddoti su Cardarelli, Maccari, Brancati, Fellini. La Via Veneto prima della volgarità televisiva, la vita degli artisti negli anni Cinquanta e Sessanta, incastonati in una Roma ancora ingenuamente paesana. Cattaneo si sofferma sull’appunto di Flaiano a proposito della nuova moda di presentare i libri, «come i re dal balcone presentavano alla folla il principe appena nato». Moda che si è rafforzata, dice Cattaneo, peccato che non sia mai riuscita a conquistare davvero le masse. Sottinteso: sempre che di masse di lettori sia lecito parlare.


Società

MobyDICK

ioetica diffusa, che tracima un po’ da tutto. Non è conchiusa in pensosi saggi di filosofia, di teologia, di epistemologia, si squaderna sotto i nostri occhi con la calda semplicità di un padre che racconta il dramma di sua figlia o con il passo di una lettera immaginaria scritta da uno scienziato a un bambino di cento anni, o con le scelte di una cinquantacinquenne rokkettara. Due libri e una notizia di cronaca ripropongono gli interrogativi sulla vita e la morte. Partiamo da quello che lo fa in modo più coinvolgente. Si tratta di Caterina. Diario di un padre nella tempesta, di Antonio Socci, edito Rizzoli. Ci sono tante cose dentro questo libro (la fede, l’amore, la solidarietà, la forza della preghiera) e proprio per questo ha conquistato il pubblico da quando è uscito in giugno, vendendo decine di migliaia di copie. Della commovente narrazione - che vale la pena leggere per apprezzarne tutti gli aspetti - qui preme sottolineare una sola cosa. I nostri vecchi la dicevano semplicemente: finché c’è un soffio di vita c’è speranza. Mai decretare la morte, dunque, prima che essa sia davvero arrivata. Si può, si deve combattere, sperare, pregare sino all’ultimo respiro. Come quando il medico vuol gettare la spugna dopo un’ora e mezzo di tentativi per rianimare Caterina e il sacerdote, appena giunto, si inginocchia e gli chiede di continuare. Il cuore della ragazza inaspettatamente ricomincia a battere. E poi, giorno dopo giorno, si susseguono piccoli segnali di vita da parte di Caterina: apre gli occhi, riconosce i genitori, piange, chiama la madre, dice amen. Sino a quando scoppia in una sonora risata, una grande meravigliosa risata. Mamma Alessandra le legge una pagine del Giovane Holden che contiene un paio di sapide battute, e lei esprime platealmente il suo divertimento. Il racconto di Socci è una commovente lezione di bioetica: non darla vinta alla morte, non adagiarsi nella cultura della morte.

B

La vita di Caterina è ancora molto difficile: non solo non è guarita, ma rischia ancora molto e molte sono le incognite. Eppure, nonostante tutto, la sua famiglia, i suoi amici sperano. E nel web ci sono migliaia di persone che fanno il tifo per lei, che sono sicuri che ce la farà, che non getterà la spugna. È questa semplice «filosofia», figlia di una profonda fede cristiana, che ha letteralmente conquistato, appassionato decine di migliaia di lettori facendo di questo libro il vero best selller dell’estate. E soprattutto facendo di Caterina l’emblema dell’etica della vita. C’è un seconda narrazione - diversissima da questa - che pure pone al centro i temi della bioetica: la gravidanza di Gianna Nannini. C’è una prima cosa che vale la pena sottolineare: lo straordinario desiderio di maternità di una donna ormai arrivata alla terza età. E questo in un’Italia che non fa più figli e che invecchia progressivamente è una scelta importante. Una scelta all’insegna della speranza. Che altro aggiungere? Sarà dura avere un figlio a cinquantacinque anni. Perché il corpo non reagisce più come quello di una ventenne o di una trentenne. Perché quando quel bambino/a avrà dieci anni, la madre toccherà i 65. E quel figlio come nasce? E da chi? E perché così tardi? Non mancano gli interrogativi di natura bioetica. Eppure è

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Questioni

di bioetica diffusa

ALTRE LETTURE

DIECI BUONE NOTIZIE DI FEDE E RAGIONE di Riccardo Paradisi

fermarsi in superficie, a dar retta alla vulgata mediatica e allo spirito del tempo sembrerebbe che per la religione e in particolar modo per il cristianesimo sia arrivata l’ultima ora. Eppure ci sono altre storie che testimoniano come il fuoco cristiano abbia l’abitudine di risorgere sempre. Lorenzo Fazzini in Nuovi cristiani d’Europa (Lindau, 211 pagine, 16,00 euro) racconta dieci storie di conversione tra fede e ragione. Sono le storie, tra le altre, di Marco Tosatti, vaticanista scettico convinto da Wojtyla, del giornalista francese già laicista Jean-Claude Guillebaud, del filosofo Marcello Pera, del leader skinhead pentito e convertito da Chesterton Joseph Pearce. Storie buone, buone notizie, che tengono accesa la speranza, anzi la certezza della fede.

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LA SANTA RUSSIA DI FLORENSKIJ *****

La commovente narrazione di Antonio Socci sulla figlia Caterina risvegliatasi dal coma è il vero best seller dell’estate. E mentre la cinquantacinquenne Gianna Nannini annuncia la sua imminente maternità, Edoardo Boncinelli pubblica uno studio sulla vita oltre i 100 anni. E tanti interrogativi si affollano...

1975 sono passati molti anni e le tecniche si sono molto sviluppate: fra venti, trent’anni sostiene Boncinelli - diventerà possibile allungare la vita agendo sui geni della longevità. La scelta ha una caratura etica: se si va in questa direzione, si assume una decisione molto grave, carica di conseguenze. Sarebbe la prima volta, infatti, che l’evoluzione culturale indirizzerebbe l’evoluzione biologica. Proprio per la straordinaria importanza della decisione, occorrerà arrivarci conoscendo a fondo il problema e dopo aver sviluppato un adeguato dibattito.

finanziamenti ai restauri dei luoghi cristiani e la restituzione delle proprietà confiscate alla Chiesa in epoca sovietica, sono solo uno dei doni di Vladimir Putin e del Cremlino al Patriarcato di Mosca. Si deve poi aggiungere l’ora di religione ortodossa nelle scuole e la possibilità per il Patriarcato ortodosso di visionare disegni di legge prima dell’esame alla Duma. Dopo la lunga parentesi atea e materialista la Russia è tornata ortodossa? A detta di Pavel Florenskij, straordinaria figura di sacerdote, di filosofo e di matematico, il popolo russo non ha mai cessato nel profondo della sua anima, di essere ortodosso. Florenskij, fucilato nel 1938 nei pressi di Leningrado, aveva previsto che il comunismo e l’ateismo in Russia non avrebbero prevalso. Nel suo Bellezza e liturgia (Mondadori, 114 pagine, 9,50 euro) Florenskij descrive come naturalmente religiosa l’anima russa, tesse l’elogio del pensiero medievale, auspica l’unità dei cristiani nel mondo.

Boncinelli avverte tutti i pericoli di

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di Gabriella Mecucci meglio quel desiderio di vita che la scelta della non vita, della non procreazione o addirittura di dare la morte. Il libro di Socci e il caso Nannini ci parlano della bioetica della vita così come è oggi. C’è un saggio invece, appena edito da Rizzoli, che ci invita a riflettere sui temi bioetici del futuro. Lettera a un bambino che vivrà 100 anni è il titolo del libro di Edoardo Boncinelli che ci propone un salto in avanti, uno spostamento del confine biologico e di quello etico. Uno spostamento non di secoli, ma che potrebbe già riguardare il figlio di Gianna Nannini. A lui toccherà comunque in sorte una vita più lunga della nostra: intorno ai cento anni. Ma si può fare molto di più: arrivare a duecento anni o forse a trecento. Per ottenere ciò nei prossimi venti, trent’anni occorrerà prendere alcune importanti decisioni. Sostanzialmente, una importante decisione: modificare il genoma di ciascuno di noi. Si tratterebbe di una modificazione genetica non limitata a singole cellule somatiche, ma estesa a tutto l’organismo. Boncinelli spiega come nel 1975 gli scienziati, riuniti in assemblea a Asilomar in California, decisero che «si sarebbero potuti modificare i geni umani solo in cellule singole, ma non sulla linea germinale, cioè quella che produce i gameti e che implica mutazioni anche nel genoma dei figli e di tutti i discendenti». Così facendo quindi si predeterminano alcune caratteristiche dei nascituri: biondi con gli occhi azzurri, alti, belli e robusti. Dal

questo tipo di manipolazione, ma ritiene comunque che il dilemma si porrà in tempi brevi. Il raddoppio della vita con meta duecento anni, dovrebbe inoltre costringere ad affrontare la questione dell’allungamento della giovinezza e della «costruzione» di una sorta di invulnerabilità. Da manipolazione nascerebbe manipolazione: una vera e propria escalation. E poi c’è l’ipotesi delle clonazioni - anche più d’una - dello stesso individuo. Ma perché si replichi davvero l’individuo in quel corpo clonato occorrerebbe trasferire anche l’io iniziale. Questa è ancora fantascienza, ma nulla è impossibile per sempre. L’allungamento della vita sino a raddoppiarla o tripicarla, la sua maggiore sicurezza (meno malattie o nessuna) potrebbe comportare dunque anche il totale stravolgimento della vita individuale e collettiva. E del suo senso. È questo il terribile bivio bioetico che Boncinelli pone a conclusione del suo libro.

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CARTOLINE DALLA GRANDE GUERRA

n viaggio tra i campi di battaglia sul fronte occidentale della Grande Guerra attraverso le testimonianze di generali, ufficiali e soldati che hanno partecipato ai combattimenti. Dalla Marna a Verdun, dalle colline della Somme all’altipiano dello Chemin des Dames, Pier Paolo Cervone nel suo La Grande Guerra sul fronte occidentale (Mursia, 180 pagine, 17,00 euro) racconta il lungo e tragico conflitto del ’14-’18 che vide scontrarsi gli eserciti tedeschi, francesi, britannici e statunitensi. È negli scenari che racconta Cervone che debuttano i carri armati e viene fatto massiccio impiego dell’aviazione.

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di Enrica Rosso ffetto farfalla è una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine d’un sistema». La sopracitata definizione riportata in calce al programma di Short Theatre la dice lunga sugli intenti degli organizzatori di questa manifestazione di idee che movimenterà il paesaggio romano in quest’inizio settembre. Si tratta in realtà di una coda di estate romana che da ieri all’11 del corrente mese, decollerà come la passata stagione negli spazi del Teatro India (fino al 5), per concludere il suo percorso di esplorazione sulla questione tra realtà e rappresentazione della contemporaneità nell’area dell’ex-Mattatoio a Testaccio: La Pelanda al Macro. Una proposta assai ricca realizzata con l’ausilio del Comune di Roma e il contributo della Regione Lazio. L’edizione 2010 puntualizza, riprendendola, la collaborazione con l’Istituto Cervantes con tre spettacoli prodotti o coprodotti dalla Spagna e sottolinea l’osservazione dell’universo danza, maturando la tendenza a valorizzare il lavoro dei giovani artisti in un’esposizione di arte varia che propone una campionatura di talenti per fare il punto su come gli stimoli del presente vengono raccolti ed elaborati dalle nuove leve. Una straordinaria possibilità per rendersi conto di persona della vitalità e forza espressiva della nostra scena che vede scendere in campo gruppi di grande personalità. L’Accademia degli artefatti con la direzione artistica di Fabrizio Arcuri che proporrà My arm di Tim Crouch; un bell’esempio di scrittura d’importazione in un monologo ironico e beffardo ritmato da interventi musicali. Gli Egumenteatro e Gogmagong, altro gruppo di grande interesse con Quanto mi piace uccidere… (storia di un politico toscano) di Virginio Liberti. Il Premio Ustica «È bel-

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Televisione

Teatro L’Effetto farfalla in sessanta minuti MobyDICK

spettacoli DVD

I MILLE VOLTI DELL’INDIA SECONDO JAMES IVORY alle cortigiane di Bombay dove le donne vengono educate al canto e alla danza, alle vicende di una principessa alle prese con la difficile rielaborazione del lutto paterno. E ancora una scrittrice inglese in cerca di location suggestive per adattare al cinema il proprio romanzo, e una compagnia di attori inglesi che mette in scena Shakespeare nella speranza di fare un gruzzoletto per tornare in patria. È un Paese sorprendente e ricco di contraddizioni, quello che il regista inglese James Ivory esplora nei quattro racconti che compongono L’India di James Ivory. Sguardo d’autore, per un mondo sfuggente.

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CONCERTI

DUE GIORNI DI STORIA DEL ROCK: ECCO I GUNS N’ ROSES lo vivere liberi» di Marta Cuscunà a proposito della partigiana Ondina Peteani e Giorgio Barberio Corsetti nel monologo Fattore K Commedia. I torinesi Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa con La memoria dello studio per le Serve da Genet, I Sacchi di Sabbia in Don Giovanni di W.A. Mozart. Fanny e Alexander e la loro rivisitazione del magico mondo di Oz; la Compagnia Sandro Lombardi /Roberto Latini con L’uomo dal fiore in bocca; i Motus con il loro studio frammentato su Antigone; i Teatri di Vita nel dissacratorio Senzaparole che mette in scena un pornodivo, un letto e un’opera di Beckett. E ancora: Daniele Timpano/amnesia vivace con Aldo Morto parla, una chiacchierata per uno spettacolo in divenire. Ricci-Forte con Pinter’s Anatomy. Dall’International Young Makers Exchange

da ITS Festival Amsterdam, da quest’anno partner di Short Theatre, Wachti per coloro che sognano di essere trasparenti, dalla Spagna Sergi Faustino con Nutritivo. Non mancherà neppure un trailer di Bizzarra, la prima teatro-novela italiana scritta dall’argentino Rafael Spregelburd. Inoltre danza, performances, dj section, presentazioni di libri. Insomma tante occasioni diversificate da non perdere anche in virtù del fatto che ogni evento è short di nome e di fatto, e non supera i 60 minuti e che esiste oltre all’ingresso singolo che costa 7 euro, la tessera giornaliera di 15 euro. E allora: «Battiamo le ali. Non le mani».

Short Theatre 2010, fino al 5 settembre al Teatro India; 8/11 Macro Testaccio/La Pelanda - Info:www.shorttheatre.org tel: 060608

appuntamento è per stasera al Palalottomatica di Roma e domani al Mediolanum Forum di Milano. A riscaldare migliaia di fan ci saranno loro, una band di culto capace di vendere oltre cento milioni di dischi e di dare alle stampe capolavori come Don’t cry e November Rain. I Guns N’Roses tornano in Italia per due tappe che si preannunciano strepitose, nonostante l’ultimo decennio vissuto in sordina da Axl e soci. In scaletta alcuni evergreen come Paradise City, Sweet Child O’Mine e It’s So Easy, ormai entrati di diritto nella storia del rock. Molti lo considerano l’evento musicale dell’anno. Per trovare un biglietto disponibile, bussate molto in alto.

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di Francesco Lo Dico

Nei Cesaroni la salvezza… dalla “Bella e la Bestia” n attesa di conoscere bene l’intesa strisciante con i libici a proposito di produzione televisiva - la qualcosa mi inquieta molto - conviene ragionare su ciò che sta per arrivare sui nostri schermi, dopo un’estate tra le più sciocche e ripetitive di questi ultimi anni. Cominciamo dal peggio, ossia dall’intramontabile (sic) voglia di reality show, programmini che da soli riassumono il declino dei nostri comportamenti sociali e individuali. La brutta notizia viene stavolta dalla Gran Bretagna dove tentano di «estremizzare» quell’aberrazione che è il Grande Fratello. Si raschia il barile del banale o dello stranoma-vero e si arriva a qualcosa che suscita come è già capitato a Londra - ondate di proteste. Channel 4 sta per mandare in onda un

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reality intitolato La Bella e la Bestia. Il riferimento al film disneyano è tenue. È un alibi sporco. Le telecamere inquadrano la vita di una coppia: uno è bello (o bella), l’altro è fisicamente deturpato. Vivranno insieme, con il brivido dell’orrifico in spazi che hanno pareti a specchio così da moltiplicare l’effetto visivo. La coppia potrà uscire, fare una passeggiata (sempre con telecamere al seguito, ovviamente). Inutile dire che è un feno-

meno da baraccone visto che così l’ha già chiamato la stessa casa di produzione. Quale è lo scopo «ufficiale»? Mostrare come due persone fisicamente agli opposti siano diversamente percepite dalla gente. Ma questa è solo ipocrisia intellettualoide, lo sappiamo tutti. Il nucleo è in realtà altamente (meglio: bassamente) voyeuristico. La televisione diventa strada privilegiata per organizzare la parata degli istinti depravati. La Bella e la Bestia arriverà in Italia? Se la cultura britannica, in genere attenta al senso civico, non riesce a costruire degli sbarramenti, è da illusi pensare che lo possa fare quella italiana, ormai asservita alla logica dell’«evento», quale che sia, sganciato da qualsiasi contenuto valoriale. Ricordiamo, a parziale consolazione, che in Spagna è andato in onda The fra-

me e in Francia Zona estrema: in venti metri quadri erano assiepati i concorrenti, i quali se rispondevano erroneamente a certe domande ricevevano una scossa elettrica. Viva, dunque, i nostri programmi caserecci. Così verrebbe da dire, senza pensare troppo all’eventualità che qualcuno inventi un programma volgare o volgarissimo e quindi ne affidi la conduzione a personaggi inquinanti come Teo Mammuccari. Ci salveranno I Cesaroni, quarta serie sulla pista di lancio tra una settimana? Prima di esprimere dubbi, qualche notizia. Non ci sarà più la brava Elena Sofia Ricci, alias mamma Lucia. La trama le impone di farsi da parte visto che lei, oberata di impegni e di affanni, si chiede: ma verrà mai il mio momento? Arriva, arriva: lei va a lavorare, e così si autogratifica. Il marito Giulio, ossia Claudio Amendola, rimedia alla solitudine coniugale con una compagna (l’attrice Barbara Tabita). I figli? Che s’arrangino. Non è questo l’andazzo social-familiare di oggi? Più reality di questo… (p.m.f.)


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poesia

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E l’anima di Napoli incontrò Di Giacomo

A MARECHIARE Quanno sponta la luna a Marechiare pure li pisce nce fanno all'ammore, se revoteno ll' onne de lu mare, pe la priezza cagneno culore, quanno sponta la luna a Marechiare…

di Francesco Napoli arechiaro: l’origine del toponimo pare derivi dal latino mare planum, divenuto poi in dialetto napoletano mare chiano e quindi marechiaro. Ma quando si parla di questa spiaggetta di Posillipo, a Napoli, la mente corre a Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860-1934). Correva il 1885 quando il poeta compose quei versi in cui dipingeva una finestrella a picco sul mare, adornata da un vaso di garofani: dietro quella finestra, nella sua stanza dorme Carolina. Un innamorato la invoca con un’appassionata serenata, mentre nel mare sottostante i pesci amoreggiano al chiaro di luna. Al poeta però, che aveva solo immaginato la scena, questa composizione apparve fin troppo melensa, tanto che nelle raccolte da lui stesso curate non fu mai inserita. Eppure l’immagine degli occhi della fanciulla, più lucenti delle stelle, e l’appassionato richiamo finale, «Scétete, Carulì, ca ll’aria è doce!», colpirono l’allora celebre musicista Francesco Paolo Tosti che, a sua volta ispirato dalle melodie di un suonatore ambulante di flauto che provava il suo strumento, scrisse una musica struggente e raffinata che divenne subito una delle canzoni più popolari dell’epoca. Così dunque nacque A Marechiare, che può essere considerata al pari di ‘O sole mio, un vero e proprio inno napoletano. In breve tempo la canzone, pubblicata dalla Ricordi, riscosse un successo clamoroso, entrando nel repertorio di interpreti del calibro di Beniamino Gigli o Giuseppe Di Stefano.

M

Si avviava a seguire la professione del padre, il giovane Salvatore Di Giacomo, quando in una piovosa mattinata dell’ottobre 1880, rimasto scioccato da una lezione di anatomia, decideva di allontanarsi da quegli ambienti e un grottesco episodio segnava il suo addio alla medicina. Ce lo descrive Di Giacomo stesso: risalendo le scalette, che portavano ai laboratori, vide scivolare davanti a sé il bidello che teneva sulla testa una «tinozza di membra umane» e nel cadere con lui rotolarono «teste mozze, inseguite da gambe insanguinate». L’orrore di quella scena sembra ancora riecheggiare nei primi racconti, di impianto e ambientazione tedesca, che Di Giacomo pubblicò sul Corriere del Mattino, negli anni in cui per vivere lavorava come correttore di bozze, per poi diventarne nel 1883 cronista. Ma fu questo un momento decisivo per lui, perché da un lato fece fondamentali incontri, come quello con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo introdussero nei più vivi ambienti napoletani,

e dall’altro la sua attività di giornalista e fotografo, talora anche di cronaca nera, lo avvicinarono alla Napoli più sofferente, con drammi e miserie emersi nel ventennio postunitario, quando la città partenopea perse i suoi privilegi di capitale. Ed è grazie a questo repertorio di fatti e immagini, tratti da vicoli, carceri, tribunali, ospedali, fonte della sua produzione e in particolare del suo realistico teatro, che Di Giacomo sottrasse la letteratura napoletana al riduttivo bozzetto verista, importandovi l’anima più profonda di una metropoli che presto si identificò nella sua poesia: temi e valori in cui i lettori si potevano riconoscere, come più tardi accadrà con Eduardo De Filippo.

A Marechiare ce sta na fenesta, la passiona mia ce tuzzulea, nu carofano addora 'int' a na testa, passa ll'acqua pe sotto e murmulea… a Marechiare ce sta na fenesta… Chi dice ca li stelle so' lucente nun sape st'uocchie ca tu tiene nfronte, sti doie stelle li ssaccio io sulamente, dint' a lu core ne tengo li ppónte, chi dice ca li stelle so' lucente?... Scétete, Carulì, ca ll'aria è doce, quanno mai tanto tiempo aggio aspettato? P'accumpagnà li suone cu la voce, stasera na chitarra aggio purtata… Scétete, Carulì, ca ll'aria è doce!...

Nel 1896 il Di Giacomo lasciò il giornalismo accettando la nomina alla direzione della sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, tenendosi così lontano dai clamori e dalle mode della belle époque partenopea, dalle tendenze letterarie del periodo, per portare a estrema perfezione quel dialetto che assorbì nella sua matrice popolare suggestioni ed echi antichi di letteratura alta: dai lirici greci, quale Saffo, all’opera buffa di Paisiello, per passare attraverso le esperienze di Cortese e Basile. Di Giacomo, dunque, realizzava un’originale sintesi che pur nella struttura colta ha l’immediatezza della lingua parlata: era il dialetto «digiacomiano», definito un napoletano italianizzato. Il successo, poi, gli arrise anche grazie alla pubblicazione di libri di prose (Minuetto settecentesco, Nennella, Mattinate napoletane, Rosa Bellavita) e ai primi lavori teatrali presto rappresentati con buon esito (La Fiera, La Mala Vita, A San Francisco). La vena poetica di Di Giacomo, con una caleidoscopica umanità di emozioni, percepite alla luce del sole, al chiarore della luna, nel tremolio del mare, fra le eterne stagioni che descrisse, l’amore per la madre, per la donna - amore corrisposto, amore lontano, amore deluso, amore «addurmuto» e poi «scetato» - resero la sua produzione, sia pur così aderente alla realtà geografica di quei tempi, intensamente universale e cosmopolita, tanto che Contini nel 1968 consi-

il club di calliope

Salvatore Di Giacomo

derò la voce del Di Giacomo «in assoluto una delle più poetiche del suo tempo», permettendo alla poesia in dialetto di tornare qualitativamente, come già per il Belli a Roma, competitiva con quella in lingua. Dunque sarebbe riduttivo parlare di poesia popolare per un autore che seppure attinse idee e suggestioni dalla sua città, la elevò nell’ambito di una stagione felicemente creativa per letterati e musicisti partenopei, tragicamente interrotta dalla prima guerra mondiale.

Scrisse Benedetto Croce nel 1911: «Pel Di Giacomo l’uso del dialetto (del particolare dialetto digiacomiano) è stato la forma spontanea e necessaria in cui si è espressa la sua anima e quasi il mezzo di liberazione della sua poesia dalla letteratura insidiatrice» e «la poesia (la vera e alta poesia) dialettale napoletana coincide del tutto con la persona del Di Giacomo, il quale non ha in essa né predecessori né (finora almeno) successori». Ma il Di Giacomo protagonista della svolta dialettale del Novecento avrebbe poi rappresentato un modello per tutta la successiva produzione neodialettale meridionale, e non solo.

VERSI SU CARTA VETRATA in libreria

di Loretto Rafanelli

Oggi la luce va sotto le cose e le solleva di stravento. Anche noi d'altronde perdiamo le nostre abitudini e proprietà forse a causa della nostalgia.

Antonio Riccardi

nnio Cavalli pubblica un pamphlet in versi di rara durezza sulla situazione di malessere che investe il nostro paese. Il titolo del libro è Poesie incivili (Aragno, 40 pagine, 5,00 euro), volendo dire che oggi per parlare di un disastro morale non si può procedere in modo civile ma appunto ci vuole una «poesia in guerra», «su carta vetrata». Va da sé che questa è poesia civile, che ci riporta alle denunce pasoliniane, alla indignazione di intellettuali che si oppongono agli spietati «occhi di varano», «gli occhi ghiacci del potere». Cavalli scrive versi sull’Italia

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delle leggi ad personam, sul malaffare che si fa Stato, sulla immoralità («il primario trafficante in protesi»), sulla negligenza, come nel caso del treno di Viareggio con le 32 vittime. Cavalli non risparmia neppure «i poeti, i giornalisti, i finalisti dei premi letterari/ che non si fanno sentire/ quasi fossero ai domiciliari di una lingua servile». Ma nell’ira di tale sguardo, c’è pure la serena visione di un cambiamento: «Disegno il mio Paese e spero/ che giovani e vecchi lo ridisegnino». È il richiamo a una dignità, la luce di una salvezza: «l’altra riva della rima,/ la parola col vento in gola».


i misteri dell’universo

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MobyDICK

ai confini della realtà

Quei tramonti color Tunguska

Unione Sovietica, estesa per ventidue milioni di km quadrati, oltre il doppio del Canada, era rappresentata per circa due terzi dalla Siberia. Questa vastissima regione, tuttora popolata quasi solo nella sua parte meridionale dove lungo la ferrovia transiberiana (di cui una metà fu velocemente costruita da una società italiana), è caratterizzata a sud da foresta di abeti, a nord dalla tundra, nel centro dalla taigà, foresta dominata dalle betulle (incidendone il tronco in primavera si ottiene una piacevole bevanda, ora disponibile da noi nei negozi di prodotti russi).

L’

La Siberia occidentale è una vastissima pianura quasi priva di pendenza, dove scorre l’Ob (nome di origine sanscrita, Ab = acqua...), in gran parte paludosa, ricchissima di petrolio (sorvolandola di notte si vedono i pozzi dove brucia il metano). Al centro sta il territorio collinoso del fiume Jenisei, che ha tre affluenti e che nasce nella Mongolia occidentale, terra di Gengis Khan e degli antichi magiari; il primo è Tunguska, nome che deriva dal popolo (ka) dei Tungusi o Evenki, locale popolazione di religione un tempo sciamanica. A oriente sta il territorio afferente al fiume Lena, la Yacuzia, regione dalle temperature più basse del globo, salvo l’Antartide. Più a oriente stanno i territori dei fiumi Amur, Indigirka, Kolima.... quest’ ultimo nella zona dei campi di concentramento staliniani, dove milioni di persone morirono lavorando nelle miniere di oro e altri metalli. E su questi lager uno dei libri più straordinari è quello di Janusz Bardach, che conobbi poco prima della sua morte, divenuto uno dei massimi esperti di chirurgia maxillofacciale e ispiratore delle protesi cocleari. Il mediano dei fiumi Tunguska si chiama

di Emilio Spedicato Tunguska Petrosa o Podkamennaia Tunguska in russo. Qui in una mattina di un giugno 1908 si ebbe una potentissima esplosione, sentita a centinaia di km di distanza, che appiattì in una forma peculiare gli alberi della tundra su un’area di circa 2000 km quadrati. La regione era quasi disabitata e non sono note perdite umane. L’esplosione generò onde sismiche misurate a migliaia di km di distanza, in particolare in Germania. Dopo l’esplosione una luce speciale colorò per settimane i tramonti, rendendo possibile la lettura dei giornali a mezzanotte non solo a Londra, dove a giugno la notte non è mai molto scura, ma anche nel Caucaso, dove lo è. Quanto avvenne è noto nella letteratura come l’esplosione della Tunguska.

per potenza, ma il maggiore tra gli ultimi (restiamo in attesa di cosa avverrà con l’asteroide Apophis, che potrebbe colpire il nostro pianeta attorno al 2026). È stato inoltre l’evento di interazione terra-spazio più studiato, tanto che ha prodotto una cinquantina di libri e migliaia di articoli in Unione Sovietica e Russia, ma sconosciuti in Occidente data la barriera linguistica. Pochi i lavori degli occidentali, e spesso di incredibile superficialità, ma vi è un’attenzione continua al problema da parte dell’accademia russa. Si veda lo straordinario libro del fisico Vladimir Rubtsov, apparso presso Springer nel 2009, forse il migliore mai letto su una vicenda di studio scientifico: qualche editore dovrebbe di tradurlo nella nostra lingua e pubblicar-

L’esplosione che si verificò nel 1908 nella regione siberiana è tuttora un enigma. Si sa che fu di tale potenza da generare una luce speciale che colorò per settimane i cieli dal Caucaso a Londra. Provocò onde sismiche a migliaia di chilometri, mutazioni genetiche nelle piante e altro ancora Chi scrive ha ipotizzato che i fenomeni relativi al diluvio di Deucalione, alle piaghe di Egitto e all’Esodo, dichiarati contemporanei in un dimenticato passo di Paolo Orosio, siano attribuibili a un fenomeno di questo tipo, in paticolare all’esplosione, e qui ritorniamo al passo di Orosio, dell’oggetto chiamato Fetonte dai greci, Surt dai vichinghi, Apophis dagli egizi... Un evento avvenuto sulla regione del fiume Eridano, che non è il Po ma il fiume Eider fra Germania e Danimarca e da considerarsi «super Tunguska» perché implica energie assai maggiori. Un evento i cui effetti sono in linea di principio modellizzabili matematicamente e studiabili una volta sviluppato l’opportuno codice di calcolo. L’evento Tunguska è stato certo minore

lo. La conclusione di un secolo di ricerche è comunque incredibile: manca la certezza su cosa sia avvenuto in quella fatidica mattina.

Ricordiamo che i primi studi sul terreno vennero fatti con circa vent’anni di ritardo, a causa degli eventi politici e alla prima guerra mondiale che tanto afflissero la Russia, Stato basato su fondamenti cristiani, allora avviato a primeggiare nel mondo, la cui crescita fu fermata da Lenin che tentò, tra le altre cose, di eliminare la dimensione religiosa dal popolo russo, uccidendo quasi tutti i 600 mila popi, distruggendo le chiese o adibendole ad altro... Ma il primo impegno della nuova Russia è stato la ricostruzione della chiesa del Salvatore, davanti al Cremlino, ab-

battuta con la scusa che qualcuno dalle sue cupole poteva spiare dentro il palazzo del potere. Gli studi prodotti, fra cui la raccolta dei ricordi dell’evento conservati, dopo mezzo secolo, da coloro che allora vi avevano assistito, hanno dato le seguenti informazioni: - nel luogo centrale dell’esplosione gli alberi sono restati in piedi e non sono mai marciti; - si sono trovate sferule piccolissime di materiale come niobio o iridio, tipiche delle esplosioni meteoriche, ma due eruzioni all’epoca in Kamchiatka potrebbero esserne la causa; - un livello di radioattività elevato; - nella regione dell’esplosione i tassi di crescita dei vegetali sono fino a 40 volte superiori al normale; - osservate variazioni genetiche trasmissibili, come foglie di conifere a tre aghi invece di due; - le descrizioni dei testimoni esludono che l’oggetto avesse una coda fumosa, quindi non era un meteorite ferroso; - i testimoni hanno affermato di avere visto l’oggetto solo dopo avere sentito il rumore di qualcosa in arrivo, quindi l’oggetto non aveva la velocità tipica degli oggetti provenienti dallo spazio, che è supersonica; - l’analisi della parte di taiga distrutta dall’evento mostra che non è ellittica ma presenta due lobi, come se gli oggetti fossero stati due; - testimoni hanno confermato quanto sopra individuando, cioè due traiettorie di avvicinamento al punto dell’esplosione, una da est, passante sul fiume Lena, una da sud-est, e qualcuno vide dopo l’esplosione un oggetto allontanarsi verso nord. Tutto ciò pone un mistero nell’ambito degli scenari standard dove è esclusa la presenza di oggetti manovrati da esseri intelligenti.


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